sabato 30 agosto 2014

1991 - BIANCHESSI, Sul Cenacolo vinciano



C’era una volta il Cenacolo

Due denunce alla magistratura - una dell’ex-consigliere comunale Maria Bonatti, l’altra della Lega Ambiente - stanno per la prima volta rompendo il muro di silenzio che da anni circonda un dramma della cultura milanese: il restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Il turista che ci capita trascinato dalle guide quasi per caso resta deluso davanti al capolavoro illeggibile, disastrato e rappezzato come un patchwork. Ma probabilmente illuso dalle impalcature e dagli attrezzi scenograficamente disposti attorno ai piedi del dipinto: qualcosa, pensa, stanno facendo, prima o poi il Cenacolo tornerà al suo splendore. Ma chi conosce il Cenacolo e la storia del suo restauro, quando torna lì, davanti a quella parete, è preso dallo sconforto. E dalla rabbia. Per quella specie di sfregio verticale, di cicatrice, che non è né sfregio né cicatrice, ma un semplice confine: il limite tra la vita del dipinto e la sua morte.
Coinquilino del Cenacolo, nel senso che vive nello stesso edificio, con l’incarico di conservatore dell’opera, è un lucido ottuagenario che è stato soprintendente e ha diretto importanti restauri in Lombardia e in altre parti d’Italia, l’architetto Gisberto Martelli. Basta leggere quanto ha scritto, o andare a parlargli, per scoprire come stanno le cose: “Il restauro è ormai fermo da tre anni. La restauratrice, Pinin Brambilla, ha ancora il suo studio a Santa Maria delle Grazie, ma ormai lavora ad altre opere affidatele dalla Soprintendenza e non viene nemmeno più. Soltanto quando viene annunciata la visita di qualche autorità, lei e i suoi collaboratori infilano il camice e salgono sull’impalcatura. Ma è solo scena. La verità è semplice: non è più possibile restaurare oltre. Procedendo in questo modo, non resterà che la nuda parete”.
Siamo dunque sull’orlo di un abisso. E di un disastro senza precedenti. Come se per consolidare la torre di Pisa si decidesse di demolirne metà. Imprevidenza? No, una scelta deliberata. Perché tutto era stato previsto e scritto con chiarezza e lucidità. Molto prima di quando, nel 1978, l’allora soprintendente Carlo Bertelli diede il via al restauro. Quasi tre secoli fa, all’inizio del Settecento, il pittore inglese Jonathan Richardson - che esaminò il Cenacolo prima di una serie di restauri - scrisse: “Il dipinto è oltremodo rovinato e tutti gli Apostoli alla destra del Cristo sono completamente cancellati; Cristo e coloro che stanno alla sua sinistra si vedono abbastanza bene, ma i colori sono alquanto sbiaditi e in molti punti è rimasto il nudo muro; la figura che incrocia le mani sul petto è quella meglio conservata e ha un’espressione meravigliosa”.
C’è da rabbrividire: è la puntuale descrizione di quanto il restauro ha riportato alla luce nei primi anni di lavoro - eliminando di fatto le ripitture sovrapposte all’originale dal Settecento in poi - e di quanto ora minaccia di distruggere. A cavallo della frontiera tra la Cena bianca e la Cena nera, c’è la testa del Cristo, che all’artista inglese era apparsa “parzialmente intatta”. E infatti le ultime fasi del restauro ne hanno riportato alla luce alcuni tratti originari.
Come si sa, la tecnica adoperata da Leonardo per la Cena (non l’affresco ma la tempera e in parte l’olio direttamente sul muro) è stata la prima causa della rovina del dipinto, che aveva cominciato a guastarsi molto presto. Dopo che Richardson descrisse il Cenacolo come era visibile alla sua epoca, intervennero massicci restauri che consistettero nel ridipingere le parti scomparse: quello del Belletti nel 1726, del Mazza nel 1780, del Barezzi nel 1821, e altri ancora. Sono loro che ci hanno tramandato il Cenacolo nella sua interezza, e così come ci era sempre apparso, fino al restauro del Pelliccioli negli anni ’50, che si limitò a una ripulitura e a un consolidamento.
La decisione di strappare via tutto quanto non era stato dipinto direttamente dal pennello di Leonardo fu presa da Bertelli, che si guardò bene, però, dal chiarire pubblicamente che cosa avrebbe significato un intervento tanto radicale. E non sentì il bisogno di chiedere un consenso prima di iniziare. Anzi, nelle interviste ai giornali italiani dichiarò sempre che presto il Cenacolo sarebbe tornato tutto intero come nuovo.
Nel 1980, Bertelli (che si dimise poco dopo) promise il completamento del lavoro “entro tre anni”. Ne sono passati più di dieci e mancano ancora due terzi dell’opera.
Nel 1983, lo studioso (e anche lui ex-soprintendente) Cesare Brandi chiarì la teoria della “costellazione”: i resti originari del Cenacolo erano pochi e sparsi frammenti di pittura che -se riportati alla luce - si potevano collegare gli uni agli altri solo con delle linee di disegno. E una volta, una sola, Bertelli, nel novembre di quello stesso anno, ammise di avere sempre saputo che cosa sarebbe successo: ma lo fece a un giornale americano, la rivista National Geographic. Spiegò che la sua intenzione era precisamente quella di avere poco Cenacolo ma tutto autentico. “Non importa se andrà perduta una parte, a me interessa recuperare la pittura di Leonardo”. È la rivendicazione dell’assassinio del Cenacolo, quel Cenacolo che conoscevamo e che il mondo custodiva con affetto (l’Unesco, che lo proclamò patrimonio dell’umanità, non è tuttavia mai intervenuta nella vicenda del restauro). Abbiamo, in cambio, un Cenacolo puro ma dimezzato.
Bertelli, dopo di allora, non ha più voluto parlare. La restauratrice tace anche lei, e del resto la sua parte è stata soltanto quella di eseguire il lavoro che le era stato assegnato dalla Soprintendenza.
L’attuale soprintendente, Rosalba Tardito, che ha ereditato da Bertelli la patata bollente, ha scritto in un articolo che “anche nella parte sinistra sarà possibile rintracciare e recuperare alla lettura altri brani originali del capolavoro di Leonardo”. Ma quanti? Di quali dimensioni? E quando proseguirà il restauro? Le denunce, in realtà, non serviranno a salvare il Cenacolo. E forse nemmeno a punire i responsabili. Perché nulla è imputabile a Bertelli, che ha soltanto scelto una tecnica di restauro: ne ha taciuto le conseguenze, ma per la legge non è reato. Niente, a maggior ragione, può essere attribuito alla restauratrice: ha soltanto fatto il suo mestiere, e a regola d’arte.
Possiamo invocare una sola cosa: che si ponga fine alle sofferenze del Cenacolo e si stacchi la spina del restauro. Si potrà discutere se pulire la parte scura per renderla meno dissonante o lasciarla così per ricordare com’era oppure, al limite, procedere a fondo con la stessa tecnica fino a cancellarla e affidando alle fotografie la memoria del dipinto intero. Ma questa agonia che dura ormai da quasi tredici anni deve avere fine. Se alternative serie non ce ne sono, basta, è inutile fingere, è scandaloso insistere per salvare la faccia di qualcuno. Il Cenacolo nel polmone artificiale non lo sopportiamo più.

Federico Bianchessi

1983 - BERTELLI, Sul Cenacolo vinciano



Benché il Cenacolo di Leonardo sia una delle opere d’arte più famose al mondo, fu assai presto conosciuto attraverso le copie più che nella visione diretta, e questa finì con l’essere condizionata sempre più dalle copie man mano che il capolavoro deperiva o era offuscato da successive ridipinture. A una data assai precoce dovettero circolare fra gli artisti copie parziali tratte dai cartoni che aveva preparato lo stesso Leonardo. Una vetrata nel duomo di Milano, eseguita pochi anni dopo il compimento del dipinto, e dove è rappresentata l’Ultima Cena, raccoglie e riunisce motivi sparsi delle teste e degli atteggiamenti degli Apostoli per ricomporli entro uno schema tradizionale che tiene assai poco conto delle innovazioni compositive della scena come era stata concepita da Leonardo. Queste citazioni parziali dall’opera ebbero tuttavia un’importanza grandissima per la pittura nell’Italia Settentrionale. I dipinti veneziani, di ambito giorgionesco o tizianesco, con mezze figure dalle espressioni intense e appassionate, mostrano in più occasioni di derivare da un tipo di cartoni in cui i personaggi di Leonardo sono copiati due a due, definendo con precisione l’uno e lasciando all’altro la funzione d’introduzione spaziale, quasi di coulisse. Un dipinto giorgionesco con Sansone deriso, nella collezione di Laura Rossi Mattioli a Milano, offre una derivazione diretta dalla testa di San Taddeo nel Cenacolo; lo stesso Bravo di Tiziano, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, impiega il modello del San Pietro nel Cenacolo, con il “passo” difficile della mano mancina che estrae dal fodero un coltello legato dietro la schiena. Persino una di Paolo Veronese, nello stesso museo, appare ispirata al gesto dell’apostolo Filippo nella Cena; ed è tanto più notevole che in questi ultimi casi si tratti di dipinti di argomento romano (Il Bravo è stato identificato da P. Richter con un dipinto raffigurante Claudio Luscio che aggredisce Celio Pozio, indicato dal conoscitore Ridolfi nel ’600), poiché ciò dimostra come i contemporanei percepissero nella Cena di Leonardo un’urgenza drammatica non confessionale, profondamente e altamente umana, come parve poi anche a un interprete acuto come Wolfgang Goethe. Invero la storia delle copie parziali dal Cenacolo è assai lunga e meriterebbe uno studio a parte.
Uno dei loro approdi è un’incisione di William Hogarth che possiamo considerare come il suo testamento, poiché, apprendiamo dall’editore, “He worked upon it the Day before his Death”. Il gruppo di teste inciso al di sopra della scena intitolata The Bench, e che lo stesso editore considerava non finito, intende illustrare il differente significato delle parole Character, Caracatura and Outré partendo dall’esempio delle teste degli Apostoli di Leonardo, considerate come esempi di Character (“when a Character is strongly mark’d in the living Face, it may he considered an Index of the mind, to express which with any degree of justness in Painting, requires the utmost Efforts of a great Master”). Era l’anno 1764 ed è possibile che Hogarth avesse veduto la serie di disegni dal Cenacolo che dall’Inghilterra è approdata al museo di Strasburgo.
Sono disegni tracciati su grandi fogli che in un certo tempo furono piegati in due come a formare un quaderno; successivamente furono incollati su un foglio di rifodero e più volte ritoccati e colorati. Anche queste tracce d’uso sono indizi dell’importanza che era loro attribuita e del desiderio di non permettere alle tracce del pensiero di Leonardo, che racchiudevano, di sparire.

Come è noto, una grande influenza nella diffusione della concezione generale del Cenacolo di Leonardo ebbe la stampa che ne dette Giovanni Pietro Birago, che fu sfruttata anche da Rembrandt; ma ancora uno schema preciso non è stato tracciato nella successione delle copie integrali dalla Cena, né sono fissate le relazioni reciproche fra le copie di grandi dimensioni. È infatti improbabile che ogni copia sia stata eseguita direttamente sul posto, dentro il refettorio che i frati continuavano ad usare, mentre è assai più verosimile che, intorno ad un gruppo assai ristretto di copie eseguite con controllo diretto dell’originale, si siano costituite famiglie che ne derivano. Ciò spiega le divergenze di intere famiglie dall’originale, anche quando non sussistano i sottili motivi interpretativi messi in luce da Leo Steinberg, così come il persistere di tipologie precise, che possono essere rinviate ai caratteri stilistici noti di questo o quell’allievo di Leonardo. I tratti che si possono far risalire a Marco d’Oggiono sono i più evidenti, misteriosi sono quelli riferibili alla copia, perduta, del Solario, mentre il professor Grazioso Sironi informa di aver trovato la documentazione della commissione di una copia al Bramantino.
L’idea che le copie rappresentassero vari gradi di approssimazione all’originale e che questo potesse essere ricostruito soltanto attraverso un’analisi rigorosamente logica del complesso di testimonianze, accettando e scartando gli elementi contraddittori dopo un attento scrutinio, maturò relativamente tardi.
Il presupposto di un tale criterio era infatti la svalutazione dell’originale così come si è conservato, un passo decisivo cui era difficile arrendersi. Il primo ad intraprenderlo sembra sia stato l’abbate olivetano Francesco Maria Gallarati, circa quarant’anni dopo il restauro di Michelangelo Bellotti e un anno prima che Pietro Mazza fosse incaricato di rimuovere le ridipinture dell’atroce Bellotti con mezzi drastici che tuttavia suscitarono un comprensibile allarme.
Quando l’abbate Gallarati, nel 1769, si accingeva ad un nuovo studio descrittivo del Cenacolo, tentandone la ricostruzione attraverso le opere certe di Leonardo, come vedremo, erano usciti da due anni i Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati di Johann Joachim Winckelmann, due volumi pubblicati con il concorso di sottoscrittori, fra i quali impressionante è il numero dei Milanesi (era milanese quel monsignor Alberico Archinto che aveva avviato il Winckelmann verso la sua luminosa carriera). Anche se il grande archeologo non è citato espressamente dall’abbate, è tuttavia difficile sottrarsi alla sensazione che sia la nuova metodologia del Winckelmann ad averlo spinto a collocare il problema della conoscenza del Cenacolo all’interno di un sistema filologico di ricerca. “Né avend’io giammai trovato - scrive il Gallarati nella manoscritta ‘Descrizione Ragionata del Celebre Cenacolo dipinto dal Ristoratore delle Belle Arti Leonardo da Vinci’ -, che altri lo avesse fedelmente disegnato o dipinto, tutto mi sono commosso riflettendo al pericolo della perdita d’un’opera che è sempre stata ornamento e splendore della nostra città. Per la qual cosa, suposto il pensiero, che mi rappresentava laboriosissima così fatta impresa, e incoraggiato dagli amici, mi son accinto li 15 aprile del 1769, a rinnovarla in miniatura, usando ogni diligenza, acciocché essa corrispondesse all’antico suo originale.” Ancora più esplicito è nelle “Réflexions sur Le Cénacle de Léonard de Vinci”: “Pour fournir au public une connaissance suffisante de ce grand ouvrage, je m’engage a le decrire en abregé; non cependant comme il parait à présent, étant endommagé, et terni par les injures du temps, mais comme il a dû être dans son premier tems, où il se mantenait mieux. Pour le faire donc concevoir comme il étoit dans le tems heureux de sa magnificence, il souvrait la connaissance, que nous avons de la beauté, et de la perfection de son pinceau, qui se manifesta assez bien dans beaucoup d’autres ouvrages bien conservés; je ferai même usage des sentiments des Professeurs, et des Ecrivains contemporains les plus savants, et le plus accredités et j’exposerai au Letteur ces notions, quej’ai pû tirer de l’examem de ce qui restait de cette représentation, quand je commençai l’ouvrage. Aussi l’intelligent pourra-t-il connaitre assez le prix de tout, et il pourra ainsi deduire du peu des parties, qui restent de ce corps, un (sic) idèe exacte de sa perfaite beauté. C’est la route, que j’ai suivie, par le moyen de la quelle, après des reflexions bien mûres, et des soins fort longs, je formai un jugement de l’insigne modèle, et de tous les éclats de sa ressemblance ancienne. Mais afin que les idées déja formées ne m’echapassent pas, et avant que l’ouvrage fût tout-à-fait perdu; je me hâtai de la renouveler en miniature avec la plus grande diligence, y employant toute l’éxactitude, pour le réndre uniforme à la peinture ancienne, et je ne pris d’autre parti, que celui de ranimer seulement les couleurs, et les rendre vives, et conformes au coloris, que l’on admire dans ces autres ouvrages, bien conservés”.
Sarebbe molto interessante sapere quali erano le opere ben conservate di Leonardo che l’abbate riteneva di conoscere e, soprattutto, ritrovare la miniatura. È comunque impressionante la sua sensazione che il capolavoro diminuisse rapidamente nel corso dei nove anni del suo lavoro - si stavano forse alterando i ritocchi del Bellotti? - e recisa è la negazione che ciò che si vedeva corrispondesse al dipinto antico.
Fu nel 1789 che giunse a Milano il pittore francese André Dutertre, munito di una borsa di studio regia che doveva permettergli di eseguire una copia fedele del Cenacolo. La compì nel 1794, all’acquerello, su un foglio di media grandezza. Tempi così lunghi non si spiegherebbero se il Dutertre avesse eseguito una copia diretta dal dipinto; ne eseguì invece una ricostruzione. Basta infatti a rendersene conto osservare come egli abbia completato la parte inferiore della scena, distrutta nel 1652 dall’ampliamento della porta al centro della parete, e come sull’esempio di altre copie cinquecentesche abbia dato pari altezza alle aperture sulle pareti della stanza, mentre, in realtà, Leonardo aveva immaginato quelle sulla destra più basse di quelle opposte, e infine notare come poi abbia ricostruito il disegno dei drappi appesi ai muri introducendo una interpretazione molto interessante e insolitamente regolare del motivo di una tapisserie à mille fleurs. Sarebbe di grande importanza per lo studio dell’arte lombarda rintracciare i disegni preparatori del Dutertre e, per la storia del Cenacolo e della “cenacologia”, la sua corrispondenza con Parigi.
Secondo la ricostruzione degli avvenimenti da parte di Ludwig Heydenreich, il progetto iniziale era che la copia del Dutertre fosse poi tradotta in incisione dal grande Raffaello Morghen. Di qui la grande menzione che il Dutertre ha rivolto ai “valori” della Cena, dei quali la sua testimonianza è la più sensibile, e la scelta di una tavolozza limitatissima, quasi una grisaille, a parte lievi tocchi di rosa negli incarnati e di giallo nei legni.
Come ricorda più volte Carlo Pedretti in queste stesse pagine, l’impresa maggiore nella ricostruzione del Cenacolo di Leonardo fu quella cui si accinse Giuseppe Bossi, dopo gli ultimi guasti provocati al dipinto dall’occupazione militare fra il 1796 e il 1801. Danni che furono assai gravi, poiché veramente, come risulta all’esame ravvicinato del dipinto, furono scagliate pietre che distrussero quasi completamente i corpi degli Apostoli, mentre le teste, che non poterono essere raggiunte dal lancio, ebbero gli occhi appositamente sfregiati con una punta. Il Cenacolo fu così probabilmente l’unico monumento italiano a subire l’iconoclasmo che pochi anni prima aveva distrutto tanti monumenti francesi.
Giuseppe Bossi si accinse al compito con lo studio più rigoroso e con la documentazione più ampia possibile. Amantissimo di Leonardo, ma certo non falsario e anzi ansioso di verità, svolse l’inchiesta più sistematica mai tentata sulle copie dalla Cena ed eseguì lucidi almeno da quelle due copie che riteneva più fedeli, l’affresco di Ponte Capriasca e la Cena dipinta da Andrea Solario nel monastero di Castellazzo. Alcuni di quei lucidi sono ancora conservati a Weimar e sono molto importanti per conoscere un’opera perduta, l’affresco del Solario, e valutare il segno descrittivo e delimitante, tipicamente neoclassico, del Bossi copista.
Una fotografia del 1900 e un’altra del 1936 dell’interno del refettorio di Santa Maria delle Grazie ci presentano la sala arredata con copie dal Cenacolo. Alcune sono chiaramente riconoscibili, per esempio, in primo piano nella fotografia del 1900, la copia di Cesare Magni, acquistata per la pinacoteca di Brera e oggi finita come arredamento di uffici statali, o la copia di Castellazzo; nella fotografia del 1936 sono scomparse le copie più piccole, precedentemente esposte su cavalletti, ma si riconosce molto chiaramente la copia eseguita dal Lomazzo. Sembra che le copie di grandi dimensioni siano andate tutte distrutte nel 1943; delle altre conosco la sorte soltanto di due. Nella fotografia del 1936 il posto delle copie piccole è stato preso dalle grandi stampe fotografiche con le teste degli Apostoli, eseguite nell’occasione del restauro del 1908 e che in certo modo perpetuano la concentrazione dell’interesse nelle sole teste che abbiamo già notato nel Cinquecento.
Doveva essere un’esperienza singolare la visita al refettorio delle Grazie prima della guerra. Il grande affresco del Montorfano, che pure ha i suoi meriti, fa parte di uno stesso ambiente e si confronta direttamente alla Cena, non era considerato affatto e il dipinto di Leonardo era riproposto una quantità di volte attraverso l’interpretazione che ne offrivano le copie. Queste, poi, non consideravano affatto il rapporto fra la stanza musivamente dipinta da Leonardo e l’ambiente reale, né le lunette, né gli spicchi della volta azzurri e disseminati di stelle d’oro che appaiono un elemento spaziale tanto importante nelle vecchie fotografie.
La copia del Bossi è andata perduta. A vero dire non si trattava di una copia, bensì di una ricostruzione e poiché dobbiamo ritenere, dato lo scrupolo del Bossi, ch’egli non si desse a cercare nelle copie ciò che era evidente e sicuro nell’originale, le divergenze fra la ricostruzione del Bossi e quanto possiamo osservare direttamente oggi è un indizio significativo delle condizioni della Cena agli inizi dell’Ottocento.
In coincidenza con l’uscita dell’ampio studio del Bossi intorno al Cenacolo, Marsilio Landriani annotava (20 novembre 1811): “ardua impresa (è) di ristorare il capo d’opera del pennello di Leonardo”, e, data la sua inevitabile rovina, proponeva che se ne desse una copia esatta nel ben più duraturo mosaico.
L’auspicata copia in mosaico fu eseguita, prendendo a modello la ricostruzione del Bossi, nel 1806-14 dal mosaicista romano Giacomo Raffaelli ed e oggi nella Minoritenkirche a Vienna. Anche se il mosaico e l’inquadratura architettonica neogotica che ne ha dato August von Stacke nel 1845-47 hanno un interesse in sé, per il nostro assunto è invece stimolante confrontare le fotografie della copia del Bossi con la sua replica viennese. Non vi è differenza di colore fra il cassettonato e le pareti, e queste terminano in alto in una cornice su cui le travi si appoggiano; le tre aperture sul fondo non sono differenziate come appare oggi nell’originale, poiché la porta al centro non ha timpano; l’asimmetria fra le aperture a destra e a sinistra è sparita; le tappezzerie alle pareti hanno un ampio disegno a palmette verde e oro e sono incassate dentro nicchie rettangolari appena depresse. Sono osservazioni che ci lasciano comprendere quanto poco della pittura di Leonardo si rivelasse anche a un indagatore sistematico e infaticabile come il Bossi.
La documentazione fotografica del XX secolo dimostra puntigliosamente il mutare del Cenacolo da una campagna di restauro all’altra. I volti degli Apostoli più giovani, nelle fotografie successive al restauro del Cavenaghi, assomigliano moltissimo agli angeli che lo stesso restauratore dipinse, come sua autonoma invenzione, nel santuario di Caravaggio, nei pressi di Bergamo; e quegli stessi connotati spariscono poi nelle fotografie eseguite dopo il restauro di Mauro Pellicioli per essere sostituite da altre fisionomie che tuttavia non corrispondono a quanto la rimozione delle ridipinture compiuta in questi ultimi anni ha rivelato. Da tutto ciò si deduce che stiamo vivendo un’esperienza nuova, quale è la riapparizione della Cena dopo secoli in cui la sua comprensione è stata affidata, più che alla sua reale presenza, alla possibilità di leggerla attraverso le copie.
Ciò che emerge è terribilmente provato e la necessità di una lettura attenta, capace di trarre profitto da ogni minimo indizio, s’impone. Chi ha potuto salire sui ponti quando Pinin Brambilla Barcilon interveniva sulle lunette, ha potuto stupire davanti alle invenzioni leonardesche delle aquile con le penne nere leggermente toccate d’azzurro sul fondo argenteo nello stemma centrale, guardarne i grandi becchi spalancati e gli occhi accesi; ma nessuna fotografia è riuscita purtroppo a trasmettere un’immagine che è affidata, per ora, soltanto al ricordo di una visione diretta. Possiamo in compenso osservare i chiodi e gli anelli, con le rispettive ombre proiettate, cui sono appesi i velari nella sala del Cenacolo, un particolare che sembra fuggito agli antichi copisti e che aveva tratto in inganno lo stesso Bossi. A volte, dobbiamo affidarci ad indizi minimi. Nel descrivere la Cena, il Vasari insiste sulla grande verità di rappresentazione della tovaglia distesa sul tavolo. Era forse la prima volta che un piano bianco continuo era introdotto come primo piano d’una scena, motivo che avrebbe poi interessato Andrea del Sarto e cui avrebbe guardato con spirito d’emulazione Tiziano nella Cena oggi all’Escorial. Le parole del Vasari sono molto precise: “infino nella tovaglia è contraffatta l’opera del tessuto d’una maniera, che la rensa stessa non mostra il vero meglio”. Dunque, se Leonardo avesse direttamente attaccato alla parete una rensa e cioè una tela fine e bianca come quelle che da giovane metteva sui modelli di creta per studiarne i panneggi, non avrebbe ottenuto un risultato più vero. Infatti Leonardo aveva reso l’illusione di un tessuto operato. Allo stato attuale del restauro, l’attendibilità della testimonianza del Vasari è affidata soltanto a pochi millimetri di superficie dipinta, che ci mostrano il piccolo rettangolo di trama rilevata che sarà il Leitmotif della Cena di Tiziano. Soltanto qualche millimetro, almeno per ora.
In tali circostanze si può ben comprendere come il lento recupero di Leonardo non possa attendere troppi anni per presentarsi al pubblico degli esperti così come anche al pubblico più ampio possibile. Proprio perché sono dentro anch’io a quest’operazione complessa, cui partecipano scienziati ed esperti, oltre alla valentissima restauratrice, sono sinceramente grato dell’occasione che ci è data di beneficiare immediatamente, in corso d’opera, delle conoscenze e della genialità di Carlo Pedretti e di avere la rara fortuna di poter mettere a confronto i disegni e il dipinto di Leonardo. Avessero avuto una possibilità come questa coloro che nel corso di tanti decenni inseguirono il sembiante di Leonardo come un fantasma sfuggente!
Benché nella tradizione europea si diffidi delle manifestazioni di gratitudine della scienza verso la politica, ho il dovere di ringraziare apertamente coloro che hanno reso la prosecuzione del restauro possibile. Innanzi tutti il sindaco di Milano Carlo Tognoli. La sua dimostrazione di fiducia nel restauro intrapreso è stata decisiva per riconfermare quel rapporto affettivo della città con il capolavoro di Leonardo che già stupiva il Vasari: “la quale opera rimanendo così per finita (l’autore delle Vite pensava che Leonardo avesse lasciato “imperfetta”, ossia incompiuta l’immagine di Cristo), è stata dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione”. L’incontro, poi, del ministro per i Beni Culturali Vincenzo Scotti con il presidente della società Olivetti, Carlo De Benedetti, ha assicurato al restauro la possibilità di proseguire al di là delle difficoltà di bilancio e delle torpide incertezze romane.
  
Avrei poi ancora molte altre persone da ringraziare: ricorderò solo l’amica restauratrice Marcella Sorteni, prematuramente scomparsa, generosa in osservazioni e consigli, la cui indagine documentaria sui metodi e le sostanze che i restauratori precedenti adottarono nel Cenacolo mi auguro possa essere presto pubblicata.

Carlo Bertelli

Soprintendente per i beni Artistici e Storici Milano

1908 - CAVENAGHI, Sul Cenacolo vinciano



CENACOLO VINCIANO

Avanti di assumermi la gravosa responsabilità di eseguire il consolidamento del «Cenacolo» ho esperito due tentativi di rinsaldo della crosta di colore, il primo nell’anno 1903 su una superficie dipinta di circa 30 cent. quadrati, e il secondo nell’anno 1906 su una porzione più vasta. Già durante quelle prove ho potuto constatare lo stato di estremo deperimento della pittura. Nel paziente lavoro testè compiuto, il quale si è svolto su ogni parte della parete dipinta, ho trovato ovunque, benchè in vario grado, mancanza di coesione tra il colore e la superficie murale.
Anche là dove la crosta di colore non era staccata a squame, accartocciata, o comunque sollevata, le brevi superfici piane avevano pur esse perduto la continuità di aderenza coll’intonaco e tendevano a staccarsi sotto ogni pur lieve pressione.
In alcune parti, benchè su piccolissime superfici, il colore era caduto anche là dove le fotografie fatte eseguire nel 1906 dall’Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti indicano la continuità del dipinto. La conservazione della pittura era pertanto quasi esclusivamente dovuta all’umidità dell’ambiente e alle colle sovrapposte con grande abbondanza nei preceduti restauri, le quali, per altro, idratandosi, producevano, specialmente nella stagione invernale, le muffe che, unitamente alla polvere copiosamente cosparsa sulle superfici sollevate, toglievano quasi totalmente la visione dell’opera meravigliosa.
Era mio compito di procedere alla saldatura del colore con mastici diluiti con sostanze idonee e tali che le condizioni igrometriche avessero su essi la minor possibile influenza.
Il vario grado di discontinuità della crosta di colore coll’arricciatura del muro richiese nondimeno per ogni caso diversa soluzione e sovratutto una cura pazientemente scrupolosa nella manualità delle operazioni, a cui attesi veramente colla costante, paurosa preoccupazione dell’incolumità del capolavoro e con la vigile coscienza dell’imprescindibile necessità di serbare ogni minima traccia di una tale suprema affermazione di bellezza.
Mi corre qui l’obbligo di rettificare un giudizio che io ebbi in antecedenza ad esporre, e cioè che il «Cenacolo» sia stato dipinto da Leonardo con colori a base di olio, in conformità a quanto asserì il Lomazzo, e dopo di lui altri uomini dell’arte. A tale giudizio io fui tratto dal caratteristico accartocciarsi della pasta di colore e dalla lucentezza conferita dalle colle sovrabbondanti. In effetto, tutte le parti dipinte, alle prove ch’io feci, addimostrarono di non contenere sostanze oleose e ho ancora constatato nella parte superiore del dipinto, e meglio nelle deliziose lunette sovrastanti alla composizione, dove il mezzo di adesione originariamente impiegato non ebbe campo di essicare completamente, una meno disastrosa conservazione della pittura, Leonardo ha pertanto dipinto il Cenacolo a tempera forte, sia pure tentando metodi e imprimiture che fallirono al loro scopo, a giudicare dalle deplorevoli condizioni di conservazione della pittura dopo scarso numero di anni dalla sua esecuzione.
Tale constatazione, oltrechè accordarsi logicamente all’intuitivo convincimento che Leonardo non abbia ignorato l’incapacità di stabile aderenza delle tinte ad olio applicate alle superfici murali, ha pure concesso maggiore rapidità alla esecuzione del lavoro e una più efficace attività ai mastici impiegati nel rinsaldo.
Allorchè ebbi ultimata l’operazione di consolidamento di tutta la superficie dipinta e ottenuto ovunque la perfetta aderenza coll’arricciatura del muro e ridotta perciò la crosta del colore a una superficie piana, ho proceduto a togliere la polvere e a lavare le muffe, e per quanto è stato possibile e conveniente, le colle sovrapposte al colore. Dove questo era caduto, il bianco crudo della calce alterava la tonalità circostante e perciò, sentito anche il parere del Senatore Beltrami, dell’arch. Moretti e dei pittori Pogliaghi e Carcano, membri della Commissione governativa, ho ricoperte quelle superfici con tinte leggiere a tempera, appena sufficienti per impedire che l’assieme ne fosse deturpato.
Così pure, consenzienti i Commissari e il Direttore dell’ufficio regionale, si è presentata la necessità di qualche restauro alla volta a spicchi lunettata sovrapposta al Cenacolo, dove pure la colorazione era in larghe parti completamente scomparsa. Il restauro ha rilevato come il fondo azzurro degli spicchi fosse cosparso di stelle d’oro e ha precisato che le mirabili lunette decorate con ghirlande e targhe d’imprese sforzesche, per la inesprimibile finezza del dettaglio, la larghezza decorativa e la profondissima penetrazione della forma, sono a evidenza, opera di Leonardo.
Il lavoro che fu da me iniziato il giorno 25 del mese di giugno e proseguito ininterrottamente, venne con queste operazioni ultimato al principio del settembre del corrente anno.

* * *

Tutto quanto passa sotto il nome di Cenacolo Vinciano, l’opera originale di Leonardo, come le molteplici superfetazioni dei restauratori, è riuscito così risanato e ridotto nelle più acconce condizioni per goderne la visione e vagliarne il valore.
Il minuzioso esame che ho compiuto mi ha precisato la entità dei numerosi ristauri che si rivelano eseguiti in varie epoche, con varia abilità artistica e con diversi metodi tecnici. La più parte a tempera, presentavano soluzioni di continuità coll’intonaco anche più gravi della pittura originaria, altre, come quello eseguito in piccola porzione della tovaglia e precisamente nella parte centrale (a encausto), oltre a una notevole abilità di esecuzione conserva aderenza colla superficie. Ciò non ostante mi è di grande soddisfazione asserire che dopo la pulitura del dipinto, ciò che appare opera originaria di Leonardo è assai più di quanto credette il Bianconi e generalmente si ritiene.
I restauratori hanno esercitato la loro opera largamente sugli abbigliamenti, ad eccezione delle figure di alcuni apostoli e sul fondo d’architettura; ma non sulla tovaglia, i dettagli sovrapposti e il soffitto travi, e furono costretti al rispetto dove l’arte del Maestro ha una più profonda e spirituale potenza evocatrice. Così le teste e le mani delle figure benchè guaste e stinte, sono pressochè immuni di restauro (salvo la testa dell’Apostolo Giacomo Maggiore) come pure quel luminoso spiraglio di paesaggio che contrasta tuttora col suo azzurro sereno alla composta drammaticità della scena.
Io ho fede che l’opera, la quale con religiosa venerazione ho dedicato alla grande opera d’arte, sarà definitiva ad assicurarne la conservazione. La parete muraria è quasi totalmente sana, solo il suo estremo, a sinistra di chi guarda, accusa tracce di umidità, le quali però non è a ritenersi che possano assumere carattere di gravità e aumentare di superficie.
Ciò che assolutamente necessita è di assicurare al Cenacolo la uniformità delle condizioni atmosferiche e di salvaguardarlo dalla considerevole quantità di polvere, quale si produce evidentemente in un luogo con tanta frequenza visitato. Si deve pertanto murare, o porre le doppie bussole, alla porta del Refettorio comunicante col chiostro da cui procedono le correnti d’aria che possono avere azione diretta sulla pittura e mutare saltuariamente le condizioni atmosferiche dell’ambiente.
E per la stessa ragione devono essere fisse le chiusure delle finestre vicine alla parete dipinta. Or sono molti anni il Cenacolo era difeso da una tenda che di poi fu tolta, ignaro per quale ragione. Era una difesa la quale vorrei ripristinata, se non ritenessi più sicuro schermo una lastra di cristallo, che difendesse col decoro di una conveniente intelaiatura il prezioso dipinto. Nessun mezzo sarebbe più acconcio pel riparo della polvere e per la uniformità atmosferica dell’ambiente.
In una teca di cristallo, come una reliquia, dovrebbe, a mio giudizio, conservarsi il Cenacolo Vinciano.

Milano, 5 settembre 1908.
LUIGI CAVENAGHI.

1796 - PINO, Sul Cenacolo vinciano



a chi legge.

Avrei a tutt’altro pensato che a scrivere in materia di pitture. S’ebbevi già chi disse: Non sum propheta, & non sum filius prophetæ;[1] io pure dir posso, non son pittore, e non son figliuol di pittore. I miei studj nel gran regno della dipintura non si sono inoltrati. L’essere io di vista anzi certa che no, o come suol dirsi miope, stata fors’è la cagione per cui non presi grande impegno per la liberale arte bellissima del dipingere. Quel dover mirare gli obbietti col sussidio degli occhiali, od altro ingranditore cristallo, veder non li lascia per la rifrazione de’ raggi in tutta la loro naturalezza; onde di essi dar non si può un giudizio preciso. Un dipintore aver debbe un occhio fino, ed acuto, onde vedere di lancio, ed esaminare l’obbietto senza alterazione veruna: ciò che mancando in me, ha fatto ch’io internato non siami a considerare a fondo le bellezze di un’arte sì nobile, sì grandiosa, sì estesa, che abbraccia terra mare cieli ed abissi, storia naturale storia sacra storia profana, anatomia geometria architettura disegno, ch’è l’ornamento de’ palagi l’anima de’ teatri il decoro de’ templi, che apparir fa quasi presenti i lontani come vivi i defunti, che colla espression degli affetti più forti parla agli occhi, parla al cuore, parla alla mente, che immensi spazj in picciol sito ristrigne, e in piccolo sito fa comparir lontananze immense, che si estende in somma a tutto il visibile, e stetti per dire, sino all’invisibile; dacchè in qualche guisa rappresenta le Anime, gli Angioli, Dio stesso.
Se però per la mia inesperienza entrar non posso, dirò così, nella gran galleria della pittura come giudice, vi entrerò come storico, e la relazione darò del famoso Cenacolo dipinto sopra di un muro del refettorio de’ Padri Domenicani di Santa Maria delle Grazie di Milano dallo impareggiabile Leonardo da Vinci, il quale se per tant’altre eccellenti sue opere si è renduto cotanto famoso, distinto si è segnatamente per questa, in cui dir si può che superato abbia insin l’aspettazione dell’arte. A ciò intraprendere spinto mi ha la ristampa che vuolsi fare del libro intitolato Nuova Guida di Milano, che impresso fu nell’anno 1787. Siccome lo Stampatore si è da me recato, e presentato me l’ha, acciocchè riconoscessi se in esso ci avesse intorno al capo appartenente ai Padri Domenicani del Convento delle Grazie alcuna cosa da aggiugnere, da levare, ritenni il libro stesso per leggerlo attentamente; quantunque le avessi già letto come di fuga. E siccome per riscontrare con fondamento le cose, mi convenne scorrere varj antichi monumenti, ch’esistono nell’archivio del nostro Convento, mi si è, per così esprimermi, accesa la fantasia, e sonomi determinato di dare alla pubblica luce la storia precisa di questa nostra domestica dipintura famosa. La ruota si è aggirata, ed ha preso fuoco. Per intraprendere qualche opera vi vuole un poco d’entusiasmo. Questo fa e che di buon grado si tolleri la fatica, e se ne affretti il lavoro. Certe teste fredde non la finiscon mai: Vult, & non vult piger.[2] Si vuole, e si disvuole, o se pur prevale il volere, si va innanzi nella intrapresa carriera, a così dire, con passi da pigmeo, non da gigante; onde come par che si stanchi, l’autor nello scrivere la sua opera, così stancasi il pubblico nell’aspettarla.
L’ozio di quindici giorni di villeggiatura mi ha fatto accelerare il travaglio. L’essere io sciolto in campagna dalle incombenze della carica che mi occupa nella città, ha fatto che tutto abbia potuto darmi sullo stendere la Storia presente; ed io mi piaccio assai di avere in questa mia, dirò così, quiete operosa affrettata l’opera, per isceverare più prestamente il vero dal falso, e togliere que’ pregiudizj, che circa questa insigne pittura corron nel volgo; come sarebbe che Leonardo per formare la faccia di Giuda abbia ritratta la faccia del Priore importuno, che l’accusava presso al Duca Lodovico di soverchia lunghezza nel terminar la sua opera; che i Padri abbiano scioccamente tutto quanto fatto imbiancare un sì bel dipinto; ed altre simili falsità che si vanno da taluni segnatamente spargendo per iscreditar forse (non so però se con ragionata politica) il più che possono le persone di chiostro: non avvedendosi che il dispregio de’ ministri della religione cagiona il disprezzo della religione medesima, e il disprezzo della religione va alla fine a scuotere ogni giogo anche più sacro, e mettere a soqquadro i regni eziandio più floridi: come pur troppo non è mestier di portare fuori del procelloso nostro secolo decimottavo Io sguardo per riscontrarne gli esempli funesti.
Un altro motivo, per cui mi son dato tutta la sollecitudine per terminare questa mia opericciuola, si è che trovasi presentemente in Milano il Sig. Teodoro Matteini Pistojese valente Pittore, che fu discepolo in Roma del rinomato Sig. Domenico Corvi, ed ha lasciato in quella Metropoli e altrove varj illustri monumenti della sua perizia nell’arte; il quale per commissione di Ferdinando iii. gran Duca di Toscana ricopiar dee il nosrro Cenacolo, acciocchè sia intagliato in rame dal Sig. Raffaello Morghen incisore sì rinomato per tutta l’Europa. Questo Principe così saggio, il quale quant’è inclinato alla pietà ed alla religione, altrettanto lo è per le scienze e le belle arti, e che pei coltivatori delle medesime si dimostra singolar Mecenate; per mezzo di questi due distinti Soggetti Matteini, e Morghen darà alla nostra dipintura quella immortalità che ben si merita. Coi lumi del primo potrò io pure essere rischiarato in qualche punto appartenente alla pittura, per non avvanzar cosa che non essendo di mia ispezione, venisse ad esser contraria ai dettati dell’arte; onde non mi si possa applicar quel rimbrotto si trito, col quale Apelle sgridò con brusco cipiglio quel facitore di scarpe, che nel giudicare il suo quadro ch’aveva esposto al pubblico, voleva andar più in là de’ calzari: Ne sutor ultra crepidam; come Plinio lo riferisce.
Io poi accerto il Leggitore cortese che quanto avvanzerò nel decorso del mio libricciuolo, sarà tutto provato coi monumenti più certi che per me si potrà, e segnatamente con quelli ch’estratti ho dall’archivio del Convento medesimo delle Grazie, i quali non posson’essere più precisi. Mi è poi piaciuto di porre nel frontispizio Storia genuina, o vogliamo dire Relazione genuina, per distinguerla da tant’altri spurj racconti che si son pubblicati fin colle stampe. Ho pure sparse qua e là alcune annotazioni, cui ho stimato acconcio di porre in fine del libro, per esservene alcune alquanto prolisse, le quali benchè non sien necessarie per la storia del Cenacolo, mi lusingo che alla nostra Milano segnatamente non saranno discare; ond’ho allargata in ciò alquanto la mano: e chi non volesse darsi la pena di leggerle, può anche tralasciamele; mentre non verrà perciò interrotta la serie della storia; ovver potrà leggerle dopo aver letta la Relazione.
Mi accingo volonterosamente a dar le più distinte notizie di questo dipinto, il quale essendo un capo d’opera, basterebbe da se solo a render celebre qualsivoglia città, e che per mirarlo, ed ammirarnelo concorrono con continuo flusso e riflusso eziandio dalle più rimote contrade i forestieri d’ogni genere, e insino i Principi e le Principesse, ed ognaltro più ragguardevole Personaggio. Che anzi un Re di Francia lo voleva, con tagliare la gran muraglia del refettorio, far traportare con dispendio immenso nel suo dominio: impresa però, che non essendo allora ancor perfezionata, com’è di presente l’arte di trasportare muraglie macchinose, ed altre gran moli, non so se riuscita sarebbegli felicemente; dacchè poteva agevolmente avvenire che scompaginandosi, o scrostandosi il muro l’avrebbe tolta a Milano, senza darla in quella perfezione ch’avrebbe voluto, a Parigi. Comunque sia, essa tuttora esiste nel nostro Convento, e sarà da’ Milanesi, e da qualsivoglia forestiere veduta, finchè il tempo permetterà che sia visibile; dacchè poi esso

Ogni cosa quaggiù guasta, e corrompe.




RELAZIONE GENUINA

Prima di parlare del famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci, non sarà fuor di proposito l’accennare il tempo in cui fu dipinto, e così per quanto si può stabilirne l’epoca. Il Conte Gasparo della nobilissima Famiglia Vimercati, e Generale dell’armi dei Duchi di Milano, il quale con bell’innesto accoppiar seppe al valore nella milizia[3] la pietà nella religione,[4] conceduto avendo dopo una bizzarra ripulsa[5] a’ Padri Domenicani della Congregazione di Sant’Apollinare di Pavia, uomini di singolar probità, zelo, e dottrina il luogo ove fabbricato si vede oggidì il Convento di Santa Maria delle Grazie,[6] acciocchè stabiliti venissero eziandio nella Città di Milano, che bramosamente li desiderava, fece che si desse principio nell’anno 1464. alla fabbrica di esso Convento, del quale il Duca Francesco, primo di questo nome, volle egli stesso porre nel giorno 28. Agosto la prima pietra; e con un dormentorio ed altre officine venne eretto in seguito il gran refettorio, in cui fu poscia dipinta da Leonardo la Cena. Ma il Conte Gaspare Vimercati dopo tre anni dalla fondazion del Convento passò nel numero dei più, e lasciò il refettorio imperfetto; il cui compimento fu poi da’ Padri ordinato nel 1481., come leggesi nel primo antico libro, che da noi dicesi dei consigli, il qual conservasi nell’archivio del Convento. Esso refettorio è lungo braccia cinquantanove Milanesi, e onc. quattro; largo braccia quattordici, ed onc. dieci; alto a proporzione; ed è, come suol dirsi, un vaso bello veracemente e grandioso.
Siccome però per l’esemplarità grande, e fatiche indefesse di que’ primi Religiosi a vantaggio del popolo, i Duchi di Milano presero loro un’affezion singolare (e segnatamente Lodovico chiamato il Moro, e perchè il Vimercati prima di morire glie li raccomandò caldamente, e perchè nella loro Chiesa fu poscia seppellita con alcuni suoi Figliuoli l’illustre Principessa sua consorte Anna Beatrice d’Este,[7] per cui nodriva il Duca un amor passionato), non tralasciarono, dico, questi Principi, a ritroso eziandio della propensione grandissima che avevano que’ primi Padri per la povertà religiosa,[8] di nobilitare nella migliore maniera, e con principesca munificenza il loro Convento; e tra l’altre sue parti si accinsero ad ornarne il refettorio coll’opere de’ più insigni pittori de’ loro tempi.[9]
In fatti nel muro che sta dirimpetto all’entrata del medesimo vi venne pennelleggiata a fresco da Donato Montorfano valente pittore Comasco, la crocifissione di Cristo con un numero grandissimo di figure, e colla veduta della Città di Gerusalemme. Questa dipintura compita fu nell’anno 1495. come appiè di essi si vede scritto, e conservata si è sino al dì d’oggi anzi bene che no. Essa secondo lo stil di que’ tempi è stimata, ed ha il suo pregio. Ma appetto del Cenacolo di Leonardo scomparisce, a così dire, e si oscura, come al sorgere di una lucente aurora scompaiono, e si oscuran le stelle. Il Duca Lodovico fu quegli che ordinò questa grand’opera, per la quale, come dice il Vasari, giunse Leonardo a Milano nel 1494.; quantunque il celebratissimo uomo Girolamo Tiraboschi nella parte ii. del tomo vi. della cotanto rinomata sua Storia della Letteratura Italiana pag. 411. arrechi dei buoni monumenti, onde provare che quel celebre Pittore era già in questa Metropoli nel 1493., e forse fino dal 1489. Egli si maraviglia come mai in un tempo in cui fiorivano tanti celebri uomini, così poco si sappia delle lor gesta. Queste son le sue parole poste alla pag. 391. “Sembra quasi impossibile, che trattandosi d’uomini pel saper loro celebratissimi, e vissuti soli tre scarsi secoli innanzi a noi, in molte cose concernenti la loro vita siamo rimasti in una totale incertezza.”
Non si sa precisamente quando Leonardo abbia dato principio al Cenacolo; e solo si sa di sicuro che nel 1497. attualmente lo dipingeva. Il nostro Padre Maestro Vincenzo Maria Monti Milanese, uomo che alla nobiltà de’ natali congiunse una pietà singolare, ed uno studio di vasta erudizione,[10] in una relazione privata che mandò a Monsignor Bottari, ma che con un furto grazioso venne fatta poi pubblica, ed è inserita nelle aggiunte alla vita di Leonardo nel tomo ii. della ristampa del Vasari medesimo eseguita in Roma nel 1759., dice così. “Quantunque non si sappia precisamente quanto tempo impiegasse Leonardo da Vinci nella celebre dipintura da esso lui fatta nel refettorio de’ P. P. Domenicani del Convento delle Grazie di questa città di Milano, si sa però di certo ch’egli nel 1497. attualmente la dipingeva, leggendosi in certo libricciuolo esistente nell’archivio del suddetto Convento; ed il qual libricciuolo dimostra essere quello appunto, in cui l’architetto, o capomastro notava le partite de’ suoi crediti verso l’illustrissimo Sig. Lodovico Maria Sforza detto il Moro Duca di Milano per le opere da esso Sig. Duca fatte fare, tanto nel già detto Convento, quanto altrove; leggendosi, dico alla pag. 16. tergo la seguente partita. 1497. Item per lavori facti in lo refettorio, dove depinge Leonardo li Apostoli, con una finestra; lir. 37. 16. 5.” Che che ne sia però del tempo preciso dell’incominciamento e del termine del nostro Cenacolo, egli è certo ch’esso, poichè fatto d’un uomo ch’era d’un abilità sorprendente[11] è riuscito un capo d’opera che fu, e sarà, non so s’io mi dica l’ammirazione, o sì veramente la disperazion de’ pittori. Tutta la dipintura di Leonardo è di braccia quattordici Milanesi ed once dieci in lunghezza, compresa la dipinta cornice di once tre e mezzo per ciascheduna parte; e di braccia otto e once una e mezzo in altezza, compresa pure la dipinta cornice di once otto.
Rappresenta questa pittura il Redentore divino in quel punto, in cui nell’ultima cena dice agli Apostoli che uno infra di loro lo avrebbe tradito. Amen dico vobis, quia unus vestrum me traditurus est. La grandiosità del disegno, la distribuzione delle figure, l’espression degli affetti in tutti i personaggi rappresentati è qualche cosa di grande. Si vede come una gran sala, Cænaculum grande, colla più precisa architettura disposto e nelle pareti, e nella soffitta; ed ha sul fondo una porta aperta nel mezzo con due finestre aperte pure dai lati; dalle quali un vago orizzonte si scorge con colli, e con monti in bella degradazione disposti, che a cielo sereno formano una graziosissima prospettiva. Una lunga tavola rettangola sopra quattro piedi semplici sostenuta, si stende in tutta quasi la larghezza del Cenacolo di rincontro ai riguardanti, coperta di bianca tovaglia segnata da varie sviluppate pieghe, come se fosse stata ripiegata dopo il bucato, ed è dai lati bellamente aggruppata.
Nel mezzo di essa vi sta il divin Salvatore co’ dodici Apostoli, sei alla destra, e sei alla sinistra nell’atto, in cui pronuncia le anzidette parole: Unus vestrum me traditurus est. Il volto è dolcemente maestoso, gli occhi abbassati in maniera di chi dice cosa, cui dispiace il dirla, e le mani appoggiate sopra la tavola; ma con un certo inarcamento delle dita nella destra segnatamente, come di chi trattando un affare di rilievo accompagna col gesto della mano il sentimento delle parole.
Alla destra di Cristo vedesi San Giovanni, il discepolo prediletto, che pallido il volto, col capo ripiegato sulla destra spalla, e colle mani incrocicchiate sembra poco men che svenuto all’annunzio del traditoresco attentato. Segue Giuda con truce aspetto, come se fosse abbronzito dal sole, e situato avvedutamente quasi per contrapposto vicino al bianco Giovanni. Si appoggia il fellone villanescamente col braccio destro quasi in mezzo alla mensa, e guardando con occhio arditamente fiso il divino Maestro, e colla sinistra allargata, pare che quanto stupisce nell’essere scoperto per traditore, altrettanto stia fermo per eseguire il suo tradimento. Ei tien nella destra mano una borsa, perchè si ravvisi per quello scellerato, che per avarizia vendette il suo Signore. Pietro che viene appresso, e che si riconosce per lo coltello che ha nella destra, come se si fosse dalla mensa rialzato, stende la sinistra mano sopra la destra spalla di Giovanni, quasi voglia interpellare da lui, come confidente di Cristo, chi possa essere il traditore. Viene appresso il quarto, che rimasto a sedere, ma colle mani alzate ed accostate alquanto al petto in maniera che se ne veggan, le palme, e collo stringimento delle labbra, e coll’inarcamento delle ciglia dà i segnali della più alta sorpresa. Il quinto che gli è allato, stando tuttavia a sedere stende dietro il tergo del quarto il braccio sinistro, e ponendo la mano sopra la destra spalla di San Pietro, par voglia domandarlo per ragionar seco lui intorno a ciò, che detto ha il Redentore. L’ultimo ch’è alla testa della tavola, essendo più discosto degli altri, quasi non avesse bene inteso ciò che dal Salvatore fu detto, alzasi in piedi, appoggia ambe le mani sopra la tavola, ed allungando la parte superiore del corpo verso di Cristo, sembra che voglia assicurarsi meglio di ciò ch’egli ha detto.
Gli altri sei Apostoli che veggonsi alla sinistra del Redentore, espressi son con affetti non meno forti e significanti. Il primo rivolgendosi al suo Signore senza alzarsi da mensa, col capo chino, cogli occhi sorpresi, e colle braccia allargate in atto di sommo stupore, nella sua maraviglia, che par quasi spavento, sembra ch’esprima la sua giustificazione. Dietro di lui un altro si vede di natural più focoso, che levatosi dalla mensa, e fissando risoluto lo sguardo nel Salvatore, ed alzando con forza l’indice della destra, par voglia dire al suo Signore, che pronto è a vendicarsi di chi eseguire volesse l’attentato sacrilego. Uno sbarbato giovine viene dopo, che alzatosi anch’esso in piedi, ed allungando il collo verso il suo Maestro, si pone doglioso le mani al petto, quasi assicurare lo voglia della sua innocenza. I tre ultimi seduti tuttavia alla mensa ragionano infra di loro sopra di ciò che hanno inteso. Il primo colle braccia sporte verso il Signore, accenna maravigliato agli altri ciò ch’egli ha detto. Il secondo rivolto all’ultimo gli viene indicando col pollice della destra il primo che lo ha detto, e l’ultimo col volto assorto, e colle mani alquanto alzate stupisce sopra ciò di che viene assicurato, ed accenna col mesto volto del suo dolor la gravezza.
Ma per quanto dire si possa della espression degli affetti che scorgesi in quest’egregia dipintura, se non si vede essa cogli occhi non si può esprimere colle parole. Considerata in complesso vien riputata come l’opera più eccellente ch’uscita sia da pittoresco pennello: opera che nei periti dell’arte (se fosse nella sua perfezione natia) ecciterebbe una maraviglia che dir potrebbesi stordimento. Ho veduto una carta impressa in rame rappresentatrice del nostro Cenacolo, senza nome però dell’autore, e senza data dell’incisione, in cui vi sono scritte appiè le seguenti parole:

amen dico vobis, quia unus vestrum
me traditurus est.

cavata dal dipinto a olio di leonardo
da vinci
fatto nel i496., e 1497.
sopra il muro di contro alla testata
del refettorio de’ padri domenicani
detti delle grazie di milano.
pittura, a cui per il tempo che fu fatta
per l’espressione sublime degli affeti,
anzi per i numeri tutti dell’arte
compete il primato sopra ogni altra.

L’Autor della lettera lxxxiv. impressa nel Tom. ii. della Raccolta di lettere sulla pittura, scultura, architettura stampata in Roma nel 1757. che si crede essere di Monsieur Mariette il giovine al Sig. Conte di Caylus, dice così alla pag. 185. Quest’opera viene riputata un miracolo dell’arte; come tutti comunalmente ne convengono i dipintori. Certamente che questo è un lavoro così pellegrino, che dir potrebbesi a Leonardo ciò che si legge nel Principe della latina lirica poesia.[12]

Responsura tuo nunquam est par fama labori.

Che se mai ci avesse taluno, che a maggior erudizione di questo dipinto mi richiedesse se risapere si possa chi sia decisivamente ciaschedun degli Apostoli che intese Leonardo di rappresentare, non glielo saprei dire precisamente. Ho interrogato sopra di ciò il nostro Padre Maestro Giuseppe Casati Milanese bibliotecario della libreria delle Grazie, uomo di molta saviezza ed erudizione, e che oltre al possedere le lingue esotiche Greca ed Ebraica, ha una vasta cognizione di libri; ed hammi risposto che per quanto abbia egli letto, non gli venne fatto di trovar sopra di ciò monumento veruno, e che non possiamo appigliarci che ad una semplice conghiettura. Si dice che nell’orlo della veste intorno al collo vi fosser segnati i nomi se non di tutti, almen di varj Apostoli; ed in alcuni vedevisi tuttavia qualche vestigio, benchè assai dilavato. Ma siccome non si riconosce negli altri, non mi arrischio a indovinare. Che alla destra di Cristo il primo sia San Giovanni, il secondo Giuda, il terzo San Pietro, non v’ha dubbio veruno. Degli altri dirò quel ch’ho inteso a dire, non volendomi far mallevadore di quel che ho sentito. Il quarto alla destra del Salvatore si dice essere San Bartolomeo; mentre par che vi sia un qualche rimasuglio del suo nome. Il quinto San Giacomo minore, perch’essendo cugino di Cristo ha con esso lui qualche simiglianza. L’ultimo si vuol che sia San Taddeo, o sia San Giuda. Il primo alla sinistra senza dubbio egli è S. Tommaso, mentre vi si legge tuttavia scritto il nome nell’orlo superior della veste. Il secondo si dice essere Santo Andrea, perchè assomiglia alcun poco a S. Pietro, di cui era fratello: il terzo San Simone, il quarto San Matteo, perchè in atteggiamento risoluto, essendo stato riscotitore delle gabelle; il quinto S. Filippo; il sesto San Giacomo maggiore, perchè ammantato di vesti sacerdotali, essendo lui stato Vescovo di Gerusalemme. Quest’è quanto dir posso come dettomi da qualche Padre assennato, che ne ha come per tradizione inteso a discorrerne; nè posso dire di più, perchè non so cosa dire di certo.
Ma poichè il sapere i nomi di ciaschedun particolare Apostolo non appartiene al merito essenziale dell’opera, passiamo piuttosto a discutere se il nostro Cenacolo sia dipinto a olio, ovvero a fresco. Io certamente non posso ergermi a giudice in questa quistione; mentre maneggiato avendo finora la penna, non il pennello, se volessi in tuono franco e dittatorio definire la controversia, mi si potrebbe in qualche guisa applicare quello del Dante (Parad. Can. xix.)

Or tu chi se’, che vuoi sedere a scranna
Per giudicar da lungi mille miglia
Colla veduta corta di una spanna?

Tratterò la question come storico, non come pittore, e come storico non so se coglierò nel segno come se fossi pittore. V’ha di coloro ch’estimano essere stato il nostro Cenacolo dipinto a fresco. Ma questa asserzione patisce le sue gravi difficoltà. Lo Scrittore del libro che ha per titolo Nuova Guida di Milano impresso nel 1787. dice di averlo Leonardo dipinto a olio, perchè volendo egli (son sue parole) mostrare in questo lavoro il pittoresco suo sapere, e temendo di non aver franchezza bastevole per dipingere a fresco, ch’è, e sarà sempre il modo più fermo d’ogn’altro, pensò di dipingerlo ad olio. Ma questo motivo non mi par quello per cui Leonardo ha con olio dipinto. S’egli dipingeva ad olio con tanta perfezione, riuscito pur vi sarebbe se si fosse dato sul pignere a fresco. Il motivo più verisimile mi sembra quello ch’è riferito nella accennata Lettera lxxxiv. del Mariette: cioè che Leonardo più che a fresco amava dipingere a olio, perchè pel sublime suo genio tendente alla somma eccellenza, non era mai satisfatto del suo travaglio, ed aspirando a perfezionarlo più sempre, era tardissimo nel compir le sue opere: ciò che non arrebbe potuto eseguire, se avesse dipinto a fresco, che richiede una speditezza maggiore. Mi piace quì trascrivere le parole della medesima Pistola che sono alla pag. 177. della indicata edizione di Roma. “Chi l’avesse visto dipingere (Leonardo) avrebbe creduto ch’ei fosse uno scolare giovine, che, non essendo sicuro delle sue forze s’andasse provando prima d’arrischiarsi ad alzare il volo più alto.
Quando si metteva a dipingere sempre tremava della paura.[13] Spesso dopo aver passato degli anni interi sopra una sola testa, e avervi consumato tutto il suo sapere, nuove e più perfette idee sopravvenendo alle prime, si disgustava di quel ch’aveva cominciato, e non si poteva risolvere a terminarla. Per questo non intraprese mai a dipingere a fresco;[14] dove per la pratica domanda una pronta spedizione: e per questa ragione i suoi quadri sono in sì picciol numero”.
E quì giova riflettere che dicendosi da Paolo Pino accennato in una postilla, che Leonardo non ha impreso giammai a dipignere a fresco, e il suo Dialogo è stampato fino dall’anno 1548., e Leonardo stesso si dice morto nel 1519. cioè neppur trent’anni dopo; era ben naturale ch’esso Pino sapesse meglio gli avvenimenti di questo celebre Dipintore, che tant’altri più moderni scrittori; e forse conosciuto lo avrà di persona, o almeno lo avrà conosciuto per la fama più recente delle sue gesta, e della sua maniera di operare in pittura; mentre di lui parlavasene da tutta gente.
Un altro motivo per cui Leonardo non ha dipinto il Cenacolo a fresco, potrebbesi trarre da ciò che dice il Padre Girolamo Gattico Domenicano, uomo di molto sapere, e che ha dato alla pubblica luce assai libri, di cui ne parla con lode il nostro Padre Jacopo Echard nel catalogo degli Scrittori dell’Ordine. Egli che già quasi da due secoli ha tessuta la storia esatta di tutte quante le cose appartenenti al Convento delle Grazie fin dalla sua fondazione, che manoscritta conservasi nel nostro archivio, parlando delle singolari pitture del Convento medesimo, di quella del refettorio dice così. “Leonardo Vinci dipinse il Cenacolo che alterato si vede nel fine del medesimo refettorio, ed il Duca, e Duchessa che si vede a fianchi della suddetta Gerusalemme, quali si sono infracidite per essere dipinte a olio, e l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre; ed egli contro suo volere la fece, perchè così onninamente volle il Duca.” Se dunque Lodovico volle che la sua immagine e quella della Duchessa Consorte co’ lor Figliuolini appiè della pittura del Montorfano fosse dipinta ad olio in faccia al Cenacolo, pare che abbia voluto che fosse simile a quello con cui fu dipinto il Cenacolo stesso. Perchè se la dipintura del Montorfano è fatta a fresco, ed a fresco pur fosse stato il Cenacolo di Leonardo, non appare alcuna ragione per cui il Duca volesse che la sua immagine con quella della Duchessa Consorte fosse dipinta ad olio, se tutto il rimanente era a fresco. Anzi dicendo lo stesso Padre Gattico che il Cenacolo fin da’ suoi tempi era alterato, e le figure del Duca e della Duchessa infracidite, pare che dovessero essere fatte col medesimo impasto ad olio; dacchè la dipintura del Montorfano, sul di cui medesimo muro è dipinto il Duca e la Duchessa, ed è fatto indubitatamente a fresco, ella si è piuttosto ben conservata. Intanto poi Leonardo si sarà a principio opposto a Lodovico nel far dipignere la di lui immagine e della Duchessa ad olio, perchè dovendosi porre appiè della Crocifissione del Montorfano, gli sarà paruta disdicevole cosa, che sopra di una muraglia stessa, su cui effigiate si veggono tante e sì grandi figure a fresco, se ne dovesser vedere alcune coll’olio pennelleggiate.
Un altro riflesso che può indurre a credere che la Cena di Leonardo ad olio sia fatta, si è perchè il pittore Michel Angelo Bellotti, come si dirà distesamente in appresso, nello averlo col suo segreto pulita, e fatta, a dir così, venir fuori, si servì specialmente di alcuni olj; onde pare che se fosse stata formata a fresco, non si dovesse con olio toccare. Aggiungasi a tutto ciò che nella sopra indicata carta impressa in rame d’incerto autore, dicesi francamente, che la pittura da cui è ricopiato il Cenacolo, è fatta ad olio; ed il pittore che dall’originale l’ha ricavata perchè venisse impressa, par ch’esser non dovesse tanto volgare, mentre l’incisione in rame non è poi affatto cattiva. Trascriviam le parole già scritte.

amen dico vobis, quia unus vestrum
me traditurus est.
cavata dal dipinto a olio
di lionardo da vinci
fatto nel i496. e 1497.

Che il Cenacolo sia fatto a olio lo asserisce pur francamente l’erudito Autore del detto libro Nuova Guida di Milano. Eccone le parole che trovansi alla pag. 326. “Asseriamo con fermezza essere ad olio, perchè tale l’abbiamo riconosciuto, osservandolo ed esaminandolo molte volte; e perchè ciò pure è asserito dal Lomazzo, che l’aveva copiato dall’Armenini, e da tutti gli antichi che indicano il modo con cui è fatto, benchè modernamente sia stato detto e scritto in contrario”. Questo è quanto posso dire a favore di chi si avvisa essersi nel dipinto di Leonardo adoperato l’impasto con olio, come pare che tutti ne convengano i più vetusti scrittori. Ciò nulla ostante v’ha tuttavia chi crede non essere il Cenacolo nè ad olio, nè a fresco, ma colla tempera; e si avvisan di poterlo provare da ciò, che sfregandosi alcuna parte col dito, vi lascia qualche vestigio di tintura: ciò che non avverrebbe se fosse dipinto ad olio. Ma siccome la pittura è antica, ed è soggetta assai alla umidità che può ammollare l’impasto, ed è stata anche ritoccata, come vedrassi in appresso, non mi pare che da questo solo si possa conchiudere che non siasi adoperato l’olio nella formazion sua. Ma i periti nell’arte posson meglio tra loro discutere la quistione.
Siccome però questa difficoltà di decidere dell’impasto di questa pittura provenir può dall’essere antica, ed aver sofferte assai ingiurie dal tempo, e da altre vicende, opportuna cosa io reputo il favellar quì della sua decadenza. Poichè si stende essa sopra un gran muro nell’entrata del refettorio, o sia che fuori di esso vi è un piccolo atrio con una vasca in cui i Padri si lavavano anticamente le mani, o sia che il fumo della cucina ch’esce da un’apertura che vi sta poco lungi, inumidisce, e scolora quindi il dipinto; o sia che il muro medesimo segnatamente alla destra di Cristo abbia dalle fondamenta incominciato a contrarre l’umidità e tramandarnela poco a poco alle parti superiori, egli è fuor di dubbio che dopo non guari tempo ha cominciato a soffrire un sensibile deterioramento.
Un’altra cagione di questa sua disgrazia si è, perchè la muraglia su cui vi è dipinto il Cenacolo, esteriormente rivolta è a tramontana; e di più vicine avendo alcune aperture, e dalla parte del chiostro, e dalla parte della cucina, oltre la porta di mezzo, e per la vastità pure del refettorio posto a pian terreno, ne’ tempi di scirocco segnatamente tanta umidità si raccoglie sulla dipintura, che non può non recarle una pessima impressione. Il Padre Abate Gallarati Patrizio Milanese, e Monaco Olivetano, uomo assai savio e intelligente in pittura, che già da molti anni copiò in miniatura[15] la Cena di Leonardo con tanto felice successo, che avendone di essa fatto un presente all’inclito regnante Vittorio Amedeo iii. Re di Sardegna, così lo gradì, che con principesca liberalità all’onore di un titolo gli aggiunse l’utile d’una pensione; questo degnissimo Padre Abate, dico, mi accerta, che qualor’ attualmente ricopiava la nostra pittura, in certe giornate, in cui dominavane lo scirocco, vedevasi stesa su di essa l’umidità, come se vi fosse piovigginato sopra, onde riconoscere non vi si potevano distintamente i tratteggiamenti e le ultime differenze delle figure: il perchè era d’uopo che l’asciugasse lievemente con una spugna, ovvero con un sottilissimo pannolino.
Nè giova per riparare il Cenacolo ricoprirlo colle cortine, che vi si trovano. Se tengonsi chiuse, ne’ tempi piovosi alla parte destra del Salvatore in ispecie, vi si raccoglie di sotto l’umidità in tanta copia, che l’acqua aggruppata si vede insino scendere per lo muro come in piccioli canaletti; e la pittura, se non se le dà aria, si copre di una sottilissima muffa bianchiccia, la quale farebbe sempre più smontare i colori, e guastare il dipinto: perlocchè l’espediente migliore egli è di lasciarla scoperta; tranne quel poco tempo in cui scopasi il refettorio.
Un’altra ragione dell’umidità del muro pretende di addurre l’Autor della Nuova Guida di Milano; cioè che sotto il Cenacolo vi era una vasca dove lavavansi i piatti. Sappiamo, son sue parole, esservi stata una vasca sotto di lui per comodo della lavanda de’ piatti. Ma d’onde ha egli mai ricavata questa erudizion pellegrina? Io per quanto scorso abbia le nostre memorie, non ho rinvenuto di questa vasca indizio veruno. Possibile che sotto una così insigne pittura, per vedere la quale concorsi saranno, come vi concorrono tuttavia con gran frequenza i forestieri d’ogni condizione, essere vi potesse ne’ Religiosi tanto di dabbenaggine da fissarvi un recipiente destinato a farvi la lavanda de’ piatti? I piatti si puliscono in qualche luogo vicino a quello in cui si fa da mangiare, non nel luogo dove si mangia. Al più essere vi poteva un qualche vaso portatile per isciacquare i bicchieri: di che però non ho trovato memoria veruna. Ma l’Autore si sarà ingannato a motivo di quella pietra, che a mia ricordanza posta era nel mezzo del refettorio, sotto di cui eravi un canaletto a condur via sotterra l’acqua che soprabbondava, qualora singolarmente ponevasi il vino nel ghiaccio; la qual però fu già da molto tempo levata quando nel 1769. si è fatto rifare il suolo del refettorio con nuovi mattoni.
Ma lasciando stare ogni altra cagion del decadimento della nostra pittura, la principale per cui ha patito assai, ed è per patire, quella è a mio avviso recata da Gio. Paolo Lomazzo professore sì celebre, ed intelligente in pittura; il qual dice che Leonardo abbandonato avendo nel dipingere l’uso della tempera, e adoperato in vece per l’imprimitura l’olio assottigliato al lambicco, si stacca essa agevolmente dal muro, e rovina la dipintura. Arrecherò le stesse sue parole che trovansi nel libro del Tempio della Pittura alla pag. 49. dell’edizion di Milano fatta nel 1591. “Ora Lionardo fu quello che lasciato l’uso della tempera, passò all’oglio, il quale usava di assotigliar con lambicchi, onde è causato, che quasi tutte l’opere sue si sono spiccate dai muri, siccome fra l’altre si vede ... in Milano la Cena di Cristo in Santa Maria delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura ch’egli vi diede sotto. Di che riabbiamo grandemente da dolerci che opere sì eccellenti si perdano, restandovi solamente i disegni, i quali certo nè il tempo, nè la morte, nè altro accidente sarà mai per vincere, ma con grandissima lode et gloria di lui viveranno in eterno.”
Per questo motivo specialmente dell’imprimitura, dopo pochi anni cominciò a deteriorare assai sensibilmente il nostro dipinto. Lo vide l’Armenini il Cenacolo cinquant’anni in circa dopo che venne dal suo grande Autore perfezionato, e disse ch’era mezzo guasto; come leggesi nella Nuova Guida di Milano pag. 327. L’accennato Padre Gattico che lo aveva tutto giorno sott’occhio, e che scrisse la storia del nostro Convento sul principio del secolo diciassettesimo afferma, come si è detto, ch’era alterato; ed il chiarissimo Pietro Paolo Bosca Sacerdote dell’inclita Congregazione dei Signori Oblati di Milano nel libro de Origine & statu Bibliothecæ Ambrosianæ, riferisce che il celeberrimo Cardinal Federico Borromeo, il cui nome sarà sempre mai immortale, dipinger fece una copia del Cenacolo, perch’era per l’intemperie delle stagioni talmente mal concio, che tutta veniva ornai la rappresentata storia cancellata: Caenæ illius imaginem provida mens Borromæi pingi jussit in tabula, cum særvientis aquilonis afflatus Dominicanæ cænationi historiam fere totam abstulerit: e nel margine cita per ciò stesso il Sansovino negli elogi che tesse delle più illustri città d’Italia.
Anco l’Autor della accennata lettera lxxxiv. del tom. ii. della Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ec. conoscendo la somma rovina del nostro Cenacolo, ebbe insino a dire che già da molti anni più non esiste. Queste sono le sue espressioni poste alla pag. 183. dell’edizione di Roma. “L’occasione la più notabile in cui egli (Leonardo) fece uso di questa pratica di disegnare delle fisonomie, fu quando dipinse la famosa Cena del Signore, di cui la fama si mantiene nel suo vigore, benchè ella non sussista più da molti anni”. La ragione poi per cui egli dice che più non sussista, cioè nella sua bellezza natia, l’arreca nella postilla che fa alle stesse sue parole, e che quì trascrivo. “Questa pittura non durò molto tempo nella sua bellezza, perchè avendola Lionardo dipinta a olio sopra un muro d’un intonaco forte, l’umido rigettò bentosto l’imprimitura e il colore, e la fece cadere sbullettando l’intonaco.”
Cosi pure lo Scannelli che nel 1642. recossi appostatamente a vedere il nostro Cenacolo, restò cotanto sorpreso nel mirarlo a così cattivo stato ridotto, che disse potere attestare che in riguardo d’incontro inaspettato mi restasse il gusto in estremo instupidito, scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia nelle figure, e con modo così confuso, che a gran fatica poteva distinguere la già stata istoria; e le teste, come mani, piedi, ed altre parti ignude con chiari lividi e mezze tinte trovai quasi affatto annichilate, ed al presente (il libro è stampato nel 1657.) stimo non siano che del tutto estinte, e le figure per lo più dal muro diri se, ed in parte fatte oltremmodo oscure, davano a conoscere le buone reliquie di un’opera già resa inutile, non restando al riguardante ormai che il credere alla buona fama del passato.
Essendo adunque dal tempo così malconcia ed a così cattivo stato ridotta la povera dipintura, che credevasi quasi affatto perduta, e renduta inutile, non debb’essere poi gran maraviglia se i Padri rifare volendo le tavole ed i sedili del refettorio, e dare ad una fabbrica così bella e grandiosa un più nobile aspetto, e rialzare conseguentemente la porta ch’era assai bassa, abbiano alla figura del Redentore e de’ vicini Apostoli rovinati i piedi: ciò che fatto non avrebbero in alcun conto se la pittura non fosse stata in pessimo stato, e come perduta. Ciò avvenne circa l’anno 1652.; e questo si rileva sicuramente dagli attestati di ricevuta dei falegnami ed altri artefici che hanno travagliato nel refettorio per l’oggetto indicato, i quali nell’archivio del Convento tuttora ritrovatisi.
Che la pittura nostra fosse ormai smarrita, e a così dire spenta quando dilatata fu del refettorio la porta, lo dice pure l’accennato Padre Maestro Monti nella detta relazione stampata nella addizione al Vasari, come nettamente deducesi dalle seguenti parole. “Una sì celebre dipintura, come ognuno sa, circa un secolo dopo era quasi smarrita, e col succedere degli anni talmente erasi perduta, che non avendo più forse speranza alcuna di riacquistarla, non curando più di un tanto tesoro, pensarono di alzare e dilatare la porta, ch’era molto bassa ed angusta.”
Mi vien riferito che un altro motivo, per cui si è innalzata ed allargata la porta suddetta, fu perchè essendo assai bassa e ristretta, e trovandovisi al di sopra di essa dipinto il Cenacolo, che l’umidità pativa assaissimo, siasi aggrandita per dargli più aria. Di questa asserzione però io recar non ne posso prova veruna tratta o dalle private nostre memorie, o da’ pubblici libri stampati.
L’Autor della Nuova Guida di Milano pag. 328 in tuono decisivo pretende di addurre il vero motivo per cui dai Padri delle Grazie ingrandito venne del refettorio l’ingresso; cioè perchè han voluto far divenir porta principale quella ch’era accessoria, riputandosi per prima quella che mette nel chiostro vicino alla Chiesa. Ma qual cosa più inverisimil di questa che un refettorio sì vago, e magnifico com’è quel delle Grazie abbia ad aver la principale entrata da un lato, quando vi ci si può fare di fronte, e già v’è di fatto? Oltre di che dai nostri libri noi ne abbiamo di questa incongruenza le prove più certe. Il Padre Gattico al capitolo diciannovesimo della storia del Convento afferma che fino dall’anno 1503., cioè cinque o sei anni dopo terminata la pittura di Leonardo, il Padre Priore Silvestro da Prierio capitando a Milano Monsig. Illmo Stefano Vescovo di Parigi suo singolarissimo Padrone, l’indusse a fare de’ suoi danari la fonte per lavar le mani prima di entrare in mensa, e la pose ove anche oggidì si vede in comodo del refettorio. Se dunque fino dal 1503. entravasi nel refettorio dov’è il lavatoio fatto construire dal Vescovo di Parigi, e il lavatoio si vede dov’è di presente l’ingresso, la principal porta non era quella laterale del chiostro, per la quale passassero comunalmente i Religiosi col commodo di lavarsi le mani; mentre a lato di essa non vi fu mai alcun lavatoio, e non vi son che pitture, antiche più forse di quella di Leonardo; come ciascuno può chiarirsene di per se. Ecco se si ha con tanta facilità a credere a tutto quel che si dice, o a tutto quel che si stampa. Intanto poi si sarà tenuta assai bassa la porta di mezzo del refettorio per lasciar luogo a Leonardo di compire sul muro superiore in tutta la possibile estensione il grandioso suo disegno.
Convien però quì avvertire per non prendere abbaglio, che il lavatoio che trovasi di presente alla porta principale del refettorio, non è quello stesso ch’edificar fece il Vescovo di Parigi nel 1503. ma un altro più magnifico di marmo nero che vi si è sostituito nel 1563., come si scorge nella iscrizione formata colle parole della Pistola cattolica dello Apostol S. Jacopo, che vi fu a caratteri maiuscoli incisa. Questa mutazione avvenne essendo Prior del Convento il Padre Maestro Giulio Zaccaria patrizio Cremonese, che fu quel medesimo che ornò coi nuovi eleganti sedili il refettorio: il perchè il Padre Monti soprannominato nella serie che tesse di tutti i Priori, alla storia dello antidetto Padre Zaccaria vi fa questa postilla. Dum apud nos secundo praesset, scamna ex nucis ligno affabre composita in caenaculo poni caeperunt, atque lavacrum ante ejus ostium renovatum est. Vide Catal. Prior. ec.
Qualunque però dir si voglia il motivo, per cui venne la porta del refettorio dilatata, egli è certo che la pittura di Leonardo era verso la metà del diciassettesimo secolo a quel deplorabile stato ridotta che si è superiormente descritto; e vi rimase insino all’anno 1726. in cui il Padre Maestro Tommaso Bonaventura Boldi, uomo di sapere, e di merito, essendo Prior del Convento, persuaso forse dal bravo pittore Michel Angelo Bellotti Milanese, il qual disse di avere un segreto per ajuutare e cavar fuori l’ecclissata pittura, pensò a farnela ripulire e ristorare. Procedettero i Padri con tutta la cautela, e ne fecero dal Bellotti stesso fare in alcune parti meno interessanti le pruove: e veduto il felice successo, ne commisero ad esso lui la cura, e riposarono sopra la di lui onestà, ed esperienza. Egli col suo segreto la ripulì tutta quanta, e la ristorò, e fecela come rivivere e comparire in quella miglior forma, a cui può esser ridotta una dipintura sopra di un muro, che per una lunga serie d’anni abbia varie vicende sofferte.
Nel più volte accennato libro Nuova Guida di Milano dice lo Scrittore alla pag. 329, che il Bellotti dopo avere col suo segreto lavata la Cena di Leonardo, l’ha ridipinta; e con forte invettiva si scaglia quindi contro di que’ padroni, i quali permettono che alcun dipintore qual ch’egli siasi, ponga la temeraria mano nell’opere de’ grandi maestri: invettiva giustissima, ma che non si affà a mio avviso al Bellotti. Infatti qual prova si adduce egli mai ch’esso abbia tutto ridipinto il Cenacolo? Nessuna sicuramente. Io anzi rifletto che se ciò fosse vero, l’Autore stesso sarebbe come in contraddizione con se medesimo. Imperciocchè parlando egli delle ultime tre figure alla sinistra del Salvatore, le quali non vennero ritoccate da quell’altro Pittore, che come si accennerà in appresso, ebbe il coraggio di metter mano nella nostra pittura l’anno 1770., dice che in esse vediamo almeno un poco del dipinto veramente dalle beate mani del Vinci. Se dunque tutta dal Bellotti fosse stata con novelli colori ridipinta la Cena, come dir si potrebbe che nelle tre accennate figure si vede un poco del dipinto dalle mani di Leonardo? La pittura vedrebbesi del Bellotti, non già del Vinci. Quando sostenere non si volesse che anche dopo che l’avesse dipinta il Bellotti, caduti fossero, o si fossero corrosi i soprapposti colori, e rimasti quelli di Leonardo. Ma come persuadersi potrà taluno che nello spazio di soli quaranta quattr’anni tra il 1726. ed il 1770. possano i colori stesi sopra un’altra pittura, staccarsi affatto da essa, e staccarsi in maniera che tutta si vegga, come se non vi fossero stati distesi sopra? Non si apportano adunque monumenti veridici, onde provar che il Bellotti tutta abbia ridipinta la Cena.
Nella relazione del Padre Domenicano bibliotecario (ch’è il Padre M. Monti suddetto) riferita nella ristampa del Vasari, ed accennata nella Nuova Guida di Milano pag. 329. si dice bensì che il Bellotti ha col suo segreto ricavata la Cena di Leonardo, ma non si dice che abbiala novellamente dipinta. Voglio quì trascriverla per intero come l’ho ricopiata non dalla ristampa del Vasari anzidetto, ma dall’originale stesso, che conservasi nel nostro archivio, scritto benissimo dalle mani dell’Autore medesimo. Eccola tutta estesa come si trova in una nota alla vita che ha tessuta del celebre Padre Vincenzo Bandelli, che fu il decimosesto Priore delle Grazie, e poscia Generale di tutto l’Ordine di San Domenico. “Per buona sorte l’anno 1726. essendo Priore del detto Convento delle Grazie il P. Maestro Tommaso Bonaventura Boldi da Castel nuovo di Scrivia, uomo degno per la sua dottrina e merito, e che successivamente era stato Inquisitore nelle città di Tortona, Como, e Milano, vi fu il Sig. Michel Angelo Bellotti pittore Milanese, il quale con suo particolare segreto si esibì di ricavare un’altra volta la mentovata dipintura. Il sopraccennato P. Priore, e gli altri Religiosi del medesimo Convento graziosamente accettarono la di lui esibizione, e fattane fare con prospero successo in alcuna parte della dipintura la sperienza, affidarono del tutto al detto eccellente dipintore l’impresa, nella quale, siccome ognuno ora vede felicementc ne riuscì. Fu da’ medesimi Priore e Religiosi conosciuta la di lui fatica, avendo ad esso lui regalata, come si ha dai libri del medesimo Convento, la somma di lire 500. Milanesi, ed il Sig. Bellotti con molta finezza comunicò a’ Padri per ogni evento il segreto.” Ecco dunque come questo esperto Pittore può aver ajutato il Cenacolo, senza dipingerlo di bel nuovo.
Infatti nel tomo terzo delle Notizie storiche degl’Intagliatori date alla luce da Gio. Gori Gandellini Sanese, parlando dell’intagliatore Pietro Soutmans, dice alla pag. 253. dell’edizione di Siena del 1771. che il Cenacolo fu dal Bellotti col segreto suo ricavato, ma non che tutto abbialo ridipinto. così egli dice: “Il residuo poi di detta pittura fu per buona sorte nell’anno 1726. da Michel Angelo Bellotti Pittor Milanese ricavato fuori con un suo particolare segreto, e quasi restituito al suo primiero colore.”
In confermazione del sin quì detto aggiungo il testimonio del nostro P. Maestro Paolo Marinoni Milanese già ottuagenario, e savissimo Religioso, il quale oltre l’essere tuttavia instancabile nel servizio della Chiesa, dilettasi ancor di pitture. Egli che vestì l’abito Domenicano nel 1730., cioè quattr’anni soli dappoichè il Bellotti mise mano al Cenacolo, mi assicura d’aver sempre inteso dire da’ Padri più vecchj che questo esperto Pittore col suo segreto fece rifiorir la pittura, e che a punta di pennello toccava que’ soli luoghi ove i colori erano affatto scaduti; e che accomodata che fu, faceva di se una bellissima vista: com’egli stesso tante volte da giovinetto rimirata l’ha con piacere. Altri Religiosi pure mi attestano avere inteso Io stesso da altri Padri più vecchi. Che anzi il Figlio di un Pittore che travagliato ha insiememente al Bellotti nell’aggiustamento del Cenacolo, mi accerta di avere inteso più volte dal suo Genitore, che il Bellotti medesimo per questa sua opera acquistassi gran nome eziandio presso gl’intelligenti: ciò che non sarebbe avvenuto, se avesse tutta co’ suoi colori ridipinta la Cena; mentre la pittura non sarebbe stata più quella di Leonardo, ma di lui che l’avesse rifatta.
So che si dice non doversi per conto veruno toccar l’opere de’ grandi autori, ed essere assai meglio l’avere un loro pezzetto non tocco, che averne un gran pezzo ritoccato da pennello non suo. Ma a ciò potrebbesi opporre, che quando la mano ristoratrice sia d’un pittore valente, fia meglio ristaurare un’opera, che lasciarla del tutto perire. Il celebre dipintore Carlo baratti in Roma stessa, ch’è come il gran teatro delle bell’arti, non solamente venne dal sommo Pontefice Alessandro viii. destinato ad accomodare la famosa storia del Presepio dipinto nella Galleria di Monte Cavallo, il qual patito aveva assaissimo; ma da Clemente xi. chiamato fu a ristorar le pitture di Raffaello poste nel Vaticano, e vi riuscì con tanta giustezza che ne riportò onori, e pensioni. Non posso non trascrivere le parole che leggonsi nel tomo undecime della serie degli uomini più illustri nella pittura ec. alla pag. 159. “Gli ordinò poi (Clemente xi.) che ristorasse le pitture di Raffaello conservate nelle stanze del Vaticano, nella quale impresa avendo adoperato Carlo tutto il suo spirito, e il suo sapere, si acquistò ggloria immortale, ed il Pontefice per dargli una ricompensa eguale alla grandezza del di lui merito, lo insignì dell’ordine di Cristo nel dì 24. aprile del 1704., giorno in cui adunavasi nel Campidoglio la solenne Accademia del disegno, per assegnare il premio a quei giovani, che avessero mostrato maggior valore, e gli accordò l’annual pensione di 300. scudi.”
Non è dunque un peccato sì grave, e a dir così irremissibile il mettersi mano da un bravo pittore ad una dipintura, per quantunque eccellente ella sia, qualor vada essa a perire del tutto. Fia meglio a mio avviso avere un dipinto ritoccato, che non averlo poi più. Il Cenacolo nostro (come già vedemmo) talmente erane rovinato, che gli uomini intelligenti che in più tempi lo videro, ebbero a dire essere un’opera perduta, e come inutile, ed era come se più non esistesse. Se non facevasegli nulla, appena avremmo forse al dì d’oggi tanto di muro dipinto da poter dire; quì fu: il perchè se in Roma si è lasciato por mano alle opere del gran Raffaello, anche in Milano poteva mettervisi a quella del gran Leonardo.
So che il per altro celebre dipintore Carlo Maratti, ed ebbe, ed ha dei rimproveratori della sua impresa di aver messo mano al dipinto di Raffaello: e quantunque Gio. Pietro Bellori per ciò stesso lo esalti, pure il Richardson lo disapprova dicendo così nel tom. ii. del Trattato di pitture ec. della stampa d’Amsterdam alla pag. 266. Il y a meme des endroits, quì ont ètè entièranent rcpeints par Charles Maratti, quì tout excellènt maitrt, qu’il ètoit, loin de rètablir l’ouvrage de Raphael, ruinè par la longeur du tems; l’a plus gatê, que le tems n’avoit fait, ou n’auroit pu faire. Anche l’erudito Sig. Canonico Luigi Crespi nella sua prima lettera scritta ai Sig. Conte Francesco Algarotti, ch’e la cxc. del tom. iii. della Raccolta di lettere sulla pittura ec. con molta forza dimostra quanto pregiudizievole cosa sia il ritoccar col pennello l’opere de’ più singolari maestri: ma dopo aver detto quanto suggerire gli seppe il suo sapere e la sua esperienza, conchiude così. “Il fin quì detto dovrà intendersi di que’ notabili ritocchi, con cui si tratti di aggiungere teste, braccia, piedi, o cose consimili, poichè trattandosi di piccoli ritocchi o ne’ campi, o ne’ panni o in altre cose di simil sorta, non si deve procedere con tanro rigore.” Se dunque il Bellotti non ha che ripulita col suo segreto la Cena, e tocca appena in que’ luoghi ove vi si vedevano delle picciole scrostature, e fu l’operazione generalmente applaudita, non è da rimprocciarsi nè esso che la toccò, ne i Padri che permisero che la toccasse.
E poichè si parla di un’opera così grande e pel suo merito, e per la sua estensione, non sarà fuor di proposito l’avvertire, che siccome il suo mirabile, oltre il bello di ciascheduna figura tratteggiata d’una eccellente maniera, risulta eziandio da tutto il complesso e dell’architettura, e di tutte insiem le figure atteggiate in tanti diversi modi, che ad un colpo d’occhio si veggono in un campo dì muraglia così vasto; però se per la sua rovina si fosse veduto soltanto qua e là qualche pezzo men guasto (e molto più se si fosse tutta oscurata per modo da non ne potere neppur ravvisar la storia delineata), si perderebbe il mirabile di questa vista sì estesa e grandiosa, che uno è de’ suoi pregi maggiori. Delle altre figure, e quadri di Leonardo trovar se ne possono altrove; ma un pezzo e un complesso come quel della Cena non ritrovasi che nel refettorio delle Grazie. Si può ben essa ricopiare in iscorcio, e inciderla in rame, ed anche ritrarla co’ suoi colori, e si riconoscerà dagli intelligenti il mirabile del disegno. Ma la copia si ammirerà sempre in piccolo, e non recherà quella maraviglia che un dipinto può fare in grande, e come al naturale. Quanto a me reputo saggio consiglio a sostenere il più che si può questa sì particolare pittura per non lasciarla andare in totale rovina: ed io saper vorrei cosa mi fare per ristorarla a dovere, e conservare il più che si può alla mia patria questo divino lavoro, che di buon grado mi presterei; mentre temo non venga onninamente tra non guari tempo a perire: tanto soffre e dalla qualità dell’imprimitura, e dalla disposizione del muro, e dalla intemperie dei tempi umidi. Che se mai verrà a finire, converrà con dolore soffrirne la perdita. Son mancate tant’opere de’ più eccellenti Greci maestri Apelle, Anfione, Protogene, Asclepiodoro, dovrà compiangersi la mancanza eziandio di questa sì celebre di Leonardo.
Ma per non perderci, a così esprimermi, in inutili piagnistei, e proseguire anzi la storia, quantunque per l’accennata ricetta del Bellotti, il quale chiamar si può il ristoratore della nostra pittura, siasi essa in qualche guisa, per dir così, risanata; pure essendo il suo male per la sua vecchiezza come un mal cronico, nè essendosi, per quanto si sa replicata, tornò a smontare, e patire singolarmente nell’ultime figure alla diritta del Redentore. V’ebbe però chi suggerì a Sua Eccellenza il Sig. Conte Carlo di Firmian Ministro Plenipotenziario dell’Austriaca Lombardia, e Uomo com’è ben noto, per le scienze e le bell’arti assai inchinevole, che cosa sarebbe assai opportuna il rinvenire alcun abile dipintore, il qual capace fosse di ristorare il Cenacolo, e non si lasciasse affatto perire un tesoro si raro. Mandò però il savio Ministro a chiamare il Padre Maestro Giacinto Cattaneo, ch’era Prior del Convento nostro nel 1770., e gli manifestò le sue intenzioni. Il saggio Superiore che ben conosceva quanto rispettabile fosse la raccomandazion d’un Ministro a tutta l’Austriaca Corte sì accetto, e che dimostrava pei Domenicani di Santa Maria delle Grazie una singolar degnazione, (al qual riflesso per dimostrargliene in qualche guisa la nostra gratitudine, io gli dedicai il mio libro stampato sopra un Sonnambolo maraviglioso, ch’era un Padre dimorante nel nostro Convento), aderì esso Priore ai desideri, che per noi erano come comandi del Conte Plenipotenziario; ben sapendo con un insigne Poeta[16] che un autorevole personaggio, che alcuna cosa desidera, si può dire che adoperi

Prego, che sforza, autorità, che prega.

Fu dunque secondo l’insinuazion del Ministro proposto al Priore suddetto un certo Pittore (di cui, per essere già trapassato, ne taccio il nome) acciocchè in que’ siti in cui più aveva patito, riaccomodasse il Cenacolo. Si accinse egli all’ardua impresa, ed innalzato come gli piacque un gran palco per travagliare a suo bell’agio, pose mano alla pittura per ristorarla; e cominciato avendo dall’ultime figure del lato destro di Cristo, ch’erano le più guaste dall’umidità del muro, le ritoccò insino alla terza esclusivamente del lato sinistro. A chi non intendersi di pittura, poichè vedeva spiccare più colorite e più vivide le figure, non dispiaceva a principio il travaglio.
Ma il fatto si fu che il Padre Maestro Cattaneo venne dal celebre Carlo Emmanuele Re di Sardegna (il quale per l’Instituto di San Domenico in un con tutti i gloriosi suoi Avi, ed inclito regnante Figlio Vittorio Amedeo iii. ebber mai sempre una particolar degnazione; ed il Convento nostro delle Grazie segnatamente gliene professa una singolarissima obbligazione, ed una gratitudin sincera pei multiplici benefizj che per lo tenimento della Sforzesca segnatamente gli ha compartiti) venne, dissi, il Padre Maestro Cattaneo graziosamente chiamato a professore di teologia nella R. Università di Torino; onde avendo dovuto alla sua carica rinunziare, fu in suo luogo eletto a Prior delle Grazie il Padre Maestro Paolo Galloni nel mese di Dicembre dello stesso anno 1770. Se di Alessandro il Macedone venne detto: Magnus Alexander corpore parvus erat; eziandio il novello Priore s’era picciol di corpo, grande era di spirito; mentre fu dotato di un talento pronto e vivace, e che oltre l’esercizio nella filosofia, e nella teologia, che secondo le leggi nostre insegnare doveva per dodici anni ad ottenere la laurea del magistero, egli era dilettante assai di meccanica, di musica, e molto più di pittura,[17] avendo egli quand’era lettore di teologia morale nella città di Pesaro, avuto a direttore il Sig. Canonico Lazzarini dipintore di credito. Entrato adunque in possesso della carica di Priore, andò ad esaminare con occhio pittoresco il riaccomodato Cenacolo, e veggendo che l’opera non proseguiva con quella felicità che si aspettava; e sapendo per altro canto che dato si era già un autorevol comando di sospendere intorno alla dipintura il travaglio, si determinò di togliere ogni indugio, e finirla con licenziare decisivamente il Pittore. Strepitò egli, ne fece le più amare doglianze, e cercò protettori. Ma tutto indarno; che il risoluto Priore diede ordine che issofatto si spiantasse il palco, sborsar gli fece il prezzo patuito; e così rimase la pittura nello stato in cui vedesi di presente. Se un Priore per una quasi necessaria condiscendenza permise che si ponesse nella nostra pittura il pennello, un altro con libero coraggio ha cooperato, perchè levato fosse onninamente. L’Autore della Nuova Guida ec. dice che a questo Priore Milano e le arti avranno sempre obbligazione: pag. 330.
Non puòssi però negar che il Cenacolo tra perchè fu ritoccato, e soffri le vicende del tempo, sia assai deteriorato da quello ch’era quando fu da Leonardo compito; ed io m’aviso che qualora trovavasi nel suo più bel fiore, stato sarà l’incanto d’ogni occhio, lo stordimento d’ogni pittore[18]. Sono ormai trecent’anni dacchè fu dipinto, e il pretendere che un’annosa pittura distesa sopra un gran muro, e muro alquanto umido, ed anzi nitroso che no, e muro esposto ai crassi effluvj d’una cucina, e muro coperto probabilissimamente con forte imprimitura ad olio, abbia a conservarsi come se uscita fosse di fresco dalla mano maestra di chi la formò, sarebbe lo stesso che il pretendere ch’una vecchia emaciata, sdentata, gialliccia appaia come una giovinetta florida, rubiconda, brillante. Il tempo che chiamasi edace, consuma il ferro, il bronzo, il marmo, e non avrà a logorare un dipinto? I Domenicani delle Grazie badato non hanno a spesa veruna, e fatto hanno quanto per loro si seppe, o venne lor suggerito per conservare questo domestico loro tesoro, e quel che fatto hanno per lo passato, disposti sono a farlo per l’avvenire; nè possono far di più. Comunque però questa eccellente opera di Leonardo abbia sofferte le sue grandi vicende, pure come trovasi ancor di presente, degna è per tutto il suo complesso, e come dicesi pel tutto insieme d’essere da chicchessia veduta; e noi che in pranzando l’abbiam tutto giorno sott’occhio non ci saziam di guardarla; come non si saziano tanti forestieri che di continuo traggonsi a rimirarla.
Veduto che si è ciò che appartiene alla storia genuina di questo dipinto, sarà pregio dell’opera il passare a sventar ciò che intorno ad esso è vera favola, per non dire impostura. Si è sparso nei volgo che i Padri delle Grazie, quasi conoscitori non fossero del prezioso tesoro ch’essi posseggono, tutta abbiano fatta imbiancare del refettorio lor la pittura. Una falsità è questa, di cui altra non vi può esser maggiore, creata forse dalla bizzaría di alcun vago cervello, o promulgata dal livore di qualche lingua mordace. Se il fatto avesse a credersi, converrebbe almen dire in qual tempo, per qual occasione, da chi fu eseguito, o almeno da chi fu veduto questo vergognosissimo coprimento; come pure converebbe assegnare il tempo in cui fu levato il bianco, e accennare a un di presso da chi venne ordinata l’opera, da chi eseguita: ed il volere affermar che sia stato imbiancato il Cenacolo senza provarlo, sarebb’egli poco men che mostrarsi stolto; come si darebbe a veder quasi un uom che pazzeggia, chi senza prova veruna volesse altrui spacciare per pazzo.
Nell’archivio del nostro Convento non si rinvien neppure una sillabi ch’accenni spesa veruna per questo bianchimento supposto: e sì che trovansi notate altre spese assai più minute. Così pur non ritrovasi pagamento alcuno per lo pittore che avesse scoperto il Cenacolo, e ripulito; il qual certamente avrebbe dovuto impiegar più settimane, anzi mesi a tal uopo; e conseguentemente percepire una somma considerevole per le sue fatiche prolisse. E quantunque il non ritrovarsi notata questa partita nelle memorie del Convento non sia una pruova decisa e concludente, potendo essersi smarrite le carte; pur ritrovandosi marcate esattamente tant’altre partite appartenenti il refettorio ed al Cenacolo, e non rinvenendosi questa del ristauro della pittura imbiancata, esser può una prova, ch’unita all’altre aver debbe il suo peso.
E poi se stata fosse tutta quanta la dipintura coperta dì bianco, in qual maniera si sarebbe potuto esso levare senza guastarnela enormemente; giacchè o per l’imprimitura ad olio, o per la molta umidità staccata essendosi qua e là dal muro la superficie della pittura, come tuttavia si vede; nello stendervisi sopra con grosso pennello la liquida calce, mischiata essa sarebbesi coi rialzati colori, e distaccati avrebbeli da quel sito in cui ritrovavansi, e penetrando per tutti que’ piccioli forellini, e fissure che vi si veggono, sarebbe stata un’impresa difficile assai, per non dire impossibile il poter levare la soprapposta attaccaticcia materia senza arrecare a tutto il dipinto un guasto immenso? Basta pigliare una scala, e da vicino esaminarnelo di fin fondo, per dire a prima giunta incredibile essere onninamente che la pinta muraglia sofferta abbia giammai d’alcun imbiancatore la mano.
Quello ch’avrà forse dato motivo a questa voce chimerica si è, che sopra certe pitture per la loro cattiva situazione, o per altro motivo esce una certa muffa, o fioretto bianchiccio, che colla lunga tratta del tempo viene ad assomigliare all’imbiancamento d’una muraglia; come lo accennò il Padre Maestro Monti soprammentovato nella già detta lettera scritta ad un suo amico; e che quì trascrivo, com’egli ce l’ha lasciata nelle sue memorie. “Ciò non pertanto qualunque ella sia (parla della sua relazione stampata come di soppiatto nel tomo secondo della ristampa del Vasari) godo in qualche maniera ch’essa sia comparsa alla luce, potendo la stessa scemare un’altra popolar voce che corre tuttavia; cioè che da’ nostri antichi Frati fosse stato imbiancato il muro, dove rappresentasi una sì apprezzabile dipintura. Conciossiachè dalla medesima relazione ognuno saprà che detta pittura erasi di per se smarrita; essendo a quella avvenuto ciò che voi pure avrete osservato di essere accaduto in altre opere consimili, che o per la loro cattiva situazione, od anche per la qualità del colorito esce sopra di loro nella superficie del muro una certa muffa, o vogliam dire certo fioretto bianchiccio, il quale col lungo succedere degli anni tanto si accresce, che quasi rassomiglia l’imbiancatura de’ muri.”
Ma a che dirne più, Lo stesso erudito Autore del libro Nuova Guida di Milano riconosce e confuta pur l’impostura di cui si parla, ed a dimostrare la falsità dell’immaginario imbiancamento, ricorre ad un altro genere di prove tratte dai viaggiatori, che il Cenacolo di Leonardo hanno in ogni stagione veduto. Trascriverò le sue parole poste alla pagina 327. “Proseguì la povera pittura di Lionardo nello stato dell’originaria sua sciagura per tutto il secolo passato, e per varj anni del presente, falso essendo che i Padri l’abbiano mai fatta coprire di bianco, come alcuni vanno dicendo. Siamo accertati di questo dagli Autori che hanno scritto di essa dal tempo dello Scannelli sino al 1725. in circa, fra quali basta citare il nostro Torri che scrisse verso il 1670., e il Richardson padre, e figlio, che debbono avere fatto il viaggio d’Italia verso l’anno 1715. suddetto; avendo stampata l’opera loro nel 1728., i quali ne danno una descrizione detagliatissima, indicando la di lei rovina veramente grande ec ec.” Se dunque la dipintura nostra si è in ogni stagione veduta, come si verrà a dire essere stata cancellata col bianco?
Un’altra prova convincentissima di non esser mai stato imbiancato il Cenacolo si desume dall’universale silenzio di tutti gli autori, che di esso han favellato. In fatti nulla ne dice il Vasari, nulla il Lomazzo, nulla lo Scannelli, nulla il Torre, nulla il Lattuada, nulla il Richardson, nulla il Mariette; come pure niente ne dicono i Commentatori nella ristampa del Vasari medesimo, niente i Raccoglitori delle lettere di pittura, scultura ec., niente i Compilatori della serie degli uomini più illustri ec., e se pur se ne parla nel libro Nuova Guida di Milano, il suo Autore è di contrario parere, e l’opinione dell’imbiancatura, come vedemmo, confuta validamente. Possibile che se fosse stato imbiancato il Cenacolo, niun autore nè antico nè moderno l’avesse accennato, quando di questa famosa opera se n’è con tutte le più minute circostanze in ogni tempo parlato? Certamente che se alcun forestiero nel rimirare la nostra pittura- si avvanzasse a dirmi ch’essa è stata per volere de’ Padri col bianco ricoperta, lo pregherei a dirmi da qual autore abbia egli pescata questa sua così bellissima erudizione; e gli chiederei se mai per avventura ne avesse un qualche anecdoto singolare in cui riscontrarla, mi facesse grazia di comunicarmelo per metterlo alla pietra del paragone, e riconoscerne in autentica forma la verità. Chi sostenesse questa opinione dell’imbiancamento del nostro Cenacolo senza documento veruno, un uom mostrerebbesi di ben piccola levatura. Se il Burnezio di Aristotile favellando, nelle cui opere si avvisava di aver ritrovati tredici errori massicci[19], e’ lo lascia con questo grazioso saluto: Addio, Stagirita; tu sarai sempre appo me un cattivo astronomo, un teologo peggiore, un fisiologo pessimo - Vale Stagirita: semper mihi eris malus Astronomus, Theologus pejor, Physiologus pessimus: io pure dir potrei a chi sostenesse l’imbiancamento della nostra pittura, esser lui un cattivo storico, un peggior critico, un ragionator pessimo. Chi si appoggia nelle sue opinioni alla sola popolar voce, egli è un pensator ben meschino; dacchè non v’ha chi non sappia quanto sia essa fallace; ond’ebbe a dire anche il Dante (Parad. Cant. xiii.)

. . . . Più volte piega
L’opinion corrente in falsa parte:

e chi vuol fiutare su tutto, e non curare con aria sprezzatrice i monumenti e ragioni anco più chiare e lampanti, ben si merita con più giusto disprezzo d’esser con Orazio chiamato (Serm. lib. 2. Sat. viii.)

. . . . Balatro suspendens omnia naso.

Si cancelli pertanto dalla mente d’ogni amatore del vero che la pittura di Leonardo sia stata imbiancata giammai.
Un altro vago capriccio nacque in capo a taluni di asserire, che questo eccellentissimo Dipintore dal Padre Superior di que’ tempi accusato presso al Duca Lodovico il Moro come troppo pigro e lento nel dipignere ed ultimare il Cenacolo, per fare di questo affronto una bizzarra pittoresca vendetta, abbia nel brutto viso di Giuda ritratto il brutto viso del Priore medesimo. Il Padre Maestro Allegranza Domenicano figlio dell’altro nostro più antico Convento di Sant’Eustorgio in Milano, amante assai d’antichità, e noto non che alla nostra Città, a tutta la repubblica letteraria per varie opere da esso lui date alla luce in tale materia, scrisse sopra di ciò nell’anno 1765. una lettera al Padre Maestro Monti sopraccennato, chiedendogliene il suo parere. Gli fece egli risposta, la quale poichè ha poscia inserita nella serie che ha tessuto di tutti i Priori che ressero il Convento di Santa Maria delle Grazie favellando del celebre Padre Vincenzo Bandelli, la trascrivo quì di buon grado, e perchè pienamente confuta una tal capricciosa invenzione, e perchè alcune cose accenna, che han relazione alla nostra pittura, e che gioverà che si sappiano. Così dic’egli. “Riguardo poi alla seconda vostra inchiesta, ciascuno che colla menoma riflessione legga la detta aggiunta (parla di quella fatta al Vasari nella vita del Vinci) intende tosto che Leonardo pe’ ischerzo soltanto, e per isbrigarsi, come scrive Giovanni Bottero[20] dell’impaccio con Lodovico il Moro, presso di cui si dice che fosse accusato dal Priore, propose a quello, che, quando non gli fosse suggerito miglior pensiero, avrebbe ricopiato nel volto di Giuda la faccia del Priore a lui molesto: ma in verità da tale aggiunta non mai si diduce, che Lionardo effigiasse il ritratto del Priore. Anzi tutto il contrario si ha da quanto scrive Gio. Battista Giraldi,[21] il quale dopo avere riferita la giochevole risposta di Lionardo al prefato Lodovico, soggiugne dello stesso Lionardo. Avvenne che un giorno gli venne per ventura veduto uno che aveva viso al suo desiderio conforme, e egli subito preso lo stile, grossamente il disegnò, e con quello, e con le altre parti, che egli in tutto quell’anno aveva diligentemente raccolte in varie facce di vili e malvage persone, andato ai Frati compì Giuda con viso tale, che pare ch’egli abbia il tradimento scolpito nella fronte.
“Ciò non ostante, Amico mio, io stimo favoloso tutto il racconto portato nell’aggiunta accennatami dei Vasari. Imperciocchè il teste nominato Giraldi, che forse il primo fu a scriverlo, dice precisamente che Lionardo rispose al Duca che restavagli a fare la sola testa di Giuda: Giovanni Bottero di sopra riferito asserisce che Lionardo affermasse allo stesso Duca che non gli mancavano a formare che due teste, quella cioè di S. Pietro, e quella di Giuda: finalmente nella summentovata aggiunta del Vasari scrivesi, che Lionardo dicesse, che gli restavano ancora a dipingere le teste di Gesù Cristo, e di Giuda. La sola diversità pertanto di questo racconto sembra bastevolmente dimostrare la falsità del medesimo. Aggiugnete di più che il Vasari certamente si è ingannato allorchè scrisse di essere rimasta imperfetta la faccia del Redentore; mentre siccome ognuno vede, ed essa, e le altre tutte sono finite ugualmente. Anzi come mai potrà credersi, che Lionardo lasciasse imperfetta la faccia di Cristo, s’egli non ha dipinto questo nostro Cenacolo, senza averne prima con sommo studio formati in dodici tavole gli esemplari di ciascheduna figura? A voi che benissimo delle patrie nostre cose siete consapevole, sarà egli pur noto che tutti gli accennati esemplari si conservavano nella casa de’ Signori Conti Arconati patrizj nostri Milanesi, e tuttavia si conserverebbero se il Conte Giuseppe Arconati, trapassato già da due anni (questa lettera del Padre M. Monti ha la data del 5. Ottobre 1765.) ceduti non gli si avesse al Marchese Casnedi, da cui traportati a Venezia, passaron nella Veneta patrizia famiglia Sagredo, la quale estintasi, furono dagli eredi, unitamente ad altri preziosi quadri della nobile galleria di detta famiglia venduti al Console d’Inghilterra residente in quella Repubblica. Or sappiate di più che nel giorno del Santo Natale l’anno 1763. in questo stesso nostro refettorio io ebbi il vantaggio di parlare a lungo con certo Sig. Odni Inglese, il quale cred’io, che facesse le veci del Console suddetto, ed abbia contrattata l’accennata vendita; e da esso lui non solo intesi che detti esemplari erano di già trasmessi in Inghilterra, ma che i medesimi erano pure interamente simili e corrispondenti in ogni loro parte, ed in ogni loro figura all’originale di quesito nostro refettorio.[22] Tutto ciò vi scrivo, perchè maggiormente riconosciate l’improbabilità del racconto nella aggiunta ai Vasari. Ma quello che sono per aggiugnervi pienamente vi renderà persuaso.
“Nella sopraddetta mia relazione stampata ultimamente in Roma nelle note al Vasari, avrete osservato, che quantunque io non abbia potuto fissare il tempo, in cui Lionardo diede principio a questa sua dipintura, ho però mediante autentico documento dimostrato, che egli attualmente dipingeva nell’anno 1497., in cui appunto di già contava un biennio nell’uffizio di Priore il P. Maestro Vincenzo Bandelli, che pure nel medesimo proseguì per altri tre anni successivi, dopo ancora pertanto la nota prigionia del Duca Lodovico.[23] Or se alcuno mai, questi certamente esser doveva il Priore che appresso il Duca suddetto instasse, perchè Lionardo desse finalmente all’opera sua il compimento: tanto più che Lionardo chiamato dal Duca Lodovico giunse a Milano solo nel 1494., onde prima del 1495. non è credibile che desse principio alla pittura. Ma sembra a voi che Lionardo, uomo di molto intendimento, e di grande accortezza divenisse allora sì imprudente e sì sciocco per proporre al Duca di volere nel volto di Giuda ricopiare la faccia dì questo Priore? Era Vincenzo Bandelli pel suo sapere, e per le solenni sue dispute noto all’Italia tutta, e singolarmente in questa nostra città, ove disputando pubblicamente confuse gli Ebrei alla presenza del prefato medesimo Duca. Godeva egli inoltre di moltissima grazia e confidenza appresso lo stesso Principe, il quale costumando per sua degnazione di pranzare due volte ogni settimana in questo nostro Convento, si compiaceva di seco averlo a commensale.[24]
Ma quello che più rileva egli è che il Padre Bandelli era di bello e venerando aspetto, come voi pure potrete aver ravvisato nell’antico di lui ritratto, che tuttavia conservasi presso di noi; e può ognuno accertarsene di più da quanto scrive Leandro Alberti autore contemporaneo.[25] Erat, dice egli, mediocri statura, facie magna & venusta, capite magno, & procedente ætate calvo, capillisque canis consperso. In omnibus gestis compositus, ut ex suo composito, & iucundo aspectu omnium animos in revertntiam flecteret.[26] Voi pertanto, siccome ogni altro credere non potrete che Lionardo pensasse giammai di fare al Duca Signore una sì stolta proposizione. Che però tutto il racconto della più volte mentovata aggiunta mettere si può ancor esso nel numero di quelle favolette, che per trattenimento si van raccontando ai fanciulli.”
Si scorge pertanto chiaro ed aperto quanto per ogni riflesso sia dal vero lontano, che nella faccia di Giuda sia stata da Leonardo tratteggiata la faccia del Priore importuno; e si scorge pure quanto poca fede si meritino tante relazioni stampate, le quali anzi che storie appellare si possono spiritose invenzioni. Se prima di dare alla pubblica luce la notizia d’alcun fatto, se ne cercassero i monumenti nelle originarie loro fonti, come usar dovrebbe ciascheduno scrittore, a cui la propria estimazion stia a cuore, non si vedrebbono pubblicati fin colle stampe tanti spropositi che ingannano gl’idioti, e fanno ridere i saggi, i quaali ben s’avveggono che certi autori più che da storici la fan da indovini; non volendosi poi credere che la facciano da impostori. Certamente che se il Giraldi, il Vasari, il Bottero, il Sig. de Piles, il Lacombe nel suo Dizionario storico delle belle arti, ed alcuni altri fatto avessero le opportune ricerche nei monumenti del Convento delle Grazie in cui trovasi la pittura, stati sarebbero nello scrivere più circospetti. Certi scrittori a mio avviso pareggiare si possono ai gazzettieri. Se le relazioni che avvanzano nelle effemeridi che danno alla luce, vengono loro da buoni canali, e son veritiere, riportano laude; se da cattivi, e son false risveglian disprezzo. Per simil guisa gli apportatori di qualche avvenimento, se pescato l’hanno da limpide fonti, riscuotono applauso; ma se da limacciose, ritraggon le beffe. La cagione poi per cui agevolmente si pubblicano delle relazioni anzi false che no, e fanno vista di storielle galanti, si è perchè avvien le più volte che o per bizzaria di un vago cervello che parla, o per mala intelligenza di un idiota che ascolta, si narra alcun fatto come avvenuto. Questo passa da bocca a bocca, e come un placido lago che da sasso percosso gl’increspamenti suoi d’uno in altro in assai distanza per cerchio dilata, si sparge all’intorno per tutto un intero paese, e si piglia per tradizione costante. Uno scrittore tenendola per tale la riferisce nel suo libro che pubblica; un altro lo ricopia da esso, questo da quello, e così d’uno in altro passando, e come suol dirsi de charta in papyrum, vien comunalmente creduta, e ciò ch’è favola, passa poi per istoria.
Un’altra ragione per cui sembra affatto improbabile che il Priore facesse istanza appo il Duca Lodovico, acciocchè Leonardo terminasse il Cenacolo, l’arreca il dotto Autore del più volte citato libro Nuova Guida di Milano: cioè perchè avendolo il valente Pittore compito in tre anni scarsi, non era poi questo un tempo prolisso per un opera così grande. Trascrivo le sue stesse parole poste alla pag. 332. da cui meglio si rileverà la sua mente. “Veniamo a più liete cose, a far vedere probabilmente quanto tempo abbia posto Lionardo in dipingerlo, onde conoscere se possa esser vera o no la storiella del Padre Priore, che lamentatosi con il Duca della lunghezza del Pittore, e fatta da esso lui querela a Lionardo, si sentisse dire non sapersi da esso ritrovare due fisonomie addattate al soggetto, quella di Cristo cioè, e l’altra di Giuda, e che per questa ultima poteva quasi servirsi di quella del P. Priore, come persona molesta ec, storiella stampata già da Gio. Battista Giraldi nel suo discorso sopra i romanzi, e addottata dal Vasari amante di spargere baie nelle sue vite per divertire i Lettori, e poi presa per oro contante da tutti gli altri, fuori di Mariette, che hanno scritto di Lionardo, e di questo Cenacolo.
“Siccome tutto s’appoggia sopra la lunghezza eccessiva del Vinci, così potendosi mostrare che sia fatta questa pittura in un tempo discreto, la storiella svanisce da se.
“Essendo il luogo del dipinto di Leonardo meno degno di quello, ove il Montorfano dipinse a fresco la Crocifissione, come si è detto, bisogna credere che il Vinci abbia fatta l’opera sua dopo quella dell’altro; poichè Lionardo avrebbe certatamente preso per se il sito migliore. Montorfano ha scritto nella sua pittura l’anno 1495. come abbiamo già indicato di sopra; e Fra Luca Pacioli amico di Lionardo nel suo libro della divina proporzione composto nel 1498. parla del Cenacolo come di cosa già finita, onde sembra che Lionardo non possa averci impiegato che tre anni scarsi.
“Un tal tempo non è certamente troppo lungo per un sì gran lavoro, massime fatto a olio; giacchè bisogna primieramente imprimere il muro, lasciarlo asciugare, abbozzare il dipinto, dargli tempo ch’esso pure si asciughi, e poi ridurlo al conveniente finimento. Il dipingere ad olio, tutto compreso, è il più lungo d’ogni altro. Scandagliato adunque il tempo per le suddette necessarie operazioni, i mesi freddi, ne’ quali difficilmente si lavora, gli studj sulla natura indispensabilissimi, chiunque ha cognizione pratica dell’arte, converrà con noi, che tre anni scarsi non sono quel tempo da movere un uomo savio e dotto, come sappiamo essere stato il Padre Bandelli, a ricorrere al Duca; e però dee tenere facilmente questo racconto per una di quelle galanti cose, con le quali il Vasari ha voluto avvivare l’opera sua, delle quali noi potremmo tessere un discreto catalogo mostrandone l’insussistenza, se l’oggetto di questo libro lo permettesse.”
Reputo quì superfluo lo stendermi più lungamente su questo punto; mentre poi il Giraldi essendo stato forse, e senza forse il primo che raccontò la storiella bizzarra del Priore importuno (dacchè il suo Discorso sopra i Romanzi venne stampato dal Giolito fino dal 1554.), la sua relazione fu poi buonamente dagli altri autori seguita; la qual però non può essere più improbabile, per non dire ridicola. Egli asserisce che Leonardo dopo aver terminata l’effigie di Cristo, e degli altri undici Apostoli, dipinse il corpo di Giuda sino alla testa, e che per più di un anno lo lasciò senza di essa, non essendosi mai recato al Convento per travagliare. Può egli fingersi cosa più inverisimil di questa? Come credere si potrà che Leonardo potesse pignere acconciamente il corpo di Giuda senza la testa, se il volto quello esser dovendo che ha ad esprimere quella passione o di amore, o d’ira, o di crudeltà che si vuol rappresentare, a tenor di esso si dee naturalmente atteggiare anche il corpo? Come credere che un tanto Pittore pennelleggiar dovesse una tant’opera, se prima non l’avesse tutta sul suo abbozzo delineata; il qual pur si sa che tutto compito e fatto a pastello trovasi di presente in Inghilterra nella Galleria Reale, siccome si è accennato? Come credere che Leonardo portandosi ogni giorno al Borghetto, luogo ove abitavano le persone più vili e malvage della città, per ritrovare una fisonomia acconcia ad esprimere il volto fellone di Giuda, e trattenendovisi per ben due ore; in un anno, e più non abbiala potuta mai rinvenire? E poi se Lodovico dopo la morte della sua Beatrice, ch’avvenne a 3. di Gennaio del 1497. recavasi due volte ogni giorno ad orar nella nostra Chiesa, e due volte per ciascuna settimana si traeva al Convento a pranzare, come meglio vedrassi, e Leonardo finita aveva la pittura nel 1498., come rilevasi dal Padre Luca Pacioli nel libro della Divina proportione; è egli probabile che in questo frattempo volesse egli starsene più di un anno senza portarsi per travagliare alle Grazie? Non doveva egli il Principe stesso, che ordinò la grand’opera, e che delle bell’arti era amator sì impegnato, veder da se medesimo questa mancanza lunghissima, e chiederne la cagione? E Leonardo anch’esso, uomo d’un animo sì ben fatto, che scorgeva il Duca cotanto inchinevole a favorir que’ buoni Religiosi, fia possibile che dare non si dovesse tutta la sollecitudine di secondar le premure d’un tanto suo Benefattore, da cui riceveva e onori distinti, e stipendi generosi? Creda pure chi vuole alla relazion Giraldiana, ch’io non me la ingozzo di certo. Se Messer Cristofaro padre, come lo dice il Giraldi stesso, gli ha narrata questa vaga storiella, ei l’avrà da buon messere creduta; e come sarà egli stato innocentemente ingannato, così divenuto sarà ingannatore innocente. Ma di ciò abbastanza.
Passiamo per ultimo a confutare un’altra ridevole diceria, cioè che nel ritoccamento che si è fatto della nostra pittura nel 1770. sia stato posto in mano a San Pietro il coltello, che prima non aveva; quasi agevole cosa fosse nell’opere de’ più insigni maestri farvi que’ cangiamenti, che ad un bizzarro pittore può suggerire il capriccio. Ma questa asserzione si dissipa tosto come nebbia al soffiare di un vento. Due sole volte, per quanto è a mia notizia, si è da’ pittori posta mano al Cenacolo; dal Bellotti la prima nell’anno 1726., il quale, come si è detto, ripulito lo ha e cavato fuori col suo segreto, ritoccando a punta di pennello i luoghi più guasti; la seconda da quell’altro innominato pittore, che si accinse per ristorarla nel 1770. Io mi ritrovava in quest’ultimo anno in Milano, ne ho veduto, o udito dire da persona veruna che quel Dipintore abbia posto in mano il coltello a San Pietro, quasi non l’avesse da prima; nè mi pare in conto alcun verisimile che la mano di questo impostolo avesse ad esser disposta in maniera da potervi adattare un coltello, senza cambiarla di molto. Quando non si volesse asserire essere stato questo notabile cambiamento di tutta la mano veracemente eseguito. Ma basta gittare uno sguardo benchè passaggero nella pittura per riconoscere di primo lancio la naturalezza del disegno ideato senza meno da Leonardo medesimo, che per esprimer San Pietro, il quale come tra gli Apostoli fu il più animoso, tagliò nell’orto di Getsemani l’orecchio ai servo del Principe de’ Sacerdoti, posto gli ha un coltello in mano; come a Giuda ha posto in mano la borsa per farnelo ravvisare per lo traditore fellone, che per trenta danari vendette il suo divino Maestro. Io certamente non posso non istupire che chiunque rimira, ed esamina con tutta attenzione e spassionatezza la nostra dipintura, non riconosca a pieno meriggio la natural posizione dell’armata mano dell’Apostolo Pietro, immaginata dallo stesso Leonardo.
Ma a che cercarne altre prove, se in tutte le più vetuste copie del Cenacolo vi ci si vede il coltello? Nell’antichissima ch’è dipinta a fresco sopra un gran muro nel Monistero di Castellazzo discosto circa due miglia da Milano, ch’è di ragione de’ Padri Gerolamini, e che secondo la tradizione che corre tra loro, è stata da Marco Uggioni discepolo del medesimo Leonardo dipinta, San Pietro collo atteggiamento affatto uguale a quel che vedesi nel nostro refettorio, ha nella rivoltata mano il coltello; come pure si vede nella copia in grande che trovasi pennclleggiata sul muro de’ Padri Minori Osservanti detti della Pace in Milano, ed in quella dipinta in tela che trovasi nell’Orfanotrofio di S. Pietro in Gessate; ed in un’altra antica fatta colla matita rossa, che nel Convento nostro conservasi. Così pure in un’altra copia dipinta sul legno ch’esiste presso di un nostro Padre che dilettasi di pittura, e la quale al solo vederla contar dee più di due’ cento anni, la destra di S. Pietro ha impugnato il coltello: come pure impugnato lo ha nell’accennata pregevole copia che in miniatura ha colorita il sopra lodato P. Abate Gallarati, e che trovasi di presente nel Palazzo Real di Torino. La copia eziandio che della nostra pittura ne fece fare col solo busto delle figure il soprannomato celebre Cardinale Federico Borromeo, e che fu nella Biblioteca Ambrosiana locata, rappresenta S. Pietro avente nella destra il coltello. Anche il celebre Padre D. Angelo Fumagalli Cisterciese, ed Abate dell’inclito Monistero di S. Amhrogio in Milano, letterato ben noto per la singolare sua erudizione, e per molti pregevoli libri dati alla pubblica luce, si è graziosamente compiaciuto di farmi vedere un’ antichissima copia del Cenacolo dipinta sulla pergamena, che trovasi nell’archivio, in cui conservasi la preziosa raccolta de’ monumenti spettanti alla diplomatica; ed il coltello si vede come nella nostra pittura in mano a San Pietro. Che più? Si mira esso pure manifestamente in quell’abbozzo della Cena che trovasi in Milano nella casa del chiarissimo Sig. D. Giuseppe Casati, che fu Re d’armi, il quale è antichissimo, ed è accennato dall’Autore medesimo nella Nuova Guida di Milano; onde od esso non fu veduto, o vedendosi non venne esaminato. A recar le molte parole in poche, in tutte le copie del Cenacolo, si in pittura, che incise in rame, armata scorgesi nettamente di San Pietro la mano: ed io strabilio al pensar come mai avvanzare si possano sbagli così manifesti. Prima di pubblicar colle stampe la notizia di qualche fatto, convien pesarlo colla maggiore esattezza sulle bilance della critica, e del buon senso, e cercarne i documenti più esatti: altrimenti scoprendosi o tosto o tardi lo inganno troppo supino, l’autore in vece di laude, biasimo ne riporta.
Sarebbe quì a dire alcuna cosa delle copie dell’insigne nostro dipinto, non dico già di quelle fatte a colori, che saranno moltissime, ma di quelle che in varj tempi vennero incise in rame. Ma siccome di tali cose dar non ne posso un accertato giudizio; anzi come rilevo dall’Autore della Nuova Guida di Milano, non v’ha forse copia d’incisore veruno che possa appellarsi perfetta, dicendosi pure nell’accennata lettera attribuita a Monsieur Mariette pag. 195. Lionardo ha avuta disgrazia, perchè ha dato sempre in intagliatori mediocri; però mi astengo dal favellarne; e tanto più che so con mio gran piacere (come lo accennai nell’avvertimento al Lettore) che dal celebratissimo Ferdinando iii. Gran Duca di Toscana, che degno Fratello è dell’Augusto clementissimo nostro Sovrano Francesco ii., e Nipote dell’inclito R. Arciduca Ferdinando Ces. Luogoten. e Govern. dell’Austriaca Lombardia, è già stata al valente Pittore il Sig Teodoro Matteini Pistoiese ordinata la copia di questo pezzo divino, acciocchè venga poi impressa in rame dal rinomatissimo incisore il Sig. Raffaello Morghen; onde quell’opera grande che non può essere che nel refettorio delle Grazie mirata, sarà per ogni dove veduta, se non in se medesima, almen nel suo disegno, e darà all’esimio suo Autore l’immortalità della fama.
Se i modelli del Cenacolo fatti da Leonardo a pastello, che vennero con grandissima nostra perdita traportati, come si è accennato, sino in Inghilterra, fossero tuttavia in Milano, avrebbe potuto il Sig. Matteini suddetto sul loro esemplare perfezionar la sua copia, senza que’ difetti che nella nostra pittura potessero essere mai avvenuti nel ritoccamento che di essa si è fatto. Ciò nulla ostante la perizia e sollecitudine del medesimo Dipintore nel riscontrare in altre copie tutto ciò che può condurre a perfezionare il suo lavoro, supplir potrà a qualsivoglia mancanza. Io bramosamente desidero che l’opera riesca a dovere, come non ne dubito punto, onde torni a maggior onore del gran Leonardo, a decoro del nostro Convento, a gloria dell’Italia, e ad eterna onorata memoria e de’ valenti Periti che hannola ad eseguire, e segnatamente del saggio Principe che l’ordinò; onde dir gli si possa ciò che al Serenissimo Cardinal Leopoldo di Toscana applicò l’antidetto Senator Filicaia in una sua Canzone:

Mentre avranno acqua i fiumi,
Ed ombra i monti, e signoria le stelle,
E moto i cieli, oltra le vie del sole
Fia, che’l gran nome tuo si stenda, e vole.

Reputo quì opportuno di avvertire il Lettore, che mentre sta per andar sotto il torchio l’ultimo foglio di questo mio libro (cioè circa la metà di Marzo) il Sig. Teodoro Matteini terminata ha la bellissima copia del Cenacolo, che incontra il pieno aggradimento di chiunque ne la rimira. Tra non guari tempo verrà spedita a Firenze, onde sia poi impressa in rame dal Sig. Raffaello Morghen; e non dubita punto che alla maestria del Pittore andrà di concerto quella pure dell’Incisore.





[1] Amos Cap. 7. vers. 14.
[2] Proverb. 13. vers. 4.
[3] Il Conte Gasparo Vimercati fu certamente prode nel mestier della guerra, mentre servito avendo per assai anni i Duchi di Milano in qualità di Generale dell’armi, trionfò de’ Francesi, e salvò la sua patria. Nel nostro Convento delle Grazie abbiamo un quadro grande, in cui si vede dipinto in piedi il Conte Gaspare innanzi ad un’immagine della Vergine, ed appiè della pittura si leggono scritte in caratteri majuscoli le seguenti parole: comiti gaspari vimercati militum generali gubernatori, cænobii hujus fundatori. hic patriam servavit, gallos subegit. fratres sanctæ mariæ gratiarum mediolani optimo benefactori.
[4] Il Vimercati al valore d’un capitano seppe unire, a dir così la pietà d’un monaco. In varj suoi ritratti ei si vede dipinto innanzi a qualche santa immagine. Nel mezzo de’ quartieri militari, ch’eran locati vicino al Castello, erger vi fece una picciola cappelletta a quel sito precisamente ove nella Chiesa delle Grazie vi è di presente l’altar del Rosario; la qual fabbrica non volle il Conte che fosse atterrata nella erezion del Convento, ovver della Chiesa. Ei fece dipignere un quadro rappresentante la Madre di Dio, sotto al cui spiegato mnnto vi ha fatto a mano diritta ritrarre ginnocchioni se stesso, alla sinistra la sua Moglie con tutti i suoi Figliuoli quinci e quindi ben distribuiti; ed è quel quadro stesso che si venera di presente all’altare medesimo del Rosario.
Si vuol per alcuni che questa pittura sia opera di Leonardo. Io l’ho fatta esaminare con tutta attenzione dal Sig. Teodoro Matteini di già nominato, il quale per la sua perizia nell’arte dare ben può un retto giudizio; e fidatamente ha pronunziato, lavoro non essere di quel valente Pittore: e mi sembra che il suo parere accordisi colla storia. In fatti io truovo nel celebre Tiraboschi (a cui per la vastissima sua erudizione ed esattezza tutta debbesi la credenza) che Leonardo nacque nel 1452. Il Convento delle Grazie si è sicuramente incominciato a fabbricare nel 1464., ed eran già due anni che i primi Padri spediti per istabilirvisi, alloggiavano in un sito graziosamente lor conceduto dal Conte Gasparo Vimercati: la Cappelleria era già stata da esso lui eretta prima dell’erezion del Convento, e già da qualche tempo vi era stata riposta l’effigie della Vergine: dunque se Leonardo stato fosse il dipintore del quadro, pinto lo avrebbe in età di circa otto anni, quanti se ne contano dal 52. al 60. in supposizione che la pittura fosse stata formata solo quattr’anni prima della fondazion del Convento. Che se poi la sacra Immagine esisteva 14. o 15. anni prima; com’è assai più probabile, mentre innanzi che i Padri Domenicani di Pavia venissero a stabilirsi in Milano, era già essa per le molte grazie che compartiva famosissima divenuta, come rilevasi dalle nostre memorie, Leonardo in tal caso non era ancor nato, Il perchè lo Scrittor Carlo Torre alla pag. 161., dice così. “Fu chi lasciò scritto essere la detta effigiata Vergine parto del pennello di Leonardo. Ma io non l’assicuro, temendo se ciò dicessi, di commettere un anacronismo.”
Che che ne sia del pittore che l’ha pennelleggiata, certa cosa eIla è che questa immagifne del Conte Gasparo e divenuta a que’ tempi così prodigiosa, ed operatrice di tante grazie, che concorrendo ad essa non solamente i Milanesi, ma tutte le genti circonvicine, fu stabilito nel Capitolo de’ Padri Domenicani della Congregazione di S. Apollinare celebrato in Ferrara nel 1465. che il nostro Convento, il qual nella sua fondazione appellato fu di S. Domenico, fosse poscia chiamato di Santa Maria delle Grazie; come tuttavia ne conserva la nomenclatura. Il nostro Padre Girolamo Gattico che nacque nel 1575. e morì nel 1645. scrive di questa immagine, a dir così, col cuor sulla penna, ed afferma che fino a suoi tempi era miracolosa e dispensatrice di assaissime grazie. Anzi attesta che prodigioso divenisse insin l’olio della lampana, che innanzi ad essa tenevasi accesa; ond’era per l’Italia tutta ricercato bramosamente.
Nè si avvisi già alcuno che questa credenza effetto fosse della babbuassaggine di qualche fanatico baciapile, o di alcuna pinzochera spigolistra. Fu quest’olio sì manifestamente miracoloso nella peste singolarmente, la qual desolò la nostra Milano nel 1630., e 1631. che la Città ordinò che si donasse all’altar della Vergine delle Grazie una ricca lampana d’argento, e si stabilisse un fondo a mantenervi l’olio, onde vi rimanesse perpetuamente accesa: e in testimonio delle guarigioni ottenute mercè di quest’olio medesimo, e della liberazion dal contagio, ne ha fatto incidere in marmo nero a dorati caratteri una iscrizione, che posta fu sopra le due colonne, che dividon l’ingresso nella Cappella del Rosario, la quale ognuno può recarsi nella nostra Chiesa a leggere di per sè, e che quì mi piace trascrivere.
d. o. m.
civitas . mediolanensis . peste
in . eam . immaniter
grassante . mdcxxx
et xxxi . experta
sospitale . oleum
lampadis . deiparæ
grati ar . eidem
argentea . lampade
quæ . coram . sacra
illius . effigie
semper . ardeat
grati . animi . sui
significationem
l ætabunda
persolvit . anno
reconciliationis
mdc. xxxii.
La Città di Milano memore de’ benefici che mercè dell’immagine delle Grazie ha dallla Vergine ricevuti, venne in ogni stagione a ricorrere ad essa nelle sue bisogne. Nel 1767. ai 3. di Luglio ha ordinato un solenne triduo al di Lei altare per impetrare la guarigione della clementissima Sovrana Maria Teresa di sempre amabile ricordanza; e nell’ultima sera v’intervenne il corpo dell’Ecc.ma Città, col Consiglio generale de’ 60. Decurioni, Sua Eccellenza il Sig. Conte Carlo di Firmian, e S. A. R. l’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este già destinata Sposa dell’inclito Arciduca d’Austria Ferdinando. E nel giorno 27. dello stesso mese la suddetta Ecc.ma Città ha fatto nella nostra Chiesa medesima cantare un solenne Te Deum in rendimento di grazie, a cui oltre i sopraddetti Personaggi volle intervenirvi S. A. S Francesco iii. Duca di Modena, gli Eccellentissimi Consultori, i Presidenti del Senato e del Magistrato con invito generale della Nobiltà tutta. Anche ultimamente nell’anno 1792. ha la Città stessa ordinato un triduo all’altar della Vergine delle Grazie, acciocchè sterminata venisse quella bestia feroce, che per le campagne del territorio Milanese molta strage faceva di fanciulli e fanciulle; ed eziandio in questo anno 1795. in cui scrivo questo mio opuscolo, nel mese di Novembre ne ha ingiunto un altro consimile per implorare l’intercessione della gran Madre di Dio, acciocchè si arresti il contagio che con assai danno serpeggiando va nelle bestie bovine: e provati se ne sono de’ favorevoli effetti.
Si narra pure dal medesimo Padre Gattico come storia certissima accennata sin nei registri de’ libri del Governo, che Don Ferrante Gonzaga primo Governator dello Staro di Milano sotto l’invittissimo Imper. Carlo v., abbattuto avendo tutte le torri, campanili, ed altri edifizj vicino al Castello, atterrare voleva eziandio la gran Cuppola delle Grazie: ma che l’intimorirono le minacce fatte di notte contro la Fortezza da buon numero di Angioli, quali con spade nude nelle mani veduti chiaramente dalle sentinelle fra luminoso splendore, cingevano e proteggevano la Tribuna (cioè la Cuppola) di questa Chiesa di Maria Vergine: del qual prodigio assicurato D. Ferrante Gonzaga, desistè dall’ideato atterramento, e nel giorno leguente si recò al tempio a visitare, ed umiliarci a quella santa Immagine.
Gli spiriti forti de’ nostri giorni tentennano il capo, e si beffano di questi prodigi, e dicon ch’eglino non han mai veduti miracoli; e che se ne venisse loro veduto alcuno, si ricrederebbono della loro incredulità. Ma io anzi dico colle parole di Cristo che non si ravvederebbero neppur se vedessero tornare da morte a vita un defunto: Neque si quis ex mortuis resurrexerit, credent. Son Cristiani rinnegati che vivon più dissoluti d’ogni più dissoluto gentile, e pretenderan che si facciano dei prodigj per convertirli? Ma da storico non passiamo a farla da missionario.
[5] Que’ primi buoni Religiosi che da Pavia vennero spediti a Milano per istabilirvi un Convento, avendo per la pietà di varj personaggi raccolta sufficiente quantità di danaro per far compera di un sito opportuno per fabbricarlo, e trovatolo ove ora si trova il nostro Convento, presentaronsi al Conte Gaspare Vimercati chiedendogli se a loro vendere lo volesse. Il Conte recatosi in aria anzi seria che no, rispose; no che non ve lo voglio vendere. Mortificati per questa risoluta risposta i supplici Religiosi stavano con mesta fronte e con ciglio dimesso per dipartirsi dalla sua presenza. Ma il Vimercati che di loro prender voleva un grazioso signorile trastullo, gl’interrogò se capita avevan li sua risposta. Replicaron eglino che pur troppo l’avevano intesa. Ripigliò il Conte con labbro ridente; no che non l’avete intesa. Vi ho detto che il sito non ve lo voglio vendere, perchè ve lo voglio donare, anzi voglio io stesso fabbricarvi il Convento, e la Chiesa; siccome fece.
[6] Destinato era questo sito per gli alloggi militari, a cui presedeva il Conte Gaspare Vimercati, il quale vi aveva anche un palazzo che li dominava.
[7] Questa Principessa dell’antichissima insigne Famiglia Estense, convien che dotata fosse di ottime qualità, onde venisse ad esser cara oltremmodo al suo Consorte Lodovico. Abbiamo in Convento un quadro grande che ce la rappresenta in un’aria dolcemente maestosa. La maestà del sembiante accoppiata alla gentilezza del tratto, se è propria di tutte le Principesse Italiane, segnatamente lo è di quelle dell’inclita Casa di Modena. Se Milano ammirò queste doti in una Beatrice Estense nel decimo quinto secolo, in un’altra Beatrice pure Estense le ammira nel nostro decimo ottavo.
Certamente che a Lodovico carissima fu la sua Beatrice, e tant’era la benevoglienza che le portava, che quantunque anche prima della sua morte, che gli riuscì tanto più amara quanto più inaspettata, ei riguardasse con occhio parziale il Convento delle Grazie, e di assai benefizi ricolmaselo per la bontà segnatamente di que’ Religiosi primieri (a), tra quali contavasi il Padre Giacomo Sestio da Milano, ch’essendo insino stato operatore di varj prodigi, gli venne da tutti gli scrittori contemporanei dato il titolò di Beato; pure dappoichè la defunta Principessa ebbe nella nostra Chiesa la tomba, e vide il Duca le cordiali rimostranze del più sensibile dispiacere de’ Padri, tanto crebbe l’amore del generoso Principe in ver di loro, e in tanta copia i suoi favori lor compartì, che il Padre Giorgio Rovegnatino ebbe a scrivere, che parve che il mare si scaricasse nel lor Convento, e d’ogni cosa la copia vi recasse. Tanto cœpit amore, tanta devotione affici, ut visum sic in nos se se mare effundere, omniumque rerum affittentiam invectare. In fatti egli stabilì due mila scudi d’oro annui per accrescere il numero de’ Religiosi, arricchì d’argenteria, e de’ più preziosi arredi la sagrestia da lui fatta ergere così magnifica; ordinò che prestamente si terminasse la gran Cuppola (b), opera del famoso Bramante, il cui lavoro erasi rallentato. Fabbricar fece nuovi dormentori, compir varie parti del Convento, dilatar l’orto, ed irrigarlo con fonte perenne. Donò a’ Padri con pubblico insrrumento il latifondio della Sforzesca con vari privilegi, e ragioni d’acque; e di tante grazie li colmò, che troppo lunga cosa sarebbe l’annoverare. Quello però, ch’è più rimarcabile si è, che dopo l’epoca infausta della morte della sua Sposa diletta Beatrice d’Este, come si è già detto, due volte per ciascun giorno si recava Lodovico alla nostra Chiesa ad orare, e ben due volte in ogni settimana, nel Martedì cioè e nel Sabbato amava di pranzare nel nostro Convento, e degnavasi di chiamare con seco a commensale il Priore ch’era il Padre Bandelli, ed il Padre Giovanni da Tortona che fu suo antecessor nella carica: Singulo quoque die mane, & vespere ad nos veniens, divinis intererat officìis, bisque in hebdomada feria scilicet tertia & sabbato apud nos morabatur, duos tantum semper ex fratribus Priorem & Fratrem Joannem, de quo supra, commensales habens. Così il Padre Rovegnatino nel Libro quarto della storia del Convento.
Egli è pur certo che questo generosissimo Principe stabilir voleva un’entrata bastevole, onde nel Convento delle Grazie mantener si potessero di continuo cento e più Religiosi. Nè dee di ciò essere gran maraviglia, giacchè sappiamo per le storie più incontrastabili, che Alfonso primo Re di Portogallo in riconoscenza della vittoria da lui riportata per le orazioni di S. Bernardo nella espugnazione della Fortezza di Scalabino posseduta dagli Infedeli, fondò a’ Padri Cisterciesi la famosissima Badía di Alcobazia, ed arricchitila di tanto, che popolata di sopra novecento Monaci da coro, cantavansi come lassù nell’Empireo in tutte le ore senza interruzione alcuna, le glorie di Dio: siccome lo dice il dotto Padre Abate Petrina nella storia che tesse del medesimo S Bernardo. Il nostro Padre Gattico attesta pure di avere inteso egli stesso da persona degna di fede, la quale affermava averlo udito da chi lo ascoltò dalla bocca medesima del Duca Lodovico, che questi aveva in pensiero di fabbricare ai Domenicani un convento così magnifico, che voleva si rendesse famoso per tutto il mondo. Non so però se nella fabbrica pareggiato avrebbe l’Escuriale di Madrid de’ Padri Gerolamini. Ma tutti i suoi fili troncolli la fatal sua prigionia avvenuta ai 10. d’Aprile nell’anno 1500. per la guerra che gli mosse la Francia.
Ed a proposito di questa prigionia mi piace quì esporre alcuni fatti, cui credo non sarà discaro al Leggitor di saperli; mentre forse in niun libro stampato si ritroveranno, e rinvengonsi nelle memorie del nostro archivio: cioè, che il Padre Gregorio Spanzoto Milanese, uomo di vita esemplare che prestò molto ajuto al Padre Stefano Seregni Domenicano esso pure, e religioso di molta scienza e pietà, che fu in Milano il fondatore del Luogo pio detto di Santa Corona, che a’ poveri della Città somministra e medici e medicine, predisse per lettera (con ispirito profetico certamente, mentre alla predizione corrispose l’evento), predisse, dissi, per lettera al Duca Lodovico che perduto avrebbe il dominio dello Stato di Milano. Lo fece però il Principe a se chiamare, ed egli francamente gli confermò in voce ciò che detto gli aveva in iscritto; ed i motivi gli espose per cui voleva l’Altissimo con questo gastigo punirlo.
Avendo poi per la venuta de’ Francesi dovuto il Duca fuggir da Milano, ed essendovi dopo alcuni mesi con gran giubbilo di tutto il popolo ritornato, egli ebbe per questo Religioso una somma venerazione; siccome lo riferisce lo stesso Padre Rovegnatino colle seguenti parole. Is etiam per literas Duci prænuntiavit amissionem Mediolanensis Imperii ... Eumque cum Princeps ad se evocasset, constantissime omnia confirmavit. Propter quod, cum post fugam Dux rediisset, in multa cum veneratione habuit.
Comunque però Lodovico avesse, dirò così, sentito il profeta, volle consultare eziandio l’astrologo; e stetti per dire, che come fece Saulle colla Pitonessa, sarebbe ricorso anche al mago. Poichè a que’ tempi era in voga l’astrologia giudiziaria, onde per ogni futuro avvenimento, a così esprimermi, si guardava l’oroscopo; e dai necessari movimenti ed incontri delle stelle e pianeti conghietturar si volevano le avventure libere degli uomini (scienza sciocchissima, se pure scienza appellar si può quella che nulla ha in se stessa di certo), eziandio il Duca Lodovico, per quantunque un uom fosse di spirito e di talento, inclinato era per questi genetliaci, ed altri divinatori, cui consultava per risaper l’esito della guerra, in cui era contro la Francia impegnato. Il detto Padre Rovegnatino asserisce, che aveva il Duca in sua corte un certo Ambrogio Rosatino, il quale da medico passò a farla eziandio da astrologo, e seppe così ben cattivarsi l’animo di questo Principe, che gli conferi l’onorato titolo di Conte. Costui ed altri indovini, quando videro attaccato da’ Francesi Lodovico, predissero secondo le astrologiche loro osservazioni, ch’egli avrebbe al principio avuta la mala sorte, ma che alla fin fine salito e’ sarebbe in fortuna maggiore. Ma il povero Principe che si trovava assai da’ suoi avversarj angustiato diceva; che le predette avverse cose le credeva, perchè le provava; ma che non sapeva poi se ad esse sarebbero succedute le prospere. Prima quidam vera credo, cum experiar; reliqua vero nescio an sint successura. A buon conto il medico astrologo quando vide da’ Francesi presa Alessandria, abbandonò da poltrone il suo benefattore e Signore, e se ne tornò di soppiatto a Milano. Narra pure lo stesso Scrittore, che gli astrologi a tenore di quello che indicavan loro le stelle, predetto avendo a Lodovico che dopo il giorno sei di Aprile le cose succedute gli sarebbero con tutta la desiderabile prosperità, nel giorno dieci dello stesso mese fu fatto prigione, e in Francia condotto: Verum cun post sextam Aprilis diem successura omnia Duci ex voto indubitata pollicitatione asseverarent (quod ad id usque temporis fluctuare res Ducis, corum itidem pronostico res visa fuerat, in reliquum vero examussim obsecundare fata, ac bona omnia expromiitere illi sidera sua) decima nihilominus ejusdem mensis die (vide inter summum bonum, & summum malum quam parva sit distantia) ab hoste prodentibus Svetiis numero septem millibus (heu fallaces Chaldæorum promissiones) una cum milite omni capitur Italico. Così il Padre Rovegnatino, a cui certamente si debbe tutta la fede, e perch’era un uomo di probità e dottrina, e perchè nello stessa anno 1500. in cui venne fatto prigioniere Lodovico, si ritrovava in Milano; onde saper poteva colla maggiore precision l’avvenuto. Era egli sì amante del vero, ed oculato nell’assicurare i fatti colle prove più certe, che nella storia che fa del Convento nostro, ingenuamente attesta di essere consapevole a se medesimo di non avere in nulla diminuita la verità, ed avere anzi il tutto provato co’ monumenti, i quali quando che sia si possono riscontrare; e che delle cose che dice se ne possono insino interrogare alcuni Padri che sopravvivono tuttavia; onde con queste parole il suo quarto libro conchiude: In qua quod rei gestæ veritatem minuere possit, nihil mi hi conscius sum, quod certe qui probare voluerint, habent adhuc unde hoc efficere possint. Nam & annales, & reliqua monumenta, ex quibus hæc decerpsimus, hactenus extant; & nonnulli Patrum, quorum temporibus, quæ narravimus plurima gesta sunt, adhuc supervivunt.
Un’altra cosa che relativamente alla mentovata guerra e prigionia voglio quì riferire si è, che nelle memorie più vetuste del nostro Convento troviamo, che Lodovico veggendo di dovere impiegare una grossissima somma di danaro per sostenersi contro i Francesi, richiese (come lo dice il Padre Gattico al capitolo nono della storia del nostro Convento) da tutte le chiese la loro argenteria, coll’obbligo di restituirla esattamente stabilita che fosse la pace. In fatti noi abbiamo nel nostro archivio il Consiglio de’ Padri tenuto il giorno 13. Marzo dell’anno 1500. in cui colla sottoscrizion particolare di ciascun religioso si attesta, ch’essendo stato da Lodovico Duca di Milano richiesto per mezzo dell’Arcivescovo Bari, e del Vescovo de la Tuada l’argento della Chiesa delle Grazie, tutti unanimamente i Padri memori de’ tanti suoi benefici a lor compartiti, stabiliron di darcelo, non sol con volonteroso animo, ma con cuore gioioso: Libenter, & hilariter ipsum conecsserunt sua Excellentiæ. Gli Ecclesiastici ch’esser debbono fedeli sudditi del loro Principe si presteranno mai sempre a sovvenirlo nelle sue bisogne coi tesori delle lor Chiese, come han fatto, lo fanno, e il faranno: e dovrebbero oggimai ricredersi certi, dirò così, politici spurj, i quali e colla lingua e colla penna vanno spargendo che povere si dovrebbero tener le Chiese. Le ricchezze dei templi come servono ad onore di Dio, così son coi dovuti riguardi come un deposito per le necessità del Sovrano.
L’anzidetto Padre Gattico lasciò scritto che gli argenti, che somministrar si dovevano per la continuazion della guerra, vennero poi destinati a riscattare il Duca Lodovico dalla sua prigionia: ma che al povero Principe fu dato il veleno. Se questa relazione è vera, vieppiù mi confermerei, che convien ben essere oculato nel credere alle storie che si danno alla luce. Nel Dizionario storico portatile stampato in Napoli nel 1755. al titolo di Luigi xii. Re di Francia si dice, ch’egli fece in Loches racchiudere Lodovico il Moro in una gabbia di ferro, ove morì dieci anni dopo senza aver potuto ottenere nè di scrivere nè di leggere. E per ispiegare come lo stesso Luigi, ch’era un Sovrano sì inclinato per l’umanità, che chiamato era Padre del popolo, abbia potuto usare questa, che per rispetto ad un Principe prigioniero di guerra poteva credersi una crudeltà, si risponde che questo rigore in un Monarca così dolce e così buono, fu considerato come un visibile gastigo di Dio. Che che ne sia però della relazione dello antidetto Dizionario portatile, la quale da altri scrittori, quanto alla gabbia di ferro, non trovasi confermata, s’io mi avessi a determinare, mi appiglierei a ciò che dice il Domenicano scrittore, che Lodovico cioè sia stato avvelenato (forse da chi potea aver dispiacere che ritornasse al possesso del suo dominio) e perchè il Padre Gattico nato essendo nel secolo decimosesto poteva per tradizione saper meglio l’avvenuto da non molto tempo; e perchè trattandosi delle cose dal Convento somministrate per la liberazione del Duca, poteva meglio nelle memorie del Convento medesimo ritrovarne i documenti, od averle intese anche per tradizione da’ Padri più vecchi. Egli certamente era persuaso che Lodovico morto sia per veleno, mentre al capitolo quindicesimo della sua storia torna a dire così. “Donò (il Duca) anco altri addobbi di seta, ed alcune cose d’argento, come si è detto; de’ quali fu la maggior parte a sua instanza rimandata per riscattarlo dalla captività; benchè recatogli il prezzo della liberazione, fu avvelenato.” Anche il Sig. Abate Serviliano Latuada accenna che nella morte di Lodovico si sospettò di veleno. Per altro quando mi si producessero altri monumenti più certi che Lodovico non sia stato con veleno tolto dal mondo, non avrei difficoltà veruna a cangiar d’openione.
Mi piace quì aggiugnere che in certi manuscritti in foglio volante dell’eruditissimo nostro Padre Maestro Monti più volte accennato, ne’ quali alcuni ve n’hanno concernenti a molte rare notizie estratte dal nostro archivio, che spediva al celebre Tiraboschi per la sua storia dell’Italiana letteratura, si trova che gli mandò anche questa; cioè che il rinomato storico Francesco Guicciardini si è ingannato dicendo che il Duca Lodovico morì in Loches dopo dieci anni di prigionia; mentr’egli finì di vivere nella città di Burges, dopo soli otto anni; siccome lo prova colla autorità di rinomati scrittori. Ecco le sue parole. “Ma tale prigionía non durò già dieci anni, essendo egli morto, secondo che dice Leandro Alberti nella sua descrizione d’Italia, nel 1508. nella città di Burges, nell’epoca della qual morte conviene Giacomo Mainoldi Gallerati nel suo opuscolo: De titulis Philippi Austri R. Catholici pag. 104. edit. Bonon. 1573.” Potrebbesi da ciò arguire ch’essendo falso che Lodovico sia stato sino alla sua morte strettamente racchiuso in Loches senza poter nè legger nè scrivere, e che stato sia trasferito nella città di Burges, abbia potuto benissimo pattuire la sua liberazione, e che poscia se gli sia il veleno apprestato.
Comunque sia, certamente che questo Principe fu assai sventurato; il quale se proseguiva ad esser Signore dello stato di Milano, fatto avrebbe assaissime cose degne d’eterna memoria. Egli era liberale assai, manieroso, gran parlatore, e delle belle arti protettore singolarissimo. Instituì nella nostra Città un’accademia di pittura ed architettura, per cui chiamò i due si celebri professori Leonardo e Bramante, sapendosi che al primo fissato avea 500. scudi annui di pensione. Anzi, come lo attesta l’eruditissimo Tiraboschi tom. vi. par. i. pag. 312 eresse una cattedra di matematica, per cui venir fece a Milano il Padre Luca Pacioli dell’Ordine de’ Minori, matematico rinomatissimo (c), il quale nel suo libro della Divina proportione, scritto in rozza lingua Italiana secondo que’ tempi afferma che questo Principe raccolta aveva una famosissima libreria; come si rileva dall’offerta che gli fece di questo suo libro medesimo, dicendo che glielo offriva a decoro ancora, e perfecto ornamento de la sua dignissima biblioteca de innumerabile moltitudine de volumi in ogni facultà, et doctrina adorna. Non si può certamente negare che Lodovico stato non sia un uom d’un gran genio, e che nella erezione del Lazzaretto, della Cuppola delle Grazie, del Monistero così rinomato di Santo Ambrogio de’ Padri Cisterciesi, nella costruzione di grandiosi canali ad irrigare segnatamente il territorio di Vigevano, dove nacque (d), ed in altre opere lasciato non abbia i segnali della più splendida magnificenza; come pure gli altri Duchi li lasciarono e nel Castello di Milano, e nell’Ospitale, e nel Duomo sì celebre, e nella Certosa di Pavia, e nei Castello una volta sì rinomato, e nella costruzion del canale detto della Martesana ec., ond’ebbe a dire il Tirabeschi più volte accennalo tom. vi. par. ii. pag. 386. “Que’ medesimi Principi, il cui dominio era ristretto in assai angusti confini, parea che volessero in ciò gareggiare co’ più potenti.”
Mi è piaciuto estendermi alcun poco nelle gesta di Lodovico il Moro, il quale stato essendo in un coll’inclita sua Consorte Beatrice d’Este benefattore singolarissimo del Convento di Santa Maria delle Grazie, di cui son figlio, egli è ben doveroso che gli dia qualche attestato di mia riconoscenza; come pure glielo dà tutto il Convento medesimo, il quale a suffragio del Duca stesso, e della Duchessa celebrar fa spontaneamente quattro anniversarj in ciascun anno, due in Milano e due alla Sforzesca; ch’è poi il maggiore attestato di gratitudine che si possa dare a un defunto.
(a) Che nel Convento nostro vi dimorassero dei Religiosi di una singolar probità, dottrina, zelo, schiettezza, e fratellevol concordia ec., Io attesta il medesimo Duca Lodovico in un suo Diploma, con cui confermò tutte le donazioni ad esso fatte, dicendo: Inter cæteros vero propensiori studio, & ampliori affectu complectimur Ordinis Prædicatorum fratres de observantia, qui præsertim degunt in Conventu Sanctæ Maria Gratiarum extra Portam Vercellinam Civitatis nostræ Mediolanensis, Experimur enim eos jam a pluribus annis viros Religione, sanctimonia, doctrina, sinceritate, pace, ac omni morum honestate pollere. Qui summo Deo omni devotione in Missarum celebritate, in divinis Officiis, ac sanctis ceremoniis, in assiduis orationibus, in studiis sacrarum litterarum, in jejuniis, vigiliis, paupertatis, ac pudicitiæ amore sine querela deserviunt. Eorum supplicationibus, quas pro nobis, ac universo dominio nostro incessanter ad Deum fundunt, confidimus plurimum adjuvari, Civitatem vero nostram, ac universum populum suis prædicationibus, monitis, consiliis, confessionum audientia, & exemplis salutaribus mirabiliter edificant. Quapropter hos peculiariter colimus, cum his assidue conversamur, illum sanctissimum locum, precipue ob devotionem ad Beatam Virginem Dei genitricem & Sanctum Dominicum semper frequentamus. E nello strumento di donazione che ci fece del tenimento della Sforzesca, il qual consegnò nelle mani del Padre Bandelli più volte nominato, arreca un’altra ragion particolare della sua propensione e benevolenza in ver di que’ Padri; cioè pei continui suffragi che prestavano alla Duchessa Beatrice d’Este amatissima sua Consorte, che seppellita venne nella lor Chiesa con tre altri suoi Figliuoli (siccome si è di già accennato), e per le assidue preghiere che all’Altissimo porgevano per la di lui prosperità, e perdono de’ falli suoi: Accessit ad augendum nostram in ipsum Ordinem benevolentiam, quod cum in prædicto Monasterio Illustriss. quon. D. Beatricis Ducissæ Mediolani Consortis nostræ charissimæ ossa requiescant, simulque Ill. quon. filiorum nostrorum corpora ad propitiandum eoruns animabus, Deum continuis Missarum & Officiorum suffragiis semper incumbunt, pariterque pro incolumitate, & rebus nostris ad impetrandum nobis a Deo optimo veniam, assiduas preces fundunt, proque anima nostra, cum hinc discesserimus, semper precaturi sunt. Di questa parzialità singolare ch’avea Lodovico pei Padri delle Grazie, frequenti se ne rinvengono nelle nostre memorie i documenti. La virtù ha mai sempre avuto una forte attrattiva per farsi rispettare ed amare; ed in ispecie da chi sortito avendo un animo grande, quant’è disposto a praticarnela, altrettanto è inclinato a proteggerla.
(b) Questa cuppola fatta a foggia di testudine, la quale interiormente ha un area quadrata al terreno, e si regge sopra quattro archi, che non si veggon legati da chiave veruna, è veracemente ammirabile; e per alcuni si vuole ch’essa sia stata la prima che con questa simmetria fosse innalzata nelle città d’Italia. Che l’architetto ne sia il famoso Bramante da Urbino, il Padre Maestro Monti si avvisa potersi singolarmente dedurre da un modello di legno di consimil figura ch’egli formò in Roma (ma che poi non fu eseguito) per la Basilica de’ Santi Apostoli Pietro e Paolo, il qual trovasi nel palazzo del Vaticano. Egli così si esprime in una postilla che fa alla relazione che dà del Padre Giovanni da Tortona, che fu il xv. Prior delle Grazie, nel di cui governo ai 29. Marzo del 1492. venne dall’Arcivescovo Guido Antonio Arcimboldo posta la prima pietra di questa gran fabbrica: Testudo hæc, quam nonnulli in nostris Italiæ Urbibus primum ædificatam asserunt, ab egregio viro Bramante Urbinate architectenicæ artis peritissimo erecta est. Cujus omnino simile exemplar ab eo Artifice ligneis tabulis expressum paratumque olim pro ædificio novæ Basilicæ SS. Apostolorum Petri & Pauli in Urbe, vidi ego in Palatio Vaticano. È dessa così bella e grandiosa, e così appaga l’occhio, che il più volte nominato Pittor Matteini mi disse nel vederla al di dentro, che sembravagli tanto mirabile questa Cuppola in linea di architettura, come il Cenacolo in linea di pittura. Il Duca Lodovico formar voleva tutta la Chiesa sul gusto di questo gran pezzo di fabbrica, e certamente riuscita sarebbe singolarissima,
(c) Il Pad. Pacioli fu ne’ matematici studj versatissimo. Di esso lui così lasciò scritto il Tiraboschi nella prima parte del Tom. vi. pag. 312. “In questo secolo ci si fa innanzi Fra Luca Pacioli da Borgo S. Sepolcro dell’Ordine de’ Minori, che in Aritmetica, in Algebra, e in Geometria scrisse, e divolgò più opere, le quali comunque oggi sieno dimenticate, chi nondimeno le esamina, non può non ammirare l’ingegno, e l’ardire del loro Autore, che s’inoltrò il primo enrro a sì vasto, e non ben conosciuto Regno.” Ed alla pag. 514. torna a dire così. “Essendo il Pacioli stato uno de’ primi ristoratori delle matematiche scienze, era ben conveniente ch’io cercassi di rischiarare con diligenza ciò che a lui appartiene.” Anche il ch. Ab. Ximenes dopo aver le opere del Pacioli assai commendate così conchiude. “Se dietro alle pedate di questo, e di altri Scrittori si fosse in Toscana continuata la scienza Analitica, inoltrandola più in là, come sarebbe stato agevolissimo, la Toscana avrebbe sola la gloria dell’invenzione dell’Arte Algebristica sì ben promossa in que’ tempi.” Se il suolo Toscano fu in ogni stagione de’ più bei Genj fecondo, uno di essi fu senza dubbio il Pacioli, il qual con immensa fatica nelle matematiche scienze s’immerse, come lo accenna esso stesso con rozzo stile nel lib. della Divina proportione alla pag. 31. dell’edizione del Paganino: “E a questo eflfecto a voi a qualumch altro mi son messo a trovare con grandissimi afanni e longhe vigilie le forme di tutti li 5. corpi regulari con altri loro dependenti e quelli posti in questa nostra opera con suoi canoni a farne più con debita lor proportione acio in epsi spechiandove mi rendo certo che voi a li vostri propositi li saprete acomodare.”
(d) L’erudito Sig. Canonico Matteo Gianoli nella pregevole sua opera che con pari fatica che esatezza diede alla luce nel 1795., e che ha per titolo: De Viglevano, & omnibus Episcopis &c. afferma che Lodovico il Moro nacque in Vigevano, dove i Duchi di Milano e per la salubrità dell’aria, e pel comodo della caccia si recavano a ricrearsi, e vi soggiornavano lungamente; come conghietturare si può dalle varie stimabili fabbriche ch’erger vi fecero, e sussistono tuttavia. Favellando poi della prigionia di Lodovico dice avere esso con forte animo sostenuta una tanta calamità, ed umilmente riconosciutala come ben dovuta a’suoi antichi trascorsi. Juvat hic referre ipsum virili prorsus animo tantam pertulisse calamitatem, eamque veteribus delictis humiliter agnovisse. Tom. i. pag. 35.
[8] Eran cotanto inclinati per la povertà religiosa que’ Padri primieri, i quali nel Convento stabilironsi delle Grazie, che pareva che la lor ristrettezza contrastasse coll’altrui magnificenza. Il Conte Gaspare Vimercati venne con esso lor tante fiate a grazioso litigio, che se stato non fosse un uom tanto pio com’era, poteva talora insin disgustarsi. Volevan eglino la Chiesa a soffitta, i dormentori coperti al di sotto di tavole, e le stanze e finestre angustissime. Tutto umile, tutto parco, tutto ristretto. Pareva che fossero Cappuccini prima che vi fossero i Cappuccini. Se il Conte suddetto ha voluto costruire il refettorio di quella grandezza in cui vedesi, si è perchè mandò segretamente a chiamare i suoi architetti, fece loro disegnare con magnificenza la fabbrica, e a dispetto, dirò così, della lor povertà ha voluto che s’innalzasse sulle disegnate grandiose misure. Anche la Chiesa, e i dormentori stati sarebbero assai più magnifici, se il buon Conte attemperato non si fosse alquanto al genio di que’ Religiosi, col far che si desse, come suol dirsi, un colpo al cerchio, l’altro alla botte.
[9] La pittura in ogni tempo fu riputata un ornamento de’ più singolari. Di quì è che i Duchi di Milano, ed altri ragguardevoli personaggi che piaciuti si sono di favorire, e distinguere il Convento delle Grazie, illustrato l’hanno coll’opere de’ più eccellenti pittori che alla loro stagione fiorissero. Bernardino Buttinone di Treviglio Castello illustre del Milanese, pittore di credito dipinto ha per ordine del Conte Gasparo Vimercati il quadro che pose all’altare maggior della Chiesa, prima che fosse fabbricata la Cuppola, e che ai tempi del Padre Gattico era stato collocato nel coro; il qual per alcuni si vuole esser quello ch’ora trovasi nella sagrestia: come pure pinse molte cose nella partita verso la Chiesa; e nella Chiesa medesima. Donato Montorfano Comasco, pittore anch’esso di credito, oltre la Crocifission del Salvatore nel refettorio, pennelleggiò le figure che si trovano alle finestre ed alla porta del Capitolo. L’impareggiabile Leonardo, oltre il famoso Cenacolo del refettorio, dipinse sul muro quella mezza luna ch’è posta sopra la porta della Chiesa al di fuori, la quale per essersi presto guastata, trovandosi esposta all’aria aperta, fu da’ Padri fatta copiare da Grazio Cossali Bresciano, pittore non dispregevole del decimo sesto secolo nel 1594- come nel nostro archivio si trovano gli attestati del pagamento, che fu di venti ducatoni: la qual copia fu poi trasferita interiormente sopra la porta della sagrestia, acciocchè la detta mezza luna al di sopra della porrà maggior della Chiesa fosse dipinta a fresco da Michel Angelo Bellotti. Gaudenzio Ferrari pittor celeberrimo dipinse il bellissimo quadro di S. Paolo che si vede al primo altare entrando in Chiesa a mano destra, come pure le mura della cappella che anticamente dicevasi della Corona. Tiziano poi, il cui nome è cotanto famoso, travaglio l’eccellente quadro della coronazione del Salvatore, che di presente ritrovasi nella gran cappella alla diritta dell’altar maggiore sotto la cuppola. Anche il San Paolo in piedi, o come dicesi predicante, dipinto da Gio. Pietro Gnocchi, che nella cappella ritrovasi della non mai abbastanza commendata Famiglia Borromea, ha il suo pregio, ed è ben conservato. Nel sepolcro che trovasi in questa stessa Cappella, in un colle ceneri che vi furono trasportate del Conte Giberto proavo di San Carlo, vennevi seppellito il Conte Giberto, Padre del medesimo grande Arcivescovo; e noi ci possiamo ben chiamar fortunati di avere il deposito di una così insigne Famiglia, che reca tanto lustro a Milano, ed a cui i Padri delle Grazie sono assai debitori; mentre dopo la fuga del Duca Lodovico pel timor de’ Francesi ha difeso con alcuni altri nostri benevoli il nostro Convento da una truppa di malviventi, che uniti si erano per saccheggiarlo, avendo i Padri già nascoste per la paura tutte le cose più preziose; come ce n’assicura il Padre Rovegnatino nel lib. iv. della sua storia: Verum defendentibus amicis, & præsertim Comitibus Borromæis, ac Francisco Quarterio, nihil dispendii passi sumus. Altre pitture di qualche stima si trovano appo noi, cui tralascio di annoverare; mentre ho inteso di fare in questo libro la storia di una sola, e non già di tutte.
[10] Fu il Padre Maestro Monti un religioso di uno studio e fatica indefessa, onde si arricchì d’una suppellettile di cognizion non volgari. Occupò egli per assai anni la carica di bibliotecario della nostra domestica libreria, e provveduta l’ha di buoni libri. Egli era amator passionato della storia più esatta del Convento delle Grazie, di cui era figlio, essendo dicevole l’erudirsi dapprima nelle cose proprie, poi nelle altrui: e non si faccia come certi saputelli de’ nostri giorni, che tutto si danno sul balbettar qualche lingua straniera, e trascurano l’Italiana lor propria; onde per parere come domestici nelle lingue forestiere, compaiono come forestieri nella domestica. Il nostro Monti iu tanto inchinevole per le cose del suo Convento, che scrisse parte in lingua latina, parte nella Toscana la serie di tutti i Priori del Convento delle Grazie, de’ suoi Scrittori, de’ primarj suoi Lettori teologi; come pure le notizie appartenenti alla Chiesa, cappelle, sepolcri, al Luogo pio detto di Santa Corona ec. La sua opera che nel suo genere si può dire compita, l’ha tutta trascritta benissimo di proprio pugno, e divisa in sei tomi benissimo distribuiti. Ei certamente può stare al pari coi Taegi, eoi Rovegnatini, coi Gattici, ed altri Scrittori del nostro Convento. Passò all’altra vita nel 1785.
[11] Tutti quasi gli Autori che scritto han di Leonardo, lo esaltano come un uomo divino dato dal cielo a vantaggio delle bell’arti segnatamente. Nacque egli nel 1452. in Vinci Castello del Valdarno di sotto non molto lungi da Firenze; onde dal nome della patria si è fatto come un cognome alla persona, chiamandosi assolutamente anche il Vinci. “Fin da suoi primi anni (dice il Tiraboschi tom. vi. par. ii. pag. 410.) cominciò a balenare in lui quel vivacissimo ingegno, di cui diè poscia sì grandi prove. Pareva che il disegno lo allettasse sopra ogni cosa, e perciò dal padre fu posto alla scuola di Andrea Verrocchio, pittore illustre a que’ tempi, il quale al vedere i primi abbozzi di Leonardo, rimase attonito per maravi glia. La scultura, la pittura, l’architettura, la geometria, la meccanica, l’idrostatica, la musica, la poesia furon quasi ad un tempo l’oggetto degli Studj di Leonardo; e mentre ogni altro sarebbesi riputato felice giugnendo ad ottenere la perfezione in alcuna di queste scienze, egli fu in tutte eccellente ... A questo si penetrante ingegno congiungevasi in Leonardo la bellezza del volto, la grazia del favellare, la soavità del tratto, talchè egli era l’oggetto della maraviglia, e dell’amore di tutti.” Il Moreri nel suo gran Dizionario istorico dice che dotato era pur di tal forza, che colle sue mani piegava, e torceva un ferro di cavallo come se fosse stato di piombo: il etoit si fort ... qu’il plioit le fer d’un cheval, fomme si ce n’eût ètè que du plomb. Che che ne sia però della forza del suo corpo, egli è certo che nel vigor dello spirito era singolarissimo. Tra l’altre sue invenzioni è celebre quel leone che congegnò nell’occasion delle feste che si fecero nella Città di Milano per l’ingresso di Luigi xii. Re di Francia (o com’altri dicono Lodovico), il qual dopo aver fatti alcuni passi verso il Sovrano, aprì il petto, e mostrollo pieno di gigli, stemma de’ Monar.chi Francesi. Tralascio quì di far menzione delle eccellenti sue opere, di cui pienamente, ne parlano gli Scrittori della sua vita. Per avere un saggio dell’abilità di questo grand’uomo, basta vedere i dodici libri comperati dal Conte Galeazzo Arconati circa il 1637., e da esso lui regalati alla Biblioteca Ambrosiana, in cui gli si è innalzata una lapide con un’onorevole iscrizione in perpetuo testimonio della sua liberalità eziandio, onde ricusò insino tre mila doppie che il Re d’Inghilterra gli esibì per un solo, Essi libri contengono delle figure spettanti alla pittura, all’architettura, alla meccanica, alla anatomia, ed altre cose che vennero disegnate da Leonardo medesimo colle spiegazioni scritte pure di proprio pugno; ma secondo il suo stile consueto a rovescio; vale a dire dalla destra alla sinistra. Egli portossi a Parigi, dove gravemente poi s’infermò; e degnato essendosi Francesco i. di visitarlo, fu sorpreso da mortal parosismo, e morì tra le braccia di quel Monarca, che accorse per dargli ajuto, com’è ben noto per tutte le storie. Comunque però stato sia per Leonardo un singolar vanto lo spirar nelle mani d’un Re così grande, al Mariette però maggior sembra quest’altro, che Michelagnolo cioè, e Raffaello, que’ due celebratissimi uomini sieno a lui in parte debitori di quella gloria che s’acquistarono per lo studio che fatto hanno sulle sue opere: il primo perchè s’appropriò quella sua maniera terribile di disegnare; il secondo perchè ha preso da lui quella grazia quasi divina, che guadagna i cuori. Che grande elogio, dice però il Mariette, è questo di Lionardo? Nè il vantaggio d’essere vissuto accarezzato e stimato da tutti i personaggi di distinzione, nè l’onore di essere spirato nelle braccia di un gran Re, non sono da paragonarsi con esso.
[12] Horat. Serm. lib. 2. Sat. viii.
[13] Gio. Paolo Lomazzo. Idea del tempio della Pittura pag. 114, in Milano 1590.
[14] Paolo Pino. Dialogo di pittura. In Venezia 1548.
[15] La copia che il Padre Abate Gallarati fatto ha del nostro Cenacolo in miniatura (per la quale egli ha sempre avuto una grandissima inclinazione) è bella e singolare veracemente, e per l’esattezza onde fu eseguita, e per la sua grandezza straordinaria di cinque palmi Romani in lunghezza, e tre in altezza. Di questo savio Padre Abate se ne parla con lode dal celebre Giorgio Sulzer nel suo Giornale stampato in Lipsia nel 1771., e nel Giornale di Rema 1776., e dal dottissimo Tiraboschi nella sua Storia letteraria. Certamente ch’egli si è tra i miniatori distinto, dacchè oltre il lavorare in grande, ha pure la particolarità d’imitare con tratti e punta di pennello il colorito a olio de’ più valenti Maestri. Tra varj altri suoi lavori. egli sì è distinto nel ricopiare la rara opera di Raffaello detta la Madonna della Seggiola, ed una testa di San Giovanni Battista grande quasi al naturale, lumeggiata d’oro; la quale si rende singolare pel tuono del colore, poichè apparisce come se fosse lavorata già da due o tre secoli. Queste opere con alcune altre si è recato a dovere di presentare alla Corte Real di Torino, la quale riguardato mai sempre lo ha con occhio di una singolar degnazione. Egli compone un’opera attualmente, che ha per titolo: Elementi di pittura teorico-pratici, nella quale sonovi le teorie congiunte alla pratica, e vi si veggano diversi stili di pittura di diverse scuole. Quest’opera terminata che sarà non potrà non piacere agli amatori delle bell’arti.
[16] Vincenzo da Filicaia Senator Ferentino. Canzone in occasione della sconfitta dell’esercito Turchesco, e della caduta di Neühaüsel.
[17] Fu il Padre Maestro Galloni dilettante assai di pittura, e nell’impasto de’ colori ebbe il suo pregio; come si può rilevare da un quadro, che pose all’altar della Vergine nella Chiesa del nostro Convento della Città di Ascoli, dove fu Priore. Egli era pure nelle meccaniche cose ingegnosissimo, e giovò molto colla sua direzione, e coll’ajuto di Fra Angelo Boggio uomo savio, e di molta abilità in ispecie per la direzione dell’acque, alla costruzione di un pezzo di nuovo cavo del Naviglio detto Sforzesco, che in certi siti è di una profondità considerabile; il quale con un dispendio immenso si è dovuto formare nel 1774., essendo io Priore, per una piena del Ticino, che corrose e precipitò una costa di terra, su cui all’alto scorreva. Dimostrò questo Padre una particolare abilità eziandio nella derivazione e conducimento dell’acque, onde fece costruir nuovi cavi, irrigò nuove terre, e recò all’agricoltura un non mediocre profitto.
In ogni stagione v’ebbero de’ Regolari, che alla società apportaron vantaggi grandissimi, e quantunque la precipua loro incombenza ella sia di giovare i popoli nelle spirituali cose; pure apportarono ed apportali loro assai vantaggi eziandio nelle temporali. Il Vasari arreca quasi una dozzina di Domenicani, che si distinsero nella pittura, e nell’architettura; oltre alcuni altri che da altri autori son nominati. Ma per non particolareggiare, e dimostrar di volere esaltare il mio proprio Istituto, ed anzi generalmente parlare; converrebb’essere nella storia ben digiuno per non riconoscere quanto i Monaci primamente, poi gli altri Claustrali abbian giovato all’agricoltura, alla irrigazion delle terre, alla direzione dell’acque, alla meccanica, alla matematica, alla astronomia, alla storia, ed a tutte generalmente le scienze. Son piene zeppe le biblioteche di volumi dati alla luce da’ Religiosi di varj Ordini in ogni gener di cose. Certamente che se il mondo è in quella luce in cui trovasi, n’è debitore in gran parte agli Alunni del Chiostro. Certi scrittori delusi, che ne’ loro libercoli dipingono co’ più svantaggiosi colori i Claustrali, onde vengano, se possibil fosse, rasi dal mondo; e che da loro avranno anco succhiato il latte, e giovati sarannosi delle loro opere; ben dir si può con una parità di quell’insigne Oratore, che detto fu il Cicerone Cristiano, che facciano come certi muli, che dopo aversi divorata la biada, dan d’un calcio nel vaglio.
[18] Il Padre Giorgio Rovegnatino detto Domenicano in un Dialogo che tenne col Padre Ambrogio Taegio sulle calamità che accompagnarono la prigionia del Duca Lodovico, e che si trovava in Milano nel 1500., cioè due o tre anni dopo che fu terminato il Cenacolo, attesta che tal’era la sua maestria e bellezza, che assai persone, le quali traevansi a rimirarlo, per moltissime ore tenendo in esso fiso lo sguardo, pareva non sapessero distaccarvelo: Quæ vero in refectionis domo ipsius (Ludovici) pariter jussu Apostolorum tabula depicta est, quam multorum per longissimas horas defixit obtutus?
[19] Infra i tredici errori che in Aristorile si avvisa di aver rinvenuto il Burnezio, uno dice esser quello di aver posta immobile nel centro dell’universo la terra. Ma se a questo Filosofo l’immobilità del globo terraqueo sembra un errore, ad altri sembrar potrebbe un errore la sua mobilità, contrario alla ragione non meno che alla rivelazione. Il Newtoniano sistema pare a taluni, ed a me pure, più ingegnoso che vero. Chi sa che non mi risolva a scriver su ciò qualche cosa.
[20] Nella sua raccolta de’ detti memorabili di Personaggi illustri stampata in Brescia l’anno 1610, da Bartolommeo Fontana pag. 204.
[21] Vedi le ultime note fatte alla vita di Lionardo stampata nel secondo tomo del Vasari nell’edizione di Roma l’anno 1759., ed unite alla suddetta vita di Lionardo alla pag. 19. e 20, in cui si ha tutto intero il racconto del fatto descritto dallo stesso Giraldi nel suo discorso sopra i Romanzi.
[22] Questi esemplari, che dipinti erano, come dicesi a pastello, ed insieme uniti rappresentavano l’intero Celacolo, sono ora passati nella Galleria di S. M. Britannica.
[23] Che il P. M. Bandelli governasse in qualità di Priore questo nostro Convento dall’anno 1495, fino quasi al termine del 1500, si ha dall’istoria ms. dello stesso Convento scritta dal P. Giorgio Rovegnatino autore contemporaneo, il quale nel suo Dialogo fatto col P. Ambrogio Taegio sopra le vicende allora avvenute a questa nostra Patria, nota precisamente che la prigionia del Duca presso Novara accadde ai 10. Aprile 1500. Questo dialogo manuscritto colla storia suddetta trovasi nella libreria del Convento.
[24] Padre Giorgio Rovegnatino. Istoria del Convento.
[25] Leandro Alberti De viris illus. Ord, Præd. pag. 47.
[26] Oltre questo testimonio di Leandro Alberti recato dal Padre Monti, ed i ritratti che conservansi e in Milano e alla Sforzesca, che dimostrano essere stato il Padre Bandelli un uomo di maestoso e amabile aspetto, può rilevare eziandio da un busto di marmo bianco che gli ha fatto ergere sulla scala maggiore del Convento delle Grazie il P. Maestro Bonaventura Boldi suo com patriota circa l’anno 1726., sotto di cui vi sta presentemente incisa in marmo nero a dorati caratteri la seguente iscrizione, che ciascuno può recarsi a leggere a suo bell’agio.
fr. vincentto bandello
de castro novo ad iriam
ordinis prædicatorvm generali magtstro
lvdovico mariæ sfortiæ mediol. dvci
apprime caro
pietate prvdentia scriptis clarissimo
hvivs coenobii alvmno hinc præfecto
fratres sanctæ mariæ gratiarvm
viro emeritissimo
p.
Era il Bandelli sì beneviso al Duca Lodovico, che questi parea non si sapesse saziare di favellar con quello, e sovente lo consultava ne’ suoi affari più gravi; come lo attesta il nostro Padre Ambrogio Taegio, che fu loro coetaneo, e che con immensa fatica gli annali ha compilato di tutto l’Ordine Domenicano, che in sei tomi in foglio manuscritti si conservano nella libreria del Convento. Eo in tempore, così di lui parla, ob ejus sanctimoniam, prudemiam, solertiam, modestiam, & doctrinam Ludovico Mediolanensium Duci in tantum carus fuit, ut vix de verbis ejus satiari posset. In agendis ejus ut plurimum utebatur consilio.
Il Padre Giorgio Rovegnatino nel lib. 4. della storia del nostro Convento attesta, che dopo la prigionia di Lodovico il Moro impadronitisi di Milano i Francesi, il Padre Priore Vincenzo Bandelli colla sua graziosità e buone maniere gli affezionò al nostro Convento poco meno che affezionato gli fosse il Duca medesimo; onde lo favoriron mai sempre per ogni migliore maniera: Verum cum Galli capto Duce, divino judicio, redissent, rursum tanta apud illos gratia se habuit Venerandus Prior Fr. Vincentius, ut non minus fere nobis affici cæperint, quam Dux ipse fuerat; unde & favoribus & elemosynis in hanc diem non parum propitios eos sentimus. Ho voluto estendermi alcun poco sulla amabilità prudenza e buona grazia del P. Bandelli, pel quale anche Leonardo ch’era d’un animo sì bennato avuto avrà naturalmente tutta la stima e il rispetto, per rendere sempre più improbabile che neppur per ischerzo potasse questo bravo Pittore dire a Lodovico che la faccia di questo Priore poteva prendersi per modello della faccia di Giuda.