Benché il Cenacolo di Leonardo sia una delle opere d’arte più
famose al mondo, fu assai presto conosciuto attraverso le copie più che nella
visione diretta, e questa finì con l’essere condizionata sempre più dalle copie
man mano che il capolavoro deperiva o era offuscato da successive ridipinture.
A una data assai precoce dovettero circolare fra gli artisti copie parziali
tratte dai cartoni che aveva preparato lo stesso Leonardo. Una vetrata nel
duomo di Milano, eseguita pochi anni dopo il compimento del dipinto, e dove è
rappresentata l’Ultima Cena, raccoglie e riunisce
motivi sparsi delle teste e degli atteggiamenti degli Apostoli per ricomporli
entro uno schema tradizionale che tiene assai poco conto delle innovazioni compositive
della scena come era stata concepita da Leonardo. Queste citazioni parziali
dall’opera ebbero tuttavia un’importanza grandissima per la pittura nell’Italia
Settentrionale. I dipinti veneziani, di ambito giorgionesco o tizianesco, con
mezze figure dalle espressioni intense e appassionate, mostrano in più
occasioni di derivare da un tipo di cartoni in cui i personaggi di Leonardo
sono copiati due a due, definendo con precisione l’uno e lasciando all’altro la
funzione d’introduzione spaziale, quasi di coulisse. Un dipinto
giorgionesco con Sansone deriso, nella collezione di
Laura Rossi Mattioli a Milano, offre una derivazione diretta dalla testa di San
Taddeo nel Cenacolo; lo stesso Bravo di Tiziano, al Kunsthistorisches Museum di
Vienna, impiega il modello del San Pietro nel Cenacolo,
con il “passo” difficile della mano mancina che estrae dal fodero un coltello
legato dietro la schiena. Persino una di
Paolo
Veronese, nello stesso museo, appare ispirata al gesto dell’apostolo Filippo
nella Cena; ed è tanto più
notevole che in questi ultimi casi si tratti di dipinti di argomento romano (Il Bravo è stato identificato da P. Richter con un
dipinto raffigurante Claudio Luscio che aggredisce
Celio Pozio,
indicato dal conoscitore Ridolfi nel ’600), poiché ciò dimostra come i
contemporanei percepissero nella Cena
di Leonardo
un’urgenza drammatica non confessionale, profondamente e altamente umana, come parve
poi anche a un interprete acuto come Wolfgang Goethe. Invero la storia delle
copie parziali dal Cenacolo è assai lunga e
meriterebbe uno studio a parte.
Uno
dei loro approdi è un’incisione di William Hogarth che possiamo considerare
come il suo testamento, poiché, apprendiamo dall’editore, “He worked upon it the
Day before his Death”. Il gruppo di teste inciso al di sopra della scena
intitolata The Bench, e che lo stesso
editore considerava non finito, intende illustrare il differente significato
delle parole Character, Caracatura and Outré partendo dall’esempio
delle teste degli Apostoli di Leonardo, considerate come esempi di Character (“when a Character is strongly mark’d in the
living Face, it may he considered an Index of the mind, to express which with
any degree of justness in Painting, requires the utmost Efforts of a great
Master”). Era l’anno 1764 ed è possibile che Hogarth avesse veduto la serie di
disegni dal Cenacolo che dall’Inghilterra è
approdata al museo di Strasburgo.
Sono
disegni tracciati su grandi fogli che in un certo tempo furono piegati in due
come a formare un quaderno; successivamente furono incollati su un foglio di
rifodero e più volte ritoccati e colorati. Anche queste tracce d’uso sono
indizi dell’importanza che era loro attribuita e del desiderio di non
permettere alle tracce del pensiero di Leonardo, che racchiudevano, di sparire.
Come
è noto, una grande influenza nella diffusione della concezione generale del Cenacolo di Leonardo ebbe la stampa che ne dette
Giovanni Pietro Birago, che fu sfruttata anche da Rembrandt; ma ancora uno
schema preciso non è stato tracciato nella successione delle copie integrali
dalla Cena, né sono fissate le
relazioni reciproche fra le copie di grandi dimensioni. È infatti improbabile
che ogni copia sia stata eseguita direttamente sul posto, dentro il refettorio
che i frati continuavano ad usare, mentre è assai più verosimile che, intorno
ad un gruppo assai ristretto di copie eseguite con controllo diretto dell’originale,
si siano costituite famiglie che ne derivano. Ciò spiega le divergenze di intere
famiglie dall’originale, anche quando non sussistano i sottili motivi
interpretativi messi in luce da Leo Steinberg, così come il persistere di
tipologie precise, che possono essere rinviate ai caratteri stilistici noti di
questo o quell’allievo di Leonardo. I tratti che si possono far risalire a
Marco d’Oggiono sono i più evidenti, misteriosi sono quelli riferibili alla
copia, perduta, del Solario, mentre il professor Grazioso Sironi informa di
aver trovato la documentazione della commissione di una copia al Bramantino.
L’idea
che le copie rappresentassero vari gradi di approssimazione all’originale e che
questo potesse essere ricostruito soltanto attraverso un’analisi rigorosamente
logica del complesso di testimonianze, accettando e scartando gli elementi
contraddittori dopo un attento scrutinio, maturò relativamente tardi.
Il
presupposto di un tale criterio era infatti la svalutazione dell’originale così
come si è conservato, un passo decisivo cui era difficile arrendersi. Il primo
ad intraprenderlo sembra sia stato l’abbate olivetano Francesco Maria Gallarati,
circa quarant’anni dopo il restauro di Michelangelo Bellotti e un anno prima
che Pietro Mazza fosse incaricato di rimuovere le ridipinture dell’atroce
Bellotti con mezzi drastici che tuttavia suscitarono un comprensibile allarme.
Quando
l’abbate Gallarati, nel 1769, si accingeva ad un nuovo studio descrittivo del Cenacolo, tentandone la ricostruzione attraverso le
opere certe di Leonardo, come vedremo, erano usciti da due anni i Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati di Johann Joachim
Winckelmann, due volumi pubblicati con il concorso di sottoscrittori, fra i
quali impressionante è il numero dei Milanesi (era milanese quel monsignor
Alberico Archinto che aveva avviato il Winckelmann verso la sua luminosa
carriera). Anche se il grande archeologo non è citato espressamente dall’abbate,
è tuttavia difficile sottrarsi alla sensazione che sia la nuova metodologia del
Winckelmann ad averlo spinto a collocare il problema della conoscenza del Cenacolo all’interno di un sistema filologico di
ricerca. “Né avend’io giammai trovato - scrive il Gallarati nella manoscritta ‘Descrizione Ragionata del Celebre Cenacolo dipinto
dal Ristoratore delle Belle Arti Leonardo da Vinci’ -, che altri lo avesse
fedelmente disegnato o dipinto, tutto mi sono commosso riflettendo al pericolo
della perdita d’un’opera che è sempre stata ornamento e splendore della nostra
città. Per la qual cosa, suposto il pensiero, che mi rappresentava
laboriosissima così fatta impresa, e incoraggiato dagli amici, mi son accinto
li 15 aprile del 1769, a rinnovarla in miniatura, usando ogni diligenza,
acciocché essa corrispondesse all’antico suo originale.” Ancora
più esplicito è nelle “Réflexions sur Le Cénacle de Léonard de Vinci”: “Pour fournir
au public une connaissance suffisante de ce grand ouvrage, je m’engage a le decrire
en abregé; non cependant comme il parait à présent, étant endommagé, et terni
par les injures du temps, mais comme il a dû être dans son premier tems, où il se mantenait mieux. Pour
le faire donc concevoir comme il étoit dans le tems heureux de sa magnificence,
il souvrait la connaissance, que nous avons de la beauté, et de la perfection
de son pinceau, qui se manifesta assez bien dans beaucoup d’autres ouvrages
bien conservés; je ferai même usage des sentiments des
Professeurs, et des Ecrivains contemporains les plus savants, et le plus
accredités et j’exposerai au Letteur ces notions, quej’ai pû tirer de l’examem de ce qui restait de cette représentation, quand je commençai l’ouvrage. Aussi l’intelligent pourra-t-il connaitre assez le prix de
tout, et il pourra ainsi deduire du peu des parties, qui restent de ce corps,
un (sic) idèe exacte de sa perfaite beauté. C’est la route, que j’ai suivie,
par le moyen de la quelle, après des reflexions bien mûres, et des soins fort longs, je formai un jugement de l’insigne modèle, et
de tous les éclats de sa ressemblance ancienne. Mais afin que les idées déja
formées ne m’echapassent pas, et avant que l’ouvrage fût tout-à-fait perdu; je me hâtai de la renouveler en
miniature avec la plus grande diligence, y employant toute l’éxactitude, pour
le réndre uniforme à la peinture ancienne, et je ne pris d’autre parti, que
celui de ranimer seulement les couleurs, et les rendre vives, et conformes au
coloris, que l’on admire dans ces autres ouvrages, bien conservés”.
Sarebbe
molto interessante sapere quali erano le opere ben conservate di Leonardo che l’abbate
riteneva di conoscere e, soprattutto, ritrovare la miniatura. È comunque impressionante
la sua sensazione che il capolavoro diminuisse rapidamente nel corso dei nove
anni del suo lavoro - si stavano forse alterando i ritocchi del Bellotti? - e
recisa è la negazione che ciò che si vedeva corrispondesse al dipinto antico.
Fu
nel 1789 che giunse a Milano il pittore francese André Dutertre, munito di una
borsa di studio regia che doveva permettergli di eseguire una copia fedele del Cenacolo. La compì nel 1794, all’acquerello, su un foglio
di media grandezza. Tempi così lunghi non si spiegherebbero se il Dutertre
avesse eseguito una copia diretta dal dipinto; ne eseguì invece una
ricostruzione. Basta infatti a rendersene conto osservare come egli abbia
completato la parte inferiore della scena, distrutta nel 1652 dall’ampliamento
della porta al centro della parete, e come sull’esempio di altre copie
cinquecentesche abbia dato pari altezza alle aperture sulle pareti della
stanza, mentre, in realtà, Leonardo aveva immaginato quelle sulla destra più
basse di quelle opposte, e infine notare come poi abbia ricostruito il disegno
dei drappi appesi ai muri introducendo una interpretazione molto interessante e
insolitamente regolare del motivo di una tapisserie
à mille fleurs.
Sarebbe di grande importanza per lo studio dell’arte lombarda rintracciare i
disegni preparatori del Dutertre e, per la storia del Cenacolo e della “cenacologia”, la sua corrispondenza
con Parigi.
Secondo
la ricostruzione degli avvenimenti da parte di Ludwig Heydenreich, il progetto
iniziale era che la copia del Dutertre fosse poi tradotta in incisione dal
grande Raffaello Morghen. Di qui la grande menzione che il Dutertre ha rivolto
ai “valori” della Cena, dei quali la sua
testimonianza è la più sensibile, e la scelta di una tavolozza limitatissima,
quasi una grisaille, a parte lievi tocchi
di rosa negli incarnati e di giallo nei legni.
Come
ricorda più volte Carlo Pedretti in queste stesse pagine, l’impresa maggiore
nella ricostruzione del Cenacolo di Leonardo fu quella
cui si accinse Giuseppe Bossi, dopo gli ultimi guasti provocati al dipinto dall’occupazione
militare fra il 1796 e il 1801. Danni che furono assai gravi, poiché veramente,
come risulta all’esame ravvicinato del dipinto, furono scagliate pietre che distrussero
quasi completamente i corpi degli Apostoli, mentre le teste, che non poterono
essere raggiunte dal lancio, ebbero gli occhi appositamente sfregiati con una
punta. Il Cenacolo fu così probabilmente l’unico
monumento italiano a subire l’iconoclasmo che pochi anni prima aveva distrutto
tanti monumenti francesi.
Giuseppe
Bossi si accinse al compito con lo studio più rigoroso e con la documentazione
più ampia possibile. Amantissimo di Leonardo, ma certo non falsario e anzi
ansioso di verità, svolse l’inchiesta più sistematica mai tentata sulle copie
dalla Cena ed eseguì lucidi almeno
da quelle due copie che riteneva più fedeli, l’affresco di Ponte Capriasca e la
Cena dipinta da Andrea Solario nel monastero di
Castellazzo. Alcuni di quei lucidi sono ancora conservati a Weimar e sono molto
importanti per conoscere un’opera perduta, l’affresco del Solario, e valutare
il segno descrittivo e delimitante, tipicamente neoclassico, del Bossi copista.
Una
fotografia del 1900 e un’altra del 1936 dell’interno del refettorio di Santa
Maria delle Grazie ci presentano la sala arredata con copie dal Cenacolo. Alcune sono chiaramente riconoscibili, per
esempio, in primo piano nella fotografia del 1900, la copia di Cesare Magni,
acquistata per la pinacoteca di Brera e oggi finita come arredamento di uffici
statali, o la copia di Castellazzo; nella fotografia del 1936 sono scomparse le
copie più piccole, precedentemente esposte su cavalletti, ma si riconosce molto
chiaramente la copia eseguita dal Lomazzo. Sembra che le copie di grandi
dimensioni siano andate tutte distrutte nel 1943; delle altre conosco la sorte
soltanto di due. Nella fotografia del 1936 il posto delle copie piccole è stato
preso dalle grandi stampe fotografiche con le teste degli Apostoli, eseguite
nell’occasione del restauro del 1908 e che in certo modo perpetuano la
concentrazione dell’interesse nelle sole teste che abbiamo già notato nel
Cinquecento.
Doveva
essere un’esperienza singolare la visita al refettorio delle Grazie prima della
guerra. Il grande affresco del Montorfano, che pure ha i suoi meriti, fa parte
di uno stesso ambiente e si confronta direttamente alla Cena, non era considerato affatto e il dipinto di
Leonardo era riproposto una quantità di volte attraverso l’interpretazione che
ne offrivano le copie. Queste, poi, non consideravano affatto il rapporto fra
la stanza musivamente dipinta da Leonardo e l’ambiente reale, né le lunette, né
gli spicchi della volta azzurri e disseminati di stelle d’oro che appaiono un
elemento spaziale tanto importante nelle vecchie fotografie.
La
copia del Bossi è andata perduta. A vero dire non si trattava di una copia,
bensì di una ricostruzione e poiché dobbiamo ritenere, dato lo scrupolo del
Bossi, ch’egli non si desse a cercare nelle copie ciò che era evidente e sicuro
nell’originale, le divergenze fra la ricostruzione del Bossi e quanto possiamo
osservare direttamente oggi è un indizio significativo delle condizioni della Cena agli inizi dell’Ottocento.
In
coincidenza con l’uscita dell’ampio studio del Bossi intorno al Cenacolo, Marsilio Landriani annotava (20 novembre
1811): “ardua impresa (è) di ristorare il capo d’opera del pennello di Leonardo”,
e, data la sua inevitabile rovina, proponeva che se ne desse una copia esatta
nel ben più duraturo mosaico.
L’auspicata
copia in mosaico fu eseguita, prendendo a modello la ricostruzione del Bossi,
nel 1806-14 dal mosaicista romano Giacomo Raffaelli ed e oggi nella
Minoritenkirche a Vienna. Anche se il mosaico e l’inquadratura architettonica
neogotica che ne ha dato August von Stacke nel 1845-47 hanno un interesse in sé,
per il nostro assunto è invece stimolante confrontare le fotografie della copia
del Bossi con la sua replica viennese. Non vi è differenza di colore fra il
cassettonato e le pareti, e queste terminano in alto in una cornice su cui le
travi si appoggiano; le tre aperture sul fondo non sono differenziate come
appare oggi nell’originale, poiché la porta al centro non ha timpano; l’asimmetria
fra le aperture a destra e a sinistra è sparita; le tappezzerie alle pareti
hanno un ampio disegno a palmette verde e oro e sono incassate dentro nicchie
rettangolari appena depresse. Sono osservazioni che ci lasciano comprendere
quanto poco della pittura di Leonardo si rivelasse anche a un indagatore
sistematico e infaticabile come il Bossi.
La
documentazione fotografica del XX secolo dimostra puntigliosamente il mutare
del Cenacolo da una campagna di
restauro all’altra. I volti degli Apostoli più giovani, nelle fotografie
successive al restauro del Cavenaghi, assomigliano moltissimo agli angeli che
lo stesso restauratore dipinse, come sua autonoma invenzione, nel santuario di
Caravaggio, nei pressi di Bergamo; e quegli stessi connotati spariscono poi
nelle fotografie eseguite dopo il restauro di Mauro Pellicioli per essere
sostituite da altre fisionomie che tuttavia non corrispondono a quanto la
rimozione delle ridipinture compiuta in questi ultimi anni ha rivelato. Da
tutto ciò si deduce che stiamo vivendo un’esperienza nuova, quale è la
riapparizione della Cena dopo secoli in cui la
sua comprensione è stata affidata, più che alla sua reale presenza, alla
possibilità di leggerla attraverso le copie.
Ciò
che emerge è terribilmente provato e la necessità di una lettura attenta,
capace di trarre profitto da ogni minimo indizio, s’impone. Chi ha potuto
salire sui ponti quando Pinin Brambilla Barcilon interveniva sulle lunette, ha
potuto stupire davanti alle invenzioni leonardesche delle aquile con le penne
nere leggermente toccate d’azzurro sul fondo argenteo nello stemma centrale,
guardarne i grandi becchi spalancati e gli occhi accesi; ma nessuna fotografia
è riuscita purtroppo a trasmettere un’immagine che è affidata, per ora,
soltanto al ricordo di una visione diretta. Possiamo in compenso osservare i
chiodi e gli anelli, con le rispettive ombre proiettate, cui sono appesi i velari
nella sala del Cenacolo, un particolare che
sembra fuggito agli antichi copisti e che aveva tratto in inganno lo stesso
Bossi. A volte, dobbiamo affidarci ad indizi minimi. Nel descrivere la Cena, il Vasari insiste sulla grande verità di
rappresentazione della tovaglia distesa sul tavolo. Era forse la prima volta
che un piano bianco continuo era introdotto come primo piano d’una scena,
motivo che avrebbe poi interessato Andrea del Sarto e cui avrebbe guardato con
spirito d’emulazione Tiziano nella Cena oggi all’Escorial. Le
parole del Vasari sono molto precise: “infino nella tovaglia è contraffatta l’opera
del tessuto d’una maniera, che la rensa stessa non mostra il vero meglio”.
Dunque, se Leonardo avesse direttamente attaccato alla parete una rensa e cioè
una tela fine e bianca come quelle che da giovane metteva sui modelli di creta
per studiarne i panneggi, non avrebbe ottenuto un risultato più vero. Infatti
Leonardo aveva reso l’illusione di un tessuto operato. Allo stato attuale del
restauro, l’attendibilità della testimonianza del Vasari è affidata soltanto a
pochi millimetri di superficie dipinta, che ci mostrano il piccolo rettangolo
di trama rilevata che sarà il Leitmotif della Cena di Tiziano. Soltanto qualche millimetro, almeno
per ora.
In
tali circostanze si può ben comprendere come il lento recupero di Leonardo non
possa attendere troppi anni per presentarsi al pubblico degli esperti così come
anche al pubblico più ampio possibile. Proprio perché sono dentro anch’io a
quest’operazione complessa, cui partecipano scienziati ed esperti, oltre alla valentissima
restauratrice, sono sinceramente grato dell’occasione che ci è data di
beneficiare immediatamente, in corso d’opera, delle conoscenze e della
genialità di Carlo Pedretti e di avere la rara fortuna di poter mettere a
confronto i disegni e il dipinto di Leonardo. Avessero avuto una possibilità
come questa coloro che nel corso di tanti decenni inseguirono il sembiante di
Leonardo come un fantasma sfuggente!
Benché
nella tradizione europea si diffidi delle manifestazioni di gratitudine della
scienza verso la politica, ho il dovere di ringraziare apertamente coloro che
hanno reso la prosecuzione del restauro possibile. Innanzi tutti il sindaco di
Milano Carlo Tognoli. La sua dimostrazione di fiducia nel restauro intrapreso è
stata decisiva per riconfermare quel rapporto affettivo della città con il
capolavoro di Leonardo che già stupiva il Vasari: “la quale opera rimanendo
così per finita (l’autore delle Vite pensava che Leonardo
avesse lasciato “imperfetta”, ossia incompiuta l’immagine di Cristo), è stata
dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione”. L’incontro, poi,
del ministro per i Beni Culturali Vincenzo Scotti con il presidente della
società Olivetti, Carlo De Benedetti, ha assicurato al restauro la possibilità
di proseguire al di là delle difficoltà di bilancio e delle torpide incertezze
romane.
Avrei
poi ancora molte altre persone da ringraziare: ricorderò solo l’amica
restauratrice Marcella Sorteni, prematuramente scomparsa, generosa in
osservazioni e consigli, la cui indagine documentaria sui metodi e le sostanze
che i restauratori precedenti adottarono nel Cenacolo mi auguro possa essere
presto pubblicata.
Carlo Bertelli
Soprintendente per i
beni Artistici e Storici Milano
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