Gli scritti alla base del redditizio mito del Genio Universale, così come in originale, rispettandone difformità e usi tipografici dell'epoca - ricordando quel che di lui scrisse il Cardano in Expositio Anatomiae Mundini, 1663, p. 131: “Vidimus et ichnographiam Leonardi Florentini pictoris manu descriptam, pulchram sane et tam celebri artifice dignam, sed prorsus inutilem: quod eius esset qui nec numerum intestinorum nosceret. Erat enim purus pictor non medicus nec philosophus”.
domenica 31 agosto 2014
1812 - VERRI, Sul Cenacolo vinciano
NB : I Libri quattro DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI DI GIUSEPPE BOSSI
si leggono qui:
https://independent.academia.edu/GiancarloMauri
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sabato 30 agosto 2014
1991 - BIANCHESSI, Sul Cenacolo vinciano
C’era una volta il Cenacolo
Due denunce alla magistratura - una dell’ex-consigliere
comunale Maria Bonatti, l’altra della Lega Ambiente - stanno per la prima volta
rompendo il muro di silenzio che da anni circonda un dramma della cultura
milanese: il restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Il turista che ci capita
trascinato dalle guide quasi per caso resta deluso davanti al capolavoro
illeggibile, disastrato e rappezzato come un patchwork. Ma probabilmente illuso
dalle impalcature e dagli attrezzi scenograficamente disposti attorno ai piedi
del dipinto: qualcosa, pensa, stanno facendo, prima o poi il Cenacolo tornerà
al suo splendore. Ma chi conosce il Cenacolo e la storia del suo restauro,
quando torna lì, davanti a quella parete, è preso dallo sconforto. E dalla
rabbia. Per quella specie di sfregio verticale, di cicatrice, che non è né
sfregio né cicatrice, ma un semplice confine: il limite tra la vita del dipinto
e la sua morte.
Coinquilino del Cenacolo, nel
senso che vive nello stesso edificio, con l’incarico di conservatore dell’opera,
è un lucido ottuagenario che è stato soprintendente e ha diretto importanti
restauri in Lombardia e in altre parti d’Italia, l’architetto Gisberto
Martelli. Basta leggere quanto ha scritto, o andare a parlargli, per scoprire
come stanno le cose: “Il restauro è ormai fermo da tre anni. La restauratrice,
Pinin Brambilla, ha ancora il suo studio a Santa Maria delle Grazie, ma ormai
lavora ad altre opere affidatele dalla Soprintendenza e non viene nemmeno più.
Soltanto quando viene annunciata la visita di qualche autorità, lei e i suoi
collaboratori infilano il camice e salgono sull’impalcatura. Ma è solo scena.
La verità è semplice: non è più possibile restaurare oltre. Procedendo in
questo modo, non resterà che la nuda parete”.
Siamo dunque sull’orlo di un
abisso. E di un disastro senza precedenti. Come se per consolidare la torre di
Pisa si decidesse di demolirne metà. Imprevidenza? No, una scelta deliberata.
Perché tutto era stato previsto e scritto con chiarezza e lucidità. Molto prima
di quando, nel 1978, l’allora soprintendente Carlo Bertelli diede il via al
restauro. Quasi tre secoli fa, all’inizio del Settecento, il pittore inglese
Jonathan Richardson - che esaminò il Cenacolo prima di una serie di restauri -
scrisse: “Il dipinto è oltremodo rovinato e tutti gli Apostoli alla destra del
Cristo sono completamente cancellati; Cristo e coloro che stanno alla sua
sinistra si vedono abbastanza bene, ma i colori sono alquanto sbiaditi e in
molti punti è rimasto il nudo muro; la figura che incrocia le mani sul petto è
quella meglio conservata e ha un’espressione meravigliosa”.
C’è da rabbrividire: è la
puntuale descrizione di quanto il restauro ha riportato alla luce nei primi
anni di lavoro - eliminando di fatto le ripitture sovrapposte all’originale dal
Settecento in poi - e di quanto ora minaccia di distruggere. A cavallo della
frontiera tra la Cena bianca e la Cena nera, c’è la testa del Cristo, che all’artista
inglese era apparsa “parzialmente intatta”. E infatti le ultime fasi del
restauro ne hanno riportato alla luce alcuni tratti originari.
Come si sa, la tecnica adoperata
da Leonardo per la Cena (non l’affresco ma la tempera e in parte l’olio
direttamente sul muro) è stata la prima causa della rovina del dipinto, che
aveva cominciato a guastarsi molto presto. Dopo che Richardson descrisse il
Cenacolo come era visibile alla sua epoca, intervennero massicci restauri che
consistettero nel ridipingere le parti scomparse: quello del Belletti nel 1726,
del Mazza nel 1780, del Barezzi nel 1821, e altri ancora. Sono loro che ci
hanno tramandato il Cenacolo nella sua interezza, e così come ci era sempre
apparso, fino al restauro del Pelliccioli negli anni ’50, che si limitò a una
ripulitura e a un consolidamento.
La decisione di strappare via
tutto quanto non era stato dipinto direttamente dal pennello di Leonardo fu
presa da Bertelli, che si guardò bene, però, dal chiarire pubblicamente che
cosa avrebbe significato un intervento tanto radicale. E non sentì il bisogno
di chiedere un consenso prima di iniziare. Anzi, nelle interviste ai giornali
italiani dichiarò sempre che presto il Cenacolo sarebbe tornato tutto intero
come nuovo.
Nel 1980, Bertelli (che si dimise
poco dopo) promise il completamento del lavoro “entro tre anni”. Ne sono passati
più di dieci e mancano ancora due terzi dell’opera.
Nel 1983, lo studioso (e anche
lui ex-soprintendente) Cesare Brandi chiarì la teoria della “costellazione”: i
resti originari del Cenacolo erano pochi e sparsi frammenti di pittura che -se
riportati alla luce - si potevano collegare gli uni agli altri solo con delle
linee di disegno. E una volta, una sola, Bertelli, nel novembre di quello
stesso anno, ammise di avere sempre saputo che cosa sarebbe successo: ma lo
fece a un giornale americano, la rivista National Geographic. Spiegò che la sua intenzione era precisamente
quella di avere poco Cenacolo ma tutto autentico. “Non importa se andrà perduta
una parte, a me interessa recuperare la pittura di Leonardo”. È la
rivendicazione dell’assassinio del Cenacolo, quel Cenacolo che conoscevamo e
che il mondo custodiva con affetto (l’Unesco, che lo proclamò patrimonio dell’umanità,
non è tuttavia mai intervenuta nella vicenda del restauro). Abbiamo, in cambio,
un Cenacolo puro ma dimezzato.
Bertelli, dopo di allora, non ha
più voluto parlare. La restauratrice tace anche lei, e del resto la sua parte è
stata soltanto quella di eseguire il lavoro che le era stato assegnato dalla
Soprintendenza.
L’attuale soprintendente, Rosalba
Tardito, che ha ereditato da Bertelli la patata bollente, ha scritto in un
articolo che “anche nella parte sinistra sarà possibile rintracciare e
recuperare alla lettura altri brani originali del capolavoro di Leonardo”. Ma
quanti? Di quali dimensioni? E quando proseguirà il restauro? Le denunce, in
realtà, non serviranno a salvare il Cenacolo. E forse nemmeno a punire i
responsabili. Perché nulla è imputabile a Bertelli, che ha soltanto scelto una
tecnica di restauro: ne ha taciuto le conseguenze, ma per la legge non è reato.
Niente, a maggior ragione, può essere attribuito alla restauratrice: ha
soltanto fatto il suo mestiere, e a regola d’arte.
Possiamo invocare una sola cosa:
che si ponga fine alle sofferenze del Cenacolo e si stacchi la spina del
restauro. Si potrà discutere se pulire la parte scura per renderla meno
dissonante o lasciarla così per ricordare com’era oppure, al limite, procedere
a fondo con la stessa tecnica fino a cancellarla e affidando alle fotografie la
memoria del dipinto intero. Ma questa agonia che dura ormai da quasi tredici
anni deve avere fine. Se alternative serie non ce ne sono, basta, è inutile
fingere, è scandaloso insistere per salvare la faccia di qualcuno. Il Cenacolo
nel polmone artificiale non lo sopportiamo più.
Federico Bianchessi
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1983 - BERTELLI, Sul Cenacolo vinciano
Benché il Cenacolo di Leonardo sia una delle opere d’arte più
famose al mondo, fu assai presto conosciuto attraverso le copie più che nella
visione diretta, e questa finì con l’essere condizionata sempre più dalle copie
man mano che il capolavoro deperiva o era offuscato da successive ridipinture.
A una data assai precoce dovettero circolare fra gli artisti copie parziali
tratte dai cartoni che aveva preparato lo stesso Leonardo. Una vetrata nel
duomo di Milano, eseguita pochi anni dopo il compimento del dipinto, e dove è
rappresentata l’Ultima Cena, raccoglie e riunisce
motivi sparsi delle teste e degli atteggiamenti degli Apostoli per ricomporli
entro uno schema tradizionale che tiene assai poco conto delle innovazioni compositive
della scena come era stata concepita da Leonardo. Queste citazioni parziali
dall’opera ebbero tuttavia un’importanza grandissima per la pittura nell’Italia
Settentrionale. I dipinti veneziani, di ambito giorgionesco o tizianesco, con
mezze figure dalle espressioni intense e appassionate, mostrano in più
occasioni di derivare da un tipo di cartoni in cui i personaggi di Leonardo
sono copiati due a due, definendo con precisione l’uno e lasciando all’altro la
funzione d’introduzione spaziale, quasi di coulisse. Un dipinto
giorgionesco con Sansone deriso, nella collezione di
Laura Rossi Mattioli a Milano, offre una derivazione diretta dalla testa di San
Taddeo nel Cenacolo; lo stesso Bravo di Tiziano, al Kunsthistorisches Museum di
Vienna, impiega il modello del San Pietro nel Cenacolo,
con il “passo” difficile della mano mancina che estrae dal fodero un coltello
legato dietro la schiena. Persino una di
Paolo
Veronese, nello stesso museo, appare ispirata al gesto dell’apostolo Filippo
nella Cena; ed è tanto più
notevole che in questi ultimi casi si tratti di dipinti di argomento romano (Il Bravo è stato identificato da P. Richter con un
dipinto raffigurante Claudio Luscio che aggredisce
Celio Pozio,
indicato dal conoscitore Ridolfi nel ’600), poiché ciò dimostra come i
contemporanei percepissero nella Cena
di Leonardo
un’urgenza drammatica non confessionale, profondamente e altamente umana, come parve
poi anche a un interprete acuto come Wolfgang Goethe. Invero la storia delle
copie parziali dal Cenacolo è assai lunga e
meriterebbe uno studio a parte.
Uno
dei loro approdi è un’incisione di William Hogarth che possiamo considerare
come il suo testamento, poiché, apprendiamo dall’editore, “He worked upon it the
Day before his Death”. Il gruppo di teste inciso al di sopra della scena
intitolata The Bench, e che lo stesso
editore considerava non finito, intende illustrare il differente significato
delle parole Character, Caracatura and Outré partendo dall’esempio
delle teste degli Apostoli di Leonardo, considerate come esempi di Character (“when a Character is strongly mark’d in the
living Face, it may he considered an Index of the mind, to express which with
any degree of justness in Painting, requires the utmost Efforts of a great
Master”). Era l’anno 1764 ed è possibile che Hogarth avesse veduto la serie di
disegni dal Cenacolo che dall’Inghilterra è
approdata al museo di Strasburgo.
Sono
disegni tracciati su grandi fogli che in un certo tempo furono piegati in due
come a formare un quaderno; successivamente furono incollati su un foglio di
rifodero e più volte ritoccati e colorati. Anche queste tracce d’uso sono
indizi dell’importanza che era loro attribuita e del desiderio di non
permettere alle tracce del pensiero di Leonardo, che racchiudevano, di sparire.
Come
è noto, una grande influenza nella diffusione della concezione generale del Cenacolo di Leonardo ebbe la stampa che ne dette
Giovanni Pietro Birago, che fu sfruttata anche da Rembrandt; ma ancora uno
schema preciso non è stato tracciato nella successione delle copie integrali
dalla Cena, né sono fissate le
relazioni reciproche fra le copie di grandi dimensioni. È infatti improbabile
che ogni copia sia stata eseguita direttamente sul posto, dentro il refettorio
che i frati continuavano ad usare, mentre è assai più verosimile che, intorno
ad un gruppo assai ristretto di copie eseguite con controllo diretto dell’originale,
si siano costituite famiglie che ne derivano. Ciò spiega le divergenze di intere
famiglie dall’originale, anche quando non sussistano i sottili motivi
interpretativi messi in luce da Leo Steinberg, così come il persistere di
tipologie precise, che possono essere rinviate ai caratteri stilistici noti di
questo o quell’allievo di Leonardo. I tratti che si possono far risalire a
Marco d’Oggiono sono i più evidenti, misteriosi sono quelli riferibili alla
copia, perduta, del Solario, mentre il professor Grazioso Sironi informa di
aver trovato la documentazione della commissione di una copia al Bramantino.
L’idea
che le copie rappresentassero vari gradi di approssimazione all’originale e che
questo potesse essere ricostruito soltanto attraverso un’analisi rigorosamente
logica del complesso di testimonianze, accettando e scartando gli elementi
contraddittori dopo un attento scrutinio, maturò relativamente tardi.
Il
presupposto di un tale criterio era infatti la svalutazione dell’originale così
come si è conservato, un passo decisivo cui era difficile arrendersi. Il primo
ad intraprenderlo sembra sia stato l’abbate olivetano Francesco Maria Gallarati,
circa quarant’anni dopo il restauro di Michelangelo Bellotti e un anno prima
che Pietro Mazza fosse incaricato di rimuovere le ridipinture dell’atroce
Bellotti con mezzi drastici che tuttavia suscitarono un comprensibile allarme.
Quando
l’abbate Gallarati, nel 1769, si accingeva ad un nuovo studio descrittivo del Cenacolo, tentandone la ricostruzione attraverso le
opere certe di Leonardo, come vedremo, erano usciti da due anni i Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati di Johann Joachim
Winckelmann, due volumi pubblicati con il concorso di sottoscrittori, fra i
quali impressionante è il numero dei Milanesi (era milanese quel monsignor
Alberico Archinto che aveva avviato il Winckelmann verso la sua luminosa
carriera). Anche se il grande archeologo non è citato espressamente dall’abbate,
è tuttavia difficile sottrarsi alla sensazione che sia la nuova metodologia del
Winckelmann ad averlo spinto a collocare il problema della conoscenza del Cenacolo all’interno di un sistema filologico di
ricerca. “Né avend’io giammai trovato - scrive il Gallarati nella manoscritta ‘Descrizione Ragionata del Celebre Cenacolo dipinto
dal Ristoratore delle Belle Arti Leonardo da Vinci’ -, che altri lo avesse
fedelmente disegnato o dipinto, tutto mi sono commosso riflettendo al pericolo
della perdita d’un’opera che è sempre stata ornamento e splendore della nostra
città. Per la qual cosa, suposto il pensiero, che mi rappresentava
laboriosissima così fatta impresa, e incoraggiato dagli amici, mi son accinto
li 15 aprile del 1769, a rinnovarla in miniatura, usando ogni diligenza,
acciocché essa corrispondesse all’antico suo originale.” Ancora
più esplicito è nelle “Réflexions sur Le Cénacle de Léonard de Vinci”: “Pour fournir
au public une connaissance suffisante de ce grand ouvrage, je m’engage a le decrire
en abregé; non cependant comme il parait à présent, étant endommagé, et terni
par les injures du temps, mais comme il a dû être dans son premier tems, où il se mantenait mieux. Pour
le faire donc concevoir comme il étoit dans le tems heureux de sa magnificence,
il souvrait la connaissance, que nous avons de la beauté, et de la perfection
de son pinceau, qui se manifesta assez bien dans beaucoup d’autres ouvrages
bien conservés; je ferai même usage des sentiments des
Professeurs, et des Ecrivains contemporains les plus savants, et le plus
accredités et j’exposerai au Letteur ces notions, quej’ai pû tirer de l’examem de ce qui restait de cette représentation, quand je commençai l’ouvrage. Aussi l’intelligent pourra-t-il connaitre assez le prix de
tout, et il pourra ainsi deduire du peu des parties, qui restent de ce corps,
un (sic) idèe exacte de sa perfaite beauté. C’est la route, que j’ai suivie,
par le moyen de la quelle, après des reflexions bien mûres, et des soins fort longs, je formai un jugement de l’insigne modèle, et
de tous les éclats de sa ressemblance ancienne. Mais afin que les idées déja
formées ne m’echapassent pas, et avant que l’ouvrage fût tout-à-fait perdu; je me hâtai de la renouveler en
miniature avec la plus grande diligence, y employant toute l’éxactitude, pour
le réndre uniforme à la peinture ancienne, et je ne pris d’autre parti, que
celui de ranimer seulement les couleurs, et les rendre vives, et conformes au
coloris, que l’on admire dans ces autres ouvrages, bien conservés”.
Sarebbe
molto interessante sapere quali erano le opere ben conservate di Leonardo che l’abbate
riteneva di conoscere e, soprattutto, ritrovare la miniatura. È comunque impressionante
la sua sensazione che il capolavoro diminuisse rapidamente nel corso dei nove
anni del suo lavoro - si stavano forse alterando i ritocchi del Bellotti? - e
recisa è la negazione che ciò che si vedeva corrispondesse al dipinto antico.
Fu
nel 1789 che giunse a Milano il pittore francese André Dutertre, munito di una
borsa di studio regia che doveva permettergli di eseguire una copia fedele del Cenacolo. La compì nel 1794, all’acquerello, su un foglio
di media grandezza. Tempi così lunghi non si spiegherebbero se il Dutertre
avesse eseguito una copia diretta dal dipinto; ne eseguì invece una
ricostruzione. Basta infatti a rendersene conto osservare come egli abbia
completato la parte inferiore della scena, distrutta nel 1652 dall’ampliamento
della porta al centro della parete, e come sull’esempio di altre copie
cinquecentesche abbia dato pari altezza alle aperture sulle pareti della
stanza, mentre, in realtà, Leonardo aveva immaginato quelle sulla destra più
basse di quelle opposte, e infine notare come poi abbia ricostruito il disegno
dei drappi appesi ai muri introducendo una interpretazione molto interessante e
insolitamente regolare del motivo di una tapisserie
à mille fleurs.
Sarebbe di grande importanza per lo studio dell’arte lombarda rintracciare i
disegni preparatori del Dutertre e, per la storia del Cenacolo e della “cenacologia”, la sua corrispondenza
con Parigi.
Secondo
la ricostruzione degli avvenimenti da parte di Ludwig Heydenreich, il progetto
iniziale era che la copia del Dutertre fosse poi tradotta in incisione dal
grande Raffaello Morghen. Di qui la grande menzione che il Dutertre ha rivolto
ai “valori” della Cena, dei quali la sua
testimonianza è la più sensibile, e la scelta di una tavolozza limitatissima,
quasi una grisaille, a parte lievi tocchi
di rosa negli incarnati e di giallo nei legni.
Come
ricorda più volte Carlo Pedretti in queste stesse pagine, l’impresa maggiore
nella ricostruzione del Cenacolo di Leonardo fu quella
cui si accinse Giuseppe Bossi, dopo gli ultimi guasti provocati al dipinto dall’occupazione
militare fra il 1796 e il 1801. Danni che furono assai gravi, poiché veramente,
come risulta all’esame ravvicinato del dipinto, furono scagliate pietre che distrussero
quasi completamente i corpi degli Apostoli, mentre le teste, che non poterono
essere raggiunte dal lancio, ebbero gli occhi appositamente sfregiati con una
punta. Il Cenacolo fu così probabilmente l’unico
monumento italiano a subire l’iconoclasmo che pochi anni prima aveva distrutto
tanti monumenti francesi.
Giuseppe
Bossi si accinse al compito con lo studio più rigoroso e con la documentazione
più ampia possibile. Amantissimo di Leonardo, ma certo non falsario e anzi
ansioso di verità, svolse l’inchiesta più sistematica mai tentata sulle copie
dalla Cena ed eseguì lucidi almeno
da quelle due copie che riteneva più fedeli, l’affresco di Ponte Capriasca e la
Cena dipinta da Andrea Solario nel monastero di
Castellazzo. Alcuni di quei lucidi sono ancora conservati a Weimar e sono molto
importanti per conoscere un’opera perduta, l’affresco del Solario, e valutare
il segno descrittivo e delimitante, tipicamente neoclassico, del Bossi copista.
Una
fotografia del 1900 e un’altra del 1936 dell’interno del refettorio di Santa
Maria delle Grazie ci presentano la sala arredata con copie dal Cenacolo. Alcune sono chiaramente riconoscibili, per
esempio, in primo piano nella fotografia del 1900, la copia di Cesare Magni,
acquistata per la pinacoteca di Brera e oggi finita come arredamento di uffici
statali, o la copia di Castellazzo; nella fotografia del 1936 sono scomparse le
copie più piccole, precedentemente esposte su cavalletti, ma si riconosce molto
chiaramente la copia eseguita dal Lomazzo. Sembra che le copie di grandi
dimensioni siano andate tutte distrutte nel 1943; delle altre conosco la sorte
soltanto di due. Nella fotografia del 1936 il posto delle copie piccole è stato
preso dalle grandi stampe fotografiche con le teste degli Apostoli, eseguite
nell’occasione del restauro del 1908 e che in certo modo perpetuano la
concentrazione dell’interesse nelle sole teste che abbiamo già notato nel
Cinquecento.
Doveva
essere un’esperienza singolare la visita al refettorio delle Grazie prima della
guerra. Il grande affresco del Montorfano, che pure ha i suoi meriti, fa parte
di uno stesso ambiente e si confronta direttamente alla Cena, non era considerato affatto e il dipinto di
Leonardo era riproposto una quantità di volte attraverso l’interpretazione che
ne offrivano le copie. Queste, poi, non consideravano affatto il rapporto fra
la stanza musivamente dipinta da Leonardo e l’ambiente reale, né le lunette, né
gli spicchi della volta azzurri e disseminati di stelle d’oro che appaiono un
elemento spaziale tanto importante nelle vecchie fotografie.
La
copia del Bossi è andata perduta. A vero dire non si trattava di una copia,
bensì di una ricostruzione e poiché dobbiamo ritenere, dato lo scrupolo del
Bossi, ch’egli non si desse a cercare nelle copie ciò che era evidente e sicuro
nell’originale, le divergenze fra la ricostruzione del Bossi e quanto possiamo
osservare direttamente oggi è un indizio significativo delle condizioni della Cena agli inizi dell’Ottocento.
In
coincidenza con l’uscita dell’ampio studio del Bossi intorno al Cenacolo, Marsilio Landriani annotava (20 novembre
1811): “ardua impresa (è) di ristorare il capo d’opera del pennello di Leonardo”,
e, data la sua inevitabile rovina, proponeva che se ne desse una copia esatta
nel ben più duraturo mosaico.
L’auspicata
copia in mosaico fu eseguita, prendendo a modello la ricostruzione del Bossi,
nel 1806-14 dal mosaicista romano Giacomo Raffaelli ed e oggi nella
Minoritenkirche a Vienna. Anche se il mosaico e l’inquadratura architettonica
neogotica che ne ha dato August von Stacke nel 1845-47 hanno un interesse in sé,
per il nostro assunto è invece stimolante confrontare le fotografie della copia
del Bossi con la sua replica viennese. Non vi è differenza di colore fra il
cassettonato e le pareti, e queste terminano in alto in una cornice su cui le
travi si appoggiano; le tre aperture sul fondo non sono differenziate come
appare oggi nell’originale, poiché la porta al centro non ha timpano; l’asimmetria
fra le aperture a destra e a sinistra è sparita; le tappezzerie alle pareti
hanno un ampio disegno a palmette verde e oro e sono incassate dentro nicchie
rettangolari appena depresse. Sono osservazioni che ci lasciano comprendere
quanto poco della pittura di Leonardo si rivelasse anche a un indagatore
sistematico e infaticabile come il Bossi.
La
documentazione fotografica del XX secolo dimostra puntigliosamente il mutare
del Cenacolo da una campagna di
restauro all’altra. I volti degli Apostoli più giovani, nelle fotografie
successive al restauro del Cavenaghi, assomigliano moltissimo agli angeli che
lo stesso restauratore dipinse, come sua autonoma invenzione, nel santuario di
Caravaggio, nei pressi di Bergamo; e quegli stessi connotati spariscono poi
nelle fotografie eseguite dopo il restauro di Mauro Pellicioli per essere
sostituite da altre fisionomie che tuttavia non corrispondono a quanto la
rimozione delle ridipinture compiuta in questi ultimi anni ha rivelato. Da
tutto ciò si deduce che stiamo vivendo un’esperienza nuova, quale è la
riapparizione della Cena dopo secoli in cui la
sua comprensione è stata affidata, più che alla sua reale presenza, alla
possibilità di leggerla attraverso le copie.
Ciò
che emerge è terribilmente provato e la necessità di una lettura attenta,
capace di trarre profitto da ogni minimo indizio, s’impone. Chi ha potuto
salire sui ponti quando Pinin Brambilla Barcilon interveniva sulle lunette, ha
potuto stupire davanti alle invenzioni leonardesche delle aquile con le penne
nere leggermente toccate d’azzurro sul fondo argenteo nello stemma centrale,
guardarne i grandi becchi spalancati e gli occhi accesi; ma nessuna fotografia
è riuscita purtroppo a trasmettere un’immagine che è affidata, per ora,
soltanto al ricordo di una visione diretta. Possiamo in compenso osservare i
chiodi e gli anelli, con le rispettive ombre proiettate, cui sono appesi i velari
nella sala del Cenacolo, un particolare che
sembra fuggito agli antichi copisti e che aveva tratto in inganno lo stesso
Bossi. A volte, dobbiamo affidarci ad indizi minimi. Nel descrivere la Cena, il Vasari insiste sulla grande verità di
rappresentazione della tovaglia distesa sul tavolo. Era forse la prima volta
che un piano bianco continuo era introdotto come primo piano d’una scena,
motivo che avrebbe poi interessato Andrea del Sarto e cui avrebbe guardato con
spirito d’emulazione Tiziano nella Cena oggi all’Escorial. Le
parole del Vasari sono molto precise: “infino nella tovaglia è contraffatta l’opera
del tessuto d’una maniera, che la rensa stessa non mostra il vero meglio”.
Dunque, se Leonardo avesse direttamente attaccato alla parete una rensa e cioè
una tela fine e bianca come quelle che da giovane metteva sui modelli di creta
per studiarne i panneggi, non avrebbe ottenuto un risultato più vero. Infatti
Leonardo aveva reso l’illusione di un tessuto operato. Allo stato attuale del
restauro, l’attendibilità della testimonianza del Vasari è affidata soltanto a
pochi millimetri di superficie dipinta, che ci mostrano il piccolo rettangolo
di trama rilevata che sarà il Leitmotif della Cena di Tiziano. Soltanto qualche millimetro, almeno
per ora.
In
tali circostanze si può ben comprendere come il lento recupero di Leonardo non
possa attendere troppi anni per presentarsi al pubblico degli esperti così come
anche al pubblico più ampio possibile. Proprio perché sono dentro anch’io a
quest’operazione complessa, cui partecipano scienziati ed esperti, oltre alla valentissima
restauratrice, sono sinceramente grato dell’occasione che ci è data di
beneficiare immediatamente, in corso d’opera, delle conoscenze e della
genialità di Carlo Pedretti e di avere la rara fortuna di poter mettere a
confronto i disegni e il dipinto di Leonardo. Avessero avuto una possibilità
come questa coloro che nel corso di tanti decenni inseguirono il sembiante di
Leonardo come un fantasma sfuggente!
Benché
nella tradizione europea si diffidi delle manifestazioni di gratitudine della
scienza verso la politica, ho il dovere di ringraziare apertamente coloro che
hanno reso la prosecuzione del restauro possibile. Innanzi tutti il sindaco di
Milano Carlo Tognoli. La sua dimostrazione di fiducia nel restauro intrapreso è
stata decisiva per riconfermare quel rapporto affettivo della città con il
capolavoro di Leonardo che già stupiva il Vasari: “la quale opera rimanendo
così per finita (l’autore delle Vite pensava che Leonardo
avesse lasciato “imperfetta”, ossia incompiuta l’immagine di Cristo), è stata
dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione”. L’incontro, poi,
del ministro per i Beni Culturali Vincenzo Scotti con il presidente della
società Olivetti, Carlo De Benedetti, ha assicurato al restauro la possibilità
di proseguire al di là delle difficoltà di bilancio e delle torpide incertezze
romane.
Avrei
poi ancora molte altre persone da ringraziare: ricorderò solo l’amica
restauratrice Marcella Sorteni, prematuramente scomparsa, generosa in
osservazioni e consigli, la cui indagine documentaria sui metodi e le sostanze
che i restauratori precedenti adottarono nel Cenacolo mi auguro possa essere
presto pubblicata.
Carlo Bertelli
Soprintendente per i
beni Artistici e Storici Milano
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1908 - CAVENAGHI, Sul Cenacolo vinciano
CENACOLO VINCIANO
Avanti di assumermi la
gravosa responsabilità di eseguire il consolidamento del «Cenacolo» ho
esperito due tentativi di rinsaldo della crosta di colore, il primo nell’anno
1903 su una superficie dipinta di circa 30 cent. quadrati, e il secondo nell’anno
1906 su una porzione più vasta. Già durante quelle prove ho potuto constatare
lo stato di estremo deperimento della pittura. Nel paziente lavoro testè
compiuto, il quale si è svolto su ogni parte della parete dipinta, ho trovato ovunque,
benchè in vario grado, mancanza di coesione tra il colore e la superficie
murale.
Anche
là dove la crosta di colore non era staccata a squame, accartocciata, o
comunque sollevata, le brevi superfici piane avevano pur esse perduto la
continuità di aderenza coll’intonaco e tendevano a staccarsi sotto ogni pur
lieve pressione.
In
alcune parti, benchè su piccolissime superfici, il colore era caduto anche là
dove le fotografie fatte eseguire nel 1906 dall’Ufficio Regionale per la
conservazione dei monumenti indicano la continuità del dipinto. La conservazione
della pittura era pertanto quasi esclusivamente dovuta all’umidità dell’ambiente
e alle colle sovrapposte con grande abbondanza nei preceduti restauri, le
quali, per altro, idratandosi, producevano, specialmente nella stagione
invernale, le muffe che, unitamente alla polvere copiosamente cosparsa sulle superfici
sollevate, toglievano quasi totalmente la visione dell’opera meravigliosa.
Era
mio compito di procedere alla saldatura del colore con mastici diluiti con
sostanze idonee e tali che le condizioni igrometriche avessero su essi la minor
possibile influenza.
Il
vario grado di discontinuità della crosta di colore coll’arricciatura del muro richiese
nondimeno per ogni caso diversa soluzione e sovratutto una cura pazientemente
scrupolosa nella manualità delle operazioni, a cui attesi veramente colla costante,
paurosa preoccupazione dell’incolumità del capolavoro e con la vigile coscienza
dell’imprescindibile necessità di serbare ogni minima traccia di una tale
suprema affermazione di bellezza.
Mi
corre qui l’obbligo di rettificare un giudizio che io ebbi in antecedenza ad
esporre, e cioè che il «Cenacolo» sia stato dipinto da Leonardo con colori a
base di olio, in conformità a quanto asserì il Lomazzo, e dopo di lui altri
uomini dell’arte. A tale giudizio io fui tratto dal caratteristico accartocciarsi
della pasta di colore e dalla lucentezza conferita dalle colle sovrabbondanti.
In effetto, tutte le parti dipinte, alle prove ch’io feci, addimostrarono di
non contenere sostanze oleose e ho ancora constatato nella parte superiore del
dipinto, e meglio nelle deliziose lunette sovrastanti alla composizione, dove
il mezzo di adesione originariamente impiegato non ebbe campo di essicare
completamente, una meno disastrosa conservazione della pittura, Leonardo ha
pertanto dipinto il Cenacolo a tempera forte, sia pure tentando metodi e
imprimiture che fallirono al loro scopo, a giudicare dalle deplorevoli
condizioni di conservazione della pittura dopo scarso numero di anni dalla sua
esecuzione.
Tale
constatazione, oltrechè accordarsi logicamente all’intuitivo convincimento che
Leonardo non abbia ignorato l’incapacità di stabile aderenza delle tinte ad
olio applicate alle superfici murali, ha pure concesso maggiore rapidità alla
esecuzione del lavoro e una più efficace attività ai mastici impiegati nel
rinsaldo.
Allorchè
ebbi ultimata l’operazione di consolidamento di tutta la superficie dipinta e
ottenuto ovunque la perfetta aderenza coll’arricciatura del muro e ridotta
perciò la crosta del colore a una superficie piana, ho proceduto a togliere la
polvere e a lavare le muffe, e per quanto è stato possibile e conveniente, le
colle sovrapposte al colore. Dove questo era caduto, il bianco crudo della
calce alterava la tonalità circostante e perciò, sentito anche il parere del
Senatore Beltrami, dell’arch. Moretti e dei pittori Pogliaghi e Carcano, membri
della Commissione governativa, ho ricoperte quelle superfici con tinte leggiere
a tempera, appena sufficienti per impedire che l’assieme ne fosse deturpato.
Così
pure, consenzienti i Commissari e il Direttore dell’ufficio regionale, si è
presentata la necessità di qualche restauro alla volta a spicchi lunettata
sovrapposta al Cenacolo, dove pure la colorazione era in larghe parti
completamente scomparsa. Il restauro ha rilevato come il fondo azzurro degli spicchi
fosse cosparso di stelle d’oro e ha precisato che le mirabili lunette decorate
con ghirlande e targhe d’imprese sforzesche, per la inesprimibile finezza del
dettaglio, la larghezza decorativa e la profondissima penetrazione della forma,
sono a evidenza, opera di Leonardo.
Il
lavoro che fu da me iniziato il giorno 25 del mese di giugno e proseguito
ininterrottamente, venne con queste operazioni ultimato al principio del
settembre del corrente anno.
* * *
Tutto
quanto passa sotto il nome di Cenacolo Vinciano, l’opera originale di Leonardo,
come le molteplici superfetazioni dei restauratori, è riuscito così risanato e
ridotto nelle più acconce condizioni per goderne la visione e vagliarne il
valore.
Il
minuzioso esame che ho compiuto mi ha precisato la entità dei numerosi ristauri
che si rivelano eseguiti in varie epoche, con varia abilità artistica e con diversi
metodi tecnici. La più parte a tempera, presentavano soluzioni di continuità coll’intonaco
anche più gravi della pittura originaria, altre, come quello eseguito in
piccola porzione della tovaglia e precisamente nella parte centrale (a
encausto), oltre a una notevole abilità di esecuzione conserva aderenza colla
superficie. Ciò non ostante mi è di grande soddisfazione asserire che dopo la
pulitura del dipinto, ciò che appare opera originaria di Leonardo è assai più
di quanto credette il Bianconi e generalmente si ritiene.
I
restauratori hanno esercitato la loro opera largamente sugli abbigliamenti, ad
eccezione delle figure di alcuni apostoli e sul fondo d’architettura; ma non
sulla tovaglia, i dettagli sovrapposti e il soffitto travi, e furono costretti
al rispetto dove l’arte del Maestro ha una più profonda e spirituale potenza
evocatrice. Così le teste e le mani delle figure benchè guaste e stinte, sono
pressochè immuni di restauro (salvo la testa dell’Apostolo Giacomo Maggiore)
come pure quel luminoso spiraglio di paesaggio che contrasta tuttora col suo
azzurro sereno alla composta drammaticità della scena.
Io
ho fede che l’opera, la quale con religiosa venerazione ho dedicato alla grande
opera d’arte, sarà definitiva ad assicurarne la conservazione. La parete
muraria è quasi totalmente sana, solo il suo estremo, a sinistra di chi guarda,
accusa tracce di umidità, le quali però non è a ritenersi che possano assumere
carattere di gravità e aumentare di superficie.
Ciò
che assolutamente necessita è di assicurare al Cenacolo la uniformità delle
condizioni atmosferiche e di salvaguardarlo dalla considerevole quantità di
polvere, quale si produce evidentemente in un luogo con tanta frequenza
visitato. Si deve pertanto murare, o porre le doppie bussole, alla porta del
Refettorio comunicante col chiostro da cui procedono le correnti d’aria che
possono avere azione diretta sulla pittura e mutare saltuariamente le
condizioni atmosferiche dell’ambiente.
E
per la stessa ragione devono essere fisse le chiusure delle finestre vicine
alla parete dipinta. Or sono molti anni il Cenacolo era difeso da una tenda che
di poi fu tolta, ignaro per quale ragione. Era una difesa la quale vorrei
ripristinata, se non ritenessi più sicuro schermo una lastra di cristallo, che
difendesse col decoro di una conveniente intelaiatura il prezioso dipinto.
Nessun mezzo sarebbe più acconcio pel riparo della polvere e per la uniformità
atmosferica dell’ambiente.
In
una teca di cristallo, come una reliquia, dovrebbe, a mio giudizio, conservarsi
il Cenacolo Vinciano.
Milano,
5 settembre 1908.
LUIGI CAVENAGHI.
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1796 - PINO, Sul Cenacolo vinciano
a chi legge.
Avrei a tutt’altro pensato che a scrivere in materia di pitture. S’ebbevi
già chi disse: Non sum propheta, &
non sum filius prophetæ;[1] io pure dir posso, non son
pittore, e non son figliuol di pittore. I miei studj nel gran regno della
dipintura non si sono inoltrati. L’essere io di vista anzi certa che no, o come
suol dirsi miope, stata fors’è la
cagione per cui non presi grande impegno per la liberale arte bellissima del
dipingere. Quel dover mirare gli obbietti col sussidio degli occhiali, od altro
ingranditore cristallo, veder non li lascia per la rifrazione de’ raggi in
tutta la loro naturalezza; onde di essi dar non si può un giudizio preciso. Un
dipintore aver debbe un occhio fino, ed acuto, onde vedere di lancio, ed
esaminare l’obbietto senza alterazione veruna: ciò che mancando in me, ha fatto
ch’io internato non siami a considerare a fondo le bellezze di un’arte sì
nobile, sì grandiosa, sì estesa, che abbraccia terra mare cieli ed abissi,
storia naturale storia sacra storia profana, anatomia geometria architettura
disegno, ch’è l’ornamento de’ palagi l’anima de’ teatri il decoro de’ templi,
che apparir fa quasi presenti i lontani come vivi i defunti, che colla
espression degli affetti più forti parla agli occhi, parla al cuore, parla alla
mente, che immensi spazj in picciol sito ristrigne, e in piccolo sito fa
comparir lontananze immense, che si estende in somma a tutto il visibile, e
stetti per dire, sino all’invisibile; dacchè in qualche guisa rappresenta le
Anime, gli Angioli, Dio stesso.
Se però per la mia inesperienza
entrar non posso, dirò così, nella gran galleria della pittura come giudice, vi
entrerò come storico, e la relazione darò del famoso Cenacolo dipinto sopra di
un muro del refettorio de’ Padri Domenicani di Santa Maria delle Grazie di
Milano dallo impareggiabile Leonardo da Vinci, il quale se per tant’altre
eccellenti sue opere si è renduto cotanto famoso, distinto si è segnatamente
per questa, in cui dir si può che superato abbia insin l’aspettazione
dell’arte. A ciò intraprendere spinto mi ha la ristampa che vuolsi fare del
libro intitolato Nuova Guida di Milano,
che impresso fu nell’anno 1787. Siccome lo Stampatore si è da me recato, e
presentato me l’ha, acciocchè riconoscessi se in esso ci avesse intorno al capo
appartenente ai Padri Domenicani del Convento delle Grazie alcuna cosa da
aggiugnere, da levare, ritenni il libro stesso per leggerlo attentamente;
quantunque le avessi già letto come di fuga. E siccome per riscontrare con fondamento
le cose, mi convenne scorrere varj antichi monumenti, ch’esistono nell’archivio
del nostro Convento, mi si è, per così esprimermi, accesa la fantasia, e sonomi
determinato di dare alla pubblica luce la storia precisa di questa nostra
domestica dipintura famosa. La ruota si è aggirata, ed ha preso fuoco. Per
intraprendere qualche opera vi vuole un poco d’entusiasmo. Questo fa e che di
buon grado si tolleri la fatica, e se ne affretti il lavoro. Certe teste fredde
non la finiscon mai: Vult, & non vult
piger.[2] Si vuole, e si disvuole, o
se pur prevale il volere, si va innanzi nella intrapresa carriera, a così dire,
con passi da pigmeo, non da gigante; onde come par che si stanchi, l’autor
nello scrivere la sua opera, così stancasi il pubblico nell’aspettarla.
L’ozio di quindici giorni di
villeggiatura mi ha fatto accelerare il travaglio. L’essere io sciolto in
campagna dalle incombenze della carica che mi occupa nella città, ha fatto che
tutto abbia potuto darmi sullo stendere la Storia presente; ed io mi piaccio
assai di avere in questa mia, dirò così, quiete operosa affrettata l’opera, per
isceverare più prestamente il vero dal falso, e togliere que’ pregiudizj, che
circa questa insigne pittura corron nel volgo; come sarebbe che Leonardo per
formare la faccia di Giuda abbia ritratta la faccia del Priore importuno, che
l’accusava presso al Duca Lodovico di soverchia lunghezza nel terminar la sua
opera; che i Padri abbiano scioccamente tutto quanto fatto imbiancare un sì bel
dipinto; ed altre simili falsità che si vanno da taluni segnatamente spargendo
per iscreditar forse (non so però se con ragionata politica) il più che possono
le persone di chiostro: non avvedendosi che il dispregio de’ ministri della
religione cagiona il disprezzo della religione medesima, e il disprezzo della
religione va alla fine a scuotere ogni giogo anche più sacro, e mettere a
soqquadro i regni eziandio più floridi: come pur troppo non è mestier di
portare fuori del procelloso nostro secolo decimottavo Io sguardo per
riscontrarne gli esempli funesti.
Un altro motivo, per cui mi son
dato tutta la sollecitudine per terminare questa mia opericciuola, si è che
trovasi presentemente in Milano il Sig. Teodoro Matteini Pistojese valente
Pittore, che fu discepolo in Roma del rinomato Sig. Domenico Corvi, ed ha
lasciato in quella Metropoli e altrove varj illustri monumenti della sua
perizia nell’arte; il quale per commissione di Ferdinando iii. gran Duca di Toscana ricopiar dee
il nosrro Cenacolo, acciocchè sia intagliato in rame dal Sig. Raffaello Morghen
incisore sì rinomato per tutta l’Europa. Questo Principe così saggio, il quale
quant’è inclinato alla pietà ed alla religione, altrettanto lo è per le scienze
e le belle arti, e che pei coltivatori delle medesime si dimostra singolar
Mecenate; per mezzo di questi due distinti Soggetti Matteini, e Morghen darà
alla nostra dipintura quella immortalità che ben si merita. Coi lumi del primo
potrò io pure essere rischiarato in qualche punto appartenente alla pittura,
per non avvanzar cosa che non essendo di mia ispezione, venisse ad esser
contraria ai dettati dell’arte; onde non mi si possa applicar quel rimbrotto si
trito, col quale Apelle sgridò con brusco cipiglio quel facitore di scarpe, che
nel giudicare il suo quadro ch’aveva esposto al pubblico, voleva andar più in
là de’ calzari: Ne sutor ultra crepidam;
come Plinio lo riferisce.
Io poi accerto il Leggitore cortese
che quanto avvanzerò nel decorso del mio libricciuolo, sarà tutto provato coi
monumenti più certi che per me si potrà, e segnatamente con quelli ch’estratti
ho dall’archivio del Convento medesimo delle Grazie, i quali non posson’essere
più precisi. Mi è poi piaciuto di porre nel frontispizio Storia genuina, o vogliamo dire Relazione
genuina, per distinguerla da tant’altri spurj racconti che si son
pubblicati fin colle stampe. Ho pure sparse qua e là alcune annotazioni, cui ho
stimato acconcio di porre in fine del libro, per esservene alcune alquanto
prolisse, le quali benchè non sien necessarie per la storia del Cenacolo, mi
lusingo che alla nostra Milano segnatamente non saranno discare; ond’ho
allargata in ciò alquanto la mano: e chi non volesse darsi la pena di leggerle,
può anche tralasciamele; mentre non verrà perciò interrotta la serie della
storia; ovver potrà leggerle dopo aver letta la Relazione.
Mi accingo volonterosamente a dar
le più distinte notizie di questo dipinto, il quale essendo un capo d’opera,
basterebbe da se solo a render celebre qualsivoglia città, e che per mirarlo,
ed ammirarnelo concorrono con continuo flusso e riflusso eziandio dalle più
rimote contrade i forestieri d’ogni genere, e insino i Principi e le
Principesse, ed ognaltro più ragguardevole Personaggio. Che anzi un Re di
Francia lo voleva, con tagliare la gran muraglia del refettorio, far traportare
con dispendio immenso nel suo dominio: impresa però, che non essendo allora
ancor perfezionata, com’è di presente l’arte di trasportare muraglie
macchinose, ed altre gran moli, non so se riuscita sarebbegli felicemente;
dacchè poteva agevolmente avvenire che scompaginandosi, o scrostandosi il muro
l’avrebbe tolta a Milano, senza darla in quella perfezione ch’avrebbe voluto, a
Parigi. Comunque sia, essa tuttora esiste nel nostro Convento, e sarà da’
Milanesi, e da qualsivoglia forestiere veduta, finchè il tempo permetterà che
sia visibile; dacchè poi esso
Ogni cosa quaggiù guasta, e corrompe.
RELAZIONE GENUINA
Prima di parlare del famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci, non
sarà fuor di proposito l’accennare il tempo in cui fu dipinto, e così per
quanto si può stabilirne l’epoca. Il Conte Gasparo della nobilissima Famiglia
Vimercati, e Generale dell’armi dei Duchi di Milano, il quale con bell’innesto
accoppiar seppe al valore nella milizia[3] la pietà nella religione,[4] conceduto avendo dopo una
bizzarra ripulsa[5]
a’ Padri Domenicani della Congregazione di Sant’Apollinare di Pavia, uomini di
singolar probità, zelo, e dottrina il luogo ove fabbricato si vede oggidì il
Convento di Santa Maria delle Grazie,[6] acciocchè stabiliti
venissero eziandio nella Città di Milano, che bramosamente li desiderava, fece
che si desse principio nell’anno 1464. alla fabbrica di esso Convento, del
quale il Duca Francesco, primo di questo nome, volle egli stesso porre nel
giorno 28. Agosto la prima pietra; e con un dormentorio ed altre officine venne
eretto in seguito il gran refettorio, in cui fu poscia dipinta da Leonardo la
Cena. Ma il Conte Gaspare Vimercati dopo tre anni dalla fondazion del Convento
passò nel numero dei più, e lasciò il refettorio imperfetto; il cui compimento
fu poi da’ Padri ordinato nel 1481., come leggesi nel primo antico libro, che
da noi dicesi dei consigli, il qual
conservasi nell’archivio del Convento. Esso refettorio è lungo braccia
cinquantanove Milanesi, e onc. quattro; largo braccia quattordici, ed onc. dieci;
alto a proporzione; ed è, come suol dirsi, un vaso bello veracemente e
grandioso.
Siccome però per l’esemplarità
grande, e fatiche indefesse di que’ primi Religiosi a vantaggio del popolo, i
Duchi di Milano presero loro un’affezion singolare (e segnatamente Lodovico
chiamato il Moro, e perchè il Vimercati prima di morire glie li raccomandò
caldamente, e perchè nella loro Chiesa fu poscia seppellita con alcuni suoi
Figliuoli l’illustre Principessa sua consorte Anna Beatrice d’Este,[7] per cui nodriva il Duca un
amor passionato), non tralasciarono, dico, questi Principi, a ritroso eziandio
della propensione grandissima che avevano que’ primi Padri per la povertà
religiosa,[8] di nobilitare nella
migliore maniera, e con principesca munificenza il loro Convento; e tra l’altre
sue parti si accinsero ad ornarne il refettorio coll’opere de’ più insigni
pittori de’ loro tempi.[9]
In fatti nel muro che sta
dirimpetto all’entrata del medesimo vi venne pennelleggiata a fresco da Donato
Montorfano valente pittore Comasco, la crocifissione di Cristo con un numero
grandissimo di figure, e colla veduta della Città di Gerusalemme. Questa
dipintura compita fu nell’anno 1495. come appiè di essi si vede scritto, e
conservata si è sino al dì d’oggi anzi bene che no. Essa secondo lo stil di
que’ tempi è stimata, ed ha il suo pregio. Ma appetto del Cenacolo di Leonardo
scomparisce, a così dire, e si oscura, come al sorgere di una lucente aurora
scompaiono, e si oscuran le stelle. Il Duca Lodovico fu quegli che ordinò
questa grand’opera, per la quale, come dice il Vasari, giunse Leonardo a Milano
nel 1494.; quantunque il celebratissimo uomo Girolamo Tiraboschi nella parte ii. del tomo vi. della cotanto rinomata sua Storia della Letteratura
Italiana pag. 411. arrechi dei buoni monumenti, onde provare che quel celebre
Pittore era già in questa Metropoli nel 1493., e forse fino dal 1489. Egli si
maraviglia come mai in un tempo in cui fiorivano tanti celebri uomini, così
poco si sappia delle lor gesta. Queste son le sue parole poste alla pag. 391.
“Sembra quasi impossibile, che trattandosi d’uomini pel saper loro
celebratissimi, e vissuti soli tre scarsi secoli innanzi a noi, in molte cose
concernenti la loro vita siamo rimasti in una totale incertezza.”
Non si sa precisamente quando
Leonardo abbia dato principio al Cenacolo; e solo si sa di sicuro che nel 1497.
attualmente lo dipingeva. Il nostro Padre Maestro Vincenzo Maria Monti
Milanese, uomo che alla nobiltà de’ natali congiunse una pietà singolare, ed
uno studio di vasta erudizione,[10] in una relazione privata
che mandò a Monsignor Bottari, ma che con un furto grazioso venne fatta poi
pubblica, ed è inserita nelle aggiunte alla vita di Leonardo nel tomo ii. della ristampa del Vasari medesimo
eseguita in Roma nel 1759., dice così. “Quantunque non si sappia precisamente
quanto tempo impiegasse Leonardo da Vinci nella celebre dipintura da esso lui
fatta nel refettorio de’ P. P. Domenicani del Convento delle Grazie di questa
città di Milano, si sa però di certo ch’egli nel 1497. attualmente la
dipingeva, leggendosi in certo libricciuolo esistente nell’archivio del
suddetto Convento; ed il qual libricciuolo dimostra essere quello appunto, in
cui l’architetto, o capomastro notava le partite de’ suoi crediti verso
l’illustrissimo Sig. Lodovico Maria Sforza detto il Moro Duca di Milano per le
opere da esso Sig. Duca fatte fare, tanto nel già detto Convento, quanto
altrove; leggendosi, dico alla pag. 16. tergo la seguente partita. 1497. Item per lavori facti in lo refettorio, dove
depinge Leonardo li Apostoli, con una finestra; lir. 37. 16. 5.” Che che ne
sia però del tempo preciso dell’incominciamento e del termine del nostro
Cenacolo, egli è certo ch’esso, poichè fatto d’un uomo ch’era d’un abilità
sorprendente[11]
è riuscito un capo d’opera che fu, e sarà, non so s’io mi dica l’ammirazione, o
sì veramente la disperazion de’ pittori. Tutta la dipintura di Leonardo è di
braccia quattordici Milanesi ed once dieci in lunghezza, compresa la dipinta
cornice di once tre e mezzo per ciascheduna parte; e di braccia otto e once una
e mezzo in altezza, compresa pure la dipinta cornice di once otto.
Rappresenta questa pittura il
Redentore divino in quel punto, in cui nell’ultima cena dice agli Apostoli che
uno infra di loro lo avrebbe tradito. Amen
dico vobis, quia unus vestrum me traditurus est. La grandiosità del
disegno, la distribuzione delle figure, l’espression degli affetti in tutti i
personaggi rappresentati è qualche cosa di grande. Si vede come una gran sala, Cænaculum
grande, colla più precisa architettura disposto e nelle pareti, e nella
soffitta; ed ha sul fondo una porta aperta nel mezzo con due finestre aperte
pure dai lati; dalle quali un vago orizzonte si scorge con colli, e con monti
in bella degradazione disposti, che a cielo sereno formano una graziosissima
prospettiva. Una lunga tavola rettangola sopra quattro piedi semplici
sostenuta, si stende in tutta quasi la larghezza del Cenacolo di rincontro ai
riguardanti, coperta di bianca tovaglia segnata da varie sviluppate pieghe,
come se fosse stata ripiegata dopo il bucato, ed è dai lati bellamente
aggruppata.
Nel mezzo di essa vi sta il divin
Salvatore co’ dodici Apostoli, sei alla destra, e sei alla sinistra nell’atto,
in cui pronuncia le anzidette parole: Unus
vestrum me traditurus est. Il volto è dolcemente maestoso, gli occhi
abbassati in maniera di chi dice cosa, cui dispiace il dirla, e le mani
appoggiate sopra la tavola; ma con un certo inarcamento delle dita nella destra
segnatamente, come di chi trattando un affare di rilievo accompagna col gesto
della mano il sentimento delle parole.
Alla destra di Cristo vedesi San
Giovanni, il discepolo prediletto, che pallido il volto, col capo ripiegato
sulla destra spalla, e colle mani incrocicchiate sembra poco men che svenuto
all’annunzio del traditoresco attentato. Segue Giuda con truce aspetto, come se
fosse abbronzito dal sole, e situato avvedutamente quasi per contrapposto
vicino al bianco Giovanni. Si appoggia il fellone villanescamente col braccio
destro quasi in mezzo alla mensa, e guardando con occhio arditamente fiso il
divino Maestro, e colla sinistra allargata, pare che quanto stupisce
nell’essere scoperto per traditore, altrettanto stia fermo per eseguire il suo
tradimento. Ei tien nella destra mano una borsa, perchè si ravvisi per quello scellerato,
che per avarizia vendette il suo Signore. Pietro che viene appresso, e che si
riconosce per lo coltello che ha nella destra, come se si fosse dalla mensa
rialzato, stende la sinistra mano sopra la destra spalla di Giovanni, quasi
voglia interpellare da lui, come confidente di Cristo, chi possa essere il
traditore. Viene appresso il quarto, che rimasto a sedere, ma colle mani alzate
ed accostate alquanto al petto in maniera che se ne veggan, le palme, e collo
stringimento delle labbra, e coll’inarcamento delle ciglia dà i segnali della
più alta sorpresa. Il quinto che gli è allato, stando tuttavia a sedere stende
dietro il tergo del quarto il braccio sinistro, e ponendo la mano sopra la
destra spalla di San Pietro, par voglia domandarlo per ragionar seco lui
intorno a ciò, che detto ha il Redentore. L’ultimo ch’è alla testa della
tavola, essendo più discosto degli altri, quasi non avesse bene inteso ciò che
dal Salvatore fu detto, alzasi in piedi, appoggia ambe le mani sopra la tavola,
ed allungando la parte superiore del corpo verso di Cristo, sembra che voglia
assicurarsi meglio di ciò ch’egli ha detto.
Gli altri sei Apostoli che veggonsi
alla sinistra del Redentore, espressi son con affetti non meno forti e
significanti. Il primo rivolgendosi al suo Signore senza alzarsi da mensa, col
capo chino, cogli occhi sorpresi, e colle braccia allargate in atto di sommo
stupore, nella sua maraviglia, che par quasi spavento, sembra ch’esprima la sua
giustificazione. Dietro di lui un altro si vede di natural più focoso, che
levatosi dalla mensa, e fissando risoluto lo sguardo nel Salvatore, ed alzando
con forza l’indice della destra, par voglia dire al suo Signore, che pronto è a
vendicarsi di chi eseguire volesse l’attentato sacrilego. Uno sbarbato giovine
viene dopo, che alzatosi anch’esso in piedi, ed allungando il collo verso il
suo Maestro, si pone doglioso le mani al petto, quasi assicurare lo voglia
della sua innocenza. I tre ultimi seduti tuttavia alla mensa ragionano infra di
loro sopra di ciò che hanno inteso. Il primo colle braccia sporte verso il
Signore, accenna maravigliato agli altri ciò ch’egli ha detto. Il secondo
rivolto all’ultimo gli viene indicando col pollice della destra il primo che lo
ha detto, e l’ultimo col volto assorto, e colle mani alquanto alzate stupisce
sopra ciò di che viene assicurato, ed accenna col mesto volto del suo dolor la
gravezza.
Ma per quanto dire si possa della
espression degli affetti che scorgesi in quest’egregia dipintura, se non si
vede essa cogli occhi non si può esprimere colle parole. Considerata in
complesso vien riputata come l’opera più eccellente ch’uscita sia da pittoresco
pennello: opera che nei periti dell’arte (se fosse nella sua perfezione natia)
ecciterebbe una maraviglia che dir potrebbesi stordimento. Ho veduto una carta
impressa in rame rappresentatrice del nostro Cenacolo, senza nome però
dell’autore, e senza data dell’incisione, in cui vi sono scritte appiè le
seguenti parole:
amen dico vobis, quia unus vestrum
me traditurus est.
cavata dal dipinto a olio di leonardo
da vinci
fatto nel i496., e 1497.
sopra il muro di contro alla testata
del refettorio de’ padri domenicani
detti delle grazie di milano.
pittura, a cui per il tempo che fu fatta
per l’espressione sublime degli affeti,
anzi per i numeri tutti dell’arte
compete il primato sopra ogni altra.
L’Autor della lettera lxxxiv. impressa nel Tom. ii. della Raccolta di lettere sulla
pittura, scultura, architettura stampata in Roma nel 1757. che si crede essere
di Monsieur Mariette il giovine al Sig. Conte di Caylus, dice così alla pag.
185. Quest’opera viene riputata un
miracolo dell’arte; come tutti comunalmente ne convengono i dipintori.
Certamente che questo è un lavoro così pellegrino, che dir potrebbesi a
Leonardo ciò che si legge nel Principe della latina lirica poesia.[12]
Responsura tuo nunquam est par fama labori.
Che se mai ci avesse taluno, che a maggior erudizione di questo dipinto mi richiedesse se risapere si possa chi sia decisivamente ciaschedun degli Apostoli che intese Leonardo di rappresentare, non glielo saprei dire precisamente. Ho interrogato sopra di ciò il nostro Padre Maestro Giuseppe Casati Milanese bibliotecario della libreria delle Grazie, uomo di molta saviezza ed erudizione, e che oltre al possedere le lingue esotiche Greca ed Ebraica, ha una vasta cognizione di libri; ed hammi risposto che per quanto abbia egli letto, non gli venne fatto di trovar sopra di ciò monumento veruno, e che non possiamo appigliarci che ad una semplice conghiettura. Si dice che nell’orlo della veste intorno al collo vi fosser segnati i nomi se non di tutti, almen di varj Apostoli; ed in alcuni vedevisi tuttavia qualche vestigio, benchè assai dilavato. Ma siccome non si riconosce negli altri, non mi arrischio a indovinare. Che alla destra di Cristo il primo sia San Giovanni, il secondo Giuda, il terzo San Pietro, non v’ha dubbio veruno. Degli altri dirò quel ch’ho inteso a dire, non volendomi far mallevadore di quel che ho sentito. Il quarto alla destra del Salvatore si dice essere San Bartolomeo; mentre par che vi sia un qualche rimasuglio del suo nome. Il quinto San Giacomo minore, perch’essendo cugino di Cristo ha con esso lui qualche simiglianza. L’ultimo si vuol che sia San Taddeo, o sia San Giuda. Il primo alla sinistra senza dubbio egli è S. Tommaso, mentre vi si legge tuttavia scritto il nome nell’orlo superior della veste. Il secondo si dice essere Santo Andrea, perchè assomiglia alcun poco a S. Pietro, di cui era fratello: il terzo San Simone, il quarto San Matteo, perchè in atteggiamento risoluto, essendo stato riscotitore delle gabelle; il quinto S. Filippo; il sesto San Giacomo maggiore, perchè ammantato di vesti sacerdotali, essendo lui stato Vescovo di Gerusalemme. Quest’è quanto dir posso come dettomi da qualche Padre assennato, che ne ha come per tradizione inteso a discorrerne; nè posso dire di più, perchè non so cosa dire di certo.
Ma poichè il sapere i nomi di
ciaschedun particolare Apostolo non appartiene al merito essenziale dell’opera,
passiamo piuttosto a discutere se il nostro Cenacolo sia dipinto a olio, ovvero
a fresco. Io certamente non posso ergermi a giudice in questa quistione; mentre
maneggiato avendo finora la penna, non il pennello, se volessi in tuono franco
e dittatorio definire la controversia, mi si potrebbe in qualche guisa
applicare quello del Dante (Parad.
Can. xix.)
Or tu chi se’, che vuoi sedere a scranna
Per giudicar da lungi mille miglia
Colla veduta corta di una spanna?
Tratterò la question come storico,
non come pittore, e come storico non so se coglierò nel segno come se fossi
pittore. V’ha di coloro ch’estimano essere stato il nostro Cenacolo dipinto a
fresco. Ma questa asserzione patisce le sue gravi difficoltà. Lo Scrittore del
libro che ha per titolo Nuova Guida di
Milano impresso nel 1787. dice di averlo Leonardo dipinto a olio, perchè volendo egli (son sue parole) mostrare in questo lavoro il pittoresco suo
sapere, e temendo di non aver franchezza bastevole per dipingere a fresco,
ch’è, e sarà sempre il modo più fermo d’ogn’altro, pensò di dipingerlo ad olio.
Ma questo motivo non mi par quello per cui Leonardo ha con olio dipinto. S’egli
dipingeva ad olio con tanta perfezione, riuscito pur vi sarebbe se si fosse
dato sul pignere a fresco. Il motivo più verisimile mi sembra quello ch’è
riferito nella accennata Lettera lxxxiv.
del Mariette: cioè che Leonardo più che a fresco amava dipingere a olio, perchè
pel sublime suo genio tendente alla somma eccellenza, non era mai satisfatto
del suo travaglio, ed aspirando a perfezionarlo più sempre, era tardissimo nel
compir le sue opere: ciò che non arrebbe potuto eseguire, se avesse dipinto a
fresco, che richiede una speditezza maggiore. Mi piace quì trascrivere le
parole della medesima Pistola che sono alla pag. 177. della indicata edizione
di Roma. “Chi l’avesse visto dipingere (Leonardo)
avrebbe creduto ch’ei fosse uno scolare giovine, che, non essendo sicuro delle
sue forze s’andasse provando prima d’arrischiarsi ad alzare il volo più alto.
Quando si metteva a dipingere
sempre tremava della paura.[13] Spesso dopo aver passato
degli anni interi sopra una sola testa, e avervi consumato tutto il suo sapere,
nuove e più perfette idee sopravvenendo alle prime, si disgustava di quel
ch’aveva cominciato, e non si poteva risolvere a terminarla. Per questo non
intraprese mai a dipingere a fresco;[14] dove per la pratica
domanda una pronta spedizione: e per questa ragione i suoi quadri sono in sì
picciol numero”.
E quì giova riflettere che
dicendosi da Paolo Pino accennato in una postilla, che Leonardo non ha impreso
giammai a dipignere a fresco, e il suo Dialogo è stampato fino dall’anno 1548.,
e Leonardo stesso si dice morto nel 1519. cioè neppur trent’anni dopo; era ben
naturale ch’esso Pino sapesse meglio gli avvenimenti di questo celebre
Dipintore, che tant’altri più moderni scrittori; e forse conosciuto lo avrà di
persona, o almeno lo avrà conosciuto per la fama più recente delle sue gesta, e
della sua maniera di operare in pittura; mentre di lui parlavasene da tutta
gente.
Un altro motivo per cui Leonardo
non ha dipinto il Cenacolo a fresco, potrebbesi trarre da ciò che dice il Padre
Girolamo Gattico Domenicano, uomo di molto sapere, e che ha dato alla pubblica
luce assai libri, di cui ne parla con lode il nostro Padre Jacopo Echard nel
catalogo degli Scrittori dell’Ordine. Egli che già quasi da due secoli ha
tessuta la storia esatta di tutte quante le cose appartenenti al Convento delle
Grazie fin dalla sua fondazione, che manoscritta conservasi nel nostro
archivio, parlando delle singolari pitture del Convento medesimo, di quella del
refettorio dice così. “Leonardo Vinci dipinse il Cenacolo che alterato si vede
nel fine del medesimo refettorio, ed il Duca, e Duchessa che si vede a fianchi
della suddetta Gerusalemme, quali si sono infracidite per essere dipinte a
olio, e l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre; ed egli
contro suo volere la fece, perchè così onninamente volle il Duca.” Se dunque
Lodovico volle che la sua immagine e quella della Duchessa Consorte co’ lor
Figliuolini appiè della pittura del Montorfano fosse dipinta ad olio in faccia
al Cenacolo, pare che abbia voluto che fosse simile a quello con cui fu dipinto
il Cenacolo stesso. Perchè se la dipintura del Montorfano è fatta a fresco, ed
a fresco pur fosse stato il Cenacolo di Leonardo, non appare alcuna ragione per
cui il Duca volesse che la sua immagine con quella della Duchessa Consorte
fosse dipinta ad olio, se tutto il rimanente era a fresco. Anzi dicendo lo
stesso Padre Gattico che il Cenacolo fin da’ suoi tempi era alterato, e le figure del Duca e della
Duchessa infracidite, pare che
dovessero essere fatte col medesimo impasto ad olio; dacchè la dipintura del
Montorfano, sul di cui medesimo muro è dipinto il Duca e la Duchessa, ed è
fatto indubitatamente a fresco, ella si è piuttosto ben conservata. Intanto poi
Leonardo si sarà a principio opposto a Lodovico nel far dipignere la di lui
immagine e della Duchessa ad olio, perchè dovendosi porre appiè della
Crocifissione del Montorfano, gli sarà paruta disdicevole cosa, che sopra di
una muraglia stessa, su cui effigiate si veggono tante e sì grandi figure a
fresco, se ne dovesser vedere alcune coll’olio pennelleggiate.
Un altro riflesso che può indurre a
credere che la Cena di Leonardo ad olio sia fatta, si è perchè il pittore
Michel Angelo Bellotti, come si dirà distesamente in appresso, nello averlo col
suo segreto pulita, e fatta, a dir così, venir fuori, si servì specialmente di
alcuni olj; onde pare che se fosse stata formata a fresco, non si dovesse con
olio toccare. Aggiungasi a tutto ciò che nella sopra indicata carta impressa in
rame d’incerto autore, dicesi francamente, che la pittura da cui è ricopiato il
Cenacolo, è fatta ad olio; ed il pittore che dall’originale l’ha ricavata
perchè venisse impressa, par ch’esser non dovesse tanto volgare, mentre
l’incisione in rame non è poi affatto cattiva. Trascriviam le parole già
scritte.
amen dico vobis, quia unus vestrum
me traditurus est.
cavata dal dipinto a olio
di lionardo da vinci
fatto nel i496. e 1497.
Che il Cenacolo sia fatto a olio lo
asserisce pur francamente l’erudito Autore del detto libro Nuova Guida di Milano. Eccone le parole che trovansi alla pag. 326.
“Asseriamo con fermezza essere ad olio, perchè tale l’abbiamo riconosciuto,
osservandolo ed esaminandolo molte volte; e perchè ciò pure è asserito dal
Lomazzo, che l’aveva copiato dall’Armenini, e da tutti gli antichi che indicano
il modo con cui è fatto, benchè modernamente sia stato detto e scritto in
contrario”. Questo è quanto posso dire a favore di chi si avvisa essersi nel dipinto
di Leonardo adoperato l’impasto con olio, come pare che tutti ne convengano i
più vetusti scrittori. Ciò nulla ostante v’ha tuttavia chi crede non essere il
Cenacolo nè ad olio, nè a fresco, ma colla tempera; e si avvisan di poterlo
provare da ciò, che sfregandosi alcuna parte col dito, vi lascia qualche
vestigio di tintura: ciò che non avverrebbe se fosse dipinto ad olio. Ma
siccome la pittura è antica, ed è soggetta assai alla umidità che può ammollare
l’impasto, ed è stata anche ritoccata, come vedrassi in appresso, non mi pare
che da questo solo si possa conchiudere che non siasi adoperato l’olio nella
formazion sua. Ma i periti nell’arte posson meglio tra loro discutere la
quistione.
Siccome però questa difficoltà di
decidere dell’impasto di questa pittura provenir può dall’essere antica, ed
aver sofferte assai ingiurie dal tempo, e da altre vicende, opportuna cosa io
reputo il favellar quì della sua decadenza. Poichè si stende essa sopra un gran
muro nell’entrata del refettorio, o sia che fuori di esso vi è un piccolo atrio
con una vasca in cui i Padri si lavavano anticamente le mani, o sia che il fumo
della cucina ch’esce da un’apertura che vi sta poco lungi, inumidisce, e
scolora quindi il dipinto; o sia che il muro medesimo segnatamente alla destra
di Cristo abbia dalle fondamenta incominciato a contrarre l’umidità e
tramandarnela poco a poco alle parti superiori, egli è fuor di dubbio che dopo
non guari tempo ha cominciato a soffrire un sensibile deterioramento.
Un’altra cagione di questa sua disgrazia
si è, perchè la muraglia su cui vi è dipinto il Cenacolo, esteriormente rivolta
è a tramontana; e di più vicine avendo alcune aperture, e dalla parte del
chiostro, e dalla parte della cucina, oltre la porta di mezzo, e per la vastità
pure del refettorio posto a pian terreno, ne’ tempi di scirocco segnatamente
tanta umidità si raccoglie sulla dipintura, che non può non recarle una pessima
impressione. Il Padre Abate Gallarati Patrizio Milanese, e Monaco Olivetano,
uomo assai savio e intelligente in pittura, che già da molti anni copiò in
miniatura[15]
la Cena di Leonardo con tanto felice successo, che avendone di essa fatto un
presente all’inclito regnante Vittorio Amedeo iii.
Re di Sardegna, così lo gradì, che con principesca liberalità all’onore di un
titolo gli aggiunse l’utile d’una pensione; questo degnissimo Padre Abate,
dico, mi accerta, che qualor’ attualmente ricopiava la nostra pittura, in certe
giornate, in cui dominavane lo scirocco, vedevasi stesa su di essa l’umidità,
come se vi fosse piovigginato sopra, onde riconoscere non vi si potevano
distintamente i tratteggiamenti e le ultime differenze delle figure: il perchè
era d’uopo che l’asciugasse lievemente con una spugna, ovvero con un
sottilissimo pannolino.
Nè giova per riparare il Cenacolo
ricoprirlo colle cortine, che vi si trovano. Se tengonsi chiuse, ne’ tempi
piovosi alla parte destra del Salvatore in ispecie, vi si raccoglie di sotto
l’umidità in tanta copia, che l’acqua aggruppata si vede insino scendere per lo
muro come in piccioli canaletti; e la pittura, se non se le dà aria, si copre
di una sottilissima muffa bianchiccia, la quale farebbe sempre più smontare i
colori, e guastare il dipinto: perlocchè l’espediente migliore egli è di
lasciarla scoperta; tranne quel poco tempo in cui scopasi il refettorio.
Un’altra ragione dell’umidità del
muro pretende di addurre l’Autor della Nuova
Guida di Milano; cioè che sotto il Cenacolo vi era una vasca dove lavavansi
i piatti. Sappiamo, son sue parole, esservi stata una vasca sotto di lui per comodo
della lavanda de’ piatti. Ma d’onde ha egli mai ricavata questa erudizion
pellegrina? Io per quanto scorso abbia le nostre memorie, non ho rinvenuto di
questa vasca indizio veruno. Possibile che sotto una così insigne pittura, per
vedere la quale concorsi saranno, come vi concorrono tuttavia con gran
frequenza i forestieri d’ogni condizione, essere vi potesse ne’ Religiosi tanto
di dabbenaggine da fissarvi un recipiente destinato a farvi la lavanda de’
piatti? I piatti si puliscono in qualche luogo vicino a quello in cui si fa da
mangiare, non nel luogo dove si mangia. Al più essere vi poteva un qualche vaso
portatile per isciacquare i bicchieri: di che però non ho trovato memoria
veruna. Ma l’Autore si sarà ingannato a motivo di quella pietra, che a mia
ricordanza posta era nel mezzo del refettorio, sotto di cui eravi un canaletto
a condur via sotterra l’acqua che soprabbondava, qualora singolarmente ponevasi
il vino nel ghiaccio; la qual però fu già da molto tempo levata quando nel
1769. si è fatto rifare il suolo del refettorio con nuovi mattoni.
Ma lasciando stare ogni altra
cagion del decadimento della nostra pittura, la principale per cui ha patito
assai, ed è per patire, quella è a mio avviso recata da Gio. Paolo Lomazzo
professore sì celebre, ed intelligente in pittura; il qual dice che Leonardo
abbandonato avendo nel dipingere l’uso della tempera, e adoperato in vece per
l’imprimitura l’olio assottigliato al lambicco, si stacca essa agevolmente dal
muro, e rovina la dipintura. Arrecherò le stesse sue parole che trovansi nel
libro del Tempio della Pittura alla
pag. 49. dell’edizion di Milano fatta nel 1591. “Ora Lionardo fu quello che
lasciato l’uso della tempera, passò all’oglio, il quale usava di assotigliar
con lambicchi, onde è causato, che quasi tutte l’opere sue si sono spiccate dai
muri, siccome fra l’altre si vede ... in Milano la Cena di Cristo in Santa
Maria delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura ch’egli vi diede sotto.
Di che riabbiamo grandemente da dolerci che opere sì eccellenti si perdano,
restandovi solamente i disegni, i quali certo nè il tempo, nè la morte, nè
altro accidente sarà mai per vincere, ma con grandissima lode et gloria di lui
viveranno in eterno.”
Per questo motivo specialmente
dell’imprimitura, dopo pochi anni cominciò a deteriorare assai sensibilmente il
nostro dipinto. Lo vide l’Armenini il Cenacolo cinquant’anni in circa dopo che
venne dal suo grande Autore perfezionato, e disse ch’era mezzo guasto; come
leggesi nella Nuova Guida di Milano
pag. 327. L’accennato Padre Gattico che lo aveva tutto giorno sott’occhio, e
che scrisse la storia del nostro Convento sul principio del secolo
diciassettesimo afferma, come si è detto, ch’era alterato; ed il chiarissimo
Pietro Paolo Bosca Sacerdote dell’inclita Congregazione dei Signori Oblati di
Milano nel libro de Origine & statu
Bibliothecæ Ambrosianæ, riferisce che il celeberrimo Cardinal Federico Borromeo, il cui
nome sarà sempre mai immortale, dipinger fece una copia del Cenacolo, perch’era
per l’intemperie delle stagioni talmente mal concio, che tutta veniva ornai la
rappresentata storia cancellata: Caenæ illius
imaginem provida mens Borromæi pingi jussit in tabula, cum særvientis
aquilonis afflatus Dominicanæ cænationi
historiam fere totam abstulerit: e nel margine cita per ciò stesso
il Sansovino negli elogi che tesse delle più illustri città d’Italia.
Anco l’Autor della accennata
lettera lxxxiv. del tom. ii. della Raccolta di lettere sulla
pittura, scultura ec. conoscendo la somma rovina del nostro Cenacolo, ebbe insino
a dire che già da molti anni più non esiste. Queste sono le sue espressioni
poste alla pag. 183. dell’edizione di Roma. “L’occasione la più notabile in cui
egli (Leonardo) fece uso di questa
pratica di disegnare delle fisonomie, fu quando dipinse la famosa Cena del
Signore, di cui la fama si mantiene nel suo vigore, benchè ella non sussista
più da molti anni”. La ragione poi per cui egli dice che più non sussista, cioè
nella sua bellezza natia, l’arreca nella postilla che fa alle stesse sue
parole, e che quì trascrivo. “Questa pittura non durò molto tempo nella sua
bellezza, perchè avendola Lionardo dipinta a olio sopra un muro d’un intonaco
forte, l’umido rigettò bentosto l’imprimitura e il colore, e la fece cadere
sbullettando l’intonaco.”
Cosi pure lo Scannelli che nel
1642. recossi appostatamente a vedere il nostro Cenacolo, restò cotanto
sorpreso nel mirarlo a così cattivo stato ridotto, che disse potere attestare che in riguardo d’incontro
inaspettato mi restasse il gusto in estremo instupidito, scoprendo opera tale
non conservare che poche vestigia nelle figure, e con modo così confuso, che a
gran fatica poteva distinguere la già stata istoria; e le teste, come mani,
piedi, ed altre parti ignude con chiari lividi e mezze tinte trovai quasi
affatto annichilate, ed al presente (il libro è stampato nel 1657.) stimo non siano che del tutto estinte, e le
figure per lo più dal muro diri se, ed in parte fatte oltremmodo oscure, davano
a conoscere le buone reliquie di un’opera già resa inutile, non restando al
riguardante ormai che il credere alla buona fama del passato.
Essendo adunque dal tempo così
malconcia ed a così cattivo stato ridotta la povera dipintura, che credevasi
quasi affatto perduta, e renduta inutile, non debb’essere poi gran maraviglia
se i Padri rifare volendo le tavole ed i sedili del refettorio, e dare ad una
fabbrica così bella e grandiosa un più nobile aspetto, e rialzare
conseguentemente la porta ch’era assai bassa, abbiano alla figura del Redentore
e de’ vicini Apostoli rovinati i piedi: ciò che fatto non avrebbero in alcun
conto se la pittura non fosse stata in pessimo stato, e come perduta. Ciò
avvenne circa l’anno 1652.; e questo si rileva sicuramente dagli attestati di
ricevuta dei falegnami ed altri artefici che hanno travagliato nel refettorio
per l’oggetto indicato, i quali nell’archivio del Convento tuttora ritrovatisi.
Che la pittura nostra fosse ormai
smarrita, e a così dire spenta quando dilatata fu del refettorio la porta, lo
dice pure l’accennato Padre Maestro Monti nella detta relazione stampata nella
addizione al Vasari, come nettamente deducesi dalle seguenti parole. “Una sì
celebre dipintura, come ognuno sa, circa un secolo dopo era quasi smarrita, e
col succedere degli anni talmente erasi perduta, che non avendo più forse
speranza alcuna di riacquistarla, non curando più di un tanto tesoro, pensarono
di alzare e dilatare la porta, ch’era molto bassa ed angusta.”
Mi vien riferito che un altro
motivo, per cui si è innalzata ed allargata la porta suddetta, fu perchè
essendo assai bassa e ristretta, e trovandovisi al di sopra di essa dipinto il
Cenacolo, che l’umidità pativa assaissimo, siasi aggrandita per dargli più
aria. Di questa asserzione però io recar non ne posso prova veruna tratta o
dalle private nostre memorie, o da’ pubblici libri stampati.
L’Autor della Nuova Guida di Milano pag. 328 in tuono decisivo pretende di
addurre il vero motivo per cui dai Padri delle Grazie ingrandito venne del
refettorio l’ingresso; cioè perchè han voluto far divenir porta principale quella
ch’era accessoria, riputandosi per prima
quella che mette nel chiostro vicino alla Chiesa. Ma qual cosa più
inverisimil di questa che un refettorio sì vago, e magnifico com’è quel delle
Grazie abbia ad aver la principale entrata da un lato, quando vi ci si può fare
di fronte, e già v’è di fatto? Oltre di che dai nostri libri noi ne abbiamo di
questa incongruenza le prove più certe. Il Padre Gattico al capitolo
diciannovesimo della storia del Convento afferma che fino dall’anno 1503., cioè
cinque o sei anni dopo terminata la pittura di Leonardo, il Padre Priore
Silvestro da Prierio capitando a Milano
Monsig. Illmo Stefano Vescovo di Parigi suo singolarissimo Padrone, l’indusse a fare de’ suoi danari la
fonte per lavar le mani prima di entrare in mensa, e la pose ove anche oggidì
si vede in comodo del refettorio. Se dunque fino dal 1503. entravasi nel
refettorio dov’è il lavatoio fatto construire dal Vescovo di Parigi, e il
lavatoio si vede dov’è di presente l’ingresso, la principal porta non era
quella laterale del chiostro, per la quale passassero comunalmente i Religiosi
col commodo di lavarsi le mani; mentre a lato di essa non vi fu mai alcun
lavatoio, e non vi son che pitture, antiche più forse di quella di Leonardo;
come ciascuno può chiarirsene di per se. Ecco se si ha con tanta facilità a
credere a tutto quel che si dice, o a tutto quel che si stampa. Intanto poi si
sarà tenuta assai bassa la porta di mezzo del refettorio per lasciar luogo a
Leonardo di compire sul muro superiore in tutta la possibile estensione il
grandioso suo disegno.
Convien però quì avvertire per non
prendere abbaglio, che il lavatoio che trovasi di presente alla porta
principale del refettorio, non è quello stesso ch’edificar fece il Vescovo di
Parigi nel 1503. ma un altro più magnifico di marmo nero che vi si è sostituito
nel 1563., come si scorge nella iscrizione formata colle parole della Pistola
cattolica dello Apostol S. Jacopo, che vi fu a caratteri maiuscoli incisa.
Questa mutazione avvenne essendo Prior del Convento il Padre Maestro Giulio
Zaccaria patrizio Cremonese, che fu quel medesimo che ornò coi nuovi eleganti
sedili il refettorio: il perchè il Padre Monti soprannominato nella serie che
tesse di tutti i Priori, alla storia dello antidetto Padre Zaccaria vi fa
questa postilla. Dum apud nos secundo
praesset, scamna ex nucis ligno affabre composita in caenaculo poni caeperunt,
atque lavacrum ante ejus ostium renovatum est. Vide Catal. Prior. ec.
Qualunque però dir si voglia il
motivo, per cui venne la porta del refettorio dilatata, egli è certo che la
pittura di Leonardo era verso la metà del diciassettesimo secolo a quel
deplorabile stato ridotta che si è superiormente descritto; e vi rimase insino
all’anno 1726. in cui il Padre Maestro Tommaso Bonaventura Boldi, uomo di sapere,
e di merito, essendo Prior del Convento, persuaso forse dal bravo pittore
Michel Angelo Bellotti Milanese, il qual disse di avere un segreto per ajuutare
e cavar fuori l’ecclissata pittura, pensò a farnela ripulire e ristorare.
Procedettero i Padri con tutta la cautela, e ne fecero dal Bellotti stesso fare
in alcune parti meno interessanti le pruove: e veduto il felice successo, ne
commisero ad esso lui la cura, e riposarono sopra la di lui onestà, ed
esperienza. Egli col suo segreto la ripulì tutta quanta, e la ristorò, e fecela
come rivivere e comparire in quella miglior forma, a cui può esser ridotta una
dipintura sopra di un muro, che per una lunga serie d’anni abbia varie vicende
sofferte.
Nel più volte accennato libro Nuova Guida di Milano dice lo Scrittore
alla pag. 329, che il Bellotti dopo avere col suo segreto lavata la Cena di
Leonardo, l’ha ridipinta; e con forte
invettiva si scaglia quindi contro di que’ padroni, i quali permettono che
alcun dipintore qual ch’egli siasi, ponga la temeraria mano nell’opere de’
grandi maestri: invettiva giustissima, ma che non si affà a mio avviso al
Bellotti. Infatti qual prova si adduce egli mai ch’esso abbia tutto ridipinto
il Cenacolo? Nessuna sicuramente. Io anzi rifletto che se ciò fosse vero,
l’Autore stesso sarebbe come in contraddizione con se medesimo. Imperciocchè
parlando egli delle ultime tre figure alla sinistra del Salvatore, le quali non
vennero ritoccate da quell’altro Pittore, che come si accennerà in appresso,
ebbe il coraggio di metter mano nella nostra pittura l’anno 1770., dice che in
esse vediamo almeno un poco del dipinto
veramente dalle beate mani del Vinci. Se dunque tutta dal Bellotti fosse
stata con novelli colori ridipinta la Cena, come dir si potrebbe che nelle tre
accennate figure si vede un poco del dipinto dalle mani di Leonardo? La pittura
vedrebbesi del Bellotti, non già del Vinci. Quando sostenere non si volesse che
anche dopo che l’avesse dipinta il Bellotti, caduti fossero, o si fossero
corrosi i soprapposti colori, e rimasti quelli di Leonardo. Ma come persuadersi
potrà taluno che nello spazio di soli quaranta quattr’anni tra il 1726. ed il
1770. possano i colori stesi sopra un’altra pittura, staccarsi affatto da essa,
e staccarsi in maniera che tutta si vegga, come se non vi fossero stati distesi
sopra? Non si apportano adunque monumenti veridici, onde provar che il Bellotti
tutta abbia ridipinta la Cena.
Nella relazione del Padre
Domenicano bibliotecario (ch’è il Padre M. Monti suddetto) riferita nella
ristampa del Vasari, ed accennata nella Nuova
Guida di Milano pag. 329. si dice bensì che il Bellotti ha col suo segreto
ricavata la Cena di Leonardo, ma non si dice che abbiala novellamente dipinta.
Voglio quì trascriverla per intero come l’ho ricopiata non dalla ristampa del
Vasari anzidetto, ma dall’originale stesso, che conservasi nel nostro archivio,
scritto benissimo dalle mani dell’Autore medesimo. Eccola tutta estesa come si
trova in una nota alla vita che ha tessuta del celebre Padre Vincenzo Bandelli,
che fu il decimosesto Priore delle Grazie, e poscia Generale di tutto l’Ordine
di San Domenico. “Per buona sorte l’anno 1726. essendo Priore del detto
Convento delle Grazie il P. Maestro Tommaso Bonaventura Boldi da Castel nuovo
di Scrivia, uomo degno per la sua dottrina e merito, e che successivamente era
stato Inquisitore nelle città di Tortona, Como, e Milano, vi fu il Sig. Michel
Angelo Bellotti pittore Milanese, il quale con suo particolare segreto si esibì
di ricavare un’altra volta la mentovata dipintura. Il sopraccennato P. Priore,
e gli altri Religiosi del medesimo Convento graziosamente accettarono la di lui
esibizione, e fattane fare con prospero successo in alcuna parte della
dipintura la sperienza, affidarono del tutto al detto eccellente dipintore
l’impresa, nella quale, siccome ognuno ora vede felicementc ne riuscì. Fu da’
medesimi Priore e Religiosi conosciuta la di lui fatica, avendo ad esso lui
regalata, come si ha dai libri del medesimo Convento, la somma di lire 500.
Milanesi, ed il Sig. Bellotti con molta finezza comunicò a’ Padri per ogni
evento il segreto.” Ecco dunque come questo esperto Pittore può aver ajutato il
Cenacolo, senza dipingerlo di bel nuovo.
Infatti nel tomo terzo delle Notizie storiche degl’Intagliatori date
alla luce da Gio. Gori Gandellini Sanese, parlando dell’intagliatore Pietro
Soutmans, dice alla pag. 253. dell’edizione di Siena del 1771. che il Cenacolo
fu dal Bellotti col segreto suo ricavato, ma non che tutto abbialo ridipinto.
così egli dice: “Il residuo poi di detta pittura fu per buona sorte nell’anno
1726. da Michel Angelo Bellotti Pittor Milanese ricavato fuori con un suo
particolare segreto, e quasi restituito al suo primiero colore.”
In confermazione del sin quì detto
aggiungo il testimonio del nostro P. Maestro Paolo Marinoni Milanese già
ottuagenario, e savissimo Religioso, il quale oltre l’essere tuttavia
instancabile nel servizio della Chiesa, dilettasi ancor di pitture. Egli che
vestì l’abito Domenicano nel 1730., cioè quattr’anni soli dappoichè il Bellotti
mise mano al Cenacolo, mi assicura d’aver sempre inteso dire da’ Padri più
vecchj che questo esperto Pittore col suo segreto fece rifiorir la pittura, e
che a punta di pennello toccava que’ soli luoghi ove i colori erano affatto
scaduti; e che accomodata che fu, faceva di se una bellissima vista: com’egli
stesso tante volte da giovinetto rimirata l’ha con piacere. Altri Religiosi
pure mi attestano avere inteso Io stesso da altri Padri più vecchi. Che anzi il
Figlio di un Pittore che travagliato ha insiememente al Bellotti
nell’aggiustamento del Cenacolo, mi accerta di avere inteso più volte dal suo
Genitore, che il Bellotti medesimo per questa sua opera acquistassi gran nome
eziandio presso gl’intelligenti: ciò che non sarebbe avvenuto, se avesse tutta
co’ suoi colori ridipinta la Cena; mentre la pittura non sarebbe stata più
quella di Leonardo, ma di lui che l’avesse rifatta.
So che si dice non doversi per
conto veruno toccar l’opere de’ grandi autori, ed essere assai meglio l’avere
un loro pezzetto non tocco, che averne un gran pezzo ritoccato da pennello non
suo. Ma a ciò potrebbesi opporre, che quando la mano ristoratrice sia d’un
pittore valente, fia meglio ristaurare un’opera, che lasciarla del tutto
perire. Il celebre dipintore Carlo baratti in Roma stessa, ch’è come il gran
teatro delle bell’arti, non solamente venne dal sommo Pontefice Alessandro viii. destinato ad accomodare la famosa
storia del Presepio dipinto nella Galleria di Monte Cavallo, il qual patito
aveva assaissimo; ma da Clemente xi.
chiamato fu a ristorar le pitture di Raffaello poste nel Vaticano, e vi riuscì
con tanta giustezza che ne riportò onori, e pensioni. Non posso non trascrivere
le parole che leggonsi nel tomo undecime della serie degli uomini più illustri
nella pittura ec. alla pag. 159. “Gli ordinò poi (Clemente xi.) che
ristorasse le pitture di Raffaello conservate nelle stanze del Vaticano, nella
quale impresa avendo adoperato Carlo tutto il suo spirito, e il suo sapere, si
acquistò ggloria immortale, ed il Pontefice per dargli una ricompensa eguale
alla grandezza del di lui merito, lo insignì dell’ordine di Cristo nel dì 24.
aprile del 1704., giorno in cui adunavasi nel Campidoglio la solenne Accademia
del disegno, per assegnare il premio a quei giovani, che avessero mostrato
maggior valore, e gli accordò l’annual pensione di 300. scudi.”
Non è dunque un peccato sì grave, e
a dir così irremissibile il mettersi mano da un bravo pittore ad una dipintura,
per quantunque eccellente ella sia, qualor vada essa a perire del tutto. Fia
meglio a mio avviso avere un dipinto ritoccato, che non averlo poi più. Il
Cenacolo nostro (come già vedemmo) talmente erane rovinato, che gli uomini
intelligenti che in più tempi lo videro, ebbero a dire essere un’opera perduta,
e come inutile, ed era come se più non esistesse. Se non facevasegli nulla,
appena avremmo forse al dì d’oggi tanto di muro dipinto da poter dire; quì fu:
il perchè se in Roma si è lasciato por mano alle opere del gran Raffaello,
anche in Milano poteva mettervisi a quella del gran Leonardo.
So che il per altro celebre
dipintore Carlo Maratti, ed ebbe, ed ha dei rimproveratori della sua impresa di
aver messo mano al dipinto di Raffaello: e quantunque Gio. Pietro Bellori per
ciò stesso lo esalti, pure il Richardson lo disapprova dicendo così nel tom. ii. del Trattato di pitture ec. della
stampa d’Amsterdam alla pag. 266. Il y a meme des endroits, quì ont ètè entièranent
rcpeints par Charles Maratti, quì tout excellènt maitrt, qu’il ètoit, loin de
rètablir l’ouvrage de Raphael, ruinè par la longeur du tems; l’a plus gatê, que le tems
n’avoit fait, ou n’auroit pu faire. Anche
l’erudito Sig. Canonico Luigi Crespi nella sua prima lettera scritta ai Sig.
Conte Francesco Algarotti, ch’e la cxc.
del tom. iii. della Raccolta di
lettere sulla pittura ec. con molta forza dimostra quanto pregiudizievole cosa
sia il ritoccar col pennello l’opere de’ più singolari maestri: ma dopo aver
detto quanto suggerire gli seppe il suo sapere e la sua esperienza, conchiude
così. “Il fin quì detto dovrà intendersi di que’ notabili ritocchi, con cui si
tratti di aggiungere teste, braccia, piedi, o cose consimili, poichè
trattandosi di piccoli ritocchi o ne’ campi, o ne’ panni o in altre cose di
simil sorta, non si deve procedere con tanro rigore.” Se dunque il Bellotti non
ha che ripulita col suo segreto la Cena, e tocca appena in que’ luoghi ove vi
si vedevano delle picciole scrostature, e fu l’operazione generalmente
applaudita, non è da rimprocciarsi nè esso che la toccò, ne i Padri che
permisero che la toccasse.
E poichè si
parla di un’opera così grande e pel suo merito, e per la sua estensione, non
sarà fuor di proposito l’avvertire, che siccome il suo mirabile, oltre il bello
di ciascheduna figura tratteggiata d’una eccellente maniera, risulta eziandio
da tutto il complesso e dell’architettura, e di tutte insiem le figure
atteggiate in tanti diversi modi, che ad un colpo d’occhio si veggono in un
campo dì muraglia così vasto; però se per la sua rovina si fosse veduto
soltanto qua e là qualche pezzo men guasto (e molto più se si fosse tutta
oscurata per modo da non ne potere neppur ravvisar la storia delineata), si
perderebbe il mirabile di questa vista sì estesa e grandiosa, che uno è de’
suoi pregi maggiori. Delle altre figure, e quadri di Leonardo trovar se ne
possono altrove; ma un pezzo e un complesso come quel della Cena non ritrovasi
che nel refettorio delle Grazie. Si può ben essa ricopiare in iscorcio, e
inciderla in rame, ed anche ritrarla co’ suoi colori, e si riconoscerà dagli
intelligenti il mirabile del disegno. Ma la copia si ammirerà sempre in
piccolo, e non recherà quella maraviglia che un dipinto può fare in grande, e
come al naturale. Quanto a me reputo saggio consiglio a sostenere il più che si
può questa sì particolare pittura per non lasciarla andare in totale rovina: ed
io saper vorrei cosa mi fare per ristorarla a dovere, e conservare il più che
si può alla mia patria questo divino lavoro, che di buon grado mi presterei;
mentre temo non venga onninamente tra non guari tempo a perire: tanto soffre e
dalla qualità dell’imprimitura, e dalla disposizione del muro, e dalla
intemperie dei tempi umidi. Che se mai verrà a finire, converrà con dolore
soffrirne la perdita. Son mancate tant’opere de’ più eccellenti Greci maestri
Apelle, Anfione, Protogene, Asclepiodoro, dovrà compiangersi la mancanza
eziandio di questa sì celebre di Leonardo.
Ma per non
perderci, a così esprimermi, in inutili piagnistei, e proseguire anzi la
storia, quantunque per l’accennata ricetta del Bellotti, il quale chiamar si
può il ristoratore della nostra pittura, siasi essa in qualche guisa, per dir
così, risanata; pure essendo il suo male per la sua vecchiezza come un mal
cronico, nè essendosi, per quanto si sa replicata, tornò a smontare, e patire
singolarmente nell’ultime figure alla diritta del Redentore. V’ebbe però chi
suggerì a Sua Eccellenza il Sig. Conte Carlo di Firmian Ministro
Plenipotenziario dell’Austriaca Lombardia, e Uomo com’è ben noto, per le
scienze e le bell’arti assai inchinevole, che cosa sarebbe assai opportuna il rinvenire
alcun abile dipintore, il qual capace fosse di ristorare il Cenacolo, e non si
lasciasse affatto perire un tesoro si raro. Mandò però il savio Ministro a
chiamare il Padre Maestro Giacinto Cattaneo, ch’era Prior del Convento nostro
nel 1770., e gli manifestò le sue intenzioni. Il saggio Superiore che ben
conosceva quanto rispettabile fosse la raccomandazion d’un Ministro a tutta
l’Austriaca Corte sì accetto, e che dimostrava pei Domenicani di Santa Maria
delle Grazie una singolar degnazione, (al qual riflesso per dimostrargliene in
qualche guisa la nostra gratitudine, io gli dedicai il mio libro stampato sopra
un Sonnambolo maraviglioso, ch’era un Padre dimorante nel nostro Convento),
aderì esso Priore ai desideri, che per noi erano come comandi del Conte
Plenipotenziario; ben sapendo con un insigne Poeta[16] che un autorevole
personaggio, che alcuna cosa desidera, si può dire che adoperi
Prego, che sforza, autorità, che prega.
Fu dunque secondo l’insinuazion del
Ministro proposto al Priore suddetto un certo Pittore (di cui, per essere già
trapassato, ne taccio il nome) acciocchè in que’ siti in cui più aveva patito,
riaccomodasse il Cenacolo. Si accinse egli all’ardua impresa, ed innalzato come
gli piacque un gran palco per travagliare a suo bell’agio, pose mano alla
pittura per ristorarla; e cominciato avendo dall’ultime figure del lato destro
di Cristo, ch’erano le più guaste dall’umidità del muro, le ritoccò insino alla
terza esclusivamente del lato sinistro. A chi non intendersi di pittura, poichè
vedeva spiccare più colorite e più vivide le figure, non dispiaceva a principio
il travaglio.
Ma il fatto si fu che il Padre
Maestro Cattaneo venne dal celebre Carlo Emmanuele Re di Sardegna (il quale per
l’Instituto di San Domenico in un con tutti i gloriosi suoi Avi, ed inclito
regnante Figlio Vittorio Amedeo iii.
ebber mai sempre una particolar degnazione; ed il Convento nostro delle Grazie
segnatamente gliene professa una singolarissima obbligazione, ed una gratitudin
sincera pei multiplici benefizj che per lo tenimento della Sforzesca
segnatamente gli ha compartiti) venne, dissi, il Padre Maestro Cattaneo
graziosamente chiamato a professore di teologia nella R. Università di Torino;
onde avendo dovuto alla sua carica rinunziare, fu in suo luogo eletto a Prior
delle Grazie il Padre Maestro Paolo Galloni nel mese di Dicembre dello stesso
anno 1770. Se di Alessandro il Macedone venne detto: Magnus Alexander corpore parvus erat; eziandio il novello Priore
s’era picciol di corpo, grande era di spirito; mentre fu dotato di un talento
pronto e vivace, e che oltre l’esercizio nella filosofia, e nella teologia, che
secondo le leggi nostre insegnare doveva per dodici anni ad ottenere la laurea
del magistero, egli era dilettante assai di meccanica, di musica, e molto più
di pittura,[17]
avendo egli quand’era lettore di teologia morale nella città di Pesaro, avuto a
direttore il Sig. Canonico Lazzarini dipintore di credito. Entrato adunque in
possesso della carica di Priore, andò ad esaminare con occhio pittoresco il
riaccomodato Cenacolo, e veggendo che l’opera non proseguiva con quella
felicità che si aspettava; e sapendo per altro canto che dato si era già un
autorevol comando di sospendere intorno alla dipintura il travaglio, si
determinò di togliere ogni indugio, e finirla con licenziare decisivamente il
Pittore. Strepitò egli, ne fece le più amare doglianze, e cercò protettori. Ma
tutto indarno; che il risoluto Priore diede ordine che issofatto si spiantasse
il palco, sborsar gli fece il prezzo patuito; e così rimase la pittura nello
stato in cui vedesi di presente. Se un Priore per una quasi necessaria
condiscendenza permise che si ponesse nella nostra pittura il pennello, un
altro con libero coraggio ha cooperato, perchè levato fosse onninamente.
L’Autore della Nuova Guida ec. dice
che a questo Priore Milano e le arti
avranno sempre obbligazione: pag. 330.
Non puòssi però negar che il
Cenacolo tra perchè fu ritoccato, e soffri le vicende del tempo, sia assai
deteriorato da quello ch’era quando fu da Leonardo compito; ed io m’aviso che
qualora trovavasi nel suo più bel fiore, stato sarà l’incanto d’ogni occhio, lo
stordimento d’ogni pittore[18]. Sono ormai trecent’anni
dacchè fu dipinto, e il pretendere che un’annosa pittura distesa sopra un gran
muro, e muro alquanto umido, ed anzi nitroso che no, e muro esposto ai crassi
effluvj d’una cucina, e muro coperto probabilissimamente con forte imprimitura
ad olio, abbia a conservarsi come se uscita fosse di fresco dalla mano maestra
di chi la formò, sarebbe lo stesso che il pretendere ch’una vecchia emaciata,
sdentata, gialliccia appaia come una giovinetta florida, rubiconda, brillante.
Il tempo che chiamasi edace, consuma il ferro, il bronzo, il marmo, e non avrà
a logorare un dipinto? I Domenicani delle Grazie badato non hanno a spesa
veruna, e fatto hanno quanto per loro si seppe, o venne lor suggerito per
conservare questo domestico loro tesoro, e quel che fatto hanno per lo passato,
disposti sono a farlo per l’avvenire; nè possono far di più. Comunque però
questa eccellente opera di Leonardo abbia sofferte le sue grandi vicende, pure
come trovasi ancor di presente, degna è per tutto il suo complesso, e come
dicesi pel tutto insieme d’essere da chicchessia veduta; e noi che in pranzando
l’abbiam tutto giorno sott’occhio non ci saziam di guardarla; come non si
saziano tanti forestieri che di continuo traggonsi a rimirarla.
Veduto che si è ciò che appartiene
alla storia genuina di questo dipinto, sarà pregio dell’opera il passare a
sventar ciò che intorno ad esso è vera favola, per non dire impostura. Si è
sparso nei volgo che i Padri delle Grazie, quasi conoscitori non fossero del
prezioso tesoro ch’essi posseggono, tutta abbiano fatta imbiancare del
refettorio lor la pittura. Una falsità è questa, di cui altra non vi può esser maggiore,
creata forse dalla bizzaría di alcun vago cervello, o promulgata dal livore di qualche
lingua mordace. Se il fatto avesse a credersi, converrebbe almen dire in qual
tempo, per qual occasione, da chi fu eseguito, o almeno da chi fu veduto questo
vergognosissimo coprimento; come pure converebbe assegnare il tempo in cui fu
levato il bianco, e accennare a un di presso da chi venne ordinata l’opera, da
chi eseguita: ed il volere affermar che sia stato imbiancato il Cenacolo senza
provarlo, sarebb’egli poco men che mostrarsi stolto; come si darebbe a veder
quasi un uom che pazzeggia, chi senza prova veruna volesse altrui spacciare per
pazzo.
Nell’archivio del nostro Convento
non si rinvien neppure una sillabi ch’accenni spesa veruna per questo
bianchimento supposto: e sì che trovansi notate altre spese assai più minute.
Così pur non ritrovasi pagamento alcuno per lo pittore che avesse scoperto il
Cenacolo, e ripulito; il qual certamente avrebbe dovuto impiegar più settimane,
anzi mesi a tal uopo; e conseguentemente percepire una somma considerevole per
le sue fatiche prolisse. E quantunque il non ritrovarsi notata questa partita
nelle memorie del Convento non sia una pruova decisa e concludente, potendo
essersi smarrite le carte; pur ritrovandosi marcate esattamente tant’altre
partite appartenenti il refettorio ed al Cenacolo, e non rinvenendosi questa
del ristauro della pittura imbiancata, esser può una prova, ch’unita all’altre
aver debbe il suo peso.
E poi se stata fosse tutta quanta
la dipintura coperta dì bianco, in qual maniera si sarebbe potuto esso levare
senza guastarnela enormemente; giacchè o per l’imprimitura ad olio, o per la
molta umidità staccata essendosi qua e là dal muro la superficie della pittura,
come tuttavia si vede; nello stendervisi sopra con grosso pennello la liquida
calce, mischiata essa sarebbesi coi rialzati colori, e distaccati avrebbeli da
quel sito in cui ritrovavansi, e penetrando per tutti que’ piccioli forellini,
e fissure che vi si veggono, sarebbe stata un’impresa difficile assai, per non
dire impossibile il poter levare la soprapposta attaccaticcia materia senza
arrecare a tutto il dipinto un guasto immenso? Basta pigliare una scala, e da
vicino esaminarnelo di fin fondo, per dire a prima giunta incredibile essere
onninamente che la pinta muraglia sofferta abbia giammai d’alcun imbiancatore
la mano.
Quello ch’avrà forse dato motivo a
questa voce chimerica si è, che sopra certe pitture per la loro cattiva
situazione, o per altro motivo esce una certa muffa, o fioretto bianchiccio,
che colla lunga tratta del tempo viene ad assomigliare all’imbiancamento d’una
muraglia; come lo accennò il Padre Maestro Monti soprammentovato nella già
detta lettera scritta ad un suo amico; e che quì trascrivo, com’egli ce l’ha
lasciata nelle sue memorie. “Ciò non pertanto qualunque ella sia (parla della sua relazione stampata come di
soppiatto nel tomo secondo della ristampa del Vasari) godo in qualche
maniera ch’essa sia comparsa alla luce, potendo la stessa scemare un’altra
popolar voce che corre tuttavia; cioè che da’ nostri antichi Frati fosse stato
imbiancato il muro, dove rappresentasi una sì apprezzabile dipintura.
Conciossiachè dalla medesima relazione ognuno saprà che detta pittura erasi di
per se smarrita; essendo a quella avvenuto ciò che voi pure avrete osservato di
essere accaduto in altre opere consimili, che o per la loro cattiva situazione,
od anche per la qualità del colorito esce sopra di loro nella superficie del
muro una certa muffa, o vogliam dire certo fioretto bianchiccio, il quale col
lungo succedere degli anni tanto si accresce, che quasi rassomiglia
l’imbiancatura de’ muri.”
Ma a che dirne più, Lo stesso
erudito Autore del libro Nuova Guida di
Milano riconosce e confuta pur l’impostura di cui si parla, ed a dimostrare
la falsità dell’immaginario imbiancamento, ricorre ad un altro genere di prove
tratte dai viaggiatori, che il Cenacolo di Leonardo hanno in ogni stagione
veduto. Trascriverò le sue parole poste alla pagina 327. “Proseguì la povera
pittura di Lionardo nello stato dell’originaria sua sciagura per tutto il
secolo passato, e per varj anni del presente, falso essendo che i Padri
l’abbiano mai fatta coprire di bianco, come alcuni vanno dicendo. Siamo
accertati di questo dagli Autori che hanno scritto di essa dal tempo dello
Scannelli sino al 1725. in circa, fra quali basta citare il nostro Torri che
scrisse verso il 1670., e il Richardson padre, e figlio, che debbono avere
fatto il viaggio d’Italia verso l’anno 1715. suddetto; avendo stampata l’opera
loro nel 1728., i quali ne danno una descrizione detagliatissima, indicando la
di lei rovina veramente grande ec ec.” Se dunque la dipintura nostra si è in
ogni stagione veduta, come si verrà a dire essere stata cancellata col bianco?
Un’altra prova convincentissima di
non esser mai stato imbiancato il Cenacolo si desume dall’universale silenzio
di tutti gli autori, che di esso han favellato. In fatti nulla ne dice il
Vasari, nulla il Lomazzo, nulla lo Scannelli, nulla il Torre, nulla il
Lattuada, nulla il Richardson, nulla il Mariette; come pure niente ne dicono i
Commentatori nella ristampa del Vasari medesimo, niente i Raccoglitori delle
lettere di pittura, scultura ec., niente i Compilatori della serie degli uomini
più illustri ec., e se pur se ne parla nel libro Nuova Guida di Milano, il suo Autore è di contrario parere, e
l’opinione dell’imbiancatura, come vedemmo, confuta validamente. Possibile che
se fosse stato imbiancato il Cenacolo, niun autore nè antico nè moderno
l’avesse accennato, quando di questa famosa opera se n’è con tutte le più
minute circostanze in ogni tempo parlato? Certamente che se alcun forestiero
nel rimirare la nostra pittura- si avvanzasse a dirmi ch’essa è stata per
volere de’ Padri col bianco ricoperta, lo pregherei a dirmi da qual autore
abbia egli pescata questa sua così bellissima erudizione; e gli chiederei se
mai per avventura ne avesse un qualche anecdoto
singolare in cui riscontrarla, mi facesse grazia di comunicarmelo per metterlo
alla pietra del paragone, e riconoscerne in autentica forma la verità. Chi
sostenesse questa opinione dell’imbiancamento del nostro Cenacolo senza
documento veruno, un uom mostrerebbesi di ben piccola levatura. Se il Burnezio
di Aristotile favellando, nelle cui opere si avvisava di aver ritrovati tredici
errori massicci[19],
e’ lo lascia con questo grazioso saluto: Addio, Stagirita; tu sarai sempre appo
me un cattivo astronomo, un teologo peggiore, un fisiologo pessimo - Vale
Stagirita: semper mihi eris malus Astronomus, Theologus pejor, Physiologus
pessimus: io pure dir potrei a chi sostenesse l’imbiancamento della nostra
pittura, esser lui un cattivo storico, un peggior critico, un ragionator
pessimo. Chi si appoggia nelle sue opinioni alla sola popolar voce, egli è un
pensator ben meschino; dacchè non v’ha chi non sappia quanto sia essa fallace;
ond’ebbe a dire anche il Dante (Parad.
Cant. xiii.)
. . . . Più volte piega
L’opinion corrente in falsa parte:
e chi vuol fiutare su tutto, e non curare con aria sprezzatrice i
monumenti e ragioni anco più chiare e lampanti, ben si merita con più giusto
disprezzo d’esser con Orazio chiamato (Serm. lib. 2. Sat. viii.)
. . . . Balatro suspendens omnia naso.
Si cancelli pertanto dalla mente
d’ogni amatore del vero che la pittura di Leonardo sia stata imbiancata
giammai.
Un altro vago capriccio nacque in
capo a taluni di asserire, che questo eccellentissimo Dipintore dal Padre
Superior di que’ tempi accusato presso al Duca Lodovico il Moro come troppo
pigro e lento nel dipignere ed ultimare il Cenacolo, per fare di questo affronto
una bizzarra pittoresca vendetta, abbia nel brutto viso di Giuda ritratto il
brutto viso del Priore medesimo. Il Padre Maestro Allegranza Domenicano figlio
dell’altro nostro più antico Convento di Sant’Eustorgio in Milano, amante assai
d’antichità, e noto non che alla nostra Città, a tutta la repubblica letteraria
per varie opere da esso lui date alla luce in tale materia, scrisse sopra di
ciò nell’anno 1765. una lettera al Padre Maestro Monti sopraccennato,
chiedendogliene il suo parere. Gli fece egli risposta, la quale poichè ha
poscia inserita nella serie che ha tessuto di tutti i Priori che ressero il
Convento di Santa Maria delle Grazie favellando del celebre Padre Vincenzo
Bandelli, la trascrivo quì di buon grado, e perchè pienamente confuta una tal
capricciosa invenzione, e perchè alcune cose accenna, che han relazione alla
nostra pittura, e che gioverà che si sappiano. Così dic’egli. “Riguardo poi
alla seconda vostra inchiesta, ciascuno che colla menoma riflessione legga la
detta aggiunta (parla di quella fatta al
Vasari nella vita del Vinci) intende tosto che Leonardo pe’ ischerzo
soltanto, e per isbrigarsi, come scrive Giovanni Bottero[20] dell’impaccio con
Lodovico il Moro, presso di cui si dice che fosse accusato dal Priore, propose
a quello, che, quando non gli fosse suggerito miglior pensiero, avrebbe
ricopiato nel volto di Giuda la faccia del Priore a lui molesto: ma in verità
da tale aggiunta non mai si diduce, che Lionardo effigiasse il ritratto del
Priore. Anzi tutto il contrario si ha da quanto scrive Gio. Battista Giraldi,[21] il quale dopo avere
riferita la giochevole risposta di Lionardo al prefato Lodovico, soggiugne
dello stesso Lionardo. Avvenne che un
giorno gli venne per ventura veduto uno che aveva viso al suo desiderio
conforme, e egli subito preso lo stile, grossamente il disegnò, e con quello, e
con le altre parti, che egli in tutto quell’anno aveva diligentemente raccolte
in varie facce di vili e malvage persone, andato ai Frati compì Giuda con viso
tale, che pare ch’egli abbia il tradimento scolpito nella fronte.
“Ciò non ostante, Amico mio, io
stimo favoloso tutto il racconto portato nell’aggiunta accennatami dei Vasari.
Imperciocchè il teste nominato Giraldi, che forse il primo fu a scriverlo, dice
precisamente che Lionardo rispose al Duca che restavagli a fare la sola testa
di Giuda: Giovanni Bottero di sopra riferito asserisce che Lionardo affermasse
allo stesso Duca che non gli mancavano a formare che due teste, quella cioè di
S. Pietro, e quella di Giuda: finalmente nella summentovata aggiunta del Vasari
scrivesi, che Lionardo dicesse, che gli restavano ancora a dipingere le teste
di Gesù Cristo, e di Giuda. La sola diversità pertanto di questo racconto
sembra bastevolmente dimostrare la falsità del medesimo. Aggiugnete di più che
il Vasari certamente si è ingannato allorchè scrisse di essere rimasta
imperfetta la faccia del Redentore; mentre siccome ognuno vede, ed essa, e le
altre tutte sono finite ugualmente. Anzi come mai potrà credersi, che Lionardo
lasciasse imperfetta la faccia di Cristo, s’egli non ha dipinto questo nostro
Cenacolo, senza averne prima con sommo studio formati in dodici tavole gli
esemplari di ciascheduna figura? A voi che benissimo delle patrie nostre cose
siete consapevole, sarà egli pur noto che tutti gli accennati esemplari si
conservavano nella casa de’ Signori Conti Arconati patrizj nostri Milanesi, e
tuttavia si conserverebbero se il Conte Giuseppe Arconati, trapassato già da
due anni (questa lettera del Padre M.
Monti ha la data del 5. Ottobre 1765.) ceduti non gli si avesse al Marchese
Casnedi, da cui traportati a Venezia, passaron nella Veneta patrizia famiglia
Sagredo, la quale estintasi, furono dagli eredi, unitamente ad altri preziosi
quadri della nobile galleria di detta famiglia venduti al Console d’Inghilterra
residente in quella Repubblica. Or sappiate di più che nel giorno del Santo
Natale l’anno 1763. in questo stesso nostro refettorio io ebbi il vantaggio di
parlare a lungo con certo Sig. Odni Inglese, il quale cred’io, che facesse le
veci del Console suddetto, ed abbia contrattata l’accennata vendita; e da esso
lui non solo intesi che detti esemplari erano di già trasmessi in Inghilterra,
ma che i medesimi erano pure interamente simili e corrispondenti in ogni loro
parte, ed in ogni loro figura all’originale di quesito nostro refettorio.[22] Tutto ciò vi scrivo,
perchè maggiormente riconosciate l’improbabilità del racconto nella aggiunta ai
Vasari. Ma quello che sono per aggiugnervi pienamente vi renderà persuaso.
“Nella sopraddetta mia relazione
stampata ultimamente in Roma nelle note al Vasari, avrete osservato, che
quantunque io non abbia potuto fissare il tempo, in cui Lionardo diede
principio a questa sua dipintura, ho però mediante autentico documento
dimostrato, che egli attualmente dipingeva nell’anno 1497., in cui appunto di
già contava un biennio nell’uffizio di Priore il P. Maestro Vincenzo Bandelli,
che pure nel medesimo proseguì per altri tre anni successivi, dopo ancora
pertanto la nota prigionia del Duca Lodovico.[23] Or se alcuno mai, questi
certamente esser doveva il Priore che appresso il Duca suddetto instasse,
perchè Lionardo desse finalmente all’opera sua il compimento: tanto più che
Lionardo chiamato dal Duca Lodovico giunse a Milano solo nel 1494., onde prima
del 1495. non è credibile che desse principio alla pittura. Ma sembra a voi che
Lionardo, uomo di molto intendimento, e di grande accortezza divenisse allora
sì imprudente e sì sciocco per proporre al Duca di volere nel volto di Giuda
ricopiare la faccia dì questo Priore? Era Vincenzo Bandelli pel suo sapere, e
per le solenni sue dispute noto all’Italia tutta, e singolarmente in questa
nostra città, ove disputando pubblicamente confuse gli Ebrei alla presenza del
prefato medesimo Duca. Godeva egli inoltre di moltissima grazia e confidenza
appresso lo stesso Principe, il quale costumando per sua degnazione di pranzare
due volte ogni settimana in questo nostro Convento, si compiaceva di seco
averlo a commensale.[24]
Ma quello che più rileva egli è che
il Padre Bandelli era di bello e venerando aspetto, come voi pure potrete aver
ravvisato nell’antico di lui ritratto, che tuttavia conservasi presso di noi; e
può ognuno accertarsene di più da quanto scrive Leandro Alberti autore
contemporaneo.[25]
Erat, dice egli, mediocri statura, facie magna & venusta, capite magno, &
procedente ætate calvo, capillisque canis consperso. In
omnibus gestis compositus, ut ex suo composito, & iucundo aspectu omnium
animos in revertntiam flecteret.[26]
Voi
pertanto, siccome ogni altro credere non potrete che Lionardo pensasse giammai
di fare al Duca Signore una sì stolta proposizione. Che però tutto il racconto
della più volte mentovata aggiunta mettere si può ancor esso nel numero di
quelle favolette, che per trattenimento si van raccontando ai fanciulli.”
Si scorge pertanto chiaro ed aperto
quanto per ogni riflesso sia dal vero lontano, che nella faccia di Giuda sia
stata da Leonardo tratteggiata la faccia del Priore importuno; e si scorge pure
quanto poca fede si meritino tante relazioni stampate, le quali anzi che storie
appellare si possono spiritose invenzioni. Se prima di dare alla pubblica luce
la notizia d’alcun fatto, se ne cercassero i monumenti nelle originarie loro
fonti, come usar dovrebbe ciascheduno scrittore, a cui la propria estimazion
stia a cuore, non si vedrebbono pubblicati fin colle stampe tanti spropositi
che ingannano gl’idioti, e fanno ridere i saggi, i quaali ben s’avveggono che
certi autori più che da storici la fan da indovini; non volendosi poi credere
che la facciano da impostori. Certamente che se il Giraldi, il Vasari, il Bottero,
il Sig. de Piles, il Lacombe nel suo Dizionario storico delle belle arti, ed
alcuni altri fatto avessero le opportune ricerche nei monumenti del Convento
delle Grazie in cui trovasi la pittura, stati sarebbero nello scrivere più
circospetti. Certi scrittori a mio avviso pareggiare si possono ai gazzettieri. Se le relazioni che
avvanzano nelle effemeridi che danno alla luce, vengono loro da buoni canali, e
son veritiere, riportano laude; se da cattivi, e son false risveglian disprezzo.
Per simil guisa gli apportatori di qualche avvenimento, se pescato l’hanno da
limpide fonti, riscuotono applauso; ma se da limacciose, ritraggon le beffe. La
cagione poi per cui agevolmente si pubblicano delle relazioni anzi false che no,
e fanno vista di storielle galanti, si è perchè avvien le più volte che o per
bizzaria di un vago cervello che parla, o per mala intelligenza di un idiota
che ascolta, si narra alcun fatto come avvenuto. Questo passa da bocca a bocca,
e come un placido lago che da sasso percosso gl’increspamenti suoi d’uno in
altro in assai distanza per cerchio dilata, si sparge all’intorno per tutto un
intero paese, e si piglia per tradizione costante. Uno scrittore tenendola per
tale la riferisce nel suo libro che pubblica; un altro lo ricopia da esso, questo
da quello, e così d’uno in altro passando, e come suol dirsi de charta in papyrum, vien comunalmente
creduta, e ciò ch’è favola, passa poi per istoria.
Un’altra ragione per cui sembra
affatto improbabile che il Priore facesse istanza appo il Duca Lodovico, acciocchè
Leonardo terminasse il Cenacolo, l’arreca il dotto Autore del più volte citato
libro Nuova Guida di Milano: cioè perchè
avendolo il valente Pittore compito in tre anni scarsi, non era poi questo un
tempo prolisso per un opera così grande. Trascrivo le sue stesse parole poste
alla pag. 332. da cui meglio si rileverà la sua mente. “Veniamo a più liete
cose, a far vedere probabilmente quanto tempo abbia posto Lionardo in
dipingerlo, onde conoscere se possa esser vera o no la storiella del Padre
Priore, che lamentatosi con il Duca della lunghezza del Pittore, e fatta da
esso lui querela a Lionardo, si sentisse dire non sapersi da esso ritrovare due
fisonomie addattate al soggetto, quella di Cristo cioè, e l’altra di Giuda, e
che per questa ultima poteva quasi servirsi di quella del P. Priore, come
persona molesta ec, storiella stampata già da Gio. Battista Giraldi nel suo
discorso sopra i romanzi, e addottata dal Vasari amante di spargere baie nelle
sue vite per divertire i Lettori, e poi presa per oro contante da tutti gli
altri, fuori di Mariette, che hanno scritto di Lionardo, e di questo Cenacolo.
“Siccome tutto s’appoggia sopra la
lunghezza eccessiva del Vinci, così potendosi mostrare che sia fatta questa
pittura in un tempo discreto, la storiella svanisce da se.
“Essendo il luogo del dipinto di
Leonardo meno degno di quello, ove il Montorfano dipinse a fresco la
Crocifissione, come si è detto, bisogna credere che il Vinci abbia fatta l’opera
sua dopo quella dell’altro; poichè Lionardo avrebbe certatamente preso per se
il sito migliore. Montorfano ha scritto nella sua pittura l’anno 1495. come
abbiamo già indicato di sopra; e Fra Luca Pacioli amico di Lionardo nel suo
libro della divina proporzione composto nel 1498. parla del Cenacolo come di
cosa già finita, onde sembra che Lionardo non possa averci impiegato che tre
anni scarsi.
“Un tal tempo non è certamente
troppo lungo per un sì gran lavoro, massime fatto a olio; giacchè bisogna
primieramente imprimere il muro, lasciarlo asciugare, abbozzare il dipinto, dargli
tempo ch’esso pure si asciughi, e poi ridurlo al conveniente finimento. Il
dipingere ad olio, tutto compreso, è il più lungo d’ogni altro. Scandagliato
adunque il tempo per le suddette necessarie operazioni, i mesi freddi, ne’ quali
difficilmente si lavora, gli studj sulla natura indispensabilissimi, chiunque
ha cognizione pratica dell’arte, converrà con noi, che tre anni scarsi non sono
quel tempo da movere un uomo savio e dotto, come sappiamo essere stato il Padre
Bandelli, a ricorrere al Duca; e però dee tenere facilmente questo racconto per
una di quelle galanti cose, con le quali il Vasari ha voluto avvivare l’opera
sua, delle quali noi potremmo tessere un discreto catalogo mostrandone l’insussistenza,
se l’oggetto di questo libro lo permettesse.”
Reputo quì superfluo lo stendermi
più lungamente su questo punto; mentre poi il Giraldi essendo stato forse, e
senza forse il primo che raccontò la storiella bizzarra del Priore importuno (dacchè
il suo Discorso sopra i Romanzi venne stampato dal Giolito fino dal 1554.), la
sua relazione fu poi buonamente dagli altri autori seguita; la qual però non
può essere più improbabile, per non dire ridicola. Egli asserisce che Leonardo
dopo aver terminata l’effigie di Cristo, e degli altri undici Apostoli, dipinse
il corpo di Giuda sino alla testa, e che per più di un anno lo lasciò senza di
essa, non essendosi mai recato al Convento per travagliare. Può egli fingersi
cosa più inverisimil di questa? Come credere si potrà che Leonardo potesse
pignere acconciamente il corpo di Giuda senza la testa, se il volto quello
esser dovendo che ha ad esprimere quella passione o di amore, o d’ira, o di
crudeltà che si vuol rappresentare, a tenor di esso si dee naturalmente
atteggiare anche il corpo? Come credere che un tanto Pittore pennelleggiar
dovesse una tant’opera, se prima non l’avesse tutta sul suo abbozzo delineata;
il qual pur si sa che tutto compito e fatto a pastello trovasi di presente in
Inghilterra nella Galleria Reale, siccome si è accennato? Come credere che
Leonardo portandosi ogni giorno al Borghetto, luogo ove abitavano le persone
più vili e malvage della città, per ritrovare una fisonomia acconcia ad
esprimere il volto fellone di Giuda, e trattenendovisi per ben due ore; in un
anno, e più non abbiala potuta mai rinvenire? E poi se Lodovico dopo la morte
della sua Beatrice, ch’avvenne a 3. di Gennaio del 1497. recavasi due volte
ogni giorno ad orar nella nostra Chiesa, e due volte per ciascuna settimana si
traeva al Convento a pranzare, come meglio vedrassi, e Leonardo finita aveva la
pittura nel 1498., come rilevasi dal Padre Luca Pacioli nel libro della Divina proportione; è egli probabile che
in questo frattempo volesse egli starsene più di un anno senza portarsi per
travagliare alle Grazie? Non doveva egli il Principe stesso, che ordinò la grand’opera,
e che delle bell’arti era amator sì impegnato, veder da se medesimo questa
mancanza lunghissima, e chiederne la cagione? E Leonardo anch’esso, uomo d’un
animo sì ben fatto, che scorgeva il Duca cotanto inchinevole a favorir que’
buoni Religiosi, fia possibile che dare non si dovesse tutta la sollecitudine
di secondar le premure d’un tanto suo Benefattore, da cui riceveva e onori
distinti, e stipendi generosi? Creda pure chi vuole alla relazion Giraldiana, ch’io non me la ingozzo di
certo. Se Messer Cristofaro padre,
come lo dice il Giraldi stesso, gli ha narrata questa vaga storiella, ei l’avrà
da buon messere creduta; e come sarà egli stato innocentemente ingannato, così
divenuto sarà ingannatore innocente. Ma di ciò abbastanza.
Passiamo per ultimo a confutare un’altra
ridevole diceria, cioè che nel ritoccamento che si è fatto della nostra pittura
nel 1770. sia stato posto in mano a San Pietro il coltello, che prima non aveva;
quasi agevole cosa fosse nell’opere de’ più insigni maestri farvi que’ cangiamenti,
che ad un bizzarro pittore può suggerire il capriccio. Ma questa asserzione si
dissipa tosto come nebbia al soffiare di un vento. Due sole volte, per quanto è
a mia notizia, si è da’ pittori posta mano al Cenacolo; dal Bellotti la prima
nell’anno 1726., il quale, come si è detto, ripulito lo ha e cavato fuori col
suo segreto, ritoccando a punta di pennello i luoghi più guasti; la seconda da
quell’altro innominato pittore, che si accinse per ristorarla nel 1770. Io mi
ritrovava in quest’ultimo anno in Milano, ne ho veduto, o udito dire da persona
veruna che quel Dipintore abbia posto in mano il coltello a San Pietro, quasi
non l’avesse da prima; nè mi pare in conto alcun verisimile che la mano di
questo impostolo avesse ad esser disposta in maniera da potervi adattare un
coltello, senza cambiarla di molto. Quando non si volesse asserire essere stato
questo notabile cambiamento di tutta la mano veracemente eseguito. Ma basta
gittare uno sguardo benchè passaggero nella pittura per riconoscere di primo
lancio la naturalezza del disegno ideato senza meno da Leonardo medesimo, che
per esprimer San Pietro, il quale come tra gli Apostoli fu il più animoso,
tagliò nell’orto di Getsemani l’orecchio ai servo del Principe de’ Sacerdoti,
posto gli ha un coltello in mano; come a Giuda ha posto in mano la borsa per
farnelo ravvisare per lo traditore fellone, che per trenta danari vendette il
suo divino Maestro. Io certamente non posso non istupire che chiunque rimira, ed
esamina con tutta attenzione e spassionatezza la nostra dipintura, non
riconosca a pieno meriggio la natural posizione dell’armata mano dell’Apostolo
Pietro, immaginata dallo stesso Leonardo.
Ma a che cercarne altre prove, se
in tutte le più vetuste copie del Cenacolo vi ci si vede il coltello? Nell’antichissima
ch’è dipinta a fresco sopra un gran muro nel Monistero di Castellazzo discosto
circa due miglia da Milano, ch’è di ragione de’ Padri Gerolamini, e che secondo
la tradizione che corre tra loro, è stata da Marco Uggioni discepolo del
medesimo Leonardo dipinta, San Pietro collo atteggiamento affatto uguale a quel
che vedesi nel nostro refettorio, ha nella rivoltata mano il coltello; come
pure si vede nella copia in grande che trovasi pennclleggiata sul muro de’ Padri
Minori Osservanti detti della Pace in Milano, ed in quella dipinta in tela che
trovasi nell’Orfanotrofio di S. Pietro in Gessate; ed in un’altra antica fatta
colla matita rossa, che nel Convento nostro conservasi. Così pure in un’altra
copia dipinta sul legno ch’esiste presso di un nostro Padre che dilettasi di
pittura, e la quale al solo vederla contar dee più di due’ cento anni, la
destra di S. Pietro ha impugnato il coltello: come pure impugnato lo ha nell’accennata
pregevole copia che in miniatura ha colorita il sopra lodato P. Abate Gallarati,
e che trovasi di presente nel Palazzo Real di Torino. La copia eziandio che
della nostra pittura ne fece fare col solo busto delle figure il soprannomato
celebre Cardinale Federico Borromeo, e che fu nella Biblioteca Ambrosiana
locata, rappresenta S. Pietro avente nella destra il coltello. Anche il celebre
Padre D. Angelo Fumagalli Cisterciese, ed Abate dell’inclito Monistero di S.
Amhrogio in Milano, letterato ben noto per la singolare sua erudizione, e per
molti pregevoli libri dati alla pubblica luce, si è graziosamente compiaciuto
di farmi vedere un’ antichissima copia del Cenacolo dipinta sulla pergamena,
che trovasi nell’archivio, in cui conservasi la preziosa raccolta de’ monumenti
spettanti alla diplomatica; ed il
coltello si vede come nella nostra pittura in mano a San Pietro. Che più? Si
mira esso pure manifestamente in quell’abbozzo della Cena che trovasi in Milano
nella casa del chiarissimo Sig. D. Giuseppe Casati, che fu Re d’armi, il quale
è antichissimo, ed è accennato dall’Autore medesimo nella Nuova Guida di Milano; onde od esso non fu veduto, o vedendosi non
venne esaminato. A recar le molte parole in poche, in tutte le copie del Cenacolo,
si in pittura, che incise in rame, armata scorgesi nettamente di San Pietro la
mano: ed io strabilio al pensar come mai avvanzare si possano sbagli così manifesti.
Prima di pubblicar colle stampe la notizia di qualche fatto, convien pesarlo
colla maggiore esattezza sulle bilance della critica, e del buon senso, e
cercarne i documenti più esatti: altrimenti scoprendosi o tosto o tardi lo inganno
troppo supino, l’autore in vece di laude, biasimo ne riporta.
Sarebbe quì a dire alcuna cosa
delle copie dell’insigne nostro dipinto, non dico già di quelle fatte a colori,
che saranno moltissime, ma di quelle che in varj tempi vennero incise in rame.
Ma siccome di tali cose dar non ne posso un accertato giudizio; anzi come
rilevo dall’Autore della Nuova Guida di
Milano, non v’ha forse copia d’incisore veruno che possa appellarsi
perfetta, dicendosi pure nell’accennata lettera attribuita a Monsieur Mariette
pag. 195. Lionardo ha avuta disgrazia, perchè
ha dato sempre in intagliatori mediocri; però mi astengo dal favellarne; e
tanto più che so con mio gran piacere (come lo accennai nell’avvertimento al
Lettore) che dal celebratissimo Ferdinando iii.
Gran Duca di Toscana, che degno Fratello è dell’Augusto clementissimo nostro
Sovrano Francesco ii., e Nipote
dell’inclito R. Arciduca Ferdinando Ces. Luogoten. e Govern. dell’Austriaca
Lombardia, è già stata al valente Pittore il Sig Teodoro Matteini Pistoiese
ordinata la copia di questo pezzo divino, acciocchè venga poi impressa in rame
dal rinomatissimo incisore il Sig. Raffaello Morghen; onde quell’opera grande
che non può essere che nel refettorio delle Grazie mirata, sarà per ogni dove
veduta, se non in se medesima, almen nel suo disegno, e darà all’esimio suo
Autore l’immortalità della fama.
Se i modelli del Cenacolo fatti da
Leonardo a pastello, che vennero con grandissima nostra perdita traportati,
come si è accennato, sino in Inghilterra, fossero tuttavia in Milano, avrebbe
potuto il Sig. Matteini suddetto sul loro esemplare perfezionar la sua copia,
senza que’ difetti che nella nostra pittura potessero essere mai avvenuti nel
ritoccamento che di essa si è fatto. Ciò nulla ostante la perizia e
sollecitudine del medesimo Dipintore nel riscontrare in altre copie tutto ciò
che può condurre a perfezionare il suo lavoro, supplir potrà a qualsivoglia
mancanza. Io bramosamente desidero che l’opera riesca a dovere, come non ne
dubito punto, onde torni a maggior onore del gran Leonardo, a decoro del nostro
Convento, a gloria dell’Italia, e ad eterna onorata memoria e de’ valenti Periti
che hannola ad eseguire, e segnatamente del saggio Principe che l’ordinò; onde
dir gli si possa ciò che al Serenissimo Cardinal Leopoldo di Toscana applicò l’antidetto
Senator Filicaia in una sua Canzone:
Mentre avranno acqua i fiumi,
Ed ombra i monti, e signoria le stelle,
E moto i cieli, oltra le vie del sole
Fia, che’l gran nome tuo si stenda, e vole.
Reputo quì
opportuno di avvertire il Lettore, che mentre sta per andar sotto il torchio l’ultimo
foglio di questo mio libro (cioè circa la metà di Marzo) il Sig. Teodoro
Matteini terminata ha la bellissima copia del Cenacolo, che incontra il pieno
aggradimento di chiunque ne la rimira. Tra non guari tempo verrà spedita a
Firenze, onde sia poi impressa in rame dal Sig. Raffaello Morghen; e non dubita
punto che alla maestria del Pittore andrà di concerto quella pure dell’Incisore.
[1] Amos Cap. 7. vers. 14.
[2] Proverb. 13. vers. 4.
[3] Il Conte
Gasparo Vimercati fu certamente prode nel mestier della guerra, mentre servito
avendo per assai anni i Duchi di Milano in qualità di Generale dell’armi,
trionfò de’ Francesi, e salvò la sua patria. Nel nostro Convento delle Grazie
abbiamo un quadro grande, in cui si vede dipinto in piedi il Conte Gaspare
innanzi ad un’immagine della Vergine, ed appiè della pittura si leggono scritte
in caratteri majuscoli le seguenti parole: comiti
gaspari vimercati militum generali gubernatori, cænobii hujus fundatori. hic patriam
servavit, gallos subegit. fratres sanctæ mariæ gratiarum mediolani
optimo benefactori.
[4] Il
Vimercati al valore d’un capitano seppe unire, a dir così la pietà d’un monaco.
In varj suoi ritratti ei si vede dipinto innanzi a qualche santa immagine. Nel
mezzo de’ quartieri militari, ch’eran locati vicino al Castello, erger vi fece
una picciola cappelletta a quel sito precisamente ove nella Chiesa delle Grazie
vi è di presente l’altar del Rosario; la qual fabbrica non volle il Conte che
fosse atterrata nella erezion del Convento, ovver della Chiesa. Ei fece dipignere
un quadro rappresentante la Madre di Dio, sotto al cui spiegato mnnto vi ha
fatto a mano diritta ritrarre ginnocchioni se stesso, alla sinistra la sua
Moglie con tutti i suoi Figliuoli quinci e quindi ben distribuiti; ed è quel
quadro stesso che si venera di presente all’altare medesimo del Rosario.
Si vuol per alcuni che questa
pittura sia opera di Leonardo. Io l’ho fatta esaminare con tutta attenzione dal
Sig. Teodoro Matteini di già nominato, il quale per la sua perizia nell’arte
dare ben può un retto giudizio; e fidatamente ha pronunziato, lavoro non essere
di quel valente Pittore: e mi sembra che il suo parere accordisi colla storia.
In fatti io truovo nel celebre Tiraboschi (a cui per la vastissima sua
erudizione ed esattezza tutta debbesi la credenza) che Leonardo nacque nel
1452. Il Convento delle Grazie si è sicuramente incominciato a fabbricare nel
1464., ed eran già due anni che i primi Padri spediti per istabilirvisi,
alloggiavano in un sito graziosamente lor conceduto dal Conte Gasparo Vimercati:
la Cappelleria era già stata da esso lui eretta prima dell’erezion del
Convento, e già da qualche tempo vi era stata riposta l’effigie della Vergine:
dunque se Leonardo stato fosse il dipintore del quadro, pinto lo avrebbe in età
di circa otto anni, quanti se ne contano dal 52. al 60. in supposizione che la
pittura fosse stata formata solo quattr’anni prima della fondazion del
Convento. Che se poi la sacra Immagine esisteva 14. o 15. anni prima; com’è
assai più probabile, mentre innanzi che i Padri Domenicani di Pavia venissero a
stabilirsi in Milano, era già essa per le molte grazie che compartiva
famosissima divenuta, come rilevasi dalle nostre memorie, Leonardo in tal caso
non era ancor nato, Il perchè lo Scrittor Carlo Torre alla pag. 161., dice così.
“Fu chi lasciò scritto essere la detta effigiata Vergine parto del pennello di
Leonardo. Ma io non l’assicuro, temendo se ciò dicessi, di commettere un
anacronismo.”
Che che ne sia del pittore che l’ha
pennelleggiata, certa cosa eIla è che questa immagifne del Conte Gasparo e
divenuta a que’ tempi così prodigiosa, ed operatrice di tante grazie, che
concorrendo ad essa non solamente i Milanesi, ma tutte le genti circonvicine,
fu stabilito nel Capitolo de’ Padri Domenicani della Congregazione di S.
Apollinare celebrato in Ferrara nel 1465. che il nostro Convento, il qual nella
sua fondazione appellato fu di S. Domenico, fosse poscia chiamato di Santa
Maria delle Grazie; come tuttavia ne conserva la nomenclatura. Il nostro Padre
Girolamo Gattico che nacque nel 1575. e morì nel 1645. scrive di questa
immagine, a dir così, col cuor sulla penna, ed afferma che fino a suoi tempi
era miracolosa e dispensatrice di assaissime grazie. Anzi attesta che
prodigioso divenisse insin l’olio della lampana, che innanzi ad essa tenevasi
accesa; ond’era per l’Italia tutta ricercato bramosamente.
Nè si avvisi già alcuno che questa
credenza effetto fosse della babbuassaggine di qualche fanatico baciapile, o di
alcuna pinzochera spigolistra. Fu quest’olio sì manifestamente miracoloso nella
peste singolarmente, la qual desolò la nostra Milano nel 1630., e 1631. che la
Città ordinò che si donasse all’altar della Vergine delle Grazie una ricca
lampana d’argento, e si stabilisse un fondo a mantenervi l’olio, onde vi
rimanesse perpetuamente accesa: e in testimonio delle guarigioni ottenute mercè
di quest’olio medesimo, e della liberazion dal contagio, ne ha fatto incidere
in marmo nero a dorati caratteri una iscrizione, che posta fu sopra le due
colonne, che dividon l’ingresso nella Cappella del Rosario, la quale ognuno può
recarsi nella nostra Chiesa a leggere di per sè, e che quì mi piace
trascrivere.
d. o. m.
civitas . mediolanensis . peste
in . eam . immaniter
grassante . mdcxxx
et xxxi . experta
sospitale . oleum
lampadis . deiparæ
grati ar . eidem
argentea . lampade
quæ . coram .
sacra
illius . effigie
semper . ardeat
grati . animi . sui
significationem
l ætabunda
persolvit . anno
reconciliationis
mdc. xxxii.
La Città di Milano memore de’
benefici che mercè dell’immagine delle Grazie ha dallla Vergine ricevuti, venne
in ogni stagione a ricorrere ad essa nelle sue bisogne. Nel 1767. ai 3. di
Luglio ha ordinato un solenne triduo al di Lei altare per impetrare la
guarigione della clementissima Sovrana Maria Teresa di sempre amabile ricordanza;
e nell’ultima sera v’intervenne il corpo dell’Ecc.ma Città, col Consiglio
generale de’ 60. Decurioni, Sua Eccellenza il Sig. Conte Carlo di Firmian, e S.
A. R. l’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este già destinata Sposa dell’inclito
Arciduca d’Austria Ferdinando. E nel giorno 27. dello stesso mese la suddetta
Ecc.ma Città ha fatto nella nostra Chiesa medesima cantare un solenne Te Deum
in rendimento di grazie, a cui oltre i sopraddetti Personaggi volle
intervenirvi S. A. S Francesco iii.
Duca di Modena, gli Eccellentissimi Consultori, i Presidenti del Senato e del
Magistrato con invito generale della Nobiltà tutta. Anche ultimamente nell’anno
1792. ha la Città stessa ordinato un triduo all’altar della Vergine delle
Grazie, acciocchè sterminata venisse quella bestia feroce, che per le campagne
del territorio Milanese molta strage faceva di fanciulli e fanciulle; ed
eziandio in questo anno 1795. in cui scrivo questo mio opuscolo, nel mese di
Novembre ne ha ingiunto un altro consimile per implorare l’intercessione della
gran Madre di Dio, acciocchè si arresti il contagio che con assai danno
serpeggiando va nelle bestie bovine: e provati se ne sono de’ favorevoli
effetti.
Si narra pure dal medesimo Padre
Gattico come storia certissima accennata sin nei registri de’ libri del
Governo, che Don Ferrante Gonzaga primo Governator dello Staro di Milano sotto
l’invittissimo Imper. Carlo v., abbattuto avendo tutte le torri,
campanili, ed altri edifizj vicino al Castello, atterrare voleva eziandio la
gran Cuppola delle Grazie: ma che l’intimorirono
le minacce fatte di notte contro la
Fortezza da buon numero di Angioli, quali con spade nude nelle mani veduti
chiaramente dalle sentinelle fra luminoso splendore, cingevano e proteggevano
la Tribuna (cioè la Cuppola) di
questa Chiesa di Maria Vergine: del qual prodigio assicurato D. Ferrante
Gonzaga, desistè dall’ideato atterramento, e nel giorno leguente si recò al
tempio a visitare, ed umiliarci a quella santa Immagine.
Gli spiriti forti de’ nostri giorni
tentennano il capo, e si beffano di questi prodigi, e dicon ch’eglino non han
mai veduti miracoli; e che se ne venisse loro veduto alcuno, si ricrederebbono
della loro incredulità. Ma io anzi dico colle parole di Cristo che non si
ravvederebbero neppur se vedessero tornare da morte a vita un defunto: Neque si quis ex mortuis resurrexerit,
credent. Son Cristiani rinnegati che vivon più dissoluti d’ogni più
dissoluto gentile, e pretenderan che si facciano dei prodigj per convertirli?
Ma da storico non passiamo a farla da missionario.
[5] Que’ primi
buoni Religiosi che da Pavia vennero spediti a Milano per istabilirvi un
Convento, avendo per la pietà di varj personaggi raccolta sufficiente quantità
di danaro per far compera di un sito opportuno per fabbricarlo, e trovatolo ove
ora si trova il nostro Convento, presentaronsi al Conte Gaspare Vimercati
chiedendogli se a loro vendere lo volesse. Il Conte recatosi in aria anzi seria
che no, rispose; no che non ve lo voglio vendere. Mortificati per questa
risoluta risposta i supplici Religiosi stavano con mesta fronte e con ciglio
dimesso per dipartirsi dalla sua presenza. Ma il Vimercati che di loro prender
voleva un grazioso signorile trastullo, gl’interrogò se capita avevan li sua
risposta. Replicaron eglino che pur troppo l’avevano intesa. Ripigliò il Conte
con labbro ridente; no che non l’avete intesa. Vi ho detto che il sito non ve
lo voglio vendere, perchè ve lo voglio donare, anzi voglio io stesso
fabbricarvi il Convento, e la Chiesa; siccome fece.
[6] Destinato
era questo sito per gli alloggi militari, a cui presedeva il Conte Gaspare
Vimercati, il quale vi aveva anche un palazzo che li dominava.
[7] Questa
Principessa dell’antichissima insigne Famiglia Estense, convien che dotata
fosse di ottime qualità, onde venisse ad esser cara oltremmodo al suo Consorte
Lodovico. Abbiamo in Convento un quadro grande che ce la rappresenta in un’aria
dolcemente maestosa. La maestà del sembiante accoppiata alla gentilezza del
tratto, se è propria di tutte le Principesse Italiane, segnatamente lo è di quelle
dell’inclita Casa di Modena. Se Milano ammirò queste doti in una Beatrice
Estense nel decimo quinto secolo, in un’altra Beatrice pure Estense le ammira
nel nostro decimo ottavo.
Certamente che a Lodovico carissima
fu la sua Beatrice, e tant’era la benevoglienza che le portava, che quantunque
anche prima della sua morte, che gli riuscì tanto più amara quanto più
inaspettata, ei riguardasse con occhio parziale il Convento delle Grazie, e di
assai benefizi ricolmaselo per la bontà segnatamente di que’ Religiosi primieri
(a), tra quali contavasi il Padre Giacomo Sestio da Milano, ch’essendo insino
stato operatore di varj prodigi, gli venne da tutti gli scrittori contemporanei
dato il titolò di Beato; pure dappoichè la defunta Principessa ebbe nella
nostra Chiesa la tomba, e vide il Duca le cordiali rimostranze del più
sensibile dispiacere de’ Padri, tanto crebbe l’amore del generoso Principe in
ver di loro, e in tanta copia i suoi favori lor compartì, che il Padre Giorgio
Rovegnatino ebbe a scrivere, che parve che il mare si scaricasse nel lor
Convento, e d’ogni cosa la copia vi recasse. Tanto cœpit amore, tanta devotione affici, ut visum sic in
nos se se mare effundere, omniumque rerum affittentiam invectare. In fatti
egli stabilì due mila scudi d’oro annui per accrescere il numero de’ Religiosi,
arricchì d’argenteria, e de’ più preziosi arredi la sagrestia da lui fatta
ergere così magnifica; ordinò che prestamente si terminasse la gran Cuppola
(b), opera del famoso Bramante, il cui lavoro erasi rallentato. Fabbricar fece
nuovi dormentori, compir varie parti del Convento, dilatar l’orto, ed irrigarlo
con fonte perenne. Donò a’ Padri con pubblico insrrumento il latifondio della
Sforzesca con vari privilegi, e ragioni d’acque; e di tante grazie li colmò,
che troppo lunga cosa sarebbe l’annoverare. Quello però, ch’è più rimarcabile
si è, che dopo l’epoca infausta della morte della sua Sposa diletta Beatrice
d’Este, come si è già detto, due volte per ciascun giorno si recava Lodovico
alla nostra Chiesa ad orare, e ben due volte in ogni settimana, nel Martedì
cioè e nel Sabbato amava di pranzare nel nostro Convento, e degnavasi di
chiamare con seco a commensale il Priore ch’era il Padre Bandelli, ed il Padre
Giovanni da Tortona che fu suo antecessor nella carica: Singulo quoque die mane, & vespere ad nos veniens, divinis
intererat officìis, bisque in hebdomada feria scilicet tertia & sabbato
apud nos morabatur, duos tantum semper ex fratribus Priorem & Fratrem
Joannem, de quo supra, commensales habens. Così il Padre Rovegnatino nel
Libro quarto della storia del Convento.
Egli è pur certo che questo
generosissimo Principe stabilir voleva un’entrata bastevole, onde nel Convento
delle Grazie mantener si potessero di continuo cento e più Religiosi. Nè dee di
ciò essere gran maraviglia, giacchè sappiamo per le storie più incontrastabili,
che Alfonso primo Re di Portogallo in riconoscenza della vittoria da lui
riportata per le orazioni di S. Bernardo nella espugnazione della Fortezza di
Scalabino posseduta dagli Infedeli, fondò a’ Padri Cisterciesi la famosissima
Badía di Alcobazia, ed arricchitila di tanto, che popolata di sopra novecento Monaci da coro, cantavansi come lassù
nell’Empireo in tutte le ore senza interruzione alcuna, le glorie di Dio:
siccome lo dice il dotto Padre Abate Petrina nella storia che tesse del
medesimo S Bernardo. Il nostro Padre Gattico attesta pure di avere inteso egli
stesso da persona degna di fede, la quale affermava averlo udito da chi lo
ascoltò dalla bocca medesima del Duca Lodovico, che questi aveva in pensiero di
fabbricare ai Domenicani un convento così magnifico, che voleva si rendesse
famoso per tutto il mondo. Non so però se nella fabbrica pareggiato avrebbe
l’Escuriale di Madrid de’ Padri Gerolamini. Ma tutti i suoi fili troncolli la
fatal sua prigionia avvenuta ai 10. d’Aprile nell’anno 1500. per la guerra che
gli mosse la Francia.
Ed a proposito di questa prigionia
mi piace quì esporre alcuni fatti, cui credo non sarà discaro al Leggitor di
saperli; mentre forse in niun libro stampato si ritroveranno, e rinvengonsi
nelle memorie del nostro archivio: cioè, che il Padre Gregorio Spanzoto
Milanese, uomo di vita esemplare che prestò molto ajuto al Padre Stefano
Seregni Domenicano esso pure, e religioso di molta scienza e pietà, che fu in
Milano il fondatore del Luogo pio detto di Santa Corona, che a’ poveri della
Città somministra e medici e medicine, predisse per lettera (con ispirito
profetico certamente, mentre alla predizione corrispose l’evento), predisse,
dissi, per lettera al Duca Lodovico che perduto avrebbe il dominio dello Stato
di Milano. Lo fece però il Principe a se chiamare, ed egli francamente gli
confermò in voce ciò che detto gli aveva in iscritto; ed i motivi gli espose
per cui voleva l’Altissimo con questo gastigo punirlo.
Avendo poi per la venuta de’
Francesi dovuto il Duca fuggir da Milano, ed essendovi dopo alcuni mesi con
gran giubbilo di tutto il popolo ritornato, egli ebbe per questo Religioso una
somma venerazione; siccome lo riferisce lo stesso Padre Rovegnatino colle seguenti
parole. Is etiam per literas Duci prænuntiavit
amissionem Mediolanensis Imperii ... Eumque cum Princeps ad se evocasset,
constantissime omnia confirmavit. Propter quod, cum post fugam Dux rediisset,
in multa cum veneratione habuit.
Comunque però Lodovico avesse, dirò
così, sentito il profeta, volle consultare eziandio l’astrologo; e stetti per
dire, che come fece Saulle colla Pitonessa,
sarebbe ricorso anche al mago. Poichè a que’ tempi era in voga l’astrologia
giudiziaria, onde per ogni futuro avvenimento, a così esprimermi, si guardava
l’oroscopo; e dai necessari movimenti ed incontri delle stelle e pianeti
conghietturar si volevano le avventure libere degli uomini (scienza
sciocchissima, se pure scienza appellar si può quella che nulla ha in se stessa
di certo), eziandio il Duca Lodovico, per quantunque un uom fosse di spirito e
di talento, inclinato era per questi genetliaci, ed altri divinatori, cui
consultava per risaper l’esito della guerra, in cui era contro la Francia
impegnato. Il detto Padre Rovegnatino asserisce, che aveva il Duca in sua corte
un certo Ambrogio Rosatino, il quale da medico passò a farla eziandio da
astrologo, e seppe così ben cattivarsi l’animo di questo Principe, che gli
conferi l’onorato titolo di Conte. Costui ed altri indovini, quando videro
attaccato da’ Francesi Lodovico, predissero secondo le astrologiche loro
osservazioni, ch’egli avrebbe al principio avuta la mala sorte, ma che alla fin
fine salito e’ sarebbe in fortuna maggiore. Ma il povero Principe che si trovava
assai da’ suoi avversarj angustiato diceva; che le predette avverse cose le
credeva, perchè le provava; ma che non sapeva poi se ad esse sarebbero
succedute le prospere. Prima quidam vera
credo, cum experiar; reliqua vero nescio an sint successura. A buon conto
il medico astrologo quando vide da’ Francesi presa Alessandria, abbandonò da
poltrone il suo benefattore e Signore, e se ne tornò di soppiatto a Milano.
Narra pure lo stesso Scrittore, che gli astrologi a tenore di quello che
indicavan loro le stelle, predetto avendo a Lodovico che dopo il giorno sei di
Aprile le cose succedute gli sarebbero con tutta la desiderabile prosperità,
nel giorno dieci dello stesso mese fu fatto prigione, e in Francia condotto: Verum cun post sextam Aprilis diem
successura omnia Duci ex voto indubitata pollicitatione asseverarent (quod ad
id usque temporis fluctuare res Ducis, corum itidem pronostico res visa fuerat,
in reliquum vero examussim obsecundare fata, ac bona omnia expromiitere illi
sidera sua) decima nihilominus ejusdem mensis die (vide inter summum bonum,
& summum malum quam parva sit distantia) ab hoste prodentibus Svetiis
numero septem millibus (heu fallaces Chaldæorum
promissiones) una cum milite omni capitur Italico. Così il
Padre Rovegnatino, a cui certamente si debbe tutta la fede, e perch’era un uomo
di probità e dottrina, e perchè nello stessa anno 1500. in cui venne fatto
prigioniere Lodovico, si ritrovava in Milano; onde saper poteva colla maggiore
precision l’avvenuto. Era egli sì amante del vero, ed oculato nell’assicurare i
fatti colle prove più certe, che nella storia che fa del Convento nostro,
ingenuamente attesta di essere consapevole a se medesimo di non avere in nulla
diminuita la verità, ed avere anzi il tutto provato co’ monumenti, i quali quando
che sia si possono riscontrare; e che delle cose che dice se ne possono insino
interrogare alcuni Padri che sopravvivono tuttavia; onde con queste parole il
suo quarto libro conchiude: In qua quod
rei gestæ veritatem minuere possit, nihil mi hi conscius
sum, quod certe qui probare voluerint, habent adhuc unde hoc efficere possint.
Nam & annales, & reliqua monumenta, ex quibus hæc
decerpsimus, hactenus extant; & nonnulli Patrum, quorum temporibus, quæ narravimus
plurima gesta sunt, adhuc supervivunt.
Un’altra cosa che relativamente
alla mentovata guerra e prigionia voglio quì riferire si è, che nelle memorie
più vetuste del nostro Convento troviamo, che Lodovico veggendo di dovere
impiegare una grossissima somma di danaro per sostenersi contro i Francesi, richiese
(come lo dice il Padre Gattico al capitolo nono della storia del nostro
Convento) da tutte le chiese la loro argenteria, coll’obbligo di restituirla
esattamente stabilita che fosse la pace. In fatti noi abbiamo nel nostro
archivio il Consiglio de’ Padri tenuto il giorno 13. Marzo dell’anno 1500. in
cui colla sottoscrizion particolare di ciascun religioso si attesta, ch’essendo
stato da Lodovico Duca di Milano richiesto per mezzo dell’Arcivescovo Bari, e
del Vescovo de la Tuada l’argento della Chiesa delle Grazie, tutti unanimamente
i Padri memori de’ tanti suoi benefici a lor compartiti, stabiliron di darcelo,
non sol con volonteroso animo, ma con cuore gioioso: Libenter, & hilariter ipsum conecsserunt sua Excellentiæ. Gli Ecclesiastici ch’esser debbono fedeli sudditi del loro
Principe si presteranno mai sempre a sovvenirlo nelle sue bisogne coi tesori
delle lor Chiese, come han fatto, lo fanno, e il faranno: e dovrebbero oggimai
ricredersi certi, dirò così, politici spurj, i quali e colla lingua e colla
penna vanno spargendo che povere si dovrebbero tener le Chiese. Le ricchezze
dei templi come servono ad onore di Dio, così son coi dovuti riguardi come un
deposito per le necessità del Sovrano.
L’anzidetto Padre Gattico lasciò
scritto che gli argenti, che somministrar si dovevano per la continuazion della
guerra, vennero poi destinati a riscattare il Duca Lodovico dalla sua
prigionia: ma che al povero Principe fu dato il veleno. Se questa relazione è
vera, vieppiù mi confermerei, che convien ben essere oculato nel credere alle
storie che si danno alla luce. Nel Dizionario storico portatile stampato in
Napoli nel 1755. al titolo di Luigi xii.
Re di Francia si dice, ch’egli fece in Loches racchiudere Lodovico il Moro in
una gabbia di ferro, ove morì dieci anni dopo senza aver potuto ottenere nè di
scrivere nè di leggere. E per ispiegare come lo stesso Luigi, ch’era un Sovrano
sì inclinato per l’umanità, che chiamato era Padre del popolo, abbia potuto usare questa, che per rispetto ad un
Principe prigioniero di guerra poteva credersi una crudeltà, si risponde che
questo rigore in un Monarca così dolce e così buono, fu considerato come un
visibile gastigo di Dio. Che che ne sia però della relazione dello antidetto
Dizionario portatile, la quale da altri scrittori, quanto alla gabbia di ferro,
non trovasi confermata, s’io mi avessi a determinare, mi appiglierei a ciò che
dice il Domenicano scrittore, che Lodovico cioè sia stato avvelenato (forse da
chi potea aver dispiacere che ritornasse al possesso del suo dominio) e perchè
il Padre Gattico nato essendo nel secolo decimosesto poteva per tradizione
saper meglio l’avvenuto da non molto tempo; e perchè trattandosi delle cose dal
Convento somministrate per la liberazione del Duca, poteva meglio nelle memorie
del Convento medesimo ritrovarne i documenti, od averle intese anche per
tradizione da’ Padri più vecchi. Egli certamente era persuaso che Lodovico
morto sia per veleno, mentre al capitolo quindicesimo della sua storia torna a
dire così. “Donò (il Duca) anco altri
addobbi di seta, ed alcune cose d’argento, come si è detto; de’ quali fu la
maggior parte a sua instanza rimandata per riscattarlo dalla captività; benchè
recatogli il prezzo della liberazione, fu avvelenato.” Anche il Sig. Abate
Serviliano Latuada accenna che nella morte di Lodovico si sospettò di veleno.
Per altro quando mi si producessero altri monumenti più certi che Lodovico non
sia stato con veleno tolto dal mondo, non avrei difficoltà veruna a cangiar
d’openione.
Mi piace quì aggiugnere che in certi
manuscritti in foglio volante dell’eruditissimo nostro Padre Maestro Monti più
volte accennato, ne’ quali alcuni ve n’hanno concernenti a molte rare notizie
estratte dal nostro archivio, che spediva al celebre Tiraboschi per la sua
storia dell’Italiana letteratura, si trova che gli mandò anche questa; cioè che
il rinomato storico Francesco Guicciardini si è ingannato dicendo che il Duca
Lodovico morì in Loches dopo dieci anni di prigionia; mentr’egli finì di vivere
nella città di Burges, dopo soli otto anni; siccome lo prova colla autorità di
rinomati scrittori. Ecco le sue parole. “Ma tale prigionía non durò
già dieci anni, essendo egli morto, secondo che dice Leandro Alberti nella sua
descrizione d’Italia, nel 1508. nella città di Burges, nell’epoca della qual
morte conviene Giacomo Mainoldi Gallerati nel suo opuscolo: De titulis Philippi Austri R. Catholici pag.
104. edit. Bonon. 1573.” Potrebbesi
da ciò arguire ch’essendo falso che Lodovico sia stato sino alla sua morte
strettamente racchiuso in Loches senza poter nè legger nè scrivere, e che stato
sia trasferito nella città di Burges, abbia potuto benissimo pattuire la sua
liberazione, e che poscia se gli sia il veleno apprestato.
Comunque sia, certamente che questo
Principe fu assai sventurato; il quale se proseguiva ad esser Signore dello
stato di Milano, fatto avrebbe assaissime cose degne d’eterna memoria. Egli era
liberale assai, manieroso, gran parlatore, e delle belle arti protettore
singolarissimo. Instituì nella nostra Città un’accademia di pittura ed
architettura, per cui chiamò i due si celebri professori Leonardo e Bramante,
sapendosi che al primo fissato avea 500. scudi annui di pensione. Anzi, come lo
attesta l’eruditissimo Tiraboschi tom. vi.
par. i. pag. 312 eresse una
cattedra di matematica, per cui venir fece a Milano il Padre Luca Pacioli
dell’Ordine de’ Minori, matematico rinomatissimo (c), il quale nel suo libro
della Divina proportione, scritto in
rozza lingua Italiana secondo que’ tempi afferma che questo Principe raccolta
aveva una famosissima libreria; come si rileva dall’offerta che gli fece di
questo suo libro medesimo, dicendo che glielo offriva a decoro ancora, e perfecto ornamento de la sua dignissima biblioteca
de innumerabile moltitudine de volumi in ogni facultà, et doctrina adorna.
Non si può certamente negare che Lodovico stato non sia un uom d’un gran genio,
e che nella erezione del Lazzaretto, della Cuppola delle Grazie, del Monistero
così rinomato di Santo Ambrogio de’ Padri Cisterciesi, nella costruzione di
grandiosi canali ad irrigare segnatamente il territorio di Vigevano, dove
nacque (d), ed in altre opere lasciato non abbia i segnali della più splendida
magnificenza; come pure gli altri Duchi li lasciarono e nel Castello di Milano,
e nell’Ospitale, e nel Duomo sì celebre, e nella Certosa di Pavia, e nei
Castello una volta sì rinomato, e nella costruzion del canale detto della
Martesana ec., ond’ebbe a dire il Tirabeschi più volte accennalo tom. vi. par. ii.
pag. 386. “Que’ medesimi Principi, il cui dominio era ristretto in assai
angusti confini, parea che volessero in ciò gareggiare co’ più potenti.”
Mi è piaciuto estendermi alcun poco
nelle gesta di Lodovico il Moro, il quale stato essendo in un coll’inclita sua
Consorte Beatrice d’Este benefattore singolarissimo del Convento di Santa Maria
delle Grazie, di cui son figlio, egli è ben doveroso che gli dia qualche
attestato di mia riconoscenza; come pure glielo dà tutto il Convento medesimo,
il quale a suffragio del Duca stesso, e della Duchessa celebrar fa spontaneamente
quattro anniversarj in ciascun anno, due in Milano e due alla Sforzesca; ch’è
poi il maggiore attestato di gratitudine che si possa dare a un defunto.
(a) Che nel Convento nostro vi
dimorassero dei Religiosi di una singolar probità, dottrina, zelo, schiettezza,
e fratellevol concordia ec., Io attesta il medesimo Duca Lodovico in un suo
Diploma, con cui confermò tutte le donazioni ad esso fatte, dicendo: Inter cæteros vero
propensiori studio, & ampliori affectu complectimur Ordinis Prædicatorum
fratres de observantia, qui præsertim degunt in Conventu Sanctæ Maria
Gratiarum extra Portam Vercellinam Civitatis nostræ
Mediolanensis, Experimur enim eos jam a pluribus annis viros Religione,
sanctimonia, doctrina, sinceritate, pace, ac omni morum honestate pollere. Qui
summo Deo omni devotione in Missarum celebritate, in divinis Officiis, ac
sanctis ceremoniis, in assiduis orationibus, in studiis sacrarum litterarum, in
jejuniis, vigiliis, paupertatis, ac pudicitiæ amore sine
querela deserviunt. Eorum supplicationibus, quas pro nobis, ac universo dominio
nostro incessanter ad Deum fundunt, confidimus plurimum adjuvari, Civitatem
vero nostram, ac universum populum suis prædicationibus,
monitis, consiliis, confessionum audientia, & exemplis salutaribus
mirabiliter edificant. Quapropter hos peculiariter colimus, cum his assidue
conversamur, illum sanctissimum locum, precipue ob devotionem ad Beatam
Virginem Dei genitricem & Sanctum Dominicum semper frequentamus. E nello
strumento di donazione che ci fece del tenimento della Sforzesca, il qual
consegnò nelle mani del Padre Bandelli più volte nominato, arreca un’altra
ragion particolare della sua propensione e benevolenza in ver di que’ Padri;
cioè pei continui suffragi che prestavano alla Duchessa Beatrice d’Este amatissima
sua Consorte, che seppellita venne nella lor Chiesa con tre altri suoi
Figliuoli (siccome si è di già accennato), e per le assidue preghiere che
all’Altissimo porgevano per la di lui prosperità, e perdono de’ falli suoi: Accessit ad augendum nostram in ipsum
Ordinem benevolentiam, quod cum in prædicto
Monasterio Illustriss. quon. D. Beatricis Ducissæ Mediolani
Consortis nostræ charissimæ ossa
requiescant, simulque Ill. quon. filiorum nostrorum corpora ad propitiandum
eoruns animabus, Deum continuis Missarum & Officiorum suffragiis semper
incumbunt, pariterque pro incolumitate, & rebus nostris ad impetrandum
nobis a Deo optimo veniam, assiduas preces fundunt, proque anima nostra, cum
hinc discesserimus, semper precaturi sunt. Di questa parzialità
singolare ch’avea Lodovico pei Padri delle Grazie, frequenti se ne rinvengono
nelle nostre memorie i documenti. La virtù ha mai sempre avuto una forte
attrattiva per farsi rispettare ed amare; ed in ispecie da chi sortito avendo
un animo grande, quant’è disposto a praticarnela, altrettanto è inclinato a
proteggerla.
(b) Questa cuppola fatta a foggia
di testudine, la quale interiormente ha un area quadrata al terreno, e si regge
sopra quattro archi, che non si veggon legati da chiave veruna, è veracemente
ammirabile; e per alcuni si vuole ch’essa sia stata la prima che con questa
simmetria fosse innalzata nelle città d’Italia. Che l’architetto ne sia il
famoso Bramante da Urbino, il Padre Maestro Monti si avvisa potersi
singolarmente dedurre da un modello di legno di consimil figura ch’egli formò
in Roma (ma che poi non fu eseguito) per la Basilica de’ Santi Apostoli Pietro
e Paolo, il qual trovasi nel palazzo del Vaticano. Egli così si esprime in una
postilla che fa alla relazione che dà del Padre Giovanni da Tortona, che fu il xv. Prior delle Grazie, nel di cui
governo ai 29. Marzo del 1492. venne dall’Arcivescovo Guido Antonio Arcimboldo
posta la prima pietra di questa gran fabbrica: Testudo hæc, quam nonnulli in nostris Italiæ Urbibus
primum ædificatam asserunt, ab egregio viro Bramante
Urbinate architectenicæ artis peritissimo erecta est. Cujus omnino
simile exemplar ab eo Artifice ligneis tabulis expressum paratumque olim pro ædificio novæ Basilicæ SS.
Apostolorum Petri & Pauli in Urbe, vidi ego in Palatio Vaticano. È dessa
così bella e grandiosa, e così appaga l’occhio, che il più volte nominato
Pittor Matteini mi disse nel vederla al di dentro, che sembravagli tanto
mirabile questa Cuppola in linea di architettura, come il Cenacolo in linea di
pittura. Il Duca Lodovico formar voleva tutta la Chiesa sul gusto di questo
gran pezzo di fabbrica, e certamente riuscita sarebbe singolarissima,
(c) Il Pad. Pacioli fu ne’
matematici studj versatissimo. Di esso lui così lasciò scritto il Tiraboschi
nella prima parte del Tom. vi.
pag. 312. “In questo secolo ci si fa innanzi Fra Luca Pacioli da Borgo S.
Sepolcro dell’Ordine de’ Minori, che in Aritmetica, in Algebra, e in Geometria
scrisse, e divolgò più opere, le quali comunque oggi sieno dimenticate, chi
nondimeno le esamina, non può non ammirare l’ingegno, e l’ardire del loro
Autore, che s’inoltrò il primo enrro a sì vasto, e non ben conosciuto Regno.”
Ed alla pag. 514. torna a dire così. “Essendo il Pacioli stato uno de’ primi
ristoratori delle matematiche scienze, era ben conveniente ch’io cercassi di
rischiarare con diligenza ciò che a lui appartiene.” Anche il ch. Ab. Ximenes
dopo aver le opere del Pacioli assai commendate così conchiude. “Se dietro alle
pedate di questo, e di altri Scrittori si fosse in Toscana continuata la
scienza Analitica, inoltrandola più in là, come sarebbe stato agevolissimo, la
Toscana avrebbe sola la gloria dell’invenzione dell’Arte Algebristica sì ben
promossa in que’ tempi.” Se il suolo Toscano fu in ogni stagione de’ più bei
Genj fecondo, uno di essi fu senza dubbio il Pacioli, il qual con immensa
fatica nelle matematiche scienze s’immerse, come lo accenna esso stesso con
rozzo stile nel lib. della Divina
proportione alla pag. 31. dell’edizione del Paganino: “E a questo eflfecto
a voi a qualumch altro mi son messo a trovare con grandissimi afanni e longhe
vigilie le forme di tutti li 5. corpi regulari con altri loro dependenti e
quelli posti in questa nostra opera con suoi canoni a farne più con debita lor
proportione acio in epsi spechiandove mi rendo certo che voi a li vostri
propositi li saprete acomodare.”
(d) L’erudito Sig. Canonico Matteo
Gianoli nella pregevole sua opera che con pari fatica che esatezza diede alla
luce nel 1795., e che ha per titolo: De
Viglevano, & omnibus Episcopis &c. afferma che Lodovico il Moro
nacque in Vigevano, dove i Duchi di Milano e per la salubrità dell’aria, e pel
comodo della caccia si recavano a ricrearsi, e vi soggiornavano lungamente;
come conghietturare si può dalle varie stimabili fabbriche ch’erger vi fecero,
e sussistono tuttavia. Favellando poi della prigionia di Lodovico dice avere
esso con forte animo sostenuta una tanta calamità, ed umilmente riconosciutala
come ben dovuta a’suoi antichi trascorsi. Juvat
hic referre ipsum virili prorsus animo tantam pertulisse calamitatem, eamque
veteribus delictis humiliter agnovisse. Tom. i. pag. 35.
[8] Eran
cotanto inclinati per la povertà religiosa que’ Padri primieri, i quali nel
Convento stabilironsi delle Grazie, che pareva che la lor ristrettezza
contrastasse coll’altrui magnificenza. Il Conte Gaspare Vimercati venne con
esso lor tante fiate a grazioso litigio, che se stato non fosse un uom tanto
pio com’era, poteva talora insin disgustarsi. Volevan eglino la Chiesa a
soffitta, i dormentori coperti al di sotto di tavole, e le stanze e finestre
angustissime. Tutto umile, tutto parco, tutto ristretto. Pareva che fossero
Cappuccini prima che vi fossero i Cappuccini. Se il Conte suddetto ha voluto
costruire il refettorio di quella grandezza in cui vedesi, si è perchè mandò
segretamente a chiamare i suoi architetti, fece loro disegnare con magnificenza
la fabbrica, e a dispetto, dirò così, della lor povertà ha voluto che
s’innalzasse sulle disegnate grandiose misure. Anche la Chiesa, e i dormentori
stati sarebbero assai più magnifici, se il buon Conte attemperato non si fosse
alquanto al genio di que’ Religiosi, col far che si desse, come suol dirsi, un
colpo al cerchio, l’altro alla botte.
[9] La pittura
in ogni tempo fu riputata un ornamento de’ più singolari. Di quì è che i Duchi
di Milano, ed altri ragguardevoli personaggi che piaciuti si sono di favorire,
e distinguere il Convento delle Grazie, illustrato l’hanno coll’opere de’ più
eccellenti pittori che alla loro stagione fiorissero. Bernardino Buttinone di
Treviglio Castello illustre del Milanese, pittore di credito dipinto ha per
ordine del Conte Gasparo Vimercati il quadro che pose all’altare maggior della
Chiesa, prima che fosse fabbricata la Cuppola, e che ai tempi del Padre Gattico
era stato collocato nel coro; il qual per alcuni si vuole esser quello ch’ora
trovasi nella sagrestia: come pure pinse molte cose nella partita verso la
Chiesa; e nella Chiesa medesima. Donato Montorfano Comasco, pittore anch’esso
di credito, oltre la Crocifission del Salvatore nel refettorio, pennelleggiò le
figure che si trovano alle finestre ed alla porta del Capitolo.
L’impareggiabile Leonardo, oltre il famoso Cenacolo del refettorio, dipinse sul
muro quella mezza luna ch’è posta sopra la porta della Chiesa al di fuori, la
quale per essersi presto guastata, trovandosi esposta all’aria aperta, fu da’
Padri fatta copiare da Grazio Cossali Bresciano, pittore non dispregevole del
decimo sesto secolo nel 1594- come nel nostro archivio si trovano gli attestati
del pagamento, che fu di venti ducatoni: la qual copia fu poi trasferita
interiormente sopra la porta della sagrestia, acciocchè la detta mezza luna al
di sopra della porrà maggior della Chiesa fosse dipinta a fresco da Michel
Angelo Bellotti. Gaudenzio Ferrari pittor celeberrimo dipinse il bellissimo
quadro di S. Paolo che si vede al primo altare entrando in Chiesa a mano
destra, come pure le mura della cappella che anticamente dicevasi della Corona.
Tiziano poi, il cui nome è cotanto famoso, travaglio l’eccellente quadro della
coronazione del Salvatore, che di presente ritrovasi nella gran cappella alla
diritta dell’altar maggiore sotto la cuppola. Anche il San Paolo in piedi, o
come dicesi predicante, dipinto da Gio. Pietro Gnocchi, che nella cappella
ritrovasi della non mai abbastanza commendata Famiglia Borromea, ha il suo
pregio, ed è ben conservato. Nel sepolcro che trovasi in questa stessa
Cappella, in un colle ceneri che vi furono trasportate del Conte Giberto proavo
di San Carlo, vennevi seppellito il Conte Giberto, Padre del medesimo grande
Arcivescovo; e noi ci possiamo ben chiamar fortunati di avere il deposito di
una così insigne Famiglia, che reca tanto lustro a Milano, ed a cui i Padri
delle Grazie sono assai debitori; mentre dopo la fuga del Duca Lodovico pel
timor de’ Francesi ha difeso con alcuni altri nostri benevoli il nostro
Convento da una truppa di malviventi, che uniti si erano per saccheggiarlo,
avendo i Padri già nascoste per la paura tutte le cose più preziose; come ce
n’assicura il Padre Rovegnatino nel lib. iv.
della sua storia: Verum defendentibus
amicis, & præsertim Comitibus Borromæis, ac
Francisco Quarterio, nihil dispendii passi sumus. Altre
pitture di qualche stima si trovano appo noi, cui tralascio di annoverare;
mentre ho inteso di fare in questo libro la storia di una sola, e non già di
tutte.
[10] Fu il
Padre Maestro Monti un religioso di uno studio e fatica indefessa, onde si
arricchì d’una suppellettile di cognizion non volgari. Occupò egli per assai
anni la carica di bibliotecario della nostra domestica libreria, e provveduta
l’ha di buoni libri. Egli era amator passionato della storia più esatta del
Convento delle Grazie, di cui era figlio, essendo dicevole l’erudirsi dapprima
nelle cose proprie, poi nelle altrui: e non si faccia come certi saputelli de’
nostri giorni, che tutto si danno sul balbettar qualche lingua straniera, e
trascurano l’Italiana lor propria; onde per parere come domestici nelle lingue
forestiere, compaiono come forestieri nella domestica. Il nostro Monti iu tanto
inchinevole per le cose del suo Convento, che scrisse parte in lingua latina,
parte nella Toscana la serie di tutti i Priori del Convento delle Grazie, de’
suoi Scrittori, de’ primarj suoi Lettori teologi; come pure le notizie
appartenenti alla Chiesa, cappelle, sepolcri, al Luogo pio detto di Santa
Corona ec. La sua opera che nel suo genere si può dire compita, l’ha tutta
trascritta benissimo di proprio pugno, e divisa in sei tomi benissimo
distribuiti. Ei certamente può stare al pari coi Taegi, eoi Rovegnatini, coi
Gattici, ed altri Scrittori del nostro Convento. Passò all’altra vita nel 1785.
[11] Tutti
quasi gli Autori che scritto han di Leonardo, lo esaltano come un uomo divino
dato dal cielo a vantaggio delle bell’arti segnatamente. Nacque egli nel 1452.
in Vinci Castello del Valdarno di sotto non molto lungi da Firenze; onde dal
nome della patria si è fatto come un cognome alla persona, chiamandosi
assolutamente anche il Vinci. “Fin da suoi primi anni (dice il Tiraboschi tom. vi. par. ii.
pag. 410.) cominciò a balenare in lui quel vivacissimo ingegno, di cui diè
poscia sì grandi prove. Pareva che il disegno lo allettasse sopra ogni cosa, e
perciò dal padre fu posto alla scuola di Andrea Verrocchio, pittore illustre a
que’ tempi, il quale al vedere i primi abbozzi di Leonardo, rimase attonito per
maravi glia. La scultura, la pittura, l’architettura, la geometria, la
meccanica, l’idrostatica, la musica, la poesia furon quasi ad un tempo
l’oggetto degli Studj di Leonardo; e mentre ogni altro sarebbesi riputato
felice giugnendo ad ottenere la perfezione in alcuna di queste scienze, egli fu
in tutte eccellente ... A questo si penetrante ingegno congiungevasi in
Leonardo la bellezza del volto, la grazia del favellare, la soavità del tratto,
talchè egli era l’oggetto della maraviglia, e dell’amore di tutti.” Il Moreri
nel suo gran Dizionario istorico dice che dotato era pur di tal forza, che
colle sue mani piegava, e torceva un ferro di cavallo come se fosse stato di
piombo: il etoit si fort ... qu’il plioit
le fer d’un cheval, fomme si ce n’eût ètè que
du plomb. Che che ne sia però della forza del suo corpo, egli è certo che
nel vigor dello spirito era singolarissimo. Tra l’altre sue invenzioni è
celebre quel leone che congegnò nell’occasion delle feste che si fecero nella
Città di Milano per l’ingresso di Luigi xii.
Re di Francia (o com’altri dicono Lodovico), il qual dopo aver fatti alcuni
passi verso il Sovrano, aprì il petto, e mostrollo pieno di gigli, stemma de’
Monar.chi Francesi. Tralascio quì di far menzione delle eccellenti sue opere,
di cui pienamente, ne parlano gli Scrittori della sua vita. Per avere un saggio
dell’abilità di questo grand’uomo, basta vedere i dodici libri comperati dal
Conte Galeazzo Arconati circa il 1637., e da esso lui regalati alla Biblioteca
Ambrosiana, in cui gli si è innalzata una lapide con un’onorevole iscrizione in
perpetuo testimonio della sua liberalità eziandio, onde ricusò insino tre mila
doppie che il Re d’Inghilterra gli esibì per un solo, Essi libri contengono
delle figure spettanti alla pittura, all’architettura, alla meccanica, alla
anatomia, ed altre cose che vennero disegnate da Leonardo medesimo colle
spiegazioni scritte pure di proprio pugno; ma secondo il suo stile consueto a
rovescio; vale a dire dalla destra alla sinistra. Egli portossi a Parigi, dove
gravemente poi s’infermò; e degnato essendosi Francesco i. di visitarlo, fu sorpreso da mortal parosismo, e morì tra
le braccia di quel Monarca, che accorse per dargli ajuto, com’è ben noto per
tutte le storie. Comunque però stato sia per Leonardo un singolar vanto lo
spirar nelle mani d’un Re così grande, al Mariette però maggior sembra
quest’altro, che Michelagnolo cioè, e Raffaello, que’ due celebratissimi uomini
sieno a lui in parte debitori di quella gloria che s’acquistarono per lo studio
che fatto hanno sulle sue opere: il primo perchè s’appropriò quella sua maniera
terribile di disegnare; il secondo perchè ha preso da lui quella grazia quasi
divina, che guadagna i cuori. Che grande
elogio, dice però il Mariette, è
questo di Lionardo? Nè il vantaggio d’essere vissuto accarezzato e stimato da
tutti i personaggi di distinzione, nè l’onore di essere spirato nelle braccia
di un gran Re, non sono da paragonarsi con esso.
[12] Horat. Serm. lib. 2. Sat. viii.
[13] Gio. Paolo
Lomazzo. Idea del tempio della Pittura pag. 114, in Milano 1590.
[14] Paolo
Pino. Dialogo di pittura. In Venezia 1548.
[15] La copia
che il Padre Abate Gallarati fatto ha del nostro Cenacolo in miniatura (per la
quale egli ha sempre avuto una grandissima inclinazione) è bella e singolare
veracemente, e per l’esattezza onde fu eseguita, e per la sua grandezza
straordinaria di cinque palmi Romani in lunghezza, e tre in altezza. Di questo
savio Padre Abate se ne parla con lode dal celebre Giorgio Sulzer nel suo
Giornale stampato in Lipsia nel 1771., e nel Giornale di Rema 1776., e dal
dottissimo Tiraboschi nella sua Storia letteraria. Certamente ch’egli si è tra
i miniatori distinto, dacchè oltre il lavorare in grande, ha pure la
particolarità d’imitare con tratti e punta di pennello il colorito a olio de’
più valenti Maestri. Tra varj altri suoi lavori. egli sì è distinto nel
ricopiare la rara opera di Raffaello detta la Madonna della Seggiola, ed una
testa di San Giovanni Battista grande quasi al naturale, lumeggiata d’oro; la
quale si rende singolare pel tuono del colore, poichè apparisce come se fosse
lavorata già da due o tre secoli. Queste opere con alcune altre si è recato a
dovere di presentare alla Corte Real di Torino, la quale riguardato mai sempre
lo ha con occhio di una singolar degnazione. Egli compone un’opera attualmente,
che ha per titolo: Elementi di pittura
teorico-pratici, nella quale sonovi le teorie congiunte alla pratica, e vi
si veggano diversi stili di pittura di diverse scuole. Quest’opera terminata
che sarà non potrà non piacere agli amatori delle bell’arti.
[16] Vincenzo
da Filicaia Senator Ferentino. Canzone in occasione della sconfitta
dell’esercito Turchesco, e della caduta di Neühaüsel.
[17] Fu il
Padre Maestro Galloni dilettante assai di pittura, e nell’impasto de’ colori
ebbe il suo pregio; come si può rilevare da un quadro, che pose all’altar della
Vergine nella Chiesa del nostro Convento della Città di Ascoli, dove fu Priore.
Egli era pure nelle meccaniche cose ingegnosissimo, e giovò molto colla sua
direzione, e coll’ajuto di Fra Angelo Boggio uomo savio, e di molta abilità in
ispecie per la direzione dell’acque, alla costruzione di un pezzo di nuovo cavo
del Naviglio detto Sforzesco, che in certi siti è di una profondità
considerabile; il quale con un dispendio immenso si è dovuto formare nel 1774.,
essendo io Priore, per una piena del Ticino, che corrose e precipitò una costa
di terra, su cui all’alto scorreva. Dimostrò questo Padre una particolare
abilità eziandio nella derivazione e conducimento dell’acque, onde fece
costruir nuovi cavi, irrigò nuove terre, e recò all’agricoltura un non mediocre
profitto.
In ogni stagione v’ebbero de’
Regolari, che alla società apportaron vantaggi grandissimi, e quantunque la
precipua loro incombenza ella sia di giovare i popoli nelle spirituali cose;
pure apportarono ed apportali loro assai vantaggi eziandio nelle temporali. Il
Vasari arreca quasi una dozzina di Domenicani, che si distinsero nella pittura,
e nell’architettura; oltre alcuni altri che da altri autori son nominati. Ma
per non particolareggiare, e dimostrar di volere esaltare il mio proprio
Istituto, ed anzi generalmente parlare; converrebb’essere nella storia ben
digiuno per non riconoscere quanto i Monaci primamente, poi gli altri
Claustrali abbian giovato all’agricoltura, alla irrigazion delle terre, alla
direzione dell’acque, alla meccanica, alla matematica, alla astronomia, alla
storia, ed a tutte generalmente le scienze. Son piene zeppe le biblioteche di
volumi dati alla luce da’ Religiosi di varj Ordini in ogni gener di cose.
Certamente che se il mondo è in quella luce in cui trovasi, n’è debitore in
gran parte agli Alunni del Chiostro. Certi scrittori delusi, che ne’ loro
libercoli dipingono co’ più svantaggiosi colori i Claustrali, onde vengano, se
possibil fosse, rasi dal mondo; e che da loro avranno anco succhiato il latte,
e giovati sarannosi delle loro opere; ben dir si può con una parità di
quell’insigne Oratore, che detto fu il Cicerone Cristiano, che facciano come
certi muli, che dopo aversi divorata la biada, dan d’un calcio nel vaglio.
[18] Il Padre
Giorgio Rovegnatino detto Domenicano in un Dialogo che tenne col Padre Ambrogio
Taegio sulle calamità che accompagnarono la prigionia del Duca Lodovico, e che
si trovava in Milano nel 1500., cioè due o tre anni dopo che fu terminato il
Cenacolo, attesta che tal’era la sua maestria e bellezza, che assai persone, le
quali traevansi a rimirarlo, per moltissime ore tenendo in esso fiso lo
sguardo, pareva non sapessero distaccarvelo: Quæ vero in refectionis domo ipsius (Ludovici)
pariter jussu Apostolorum tabula depicta est, quam multorum per longissimas
horas defixit obtutus?
[19] Infra i
tredici errori che in Aristorile si avvisa di aver rinvenuto il Burnezio, uno
dice esser quello di aver posta immobile nel centro dell’universo la terra. Ma
se a questo Filosofo l’immobilità del globo terraqueo sembra un errore, ad
altri sembrar potrebbe un errore la sua mobilità, contrario alla ragione non
meno che alla rivelazione. Il Newtoniano sistema pare a taluni, ed a me pure,
più ingegnoso che vero. Chi sa che non mi risolva a scriver su ciò qualche
cosa.
[20] Nella sua
raccolta de’ detti memorabili di Personaggi illustri stampata in Brescia l’anno
1610, da Bartolommeo Fontana pag. 204.
[21] Vedi le
ultime note fatte alla vita di Lionardo stampata nel secondo tomo del Vasari
nell’edizione di Roma l’anno 1759., ed unite alla suddetta vita di Lionardo
alla pag. 19. e 20, in cui si ha tutto intero il racconto del fatto descritto
dallo stesso Giraldi nel suo discorso sopra i Romanzi.
[22] Questi
esemplari, che dipinti erano, come dicesi a pastello, ed insieme uniti
rappresentavano l’intero Celacolo, sono ora passati nella Galleria di S. M.
Britannica.
[23] Che il P.
M. Bandelli governasse in qualità di Priore questo nostro Convento dall’anno
1495, fino quasi al termine del 1500, si ha dall’istoria ms. dello stesso
Convento scritta dal P. Giorgio Rovegnatino autore contemporaneo, il quale nel
suo Dialogo fatto col P. Ambrogio Taegio sopra le vicende allora avvenute a
questa nostra Patria, nota precisamente che la prigionia del Duca presso Novara
accadde ai 10. Aprile 1500. Questo dialogo manuscritto colla storia suddetta
trovasi nella libreria del Convento.
[24] Padre
Giorgio Rovegnatino. Istoria del Convento.
[25] Leandro Alberti De viris illus. Ord,
Præd. pag. 47.
[26] Oltre
questo testimonio di Leandro Alberti recato dal Padre Monti, ed i ritratti che
conservansi e in Milano e alla Sforzesca, che dimostrano essere stato il Padre
Bandelli un uomo di maestoso e amabile aspetto, può rilevare eziandio da un
busto di marmo bianco che gli ha fatto ergere sulla scala maggiore del Convento
delle Grazie il P. Maestro Bonaventura Boldi suo com patriota circa l’anno
1726., sotto di cui vi sta presentemente incisa in marmo nero a dorati
caratteri la seguente iscrizione, che ciascuno può recarsi a leggere a suo
bell’agio.
fr. vincentto bandello
de castro novo ad iriam
ordinis prædicatorvm
generali magtstro
lvdovico mariæ sfortiæ mediol. dvci
apprime caro
pietate prvdentia scriptis clarissimo
hvivs coenobii alvmno hinc præfecto
fratres sanctæ mariæ gratiarvm
viro emeritissimo
p.
Era il Bandelli sì beneviso al Duca
Lodovico, che questi parea non si sapesse saziare di favellar con quello, e
sovente lo consultava ne’ suoi affari più gravi; come lo attesta il nostro
Padre Ambrogio Taegio, che fu loro coetaneo, e che con immensa fatica gli
annali ha compilato di tutto l’Ordine Domenicano, che in sei tomi in foglio
manuscritti si conservano nella libreria del Convento. Eo in tempore, così di lui parla, ob ejus sanctimoniam, prudemiam, solertiam, modestiam, & doctrinam
Ludovico Mediolanensium Duci in tantum carus fuit, ut vix de verbis ejus
satiari posset. In agendis ejus ut plurimum utebatur consilio.
Il Padre Giorgio Rovegnatino nel
lib. 4. della storia del nostro Convento attesta, che dopo la prigionia di
Lodovico il Moro impadronitisi di Milano i Francesi, il Padre Priore Vincenzo
Bandelli colla sua graziosità e buone maniere gli affezionò al nostro Convento
poco meno che affezionato gli fosse il Duca medesimo; onde lo favoriron mai
sempre per ogni migliore maniera: Verum
cum Galli capto Duce, divino judicio, redissent, rursum tanta apud illos gratia
se habuit Venerandus Prior Fr. Vincentius, ut non minus fere nobis affici cæperint,
quam Dux ipse fuerat; unde & favoribus & elemosynis in hanc diem non
parum propitios eos sentimus. Ho voluto estendermi alcun poco
sulla amabilità prudenza e buona grazia del P. Bandelli, pel quale anche
Leonardo ch’era d’un animo sì bennato avuto avrà naturalmente tutta la stima e
il rispetto, per rendere sempre più improbabile che neppur per ischerzo potasse
questo bravo Pittore dire a Lodovico che la faccia di questo Priore poteva
prendersi per modello della faccia di Giuda.
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