mercoledì 17 settembre 2014

1884 - UZIELLI, Sopra un Sonetto attribuito a Leonardo da Vinci



SOPRA UN SONETTO ATTRIBUITO
LEONARDO DA VINCI

I.

Il Sonetto.

Non di rado avviene nelle ricerche storiche che i fatti di maggior rilievo lasciano nell’ombra quelli meno notevoli, benchè, indagando l’intima ragione delle cose, si trovi sovente in questi ultimi la prima causa dei rivolgimenti storici posteriori. Così negli uomini illustri le loro massime doti suscitano tanto la nostra meraviglia che nulla di mediocre ci pare compatibile con la loro natura; nondimeno i più, giudicando in tal guisa la storia coll’entusiasmo anzichè con ben ponderato sentimento, non si peritano a formulare la teoria filosofica dei fatti da essi studiati. Ma questa è ardua cosa invero, concesso che sia da riporre piena fede nelle cronache contemporanee e nella sincerità dei compilatori posteriori, concesso che nel meditare gli avvenimenti di altri tempi non ci facciano velo le passioni dei nostri. Le conseguenze di questo falso giudizio appariscono evidenti nei libri che trattano di Leonardo da Vinci. Grande artista e grande scienziato, a lui nulla manca per essere ammirato dai posteri; ma la sua intelligenza universale lo faceva ribelle alle convenzioni morali accolte fra gl’uomini, i quali in quel tempo erano indulgenti per sentimenti oggi dalla maggioranza condannati. Nè tale condanna può recar maraviglia, poichè se il cosmopolitismo di Leonardo da Vinci fu naturale in un’epoca in cui la viltà dei popoli e la prepotenza dei principi faceva dell’arte e della scienza il rifugio delle anime grandi, sarebbe giustamente chiamato ai di nostri mancanza di amor di patria. Leonardo da Vinci, caduta Milano, serve il Borgia, assassino di tiranni, ma encomiato principe, e quindi si rifugia indifferente presso un Re francese; Michelangelo Buonarroti abbandona senza scrupolo la difesa di Firenze. I nostri accademici non cercano spiegare le cause di simili fiacchezze: amano meglio negarle, falsando la storia; e codesto esempio è seguìto da una schiera di mediocrità contemporanee, le quali credono rendersi immortali commemorando illustri defunti e annoiando la gente. Questa armonia che si vuole nell’ordine morale si dichiara inseparabile da quella dell’ordine estetico. Michelangelo, gran pittore e valente poeta, deve essere grande patriotta. Leonardo, sommo pittore e scienziato, deve far versi ammirabili.
Un esempio appunto degli errori cui possono condurre fatti inesattamente conosciuti, commentati da simil metodo di critica, si trova nella esposizione che verrò facendo dei falsi giudizi espressi sopra il seguente sonetto fatto, stando al Lomazzo,[1] da Leonardo da Vinci:

Chi non può quel che vuol, quel che può voglia;
Che quel che non si può, folle è volere.
Adunque saggio l’huomo è da tenere,
Che da quel che non può suo voler doglia,
Però ch’ogni diletto nostro, e doglia,
Sta in si, e no, saper voler potere.
Adunque quel sol può, che co ’l dovere.
Ne trahe la ragion fuor di sua soglia.
Nè sempre è da voler quel che l’huom puote.
Spesso par dolce, quel che torna amaro.
Piansi già quel ch’io volsi, poi ch’io l’hebbi.
Adunque tu lettor di queste note
S’a te vuoi esser buono, e a gl’altri caro.
Vogli sempre poter quel che tu debbi.

Questo sonetto, sola prova del genio poetico di Leonardo, fu lodato quasi cosa divina, tradotto ripetutamente nelle principali lingue di Europa e tenuto come la manifestazione più esatta delle sue idee e dei suoi principi morali. Io ora, rassegnandomi all’accusa di critico arido e minuzioso, dimostrerò che questi versi non sono di Leonardo, e quindi crolla la base sulla quale furono architettate tante frasi sonore e tanti falsi giudizi che pretendevano far conoscere l’intimo pensiero di una delle più grandi figure artistiche del Rinascimento e dei precursore dell’evoluzione scientifica dei tempi moderni.

II.

Le fonti.

Prima che l’Amoretti e il Venturi, sul finire del secolo scorso dessero nuovo impulso agli studi sopra Leonardo da Vinci, uno fra i pochi che raccolsero notizie intorno a lui fu il Lomazzo.
Questo pittore milanese nacque venti anni dopo la morte di Leonardo; ma ebbe agio di avvicinare persone che lo avevano conosciuto e fra esse Francesco Melzi, il quale aveva visto spirare il grande artista, già suo maestro, e ne aveva avuto in eredità i cartoni ed i manoscritti.[2]
È probabile che il Lomazzo vedesse queste carte. Infatti, dopo avere nel suo Trattato della pittura parlato dell’eccellenza di Michelangelo nell’anatomia, aggiunge:[3]
«Doppo lui eccellenti sono stati Leonardo Vinci; del quale si ritrovano diversi dissegni in più mani, e principalmente in casa di Francesco Melzo gentilhuomo Milanese suo discepolo, oltre l’Anatomia de’ cavalli che egli ha fatto.»
Il Lomazzo ebbe molte notizie di Leonardo dal Melzi stesso; così rammenta varii automati dell’antichità e statue maravigliose, «delle quali», egli[4] aggiunge, «attempi nostri ancora ne ha fatto Leonardo Vinci, il quale secondo che mi ha raccontato il Signor Francesco Melzo suo discepolo grandissimo miniatore, soleva fare di certa materia ocelli che per l’aria volavano.»
Gioverà ora notare che il Melzi, nato nel 1480, morì verso il 1570; il Lomazzo nacque nel 1538; s’ignora l’anno della sua morte, ma visse certamente oltre il 159l, poichè in quell’anno curò egli stesso la stampa dell’opera: Delle forme delle muse cascate dagli antichi autori greci e latini.[5]
È lecito quindi credere che le relazioni fra il Melzi e il Lomazzo durassero varî anni; e ancorchè la cecità da cui fu afflitto quest’ultimo dall’età di 32 anni,[6] come egli stesso rammenta, gl’impedisse l’esame diretto delle carte di Leonardo possedute dal Melzi, pure potrebbesi con molta probabilità ammettere che da questi il Lomazzo avesse avuto il testo del Sonetto di Leonardo, da lui pubblicato con le seguenti parole:[7] «Così si trova che il dotto Leonardo Vinci soleva molte volte poetare, e fra gli altri suoi sonetti, che sono difficili a ritrovare, si legge quello:
Chi non può quel che vuol ecc.
Il Vasari però, il quale senza alcun dubbio aveva anch’egli attinto notizie intorno a Leonardo dal Melzi,[8] che poteva aver conosciuto il Lomazzo quando questi visitò Firenze,[9] e che conobbe certamente un pittore milanese possessore di manoscritti di Leonardo da Vinci,[10] non parla di questo Sonetto allorchè rammenta l’eccellenza di Leonardo nelle arti belle; dice soltanto:[11] «Dette alquanto l’opera alla musica; ma tosto si risolvè a imparare a sonare la lira, come quello che dalla natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiadria, onde sopra quella cantò divinamente all’improvviso.»
Si potrebbe quindi supporre che il Melzi avesse fra i fogli di Leonardo il Sonetto scritto di mano di lui, e animato dal sentimento che spinge chiunque è depositario di carte di uomo illustre a credere questi autore di quanto vi si trova, almeno di autografo, attribuisse quei versi al proprio maestro e li comunicasse come tali al Lomazzo. In ogni modo in nessuno dei manoscritti di Leonardo che ci rimangono si trova quel Sonetto; ed ancorchè potessero apparire nuovi codici autografi ove fosse dato leggerlo, si dovrebbe credere, come apparirà da quanto dirò più avanti, che Leonardo lo trovasse in qualche raccolta di poeti del suo secolo e di sua mano lo ricopiasse.

III.

I commentatori.

Il Dufresne, nella vita di Leonardo da Vinci, da lui premessa alla prima stampa del Trattato della Pittura, che per sua cura fu pubblicato a Parigi nel 1651, riproduce questo Sonetto facendolo precedere dalle seguenti parole:[12] «e acciochè non gli mancasse virtù alcuna, quell’istesso furore inspiratogli da Apolline che lo fece pittore e musico, lo fece ancora poeta. Ma essendosi perse tutte le sue composizioni, è solo pervenuto fin’ a noi questo sonetto morale.»
Il Sonetto che segue è identico a quello dato dal Lomazzo e la conferma che sia tolto da quest’autore si trova nell’elenco delle opere consultate dal Dufresne, e da lui posto in seguito alla vita di Leonardo, ove è citata l’opera stessa del Lomazzo sopra la Pittura.
Il primo scrittore italiano che, dopo il Lomazzo, facesse speciale menzione del Sonetto fu il Crescimbeni, il quale se ne valse per porre Leonardo fra i poeti italiani, indicando il Dufresne come fonte delle notizie da lui riportate.[13]
Seguendo il Lomazzo e il Dufresne, l’Amoretti lo stampò anch’esso nel suo libro sopra Leonardo.[14] «Convienci confessare però», così egli dice, «che nel sonetto morale, sola composizione poetica di lui rimastaci,[15] ha mostrato d’essere più uomo sensato che immaginoso poeta.»
Meno severo è il giudizio espresso da Francesco Fontani nel 1792.[16] «Nella mancanza assoluta, in cui siamo d’altri monumenti che ci comprovino il genio di poetare in Lionardo, riporterò un di lui Sonetto conservatoci dal Lomazzo nel suo Trattato della Pittura, Lib. 6. C. 2, e riprodotto dal Sig. Du Fresne, e da Monsig. Bottari nelle sue note alla Vita di Lionardo scritta dal Vasari, oltre altri. Il Sonetto è grave per i concetti, esatta ne è la Poesia, ma privo di quelle frasi che solleticano le orecchie, e piacciono a chi più cura le parole, che la profondità de’ pensieri.»
Qualche anno dopo il Gault di S. Germain, entusiasta di Leonardo, nella vita di lui, premessa all’edizione del Trattato della Pittura da lui curata, non solo chiama[17] il Sonetto «un prezioso frammento del suo estro poetico» e ne deduce che Leonardo è stato maestro in tutte le arti belle, ma invita i compositori a porre in musica e dar nuova vita a questo saggio di poesia Leonardesca.
«Delle poesie di lui», scrissero recentemente i sigg. Pini e Milanesi nelle note al Vasari,[18] «non ci resta che il seguente sonetto, conservatoci dal Lomazzo, nel quale trovi più da lodare il senno dell’autore, che il gusto: ma forse non è questa la sua miglior produzione poetica.»
Il prof. Govi[19] poi, così appassionato cultore di quanto riguarda i grandi uomini da Leonardo a Galileo, e dice che il primo è un «valentuomo senza malizia, ha l’ingenuità del fanciullo e l’acume del savio» e sente sotto quei versi il battito ed il tepor della vita: «Il sonetto di lui conservatoci dal Lomazzo e che qui trascriviamo non è di certo nè spontaneo, nè imaginoso, nè vivace, nè affettuoso così che si possa dir opera di perfetta poesia. Son versi filosofici poco più, ma pur sotto quei versi freddi si sente il battito e il tepor della vita: Piansi già quel ch’io volsi poi ch’io l’ebbi!... e chi scrisse, forse nella vecchiaia, queste rime, poteva in giovinezza avere improvvisato stornelli e rispetti da far meravigliare gli ascoltatori, soprattutto fuor di Toscana, dove par già quasi un prodigio il dire italianamente anche i più volgari concetti. Ecco il sonetto: ……………………..
A questi giudizi il Govi aggiunge alcune notizie non senza importanza per il nostro argomento e dalle quali si desume che Leonardo soleva ricopiare versi di varî autori: «Un altro sonetto, di precetti igienici, si legge nel Codice Atlantico, ma il vederlo scritto da Leonardo, senza pentimenti, e l’esservi parecchi versi sbagliati, ne fanno supporre ch’egli piuttosto lo trascrivesse in quel luogo togliendolo da qualche raccolta somigliante ai famosi precetti della Scuola Salernitana, o del Benzo da Siena, anzichè lo componesse di suo.
Altrove si legge; e questi son indubbia mente versi suoi:
Oh Lionardo, perchè tanto penate?
e sullo stesso foglietto:
Deh! non m’avere a vil ch’io non son povero;
Povero è quel che assai cose desidera.
poi in altro luogo:
Te di diletto la tua mente pasci.
E accanto a uno schizzo rappresentante alcune farfalle che svolazzano attorno a una fiamma, schizzo posseduto dalla Biblioteca del Re in Torino, dopo varî tentativi abortiti, Leonardo scrive:
Come cieca ignoranza ne conduce,
Vedi, per lo splendor nel fuoco andiamo.
e sotto:
O miseri mortali, aprite gli occhi!
è sempre la ragione che parla, piuttosto che il sentimento, pur qualche profumo di poesia esala ancora da queste povere foglie staccate d’una pianta perduta.»
In generale però nei nostri tempi, in cui piace agli scrittori di dedurre larghi concetti morali da piccola origine, e si generalizza nel falso piuttostochè essere minuti nel vero, si volle cercare nel Sonetto non solo il suo proprio valore intrinseco, ma i sentimenti morali di chi ne fu l’autore. Così il Calvi, dopo aver rammentato i versi improvvisati da Leonardo continua con queste parole:[20] «Di sue poesie, che al suo tempo il Lomazzo diceva assai difficili a trovarsi, non abbiamo che un sonetto, fatto, crediamo, un poco più tardi, col quale dimostra come, sebbene vivesse in una corte dedita tutta a piaceri, la moralità avesse in lui profonde radici.»
Il Rio che vuol dimostrare il cristianesimo essere il solo ispiratore dell’Arte del Rinascimento e vuol tutto coordinare intorno a un immacolato ideale, trova dal canto suo nel Sonetto le grandi qualità della pittura di Leonardo, il quale[21] «cercava i suoi appoggi e talora anche le sue ispirazioni nell’antichità e nei grandi genii del medio evo. Studiava intimamente il trattato di Vitruvio sugli ordini di Architettura, meditava le opere di Alberto il Grande e s’ingegnava come Giotto, come Orgagna, come Botticelli e come Michelangelo, di ricavare dall’ideale poetico di Dante tanto da sostenere e fortificare il suo ideale estetico; ciò che riesciva tanto più facile a Leonardo, essendochè il simbolismo aveva per il suo spirito, nella poesia come nell’arte, attrattive specialissime. Un sonetto di sua fattura conservatoci da Lomazzo rivelerebbe in lui un poeta moralista familiarizzato con gli intimi conflitti e dotato delle qualità di stile analoghe a quelle che lo segnalavano come pittore. È quanto può aversi di più preciso e di più solidamente costruito e nulla evvi al mondo di più simpatico che il ritorno personale ch’ei vi fa su sè stesso. Si tratta delle relazioni d’onde traggono origine tutte le sue gioie e tutti i suoi dolori.»
Uno scrittore della scuola del Rio, il Koenig, dice con gallica leggerezza:[22] «Parecchi letterati Italiani parlano dei suoi versi con pomposi elogi e non esitano ad annoverarlo fra i restauratori della poesia Italiana. Il sonetto seguente . . . offre forse antitesi ricercate; ma vi si troverà in compenso un accento di sensibilità e una tinta filosofica degna d’interesse.»
Se il Rio si lascia trasportare dal misticismo religioso e falsa la storia, l’Houssaye commenta il Sonetto[23] con le idee malsane dei suoi romanzi galanti: «Si vede che in piena gioventù conserva l’amaro del miele dell’amore; il suo labbro sanguina all’orlo della coppa. Egli infatti, insaziabile dell’infinito, non vuol fermarsi a mezza strada. Egli cerca la dea e trova solo la donna.»
Fra le opinioni manifestate in Francia intorno al Sonetto si distingue quella del Delécluze. Esso adduce quei versi a conferma dell’opinione da lui espressa sopra Leonardo e li accompagna con alcune osservazioni che sono forse il più vero giudizio finora pronunciato sull’indole del grand’uomo: benchè in ciò non consentano i traduttori italiani dello scrittore francese, ai quali spiacciono gli epiteti di epicureo e di miscredente da esso dato al Vinci; ed aggiungono poi che «da coteste accuse fu vittoriosamente difeso anche dall’eruditissimo sig. Masselli.»[24]
Ecco del rimanente le parole dalle quali il Delécluze fa precedere il Sonetto:[25] «Tutto il movimento abituale de’ suoi pensieri i più alti era compreso nel circolo della filosofia naturale e della filosofia morale; e il titolo di epicureo, preso nel suo senso il più favorevole, è forse quello che meglio indica la tendenza abituale dello spirito di Leonardo da Vinci. Delle molte poesie che egli aveva improvisate e composte, non è pervenuto a noi altro che un sonetto. Esso ci dà un idea molto debole del suo genio per la poesia, ma conferma però il giudizio che io ho emesso sulla direzione morale delle sue idee.»
«Leonardo» dice il Clément[26] «non conobbe mai quelle tempeste del sentimento e del cuore di cui i lampi sono divini riflessi e i tuoni parole sacre.»
Un autore così rimbombante non può a meno di essere severo per un Sonetto di forma tanto scientifica. Infatti dopo averne fatta la parafrasi esclama:[27] «Morale comoda e prudente, saviezza non senza analogia con quella di Salomone e di La Fontaine, delle quali il merito principale consiste nel lasciar allo spirito l’intera sua lucidità, permettendo solo all’uomo l’osservazione e il pensiero, interdicendogli di raggiungere la causa sacra delle sue incertezze e dei suoi dubbi.»
Non solo nel Clément, ma negli autori francesi in generale, lo spirito è gradevolmente allettato dalle varietà dei giudizi che si danno di uomini e di cose, mescolando con mano leggera il falso al vero.
«Di Leonardo stesso» dice il Taine[28] «a noi rimane un sonetto, alquanto duro di forma (non si sapeva ancora maneggiare il linguaggio), ma di cui il senso e la morale annunziano un’anima, la quale troppo sensibile alle cose esterne, ha finito per distaccarsene per giungere a una rassegnazione dolce e trista; la quale, rinunciando alla felicità, si contenta del piacere di osservare e di guardare.»
Dopo aver qui tradotto alcuni versi del Sonetto, il Taine continua:
«Il suo spirito è simile al suo carattere. La medesima disposizione naturale lo ha spinto verso la scienza universale con una curiosità che cercava in tutto il raffinato, lo squisito, il completo, che di nulla era contento, che voleva sempre procedere oltre, andare avanti agli altri e a sè stesso, tenendo gli occhi sempre fissi all’infinito e più lungi ancora.»
Non voglio fermarmi a far notare le contradizioni che appariscono evidenti in questo giudizio del Taine. Le idee troppo sistematiche dello scrittore francese non compensano le qualità brillanti del suo stile e i concetti ingegnosi del suo pensiero. Come può dirsi infatti che al tempo in cui fu scritto il Sonetto, cioè nel concetto del Taine durante la vita di Leonardo compresa fra il 1452 e il 1519, non si sapesse ancora maneggiare il linguaggio (On ne savait pas encore manier le langage)?
Il Taine, dopo il passo da me riportato, osserva che nei lavori dell’intelligenza vi sono tre ordini di persone. Alcuni accumulano fatti e si fanno nel cervello un dizionario bibliografico; alcuni sono specialisti; altri finalmente sono uomini superiori capaci di sintesi grandi, e impazienti di fondare sopra i singoli fatti un piedistallo, d’onde poter abbracciare nel più ampio modo possibile tutta la natura.
Ma per essere veramente degni di appartenere all’ultima schiera sarebbe d’uopo avessero cognizione esatta dei fatti dai quali partono per giungere ad ampie sintesi.
Pochi peraltro avendo compiuto tale immenso lavoro, e d’altra parte piacendo ai più atteggiarsi a scrittori di genio, avviene che spesso si fanno teorie generali fondate sopra fatti erronei in modo che la storia tutta ne rimane poco alla volta falsificata.
Il Sonetto, come vedremo, può riferirsi agli anni compresi fra il 1440 e il 1453. Quasi fin a quel tempo le lingue antiche ebbero in Italia incontrastato dominio sopra la lingua volgare, e il sentimento della nazionalità era sì scarso, anche nelle classi intelligenti, che pochi sentivano il bisogno di manifestarlo collo studio della lingua patria. Ma verso la fine del XV secolo, quando i vizi dei popoli giustificarono le violenze dei tiranni, quando la libertà andò man mano scemando negli Stati italiani, sembrò che il sentimento d’italianità reagisse affermandosi col risorgimento della favella volgare trascurata dopo i tempi del Petrarca.
Escirono allora in luce stupendi esempi di poesia delicata ed armoniosa, per cui bastava che il Taine ricordasse Lorenzo dei Medici, il Poliziano e molti altri, per essere più cauto nell’affermare che ai tempi di Leonardo da Vinci On ne savait pas encore manier le langage.
Ecco ora un giudizio di un italiano del genere di quello del Taine. «Milano» scrisse il Montaigne[29] «non dissimiglia troppo da Parigi, e ha molto la vista di città Francese» Così, avanti il Montaigne pensarono il Tasso,[30] poi il Valèry[31] e altri. Molti italiani, pur ricordando il valoroso patriotismo milanese, giudicano oggigiorno francese in Milano, con grandissimo rincrescimento, non l’aspetto, ma un bastardissimo gusto letterario ed artistico. Non tutti però giungono come il Boito nel suo studio sul Vinci[32] a sacrificare, con specialissimo ingegno invero, tanta verità storica al clinquant [33] di frasi pittoresche e artisticamente sfaccettate. Ecco per esempio, come parla del Sonetto:[34]
«E pure Leonardo da Vinci era poeta, e ne resta di lui un sonetto, che il Lomazzo ci conservò, tutto filosofico, sulla volontà, dove dimostra che bisogna volere quel che si può, anzi quel che si deve. La sua indole, desiderosa della perfezione, irrequieta, curiosa, sottilissima nella ricerca del vero; il suo ingegno, che voleva tutto abhracciare, e, non potendo tutto stringere, alle volte si sconfortava, alle volte si irritava; il suo animo bisognoso di una pace, che il genio non gli consentiva di lungamente godere: tutto ciò s’indovina in alcuni versi di quel sonetto, ch’è pedantesco e ghiacciato a leggerlo di sfuggita, ma che diventa poetico e pieno di calore a sentirlo nel fondo. È la coscienza di Leonardo, che detta questi versi: - Però che ogni diletto nostro e doglia, Sta in sì e no saper, voler, potere . . . Spesso par dolce che torna amaro . . . Piansi già quel ch’io volsi, poi ch’io l’ebbi. In queste parole asciutte e disadorne sta l’indizio di una lotta interna crudele, che gli faceva serrare, come si vede ne’ suoi ritratti disegnati da lui, l’uno all’altro con una certa espressione di disprezzo altero i labbri sottili, aggrottare le ciglia, intorbidendo nell’ombra la dolcezza del suo sguardo, e arrugare quella fronte, in cui trovavano luogo le più sublimi grandezze e le più materiali minuzie, la divina figura di Cristo e la grottesca del bolgia che porta el capelet in cima al co, l’idea degli stromenti bellici più micidiali e quella della macchina per fare il cervellato milanese, l’ardimento dell’uomo che cammina sulle acque e vola nell’aria, e infinitissime altre immense idee o bizzarie ingegnose, che non saranno mai tutte annoverate.»
Mentre il Sonetto fu giudicato sì variamente in Francia e in Italia, in Inghilterra invece coloro che ne parlarono, si limitarono a riportarne il testo come il Brown[35] e il Rigaud,[36] e ad unirvi ancora, come l’Alford[37] e l’Heaton,[38] la traduzione inglese.
Questi autori ammettono che il Sonetto sia una delle poesie cui allude il Vasari, e l’Heaton aggiunge: «Dei suoi scritti poetici (il Vasari ci dice espressamente che fu un improvvisatore) rimane un sonetto conservatoci dal Lomazzo; ed esso è una effusione morale piuttosto che poetica, molto diversa dai sonetti di Michelangiolo, nei quali si trova espressa la profonda melanconia di un anima di artista. Leonardo ci dà soltanto questo buon consiglio.» E qui segue il Sonetto.
Ho riferito tale giudizio non tanto perché le opinioni espresse dall’Heaton debbano riguardarsi come ispirate da sottile critica, ma perchè mostra che al Lomazzo e al Vasari soltanto ricorsero gli autori che scrissero intorno al Sonetto: al Lomazzo per riportarne il testo, ed al Vasari per raccontare che Leonardo improvvisava al suono della lira.
Le parole dell’Heaton provano ancora come il giudizio dei critici conservi sovente il carattere delle nazioni cui appartengono. Gl’Italiani che parlarono del Sonetto ne esaminarono più particolarmente la forma; i Francesi ne trassero occasione di frasi brillanti; gl’Inglesi invece vi trovarono una massima utilitaria. In ogni modo non tutti furono unanimi a lodare il Sonetto del Vinci. Ma in Germania invece ne fu universalmente ammirato il profondo senso morale.
Infatti il concetto tecnicamente contorto di quei versi non poteva trovare espressione facile ed elegante nella lingua italiana, efficace invero per tradurre le forme estetiche, ma imperfetto strumento psicologico; inconveniente che oggi pure potrebbe notarsi nella nostra lingua, rimasta quasi immobile da qualche secolo a questa parte, e quindi resa quasi incapace di soddisfare compiutamente alle necessita logiche del pensiero moderno nella interpretazione dei nuovi aspetti scientifici con cui oggi si rivela il mondo esteriore.[39] Nel Sonetto attribuito al Vinci alcuni pensieri emergono sugli altri, cioè: che non tutto quel che si vuole si può, che volere è dovere; che il bene a cui si aspira reca spesso danno; che il danno che si teme può giovare; massime tutte tratte dalle condizioni reali dell’umanità ove la energia morale deve cercarsi in sfere più elevate che non sieno quelle della prospera fortuna e delle industrie fiorenti.
Altri è vero sono i sentimenti prevalenti ai tempi attuali nei quali si celebra la frase volere è potere ed altre consimili, essenzialmente utilitarie, e destinate a mostrare che la meta cui si deve aspirare è la ricchezza, anzichè il rispetto del giusto e del vero.
Ho detto sopra dell’accoglienza che il Sonetto ebbe in Germania, osservando che l’ineleganza della sua forma non doveva essere ivi motivo per farlo troppo severamente criticare; d’altra parte il suo concetto filosofico, espresso in modo contorto in italiano, non era più soggetto a simile rimprovero trasportato nella lingua tedesca, così fedele immagine dell’indole di chi la parla.
Pochi sonetti stranieri ebbero infatti in Germania miglior fortuna, perchè non solo fu tradotto nelle edizioni tedesche del Trattato di Leonardo, ma fu ancora ripetutamente inserito in varie raccolte di poesie.[40]
Il primo scrittore autorevole, a quanto io sappia, che volgesse la sua attenzione al Sonetto fu Augusto Guglielmo di Schlegel, segretario di Bernadotte nelle Guerre Napoleoniche, amico della Stael, e morto a 78 anni, nel 1845, dopo aver dato alla luce, con costantissima opera, grandi lavori di critica letteraria ed artistica.
Egli tradusse il Sonetto in tedesco; ma dei suoi versi rimane soltanto la memoria che ne lasciò il Fiorillo.[41] Siccome questi stampò l’opera ove ne parla nel 1798, così dobbiamo ammettere che quella traduzione debba riferirsi alla gioventù dello Schlegel. Non sembra però che questa traduzione andasse mai alle stampe; anzi lo Schlegel stesso, allorchè dice nel suo discorso sulla Pittura[42] che quel Sonetto riflette la vita ed i pensieri di Leonardo, non ne riporta che il primo verso, e questo in italiano:
«Nelle sue opere come nella sua vita noi leggiamo la sentenza:
Vogli sempre poter quel che tu debbi
Lo Schlegel poi allude forse a questa traduzione nella sua poesia «Leonardo da Vinci» ove fa dire[43] al Re Francesco al letto di morte del gran pittore:
«Come me lo insegnò la tua efficace sentenza:
Ciò ch’io debbo io voglio poterlo
Lo Schlegel compie così il ciclo della leggenda ponendo i pensieri di un sonetto, da lui creduto di Leonardo, in bocca del Re Francesco che assiste il pittore moribondo; cioè aggiungendo errore ad errore; giacchè ormai è da aversi in conto di falso questo pietoso incidente narrato dal Vasari, ripetuto da molti e posto quindi in tela da vari artisti. Infatti, come ho detto anche altrove, il Venturi adduce buone ragioni per affermare tale drammatico racconto del tutto insussistente.[44]
Il Fiorillo già citato, oltre la traduzione del Sonetto fatta dallo Schlegel, ne rammenta un’altra di Federico Lodovico Guglielmo Meyer. Questo dotto, nato nel 1759, morto nel 1840, e conosciuto non tanto per le pubblicazioni di Favole e Drammi, quanto per la biografia che scrisse dell’autore drammatico Federico Lodovico Schröder, pubblicò la traduzione del Sonetto, prima nel 1792 nel giornale Fiori poetici e quindi nel volume intitolato Scherzi dello Spirito e della Fantasia.[45]
Questa traduzione fu poi riprodotta dall’Hagen[46] nel suo romanzo intitolato Leonardo da Vinci a Milano.
La terza traduzione tedesca per ordine di data, è quella fatta da Federico Guglielmo Riemer[47] bibliotecario in capo a Weimar e di cui è nota l’opera sopra Goethe.
La traduzione del Riemer fu riprodotta nella traduzione tedesca del Vasari fatta dallo Schorn,[48] nelle Lettere artistiche del Guhl[49] e finalmente fu ristampata dal Waagen[50] nel suo Album di Lionardo da Vinci.
Il Gries pure,[51] fra le numerose sue traduzioni di autori Italiani e Spagnoli, del Tasso, dell’Ariosto, del Calderon, del Forteguerra, del Boiardo ecc., non dimenticò il sonetto di Leonardo che egli inserì nella raccolta di poesie da lui pubblicata nel 1829. Il Gries aggiunge che egli non potè trovare la traduzione fatta dallo Schlegel e dal Meyer e menzionata dal Fiorillo; dice però conoscere una traduzione fatta dal conte Benzel Sternau la quale fino ad ora è rimasta inedita.
Oltre queste traduzioni ve n’è un’altra data dallo Schlosser nel suo libro Il Riposo pubblicato nel 1856.[52]
Finalmente l’ultimo scrittore tedesco che abbia dato una versione dei supposti versi leonardeschi è Gustavo Droysen, figlio del celebre storico Giovanni Gustavo Droysen. Egli scrisse nel 1867, in una Rivista Prussiana,[53] un lungo articolo sopra Leonardo da Vinci, nel quale, dopo aver insistito con esaltate immagini sulla vastità del genio di Leonardo, ci offre una sua traduzione del Sonetto, premettendovi le seguenti parole:
«Se l’accordo fra’ il volere e il potere produce perfezione, le opere pittoriche di Leonardo sono perfette; ma non meno perfetto è quanto egli ha prodotto in tutto il resto.
E dove mai non lo spinse il genio creatore! A colui che si accinge a studiare le opere di questo genio appare il Sonetto: prova mirabile della conoscenza che Leonardo aveva di sè stesso e ad un tempo unico testimonio che ancor ci rimanga dell’altezza cui giunse come poeta!»

IV.

Il Sonetto Chi non può ecc.,
attribuito al Burchiello

Fra i poeti del secolo XV dotati di maggiore arguzia, stando al giudizio dei più grandi uomini di quel tempo, ma fra i più scipiti per il gusto odierno, tiene forse il primo posto il Burchiello.
Questo poeta, nato nel 1380 a Bibbiena, morì come vogliono i più a Firenze nel 1448. Si hanno poche ed incerte notizie della sua famiglia. Egli tenne in quest’ultima citta e precisamente in via Calimara una bottega di barbiere composta di due stanzucce, che ebbero l’onore di essere dipinte col suo ritratto nelle volte della Galleria degli Uffizi.[54] Tanta fu la sua celebrità non solo nel secolo in cui visse ma anche nel successivo!
I versi da lui composti ci sembrano quasi sempre, malgrado la purezza della lingua, vuoti affatto di senso; nè invero furono giudicati diversamente da letterati poco a lui posteriori, come Leonardo Dati vescovo di Massa, il Landino ed altri; Pietro Aretino poi li chiamava addirittura insulsaggini: ma d’altra parte due uomini eccellenti, il Brunelleschi e Leon Battista Alberti, li avevano stimati degni di risposta. Ciò pertanto non giustifica le lodi a lui prodigate dal Niselio, dal Grazzini, dal Redi, dal Negri e dall’Allacci; e meno ancora i ridicoli comenti che vi fecero il Doni e il Papini.
Il Manni[55] ha raccolto tutte le maggiori notizie che si potessero mai desiderare su questo poeta popolare ed ha concluso molto giustamente citando le parole che in sua bocca pone Casio da Narni, le quali sono il miglior giudizio che ancor oggi convenga darne:

……………………….Io son Burchiello,
Che di oscuri Sonetti empii più carte.

Se la massima parte però di questi versi del Burchiello sono per noi inintelligibili ed insulsi, per quanto buona ne sia la lingua, ve ne sono veramente alcuni pochi che possiamo sempre leggere con diletto e che anzi esprimono concetti non spregevoli. Tale è appunto il Sonetto che trovasi sotto il suo nome in alcune raccolte di poesie, e che è identico a quello attribuito dal Lomazzo a Leonardo da Vinci.
I sonetti del Burchiello furono molte volte stampati, ma senza rammentare tutte le edizioni che essi ebbero e di cui il Gamba ed altri hanno dato notizie, ricorderò solo l’ultima di esse, volume in 12°, che ha per titolo:

Sonetti del Burchiello del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca. In Londra, 1758.

Questa edizione, la sola che contenga il nostro sonetto, fu curata, stando almeno ad alcuni bibliografi, dal canonico Anton Maria Biscioni, che ne riscontrò il testo con codici della Magliabechiana, e poi fu stampata parte a Lucca e parte a Pisa: non già a Londra come vorrebbe il suo titolo.[56]
Nella prefazione si dice che questa edizione contiene molti più sonetti che non le anteriori del 1552 e 1568 curate dal Lasca, ossia dal Grazzini, e stampate dal Giunti, e vi si legge ancora che i medesimi furono tolti non solo dai mss. Magliabechiani, ma anche dalle edizioni di Venezia del 1480, 1522 e 1525, e dalla raccolta dell’Allacci; anzi l’editore avverte di aver contrassegnato con doppia virgola i sonetti così aggiunti all’edizione del Lasca.
Fra questi sonetti vi è appunto a p. 175 quello che comincia:

Chi non può quel che vuol, quel che può voglia &.

Esso non si trova nelle edizioni di Venezia, nè in quelle del Giunti; è bensì nell’Allacci,[57] il quale dice averlo ricavato insieme ad altri dalla Biblioteca Barberini.[58] Questo Sonetto si legge infatti a carte 89 verso del codice XLV, 11, che in essa si conserva; e il confronto suo col testo dato dall’Allacci mostra che è precisamente quello da esso pubblicato e riprodotto quindi dagli editori del 1767.
Nella Biblioteca Riccardiana di Firenze vi è una copia della raccolta dell’Allacci con correzioni e postille mss. in inchiostro rosso fatte dal Salvini che aveva in animo di pubblicarne una nuova edizione. Le correzioni al testo del Sonetto dato dall’Allacci, testo che io ho indicato con la lettera B nell’elenco che si troverà più avanti, sono lievi. Nel primo verso è cassata l’e di vuole, e sottolineata la parola voglia; nel sesto verso sono messe virgole dopo voler e saper; di fronte al settimo è scritto τά δέουτα; all’8vo verso sono posti gli accenti alle parole ma tra. Di fianco al primo verso della 1a terzina è scritto nec unquam ratione eliminare e alla parola de è posto l’accento. Infine ciascun verso di questa terzina, forse per mostrare che è la parte migliore della poesia, è racchiuso fra due lineette. Si noti finalmente che questo Sonetto, tolto dall’Allacci dal codice Barberiniano, differisce insensibilmente dal testo che si legge nel codice Mediceo Laurenziano e che io ho contrassegnato con la lettera i.

V.

Il sonetto attribuito a Niccolò Cieco

Niccolò Cieco, che visse nei tempi dei papi Martino V ed Eugenio IV, ai quali indirizzò dei versi, vien ricordato dal Quadrio,[59] dal Crescimbeni,[60] dal Baruffaldi nell’Indice dei poeti Ferraresi [61] e da altri. Alcuni suoi sonetti trovansi nell’edizione del Burchiello del 1757 sotto il nome N. cieco fiorentino. Il Crescimbeni poi crede, e non a torto, che sia lo stesso che Niccolò Cieco di Arezzo. Questo poeta fu nominato l’8 ottobre 1432 canterino ossia cantatore officiale per il comune di Perugia; anzi i documenti che lo ricordano hanno termini di lode grandissima per il suo valore in musica e in poesia.[62]
I versi di Niccolò Cieco si leggono in codici antichi insieme a componimenti di altri poeti contemporanei, e il Crescimbeni indica i seguenti: Codici Vaticano N.o 3212, fol. 11; Chigiano, N.o 576, fol. 92; Isoldiano, fol. 89.112.
A me preme solo osservare che il Sonetto di cui sto parlando è attribuito a Mo Nic. Cieco nel Cod. Magliab. 25, Cl. VII, palch. 11, a c. 120; a Niccolò Cieco nel Cod. Magliab. (degli illustrati) 109, palch. II, a c. 274; a Niccho Cieco nel Cod. Laurenziano 35 (I) plut. 90 inf. a c. 144.

VI.

Il Sonetto attribuito ad Antonio di Meglio.

Il Sonetto è sotto il nome di: Messer Antonino Buffone, nel Cod. Magliab. 1009, Cl. VII, a c. 116; Messer Araldo di Palagio, nel Cod. Magliab. 1168, Cl. VII, palch. 7, a c. 116; Messere Antonio di Matteo di Meglio, Araldo della Signoria, nel Cod. ex-Palatino di Firenze, 215, a c. 91 verso, Messer Antonio di Matteo, chavalier Araldo, nel Cod. H, XI, 54, a p. 91, Bibl. Comunale di Siena; Messere Anto di Meglio buffone, nel Cod. Moückiano XI, a c. 275, Bibl. Pubblica di Lucca.

Sotto questi diversi nomi, come supposero pure il Crescimbeni[63] ed il Mazzuchelli[64] che conobbero se non tutti parte almeno dei sopra indicati codici, si comprende evidentemente uno stesso poeta, il quale altro non è che quel Messer Antonio di Matteo di Meglio cavaliere Araldo della Magnifica Signoria di Firenze, ricordato nell’accademia bandita nell’ottobre del 1441 da Leon Battista Alberti e da Cosimo dei Medici per distrarre gli animi dei cittadini fiorentini oppressi da privazioni e molestie in causa della guerra sostenuta con Filippo Maria duca di Milano.
Il 22 ottobre 1441 si tenne la giostra con gran solennità in Santa Maria del Fiore. Era imposto ai poeti il tema intitolato: della vera amicizia; e questi concorrenti, o dicitori, come allora chiamavansi, furono M. Francesco Altobianco degli Alberti, M. Antonio degli Agli, M. Mariotto d’Arrigo Davanzati, M. Anselmo Calderoni araldo della Signoria di Firenze, M. Francesco di Buonanni Malecarni fiorentino, M. Benedetto di Michele di Arezzo, M. Michele di Noferi del Giogante e Leonardo Dati.[65] I versi di questi poeti furono recitati nell’ordine col quale li ho qui sopra rammentati; se non che Mariotto Davanzati e Benedetto di Michele di Arezzo incaricarono altri per tale ufficio; pel primo lesse Messer Antonio di Matteo di Meglio, cavaliere Araldo della Magnifica Signoria di Firenze,[66] pel secondo Ser Ghirigoro di Messer Antonio di Matteo di Meglio fiorentino.[67]
Poco sappiamo della vita di Antonio di Meglio, benchè si conoscano varie sue composizioni che se non lo pongono fra gli scrittori mediocrissimi, non lo fanno annoverare neanche fra i primi. Ma senza dir altro di lui, sarà forse opportuno dare alcune notizie intorno agli uffici affidati a questo cavalier Araldo, poeta e buffone.
Il titolo di Araldo della Signoria che aveva Antonio di Meglio, indicava quali ne fossero gli obblighi. Non solo gli araldi della Signoria di Firenze come i cantarini di Perugia, così egregiamente fatti conoscere dal d’Ancona, recitavano versi per ordine delle autorità, ma avevano altri incarichi, illustrati da Gaetano Milanesi con quella dottrina che ha non solo nella storia dell’arte fiorentina, ma ancora in quella dei costumi di Firenze. «L’Araldo della Signoria» egli dice, «che faceva parte della famiglia di Palazzo, era un ufficiale, nel quale in processo di tempo si riunivano le incombenze che avevano in antico il Sindaco e Referendario del Comune, ed il Cavaliere di Corte o Buffone della Signoria. A questo ufficio erano sempre eletti uomini che avessero qualche spirito di poesia, perchè era loro commesso di comporre canzoni morali o storiche da recitarsi alla mensa dei Signori. E restano ancora poesie, parte a stampa e parte a penna, composte e recitate dagli Araldi; i quali cominciando dal 1350 durarono fino al 1539, e tra questi, come compositori di versi, sono più noti, Antonio di Matteo di Meglio, Anselmo Calderoni, Gio. Batta dell’Ottonaio e maestro Jacopo del Bientina, che fu l’ultimo. Negli ultimi tempi l’ufficio dell’Araldo consisteva più specialmente nel guidare tutte le cerimonie occorrenti per ricevere i grandi personaggi che capitavano con ufficio pubblico in Firenze, e gli ambasciatori de’ Potentati e delle Signorie; e nel tenere un libro dove brevemente era registrata la venuta ed il ricevimento loro.»[68] E aggiunge il Milanesi che fra gli Araldi Francesco Filarete fu il primo cui fu commesso l’ufficio di formar questo registro. Richiedevasi negli Araldi parola chiara e sonora e quindi sovente ricevevano l’incarico di pronunziare per altri discorsi e poesie; ma avveniva ancora che essi stessi ne fossero gli autori e li recitassero insieme a ragguardevoli persone; così fece appunto Anselmo Calderoni collega di Antonio di Meglio nell’Accademia Coronaria, ove fu uno dei dicitori come sopra si è detto.
La parte attiva che questi Araldi prendevano nelle feste fu forse la causa che fece avere ad alcuni, come al di Meglio, il titolo di buffone. Pochi, però, meritarono come questi il nome di poeta, nè come lui videro i proprî versi, raccolti con quelli di Dante, del Petrarca, del Cavalcanti, del Burchiello e di altri poeti, non tutti certo egualmente grandi, ma tutti celebri nei tempi in cui vissero.

VII.

Il Sonetto attribuito ad Anonimi.

Si trova il Sonetto senza nome di autore nei seguenti codici: Cod. Laurenziano 4, plut. 90 inf., a c. 36; Cod. Laurenziano 44, plut. 89 inf., a c. 167; Cod. Magliab. 1171, Cl. VII, a c. 107 verso; Cod. Riccardiano 1103, a c. 154 verso.

VIII.

Antonio di Meglio vero autore del Sonetto.

Fra i codici sopra indicati, e dei quali tutti si troverà l’esatta descrizione più avanti, quello che mi sembra dileguare ogni dubbio è il Codice Palatino di Firenze segnato CCXV ove il nostro Sonetto si legge a c. 91 verso, sotto il titolo: Sonetto del detto Messer Antonio di Matteo Araldo. E questo titolo è ripetuto nel sonetto antecedente, se non che sono aggiunte le parole: della Signoria.
Questo Codice Palatino è evidentemente riferibile al secolo XV ed è scritto tutto di una mano, con inchiostro rosso e nero. Poco avanti il Sonetto, cioè a carta 65 verso, si legge: «In nel prencipio di queste hopere le quali io Sandro di Piero di Lotteringho scriverrò. Come lettore vedrai. Et così chille compose et fecie ed eziandio chille recitò dicendo in Sancta Liperata in di 22 d’ottobre 1441... E prima comincierò a scrivere per prima operetta stanze XXV fatte per Michele di Noferi del Gioghante le quali hopere trattano d’Amicizia.»
Questi versi sono quelli appunto composti da Michele del Giogante nell’Accademia Coronaria di cui sopra ho parlato.
A c. 75 recto si leggono quelli, fatti nella medesima occasione da Mariotto Davanzati e recitati da Antonio di Meglio, così intitolati: «Chapitolo di Mariotto d’Arrigho Davanzati et pure sopra la vera et unicha amicizia detto et pronuncptiato in Sancta Liperata in di 22 d’ottobre 1441 nel prealeghato luogho da Messer Antonio di Matteo di Meglio chavaliere et araldo della nostra magnificha Signoria pronunptiandolo tanto mirabilmente et con tanta dolcezza qual filomena in boscho, deponendo ogni parlare che dir si potessi et disse chosì in pa volgi.»
In altri luoghi del codice si leggono le date 1428, 1430, 1433, 1435, 1436, 1437, ed il sig. Cesare Paoli, che volle gentilmente esaminarlo, notandovi la mancanza di date posteriori al 1441, così conclude: «Io credo che questa raccolta di poesie possa essere fatta non molto tempo dopo l’ultima data; e anche l’insieme della scrittura ha tale aspetto da potere essere attribuita alla prima metà del secolo XV.»
Da quanto precede può quindi argomentarsi che lo scrittore del codice abitasse Firenze mentre viveva Antonio di Meglio, di modo che è molto probabile che egli non abbia errato attribuendo il Sonetto a questo poeta.
Una conferma di tale opinione la trovo nel codice della Biblioteca Comunale di Siena segnato Cod. H. XI, 54.
Dopo avermi mandato copia del Sonetto, che vi si legge a pagine 91 ed è attribuito ad Antonio di Matteo di Meglio Araldo della Signoria, il bibliotecario, signor Fortunato Donati, aggiunge:
«Le trascrivo integralmente la prima pagina del codice contenente il Sonetto inviatole, dalla quale risulta la data precisa del codice originale dal quale questo fu copiato.»

« Copia
d’un libretto manoscritto di questa grandezza, coperto dasse scritto l’anno
1454
da autore non nominato. Nel qual libro ci si legono più e diversi sonetti ottave e Terzetti amorosi, quali tutti questi nel presente libro non si copieranno, e solo si copieranno quelli che in qual cosa si farà menzione della nostra città di Firenze et alcune memorie et ragionamenti in prosa al fine del qual libro ce l’appiè iscrizione e sonetto che dovrebbe essere dapprincipio e però qui si descriverà a parola a parola appiè &. »

« Copia
Questo libro è di …………………….[a questo punto leggesi al margine questa nota: così è l’originale essendo rastiato il nome e non c’è casato] di Sandro in sul quale è scritte moltissime chose cioè chanzone e Sonetti di molti dicitori e anchora ci è dua piacevole operette in prosa el detto libro iscrissi io di mia propia mano fornito di scrivere a di XVI Gennaio 1454. E nel detto millesimo lo cominciai a scrivere.»

«Come Ella vede, con una dichiarazione così esplicita, è ben difficile formare dei dubbi sulla data del codice originale. D’altronde i fatti e le persone rammentate nel codice, s’io non m’inganno, non parmi che contradicano alla data del 1454.»
Si può quindi concludere che Leonardo da Vinci non è l’autore del Sonetto, in primo luogo perchè in nessun codice si trova quel componimento sotto il suo nome; in secondo luogo perchè essendo egli nato nel 1452 non poteva aver fatto versi copiati da altri due anni dopo; ma che invece lo dovè comporre non più tardi di quella data, o almeno del 1454, Antonio di Matteo di Meglio Araldo della Signoria di Firenze.

IX.

Confronto dei differenti testi.

Il Sonetto, stampato qui appresso, è tratto dal Cod. Palatino di Firenze 215 a c. 91 ove, come ho detto, esso è attribuito a Antonio di Matteo di Meglio. In nota ho posto le varianti dei testi differenti del Sonetto medesimo, contrassegnandoli con lettere dell’alfabeto; i numeri romani indicano il verso e i numeri arabi il posto che in esso occupa ogni parola. Dopo il Sonetto si troverà la descrizione dei diversi codici donde ho tratto i varî testi di esso.
Ho veramente creduto conveniente non amplificare il mio lavoro con una discussione filologica sopra le analogie e le differenze dei testi ricavati dai diversi codici; in primo luogo per la mia incompetenza in simile argomento; in secondo luogo perchè mi sembra aver già raggiunto lo scopo che mi ero prefisso, di trovare cioè qual fosse il vero autore del Sonetto attribuito dal Lomazzo a Leonardo da Vinci.
Ho creduto però conveniente disporre il mio lavoro in modo che se mai qualcuno volesse fare una simile indagine potesse avere sotto gli occhi i materiali convenienti per compierla senza ulteriori ricerche.
Non posso terminare questo mio scritto senza ringraziare il Prof. Alessandro d’Ancona il quale avendo ricevuto dall’avv. Pietro Bilancioni di Ravenna l’elenco di quasi tutti i codici ove trovasi il Sonetto e dal Prof. Reihold Köhler di Weimar, come ho già indicato, quello dei traduttori tedeschi di esso, me li ha liberalmente comunicati, non lasciandomi quasi altra parte da fare che quella di compilatore.

SONETTO

DI MESSER ANTONIO DI MATTEO DI MEGLIO
ARALDO DELLA SIGNORIA DI FIRENZE
Firenze, Bibl. Nazionale,
Mss. Codice ex-Palatino N. 215, fol. 91 v.

(c)

Chi non può quel che vuole quel che può voglia
Che quel che non si può folle è volere
E quell’uom che dicho saggio è da tenere
Che da quel che non possa il voler toglia.
Però ch’ogni diletto nostro o doglia.
Sta in si o no saper voler potere
Sol cholui dunque può che vuol dovere
Ne mai tare la ragion fuor di sua soglia.
Non sempre è da volere ciò chell’huom puote
Spesso appar dolce quel che torna amaro.
Piansi già quel che volli poi chi l’ebbi.
Adunque o tu lector di queste note
S’attè vuogli esser buono, agli altri charo
Voglia sempre potere quel che tu debbi.


 NOTE




[1] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato dell’Arte della Pittura &. Milano, Pontio M.D.LXXXV in 8o - Vedi p. 282-283.
[2] Uzielli G., Ricerche interno a Leonardo da Vinci. Firenze, Pellas 1872, in 8o - Vedi p. 99-104.
[3] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato &. p. 614-615.
[4] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato &. p. 106.
[5] Il Lomazzo, Trattato dell’Arte della Pittura &. Roma, Del Monte 1844. 3 vol. in 8°. - Vedi vol. I. p. XVIII.
[6] Lomazzo, Trattato &. (ed. 1585) p. 299 - (ed. 1844) vol. I. p. XVII.
[7] Lomazzo, Trattato &. (ed. 1585) p. 232 - (ed. 1844) vol. II. p. 68.
[8] Vasari, Vite dei Pittori (Ed. Le Monnier) vol. VII. p. 26-27.
«Di queste carte della notomia degli uomini n’è gran parte nelle mani di messer Francesco, di Melzo gentiluomo milanese, che nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo e molto amato da lui, così come oggi è bello e gentile vecchio, che le ha care e tiene come per reliquie tal carte, insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo: e chi legge quegli scritti, par impossibile che quel divino spirito abbi così ben ragionato dell’arte e de’ muscoli e nervi e vene, e con tanta diligenza d’ogni cosa. Come anche sono nelle mani di..., pittor milanese, alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e de’ modi del disegno e colorire. Costui non è molto che venne a Fiorenza a vedermi, desiderando stampar quest’opera, e la condusse a Roma per dargli esito; nè so poi che di ciò sia seguito.»
Non sembra però che il pittore milanese di cui parla il Vasari fosse il Lomazzo perchè non si può supporre che questi, ricordando spessissimo Leonardo nelle varie sue opere, non dicesse di posseder scritti di esso ove ne avesse avuti.
[9] Nell’edizione del Lomazzo del 1844 sopra citata e che porta in calce l’indicazione: Roma presso Saverio del Monte editore proprietario (il quale deve aver forse scritto i Cenni sulla vita dell’autore che precedono il Trattato) si legge a p. XV: «Cosimo de’ Medici lo chiamò a Firenze, e lo elesse a custode di una galleria, nella quale si vedevano più di quaranta mila quadri, giusta la testimonianza dello stesso Lomazzo; il che gli fece sempre più conseguire quella vasta cognizione de’ lavori di tutti i pittori, e quella sì profonda critica pittorica, che fa preziosi i suoi libri.»
Questa notizia fu riprodotta in molte enciclopedie ed opere, nè si mancò di ricordare i 40.000 quadri. Il Pelli nel suo riputato Saggio storico delle Gallerie di Firenze (Firenze Cambiagi 1779, 2 vol. in 8.o) parla del Lomazzo in due luoghi. A p. 89 del vol. I, dice che il Lomazzo nell’opera Forme delle Muse (Pontio, Milano 1491, 4°), loda Cosimo V e il suo Museo. Cosimo è pure rammentato nel Trattato della Pittura del Lomazzo, ed. 1584, p. 436, e nell’Idea del tempio della Pittura, Milano, 1590 in 4°, cap. 38, p. 157.
A p. 194 del vol. Il, nota CXXI, il Pelli rammenta il ritratto del Lomazzo, che il Lomazzo stesso aveva mandato a Cosimo Io e di cui parla nella dedica fatta a Ferdinando Io nel 1491 della sua Forma delle Muse. A queste notizie nulla aggiunge il Gotti (Le Gallerie di Firenze. Firenze Cellini, 1873. 8° gr. - 2da ediz. 1875, in 12o).
Il passo ove più esplicitamente il Lomazzo parla del Museo di Cosimo Io è quello sopra rammentato dell’Idea del tempio della Pittura: «A questo siegue molto dappresso il Museo del gran Duca Cosimo di Firenze, il quale hora il suo figliuol Ferdinando va arrichindo (sic) ogni » giorno di nuovi ornamenti con l’ingegno, e il valore di Giacomo Ligozzi Veronese grandissimo pittore e miniatore.»
Oltre le opere già citate del Lomazzo ho percorso i suoi Grotteschi, la sua Vita scritta in versi sciolti, ove tace del fatto notevolissimo di essere stato custode della Galleria di Cosimo.
Benchè non abbia veduto l’altra sua opera: Esposizione sopra il trattato del’Arte della Pittura, pure mi pare doversi concludere che l’editore Romano abbia preso abbaglio. Però affine di meglio confermarmi in tale opinione pregai il signor Cesare Paoli di vedere se nell’Archivio di Stato di Firenze trovavansi, fra il 1538 e il 1591 notizie relative al Lomazzo. Egli mi scrive che in quegli anni la Galleria propriamente non esisteva, ma vi erano solo magazzini di deposito e m’aggiunge che il signor G. Milanesi nel libro dei morti dal 1581 al 1600 non ha trovato menzione che di un Maestro Bernardo di Francesco Lumazzi milanese, morto il 29 agosto 1600 e sepolto in Santa Maria Maggiore.
A me premeva di chiarire, anche per ricerche future intorno a Leonardo, le possibili vicendevoli relazioni fra il Lomazzo e il Vasari, due delle fonti principali cui è necessario ricorrere per scrivere la storia del Vinci.
[10] Vedi nota (1) a pag. 36.
[11] Vasari G. Vite (Ed. Le Monnier) vol. VII, p. 12.
[12] Dufresne, Vita di Lionardo da Vinci, premessa al Trattato della Pittura di Lionardo da Vinci. Parigi, Langlois M.DC.LI in folio.
[13] Crescimbeni G. M. Istoria della volgar poesia. Venezia, Baseggio, 1730, vol. 6 in 4° - Vedi vol. IV. p. 5.
[14] Amoretti C. Memorie Storiche su & Lionardo da Vinci. Milano 1804. in 8° - Vedi p. 18.
[15] Fra i Mss. di Leonardo si trovano pochi altri versi ma che valgono piuttosto meno che più del sonetto di cui parlo.
[16] Da Vinci, Trattato della Pittura. Firenze, Cambiasi, 1792. in 4° Vedi pref. p. II.
[17] Da Vinci, Traité de la Peinture Paris, Perlet, M.D.CCCIII. in 8° - Vedi p. lj.
[18] Vasari, Vite dei Pittori (Ed. Le Monnier, 1851-70) vol. VII, p. 12.
[19] Saggio delle Opere di Leonardo da Vinci. Milano, Ricordi 1872, in fol. Vedi p. 9-10.
[20] Calvi G. L., Notizie dei principali professori di Belle Arti che fiorirono in Milano ecc. Milano, Borroni 1869, 3 vol. in 8.° - Vedi Parte III, p. 26.
[21] Rio A. F. Léonard de Vinci et son Ecole. Paris, Bray, 1855, in 8° - Vedi p. 52.
[22] Koenig Fr. Léonard de Vinci, Tours, Mame. M.D.CCCLXX in 8o. - Vedi p. 171.
[23] Houssaye A. Histhoire de Léonard de Vinci. Paris, Didier, 1869 in 8.o - Vedi p. 25-26.
[24] Vasari G. Opere, Firenze 1832-38, 3 parti in 2 vol. in 8.o - Vedi p. 454.
[25] Delécluze E. Essai sur Léonard de Vinci, Paris 1844, 8.° - Vedi traduzione Milanesi (Siena, 1844, in 8°) a p. 100-101.
[26] Clément Ch., Michel-Ange, Léonard de Vinci, Raphael. Paris, Hetzel 1867, vol. 1 in 8.o - Vedi p. 243.
[27] Ivi, pag. 197.
[28] Taine H. Léonard de Vinci (nella) Revue des Cours Littéraires. Paris, 1865. N.o 26, p. 427.
[29] Journal du Voyage de Michel de Montaigne en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581 &. A Rome et a Paris chez le Say 1774. - 2 vol. 12mo. Vedi vol. II, p. 572.
[30] Tasso T. Le lettere &. Firenze, Le Monnier, 1853-55, 5 vol. in 12° - Vedi vol. I, pag. 43.
[31] Valery. Voyages historiques et littéraires en Italie pendant les années 1826, 1827 et 1828. Baudry, Paris, 1838. Vol. 3 in 8° - Vedi vol. 1, p. 74 e 75.
[32] Boito C. Leonardo scultore e pittore nel Saggio sull’opere &. p. 27.
[33] Come Foscolo non m’ingegno di tradurlo. Vedi a p. 213, vol. I, dei suoi Saggi di Critica storico letteraria, Firenze, Le Monnier.
[34] Saggio sulle opere &., p. 27.
[35] Brown J. W. The life of Leonardo da Vinci. London, Pickering, MDCCCXXVIII in-8o - Vedi p. 7.
[36] Vinci (da) A Treatise on Painting & translated by J. F. Rigaud. London, Nichols, 1835, in 8o - Vedi p. XV e XVI.
[37] Alford H. Our Lord and his twelve disciples &, after & Leonardo da Vinci. London, Bell and Daldy 1869, in 4° - Vedi p. 60-61.
[38] Heaton C. W. Leonardo da Vinci and his works. London-New York, Macmillan 1874, in 8.o, Vedi p. 107.
[39] Questa impotenza della lingua italiana, segno del posto che occupiamo nell’evoluzione storica attuale, si osserva veramente in gradi diversi anche nelle altre lingue moderne. Così, a proposito della parola epoca la quale in geologia significa altra cosa che nel linguaggio comune, il de Candolle scrive: «Quoi qu’on fasse les langues sont anciennes, et routinières; elles ne repondent jamais assez à la clarté de nouvelles idées.» Bulletin de l’Association Scientifique, 1876. 1er semestre, p. 251.
[40] La massima parte delle notizie che seguono intorno alle traduzioni tedesche del Sonetto di Leonardo furono a me inviate dal Sig. D.r Reihold Köhler Bibliotecario a Weimar, per gentile intromissione del Prof. A. d’Ancona.
[41] Fiorillo, Geschichte der zeichnenden Künste. Göttingen 1798-1808, 5 vol. in 8gr. - Vedi vol. I. p. 309.
[42] Schlegel, A. W. Sämmtliche Werke, 12 vol. in 8o, 1846-47. - Vedi vol. IX, p. 165.
[43] Schlegel. A. W. Sämmtliche Werke, vol. I, p. 222.
[44] Si ha pure conferma di tale opinione nei versi ove il Lomazzo dice che Francesco I pianse allorchè gli fu recata la notizia della morte del diletto pittore (Lomazzo. G. P. Rime, Milano, Pontio, 1587, p. 109). Tanto il Lomazzo quanto il Vasari avevano, come ho già ricordato, conosciuto il Melzi erede principale di Leonardo: anzi la testimonianza del Lomazzo fu tenuta come degna di fede sopra qualunque altra. Ma l’errore commesso riguardo al sonetto diminuisce la fiducia che in lui deve riporsi benchè non la distrugga; anzi, ricordando gli argomenti addotti dal Venturi, credo che il Lomazzo più del Vasari abbia conosciuto la verità intorno agli ultimi momenti di Leonardo.
[45] Meyer F. Spiele des Witzes und der Phantasie. Berlin, 1793, in 8.o p. 132. - Poetische Blumenlese aufs Jahr 1792. Göttingen, p. 163.
[46] Hagen A. Leonhard da Vinci in Mailand, Leipzig, 1840, in 8.o - Vedi p. 99-100.
[47] Riemer F. W. Gedichte. Jena, 1826. vol. 2 in 12ogr. - Vedi vol. I, p. 322.
[48] Vasari, traduzione dello Schorn, 1832-49, 6 vol. in 8° gr. - Vedi vol. III, I, p. 5.
[49] Künstler - Briefe übersetzt und erläutert von E. Guhl. 1853-56. vol. 2 in 8o gr. - Vedi vol. I, p. 103.
[50] Waagen G. F. Leonardo da Vinci, Album. Berlin, Schauer, in 4° senza data. Vedi i (verso) e k (recto).
[51] Gries Joh. Dietr. Gedichte und poetische Übersetzubgen, Stuttgart, 1829. vol. II, in 8° gr. - Vedi vol. II, p. 132.
[52] Schlosser J. Fr. H. Aus dem Nachlasse, Mainz 1856-1857. vol. 3 in 16° - Vedi vol. I, p. 144.
[53] Droysen (G.) Leonardo da Vinci [in] Preussische Jahrbücher, vol. XIX, 1867, p. 488-539.
[54] Manni D. M. Veglie piacevoli, ovvero notizie de’ più bizzarri e giocondi uomini Toscani. Firenze, Ricci, 1815, Vol. 8 in 16.° - Vedi vol. I, p. 34-63.
Passerini L. [Note all’opera] Marietta de Ricci &, di Agostino Ademollo. Firenze, Chiari, 1845, 8.°, 2da ed. 6 vol. in 8.o - Vedi vol. IV, p. 1351-52.
Bandini A. M. Specimen Literaturae Florentinae saeculi XV &. Firenze, Rigacci, 1747-51, vol. 2 in 8.o - Vedi vol. I, p. 19.
Burchiello D. Sonetti del Burchiello del Bellincioni e di altri poeti fiorentini alla Burchiellesca. Londra (Lucca-Pisa), 1757, in 8.o - Vedi prefazione.
[55] Manni D. M. Veglie & vol. I, p. 63.
[56] Gamba B. Serie dei testi di lingua &. Venezia, co’ tipi del Gondoliere, 1839, in 4.o picc. - Vedi p. 80.
[57] Allacci L. Poeti antichi raccolti da codici manoscritti. Napoli, Sebastiano d’Alecci 1661, in 8.o - Vedi p. 186.
[58] Allacci L. Poeti antichi, p. 69. Non so perchè l’editore delle poesie del Burchiello stampate nel 1757 dice a p. XI che l’Allacci tolse i sonetti di quel poeta dalla Biblioteca Ottaboniana ora unita alla Biblioteca Vaticana. - Vedi Zanelli D. La Biblioteca Vaticana dalla sua origine fino al presente, Roma, Tip. delle Belle Arti, 1857, in 8.o, alle p. 78-82.
[59] Quadrio F. S. Storia e ragione di ogni poesia, Bologna, Pisarri 1739; e Milano Agnelli, 1741-1752, vol. 7 in 4.° - Vedi vol. II, p. 199.
[60] Crescimbeni G. M. Istoria & vol. V, p. 12.
[61] Gamba B. Serie & p. 75.
[62] D’Ancona A. Musica e poesia nell’antico comune di Perugia [in] Nuova Antologia 1875, T. XXIX, p. 61, 64, 65, 66.
[63] Crescimbeni G. M. Istoria & vol. I, p. 16 e vol. V, p. 28.
[64] Mazzucchelli G. Gli scrittori d’Italia. Brescia, Bossini 1753-1763, vol. 2. Parti 6 in foglio. - Vedi vol. I. Parte II, p. 930; vol. II, Parte IV, p. 2277.
[65] Alberti L. B. Opere volgari & annotate ed illustrate dal D.r Anicio Bonucci. Firenze, tip. Galileiana 1846-50; 5 vol. in 8.° - Vedi vol. I, p. CLXVII, e CLXVIII. - Il Bonucci ha pubblicato queste poesie (vol. I. p. CLXVIII-CCXXIV) traendole dal Cod. Laurenziano N. 34, plut. 41.
[66] Alberti L. B. Opere, vol. I. p. CLXXXVII.
[67] Alberti L. B. Opere, vol. I. p. CCV.
[68] Buonarroti Michelangelo, Le lettere pubblicate per cura di Gaetano Milanesi. Firenze. Le Monnier 1875 in 4.o - Vedi p. 9, nota 1.

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