SOPRA UN SONETTO ATTRIBUITO
A LEONARDO DA VINCI
I.
Il Sonetto.
Non
di rado avviene nelle ricerche storiche che i fatti di maggior rilievo lasciano
nell’ombra quelli meno notevoli, benchè, indagando l’intima ragione delle cose,
si trovi sovente in questi ultimi la prima causa dei rivolgimenti storici
posteriori. Così negli uomini illustri le loro massime doti suscitano tanto la
nostra meraviglia che nulla di mediocre ci pare compatibile con la loro natura;
nondimeno i più, giudicando in tal guisa la storia coll’entusiasmo anzichè con
ben ponderato sentimento, non si peritano a formulare la teoria filosofica dei
fatti da essi studiati. Ma questa è ardua cosa invero, concesso che sia da
riporre piena fede nelle cronache contemporanee e nella sincerità dei
compilatori posteriori, concesso che nel meditare gli avvenimenti di altri
tempi non ci facciano velo le passioni dei nostri. Le conseguenze di questo
falso giudizio appariscono evidenti nei libri che trattano di Leonardo da
Vinci. Grande artista e grande scienziato, a lui nulla manca per essere
ammirato dai posteri; ma la sua intelligenza universale lo faceva ribelle alle
convenzioni morali accolte fra gl’uomini, i quali in quel tempo erano indulgenti
per sentimenti oggi dalla maggioranza condannati. Nè tale condanna può recar
maraviglia, poichè se il cosmopolitismo di Leonardo da Vinci fu naturale in un’epoca
in cui la viltà dei popoli e la prepotenza dei principi faceva dell’arte e
della scienza il rifugio delle anime grandi, sarebbe giustamente chiamato ai di
nostri mancanza di amor di patria. Leonardo da Vinci, caduta Milano, serve il
Borgia, assassino di tiranni, ma encomiato principe, e quindi si rifugia
indifferente presso un Re francese; Michelangelo Buonarroti abbandona senza
scrupolo la difesa di Firenze. I nostri accademici non cercano spiegare le
cause di simili fiacchezze: amano meglio negarle, falsando la storia; e codesto
esempio è seguìto da una schiera di mediocrità contemporanee, le quali credono
rendersi immortali commemorando illustri defunti e annoiando la gente. Questa
armonia che si vuole nell’ordine morale si dichiara inseparabile da quella dell’ordine
estetico. Michelangelo, gran pittore e valente poeta, deve essere grande
patriotta. Leonardo, sommo pittore e scienziato, deve far versi ammirabili.
Un
esempio appunto degli errori cui possono condurre fatti inesattamente
conosciuti, commentati da simil metodo di critica, si trova nella esposizione
che verrò facendo dei falsi giudizi espressi sopra il seguente sonetto fatto, stando
al Lomazzo,[1] da
Leonardo da Vinci:
Chi non può quel che vuol,
quel che può voglia;
Che
quel che non si può, folle è volere.
Adunque
saggio l’huomo è da tenere,
Che
da quel che non può suo voler doglia,
Però ch’ogni diletto
nostro, e doglia,
Sta
in si, e no, saper voler potere.
Adunque
quel sol può, che co ’l dovere.
Ne
trahe la ragion fuor di sua soglia.
Nè sempre è da voler quel
che l’huom puote.
Spesso
par dolce, quel che torna amaro.
Piansi
già quel ch’io volsi, poi ch’io l’hebbi.
Adunque tu lettor di
queste note
S’a
te vuoi esser buono, e a gl’altri caro.
Vogli
sempre poter quel che tu debbi.
Questo
sonetto, sola prova del genio poetico di Leonardo, fu lodato quasi cosa divina,
tradotto ripetutamente nelle principali lingue di Europa e tenuto come la
manifestazione più esatta delle sue idee e dei suoi principi morali. Io ora,
rassegnandomi all’accusa di critico arido e minuzioso, dimostrerò che questi
versi non sono di Leonardo, e quindi crolla la base sulla quale furono
architettate tante frasi sonore e tanti falsi giudizi che pretendevano far
conoscere l’intimo pensiero di una delle più grandi figure artistiche del
Rinascimento e dei precursore dell’evoluzione scientifica dei tempi moderni.
II.
Le fonti.
Prima
che l’Amoretti e il Venturi, sul finire del secolo scorso dessero nuovo impulso
agli studi sopra Leonardo da Vinci, uno fra i pochi che raccolsero notizie
intorno a lui fu il Lomazzo.
Questo
pittore milanese nacque venti anni dopo la morte di Leonardo; ma ebbe agio di
avvicinare persone che lo avevano conosciuto e fra esse Francesco Melzi, il
quale aveva visto spirare il grande artista, già suo maestro, e ne aveva avuto
in eredità i cartoni ed i manoscritti.[2]
È
probabile che il Lomazzo vedesse queste carte. Infatti, dopo avere nel suo Trattato della pittura parlato dell’eccellenza
di Michelangelo nell’anatomia, aggiunge:[3]
«Doppo
lui eccellenti sono stati Leonardo Vinci; del quale si ritrovano diversi dissegni
in più mani, e principalmente in casa di Francesco Melzo gentilhuomo Milanese
suo discepolo, oltre l’Anatomia de’ cavalli che egli ha fatto.»
Il
Lomazzo ebbe molte notizie di Leonardo dal Melzi stesso; così rammenta varii automati dell’antichità e statue maravigliose,
«delle quali», egli[4]
aggiunge, «attempi nostri ancora ne ha fatto Leonardo Vinci, il quale secondo
che mi ha raccontato il Signor Francesco Melzo suo discepolo grandissimo
miniatore, soleva fare di certa materia ocelli che per l’aria volavano.»
Gioverà
ora notare che il Melzi, nato nel 1480, morì verso il 1570; il Lomazzo nacque
nel 1538; s’ignora l’anno della sua morte, ma visse certamente oltre il 159l,
poichè in quell’anno curò egli stesso la stampa dell’opera: Delle forme delle muse cascate dagli antichi
autori greci e latini.[5]
È
lecito quindi credere che le relazioni fra il Melzi e il Lomazzo durassero varî
anni; e ancorchè la cecità da cui fu afflitto quest’ultimo dall’età di 32 anni,[6]
come egli stesso rammenta, gl’impedisse l’esame diretto delle carte di Leonardo
possedute dal Melzi, pure potrebbesi con molta probabilità ammettere che da
questi il Lomazzo avesse avuto il testo del Sonetto di Leonardo, da lui
pubblicato con le seguenti parole:[7]
«Così si trova che il dotto Leonardo Vinci soleva molte volte poetare, e fra
gli altri suoi sonetti, che sono difficili a ritrovare, si legge quello:
Chi
non può quel che vuol ecc.
Il
Vasari però, il quale senza alcun dubbio aveva anch’egli attinto notizie
intorno a Leonardo dal Melzi,[8]
che poteva aver conosciuto il Lomazzo quando questi visitò Firenze,[9]
e che conobbe certamente un pittore milanese possessore di manoscritti di
Leonardo da Vinci,[10]
non parla di questo Sonetto allorchè rammenta l’eccellenza di Leonardo nelle
arti belle; dice soltanto:[11]
«Dette alquanto l’opera alla musica; ma tosto si risolvè a imparare a sonare la
lira, come quello che dalla natura aveva spirito elevatissimo e pieno di
leggiadria, onde sopra quella cantò divinamente all’improvviso.»
Si
potrebbe quindi supporre che il Melzi avesse fra i fogli di Leonardo il Sonetto
scritto di mano di lui, e animato dal sentimento che spinge chiunque è
depositario di carte di uomo illustre a credere questi autore di quanto vi si
trova, almeno di autografo, attribuisse quei versi al proprio maestro e li
comunicasse come tali al Lomazzo. In ogni modo in nessuno dei manoscritti di
Leonardo che ci rimangono si trova quel Sonetto; ed ancorchè potessero apparire
nuovi codici autografi ove fosse dato leggerlo, si dovrebbe credere, come
apparirà da quanto dirò più avanti, che Leonardo lo trovasse in qualche
raccolta di poeti del suo secolo e di sua mano lo ricopiasse.
III.
I commentatori.
Il
Dufresne, nella vita di Leonardo da Vinci, da lui premessa alla prima stampa
del Trattato della Pittura, che per
sua cura fu pubblicato a Parigi nel 1651, riproduce questo Sonetto facendolo
precedere dalle seguenti parole:[12]
«e acciochè non gli mancasse virtù alcuna, quell’istesso furore inspiratogli da
Apolline che lo fece pittore e musico, lo fece ancora poeta. Ma essendosi perse
tutte le sue composizioni, è solo pervenuto fin’ a noi questo sonetto morale.»
Il
Sonetto che segue è identico a quello dato dal Lomazzo e la conferma che sia
tolto da quest’autore si trova nell’elenco delle opere consultate dal Dufresne,
e da lui posto in seguito alla vita di Leonardo, ove è citata l’opera stessa
del Lomazzo sopra la Pittura.
Il
primo scrittore italiano che, dopo il Lomazzo, facesse speciale menzione del
Sonetto fu il Crescimbeni, il quale se ne valse per porre Leonardo fra i poeti
italiani, indicando il Dufresne come fonte delle notizie da lui riportate.[13]
Seguendo
il Lomazzo e il Dufresne, l’Amoretti lo stampò anch’esso nel suo libro sopra
Leonardo.[14] «Convienci
confessare però», così egli dice, «che nel sonetto morale, sola composizione
poetica di lui rimastaci,[15]
ha mostrato d’essere più uomo sensato che immaginoso poeta.»
Meno
severo è il giudizio espresso da Francesco Fontani nel 1792.[16]
«Nella mancanza assoluta, in cui siamo d’altri monumenti che ci comprovino il
genio di poetare in Lionardo, riporterò un di lui Sonetto conservatoci dal
Lomazzo nel suo Trattato della Pittura, Lib. 6. C. 2, e riprodotto dal Sig. Du
Fresne, e da Monsig. Bottari nelle sue note alla Vita di Lionardo scritta dal
Vasari, oltre altri. Il Sonetto è grave per i concetti, esatta ne è la Poesia,
ma privo di quelle frasi che solleticano le orecchie, e piacciono a chi più
cura le parole, che la profondità de’ pensieri.»
Qualche
anno dopo il Gault di S. Germain, entusiasta di Leonardo, nella vita di lui,
premessa all’edizione del Trattato della
Pittura da lui curata, non solo chiama[17]
il Sonetto «un prezioso frammento del suo estro poetico» e ne deduce che
Leonardo è stato maestro in tutte le arti belle, ma invita i compositori a
porre in musica e dar nuova vita a questo saggio di poesia Leonardesca.
«Delle
poesie di lui», scrissero recentemente i sigg. Pini e Milanesi nelle note al
Vasari,[18]
«non ci resta che il seguente sonetto, conservatoci dal Lomazzo, nel quale
trovi più da lodare il senno dell’autore, che il gusto: ma forse non è questa
la sua miglior produzione poetica.»
Il
prof. Govi[19] poi, così
appassionato cultore di quanto riguarda i grandi uomini da Leonardo a Galileo,
e dice che il primo è un «valentuomo senza malizia, ha l’ingenuità del fanciullo
e l’acume del savio» e sente sotto quei versi il battito ed il tepor della
vita: «Il sonetto di lui conservatoci dal Lomazzo e che qui trascriviamo non è
di certo nè spontaneo, nè imaginoso, nè vivace, nè affettuoso così che si possa
dir opera di perfetta poesia. Son versi filosofici poco più, ma pur sotto quei
versi freddi si sente il battito e il tepor della vita: Piansi già quel ch’io volsi poi ch’io l’ebbi!... e chi scrisse,
forse nella vecchiaia, queste rime, poteva in giovinezza avere improvvisato
stornelli e rispetti da far meravigliare gli ascoltatori, soprattutto fuor di
Toscana, dove par già quasi un prodigio il dire italianamente anche i più
volgari concetti. Ecco il sonetto: ……………………..
A
questi giudizi il Govi aggiunge alcune notizie non senza importanza per il
nostro argomento e dalle quali si desume che Leonardo soleva ricopiare versi di
varî autori: «Un altro sonetto, di precetti igienici, si legge nel Codice Atlantico, ma il vederlo scritto
da Leonardo, senza pentimenti, e l’esservi parecchi versi sbagliati, ne fanno
supporre ch’egli piuttosto lo trascrivesse in quel luogo togliendolo da qualche
raccolta somigliante ai famosi precetti della Scuola Salernitana, o del Benzo
da Siena, anzichè lo componesse di suo.
Altrove
si legge; e questi son indubbia mente versi suoi:
Oh
Lionardo, perchè tanto penate?
e sullo stesso
foglietto:
Deh!
non m’avere a vil ch’io non son povero;
Povero
è quel che assai cose desidera.
poi in altro
luogo:
Te
di diletto la tua mente pasci.
E
accanto a uno schizzo rappresentante alcune farfalle che svolazzano attorno a
una fiamma, schizzo posseduto dalla Biblioteca del Re in Torino, dopo varî tentativi
abortiti, Leonardo scrive:
Come
cieca ignoranza ne conduce,
Vedi,
per lo splendor nel fuoco andiamo.
e
sotto:
O
miseri mortali, aprite gli occhi!
è sempre la
ragione che parla, piuttosto che il sentimento, pur qualche profumo di poesia esala
ancora da queste povere foglie staccate d’una pianta perduta.»
In
generale però nei nostri tempi, in cui piace agli scrittori di dedurre larghi
concetti morali da piccola origine, e si generalizza nel falso piuttostochè
essere minuti nel vero, si volle cercare nel Sonetto non solo il suo proprio
valore intrinseco, ma i sentimenti morali di chi ne fu l’autore. Così il Calvi,
dopo aver rammentato i versi improvvisati da Leonardo continua con queste
parole:[20]
«Di sue poesie, che al suo tempo il Lomazzo diceva assai difficili a trovarsi,
non abbiamo che un sonetto, fatto, crediamo, un poco più tardi, col quale
dimostra come, sebbene vivesse in una corte dedita tutta a piaceri, la moralità
avesse in lui profonde radici.»
Il
Rio che vuol dimostrare il cristianesimo essere il solo ispiratore dell’Arte
del Rinascimento e vuol tutto coordinare intorno a un immacolato ideale, trova
dal canto suo nel Sonetto le grandi qualità della pittura di Leonardo, il quale[21]
«cercava i suoi appoggi e talora anche le sue ispirazioni nell’antichità e nei
grandi genii del medio evo. Studiava intimamente il trattato di Vitruvio sugli
ordini di Architettura, meditava le opere di Alberto il Grande e s’ingegnava
come Giotto, come Orgagna, come Botticelli e come Michelangelo, di ricavare
dall’ideale poetico di Dante tanto da sostenere e fortificare il suo ideale
estetico; ciò che riesciva tanto più facile a Leonardo, essendochè il
simbolismo aveva per il suo spirito, nella poesia come nell’arte, attrattive
specialissime. Un sonetto di sua fattura conservatoci da Lomazzo rivelerebbe in
lui un poeta moralista familiarizzato con gli intimi conflitti e dotato delle
qualità di stile analoghe a quelle che lo segnalavano come pittore. È quanto può
aversi di più preciso e di più solidamente costruito e nulla evvi al mondo di
più simpatico che il ritorno personale ch’ei vi fa su sè stesso. Si tratta
delle relazioni d’onde traggono origine tutte le sue gioie e tutti i suoi dolori.»
Uno
scrittore della scuola del Rio, il Koenig, dice con gallica leggerezza:[22]
«Parecchi letterati Italiani parlano dei suoi versi con pomposi elogi e non
esitano ad annoverarlo fra i restauratori della poesia Italiana. Il sonetto
seguente . . . offre forse antitesi ricercate; ma vi si troverà in compenso un
accento di sensibilità e una tinta filosofica degna d’interesse.»
Se
il Rio si lascia trasportare dal misticismo religioso e falsa la storia, l’Houssaye
commenta il Sonetto[23]
con le idee malsane dei suoi romanzi galanti: «Si vede che in piena gioventù
conserva l’amaro del miele dell’amore; il suo labbro sanguina all’orlo della
coppa. Egli infatti, insaziabile dell’infinito, non vuol fermarsi a mezza
strada. Egli cerca la dea e trova solo la donna.»
Fra
le opinioni manifestate in Francia intorno al Sonetto si distingue quella del
Delécluze. Esso adduce quei versi a conferma dell’opinione da lui espressa
sopra Leonardo e li accompagna con alcune osservazioni che sono forse il più vero
giudizio finora pronunciato sull’indole del grand’uomo: benchè in ciò non
consentano i traduttori italiani dello scrittore francese, ai quali spiacciono
gli epiteti di epicureo e di miscredente da esso dato al Vinci; ed aggiungono
poi che «da coteste accuse fu vittoriosamente difeso anche dall’eruditissimo
sig. Masselli.»[24]
Ecco
del rimanente le parole dalle quali il Delécluze fa precedere il Sonetto:[25]
«Tutto il movimento abituale de’ suoi pensieri i più alti era compreso nel
circolo della filosofia naturale e della filosofia morale; e il titolo di
epicureo, preso nel suo senso il più favorevole, è forse quello che meglio indica
la tendenza abituale dello spirito di Leonardo da Vinci. Delle molte poesie che
egli aveva improvisate e composte, non è pervenuto a noi altro che un sonetto.
Esso ci dà un idea molto debole del suo genio per la poesia, ma conferma però
il giudizio che io ho emesso sulla direzione morale delle sue idee.»
«Leonardo»
dice il Clément[26] «non
conobbe mai quelle tempeste del sentimento e del cuore di cui i lampi sono
divini riflessi e i tuoni parole sacre.»
Un
autore così rimbombante non può a meno di essere severo per un Sonetto di forma
tanto scientifica. Infatti dopo averne fatta la parafrasi esclama:[27]
«Morale comoda e prudente, saviezza non senza analogia con quella di Salomone e
di La Fontaine, delle quali il merito principale consiste nel lasciar allo
spirito l’intera sua lucidità, permettendo solo all’uomo l’osservazione e il
pensiero, interdicendogli di raggiungere la causa sacra delle sue incertezze e
dei suoi dubbi.»
Non
solo nel Clément, ma negli autori francesi in generale, lo spirito è
gradevolmente allettato dalle varietà dei giudizi che si danno di uomini e di
cose, mescolando con mano leggera il falso al vero.
«Di
Leonardo stesso» dice il Taine[28]
«a noi rimane un sonetto, alquanto duro di forma (non si sapeva ancora
maneggiare il linguaggio), ma di cui il senso e la morale annunziano un’anima, la
quale troppo sensibile alle cose esterne, ha finito per distaccarsene per
giungere a una rassegnazione dolce e trista; la quale, rinunciando alla felicità,
si contenta del piacere di osservare e di guardare.»
Dopo
aver qui tradotto alcuni versi del Sonetto, il Taine continua:
«Il
suo spirito è simile al suo carattere. La medesima disposizione naturale lo ha
spinto verso la scienza universale con una curiosità che cercava in tutto il
raffinato, lo squisito, il completo, che di nulla era contento, che voleva
sempre procedere oltre, andare avanti agli altri e a sè stesso, tenendo gli
occhi sempre fissi all’infinito e più lungi ancora.»
Non
voglio fermarmi a far notare le contradizioni che appariscono evidenti in
questo giudizio del Taine. Le idee troppo sistematiche dello scrittore francese
non compensano le qualità brillanti del suo stile e i concetti ingegnosi del
suo pensiero. Come può dirsi infatti che al tempo in cui fu scritto il Sonetto,
cioè nel concetto del Taine durante la vita di Leonardo compresa fra il 1452 e
il 1519, non si sapesse ancora maneggiare il linguaggio (On ne savait pas encore manier le langage)?
Il
Taine, dopo il passo da me riportato, osserva che nei lavori dell’intelligenza
vi sono tre ordini di persone. Alcuni accumulano fatti e si fanno nel cervello
un dizionario bibliografico; alcuni sono specialisti; altri finalmente sono
uomini superiori capaci di sintesi grandi, e impazienti di fondare sopra i
singoli fatti un piedistallo, d’onde poter abbracciare nel più ampio modo
possibile tutta la natura.
Ma
per essere veramente degni di appartenere all’ultima schiera sarebbe d’uopo
avessero cognizione esatta dei fatti dai quali partono per giungere ad ampie
sintesi.
Pochi
peraltro avendo compiuto tale immenso lavoro, e d’altra parte piacendo ai più
atteggiarsi a scrittori di genio, avviene che spesso si fanno teorie generali
fondate sopra fatti erronei in modo che la storia tutta ne rimane poco alla volta
falsificata.
Il
Sonetto, come vedremo, può riferirsi agli anni compresi fra il 1440 e il 1453.
Quasi fin a quel tempo le lingue antiche ebbero in Italia incontrastato dominio
sopra la lingua volgare, e il sentimento della nazionalità era sì scarso, anche
nelle classi intelligenti, che pochi sentivano il bisogno di manifestarlo collo
studio della lingua patria. Ma verso la fine del XV secolo, quando i vizi dei
popoli giustificarono le violenze dei tiranni, quando la libertà andò man mano
scemando negli Stati italiani, sembrò che il sentimento d’italianità reagisse
affermandosi col risorgimento della favella volgare trascurata dopo i tempi del
Petrarca.
Escirono
allora in luce stupendi esempi di poesia delicata ed armoniosa, per cui bastava
che il Taine ricordasse Lorenzo dei Medici, il Poliziano e molti altri, per
essere più cauto nell’affermare che ai tempi di Leonardo da Vinci On ne savait pas encore manier le langage.
Ecco
ora un giudizio di un italiano del genere di quello del Taine. «Milano» scrisse
il Montaigne[29] «non
dissimiglia troppo da Parigi, e ha molto la vista di città Francese» Così,
avanti il Montaigne pensarono il Tasso,[30]
poi il Valèry[31] e
altri. Molti italiani, pur ricordando il valoroso patriotismo milanese,
giudicano oggigiorno francese in Milano, con grandissimo rincrescimento, non l’aspetto,
ma un bastardissimo gusto letterario ed artistico. Non tutti però giungono come
il Boito nel suo studio sul Vinci[32]
a sacrificare, con specialissimo ingegno invero, tanta verità storica al clinquant [33]
di frasi pittoresche e artisticamente sfaccettate. Ecco per esempio, come parla
del Sonetto:[34]
«E
pure Leonardo da Vinci era poeta, e ne resta di lui un sonetto, che il Lomazzo
ci conservò, tutto filosofico, sulla volontà, dove dimostra che bisogna volere quel che si può, anzi quel che si deve.
La sua indole, desiderosa della perfezione, irrequieta, curiosa, sottilissima
nella ricerca del vero; il suo ingegno, che voleva tutto abhracciare, e, non
potendo tutto stringere, alle volte si sconfortava, alle volte si irritava; il
suo animo bisognoso di una pace, che il genio non gli consentiva di lungamente
godere: tutto ciò s’indovina in alcuni versi di quel sonetto, ch’è pedantesco e
ghiacciato a leggerlo di sfuggita, ma che diventa poetico e pieno di calore a
sentirlo nel fondo. È la coscienza di Leonardo, che detta questi versi: - Però che ogni diletto nostro e doglia, Sta
in sì e no saper, voler, potere . . . Spesso par dolce che torna amaro . . .
Piansi già quel ch’io volsi, poi ch’io l’ebbi. In queste parole asciutte e
disadorne sta l’indizio di una lotta interna crudele, che gli faceva serrare,
come si vede ne’ suoi ritratti disegnati da lui, l’uno all’altro con una certa
espressione di disprezzo altero i labbri sottili, aggrottare le ciglia,
intorbidendo nell’ombra la dolcezza del suo sguardo, e arrugare quella fronte,
in cui trovavano luogo le più sublimi grandezze e le più materiali minuzie, la
divina figura di Cristo e la grottesca del bolgia
che porta el capelet in cima al co, l’idea degli stromenti bellici più
micidiali e quella della macchina per fare il cervellato milanese, l’ardimento
dell’uomo che cammina sulle acque e vola nell’aria, e infinitissime altre
immense idee o bizzarie ingegnose, che non saranno mai tutte annoverate.»
Mentre
il Sonetto fu giudicato sì variamente in Francia e in Italia, in Inghilterra
invece coloro che ne parlarono, si limitarono a riportarne il testo come il Brown[35]
e il Rigaud,[36] e ad
unirvi ancora, come l’Alford[37]
e l’Heaton,[38] la
traduzione inglese.
Questi
autori ammettono che il Sonetto sia una delle poesie cui allude il Vasari, e l’Heaton
aggiunge: «Dei suoi scritti poetici (il Vasari ci dice espressamente che fu un
improvvisatore) rimane un sonetto conservatoci dal Lomazzo; ed esso è una
effusione morale piuttosto che poetica, molto diversa dai sonetti di
Michelangiolo, nei quali si trova espressa la profonda melanconia di un anima
di artista. Leonardo ci dà soltanto questo buon consiglio.» E qui segue il
Sonetto.
Ho
riferito tale giudizio non tanto perché le opinioni espresse dall’Heaton
debbano riguardarsi come ispirate da sottile critica, ma perchè mostra che al
Lomazzo e al Vasari soltanto ricorsero gli autori che scrissero intorno al
Sonetto: al Lomazzo per riportarne il testo, ed al Vasari per raccontare che Leonardo
improvvisava al suono della lira.
Le
parole dell’Heaton provano ancora come il giudizio dei critici conservi sovente
il carattere delle nazioni cui appartengono. Gl’Italiani che parlarono del
Sonetto ne esaminarono più particolarmente la forma; i Francesi ne trassero
occasione di frasi brillanti; gl’Inglesi invece vi trovarono una massima
utilitaria. In ogni modo non tutti furono unanimi a lodare il Sonetto del
Vinci. Ma in Germania invece ne fu universalmente ammirato il profondo senso
morale.
Infatti
il concetto tecnicamente contorto di quei versi non poteva trovare espressione
facile ed elegante nella lingua italiana, efficace invero per tradurre le forme
estetiche, ma imperfetto strumento psicologico; inconveniente che oggi pure
potrebbe notarsi nella nostra lingua, rimasta quasi immobile da qualche secolo
a questa parte, e quindi resa quasi incapace di soddisfare compiutamente alle
necessita logiche del pensiero moderno nella interpretazione dei nuovi aspetti
scientifici con cui oggi si rivela il mondo esteriore.[39]
Nel Sonetto attribuito al Vinci alcuni pensieri emergono sugli altri, cioè: che
non tutto quel che si vuole si può, che volere è dovere; che il bene a cui si
aspira reca spesso danno; che il danno che si teme può giovare; massime tutte
tratte dalle condizioni reali dell’umanità ove la energia morale deve cercarsi
in sfere più elevate che non sieno quelle della prospera fortuna e delle
industrie fiorenti.
Altri
è vero sono i sentimenti prevalenti ai tempi attuali nei quali si celebra la
frase volere è potere ed altre
consimili, essenzialmente utilitarie, e destinate a mostrare che la meta cui si
deve aspirare è la ricchezza, anzichè il rispetto del giusto e del vero.
Ho
detto sopra dell’accoglienza che il Sonetto ebbe in Germania, osservando che l’ineleganza
della sua forma non doveva essere ivi motivo per farlo troppo severamente criticare;
d’altra parte il suo concetto filosofico, espresso in modo contorto in
italiano, non era più soggetto a simile rimprovero trasportato nella lingua
tedesca, così fedele immagine dell’indole di chi la parla.
Pochi
sonetti stranieri ebbero infatti in Germania miglior fortuna, perchè non solo
fu tradotto nelle edizioni tedesche del Trattato di Leonardo, ma fu ancora
ripetutamente inserito in varie raccolte di poesie.[40]
Il
primo scrittore autorevole, a quanto io sappia, che volgesse la sua attenzione
al Sonetto fu Augusto Guglielmo di Schlegel, segretario di Bernadotte nelle
Guerre Napoleoniche, amico della Stael, e morto a 78 anni, nel 1845, dopo aver
dato alla luce, con costantissima opera, grandi lavori di critica letteraria ed
artistica.
Egli
tradusse il Sonetto in tedesco; ma dei suoi versi rimane soltanto la memoria
che ne lasciò il Fiorillo.[41]
Siccome questi stampò l’opera ove ne parla nel 1798, così dobbiamo ammettere
che quella traduzione debba riferirsi alla gioventù dello Schlegel. Non sembra
però che questa traduzione andasse mai alle stampe; anzi lo Schlegel stesso,
allorchè dice nel suo discorso sulla Pittura[42]
che quel Sonetto riflette la vita ed i pensieri di Leonardo, non ne riporta che
il primo verso, e questo in italiano:
«Nelle sue opere come nella sua vita noi
leggiamo la sentenza:
Vogli
sempre poter quel che tu debbi.»
Lo
Schlegel poi allude forse a questa traduzione nella sua poesia «Leonardo da
Vinci» ove fa dire[43]
al Re Francesco al letto di morte del gran pittore:
«Come me lo insegnò la tua efficace sentenza:
Ciò ch’io debbo io voglio
poterlo.»
Lo
Schlegel compie così il ciclo della leggenda ponendo i pensieri di un sonetto, da
lui creduto di Leonardo, in bocca del Re Francesco che assiste il pittore
moribondo; cioè aggiungendo errore ad errore; giacchè ormai è da aversi in
conto di falso questo pietoso incidente narrato dal Vasari, ripetuto da molti e
posto quindi in tela da vari artisti. Infatti, come ho detto anche altrove, il
Venturi adduce buone ragioni per affermare tale drammatico racconto del tutto
insussistente.[44]
Il
Fiorillo già citato, oltre la traduzione del Sonetto fatta dallo Schlegel, ne
rammenta un’altra di Federico Lodovico Guglielmo Meyer. Questo dotto, nato nel
1759, morto nel 1840, e conosciuto non tanto per le pubblicazioni di Favole e
Drammi, quanto per la biografia che scrisse dell’autore drammatico Federico
Lodovico Schröder, pubblicò la
traduzione del Sonetto, prima nel 1792 nel giornale Fiori poetici e quindi nel volume intitolato Scherzi dello Spirito e della Fantasia.[45]
Questa
traduzione fu poi riprodotta dall’Hagen[46]
nel suo romanzo intitolato Leonardo da Vinci
a Milano.
La
terza traduzione tedesca per ordine di data, è quella fatta da Federico
Guglielmo Riemer[47]
bibliotecario in capo a Weimar e di cui è nota l’opera sopra Goethe.
La
traduzione del Riemer fu riprodotta nella traduzione tedesca del Vasari fatta
dallo Schorn,[48] nelle Lettere artistiche del Guhl[49]
e finalmente fu ristampata dal Waagen[50]
nel suo Album di Lionardo da Vinci.
Il
Gries pure,[51] fra le
numerose sue traduzioni di autori Italiani e Spagnoli, del Tasso, dell’Ariosto,
del Calderon, del Forteguerra, del Boiardo ecc., non dimenticò il sonetto di
Leonardo che egli inserì nella raccolta di poesie da lui pubblicata nel 1829.
Il Gries aggiunge che egli non potè trovare la traduzione fatta dallo Schlegel
e dal Meyer e menzionata dal Fiorillo; dice però conoscere una traduzione fatta
dal conte Benzel Sternau la quale fino ad ora è rimasta inedita.
Oltre
queste traduzioni ve n’è un’altra data dallo Schlosser nel suo libro Il Riposo pubblicato nel 1856.[52]
Finalmente
l’ultimo scrittore tedesco che abbia dato una versione dei supposti versi
leonardeschi è Gustavo Droysen, figlio del celebre storico Giovanni Gustavo
Droysen. Egli scrisse nel 1867, in una Rivista Prussiana,[53]
un lungo articolo sopra Leonardo da Vinci, nel quale, dopo aver insistito con
esaltate immagini sulla vastità del genio di Leonardo, ci offre una sua
traduzione del Sonetto, premettendovi le seguenti parole:
«Se
l’accordo fra’ il volere e il potere produce perfezione, le opere pittoriche di
Leonardo sono perfette; ma non meno perfetto è quanto egli ha prodotto in tutto
il resto.
E
dove mai non lo spinse il genio creatore! A colui che si accinge a studiare le
opere di questo genio appare il Sonetto: prova mirabile della conoscenza che
Leonardo aveva di sè stesso e ad un tempo unico testimonio che ancor ci rimanga
dell’altezza cui giunse come poeta!»
IV.
Il Sonetto Chi non può ecc.,
attribuito al Burchiello
Fra
i poeti del secolo XV dotati di maggiore arguzia, stando al giudizio dei più
grandi uomini di quel tempo, ma fra i più scipiti per il gusto odierno, tiene
forse il primo posto il Burchiello.
Questo
poeta, nato nel 1380 a Bibbiena, morì come vogliono i più a Firenze nel 1448.
Si hanno poche ed incerte notizie della sua famiglia. Egli tenne in quest’ultima
citta e precisamente in via Calimara una bottega di barbiere composta di due
stanzucce, che ebbero l’onore di essere dipinte col suo ritratto nelle volte
della Galleria degli Uffizi.[54]
Tanta fu la sua celebrità non solo nel secolo in cui visse ma anche nel
successivo!
I
versi da lui composti ci sembrano quasi sempre, malgrado la purezza della
lingua, vuoti affatto di senso; nè invero furono giudicati diversamente da
letterati poco a lui posteriori, come Leonardo Dati vescovo di Massa, il
Landino ed altri; Pietro Aretino poi li chiamava addirittura insulsaggini: ma d’altra
parte due uomini eccellenti, il Brunelleschi e Leon Battista Alberti, li
avevano stimati degni di risposta. Ciò pertanto non giustifica le lodi a lui
prodigate dal Niselio, dal Grazzini, dal Redi, dal Negri e dall’Allacci; e meno
ancora i ridicoli comenti che vi fecero il Doni e il Papini.
Il
Manni[55]
ha raccolto tutte le maggiori notizie che si potessero mai desiderare su questo
poeta popolare ed ha concluso molto giustamente citando le parole che in sua
bocca pone Casio da Narni, le quali sono il miglior giudizio che ancor oggi
convenga darne:
……………………….Io son Burchiello,
Che di oscuri Sonetti empii più carte.
Se
la massima parte però di questi versi del Burchiello sono per noi
inintelligibili ed insulsi, per quanto buona ne sia la lingua, ve ne sono
veramente alcuni pochi che possiamo sempre leggere con diletto e che anzi
esprimono concetti non spregevoli. Tale è appunto il Sonetto che trovasi sotto
il suo nome in alcune raccolte di poesie, e che è identico a quello attribuito
dal Lomazzo a Leonardo da Vinci.
I
sonetti del Burchiello furono molte volte stampati, ma senza rammentare tutte
le edizioni che essi ebbero e di cui il Gamba ed altri hanno dato notizie,
ricorderò solo l’ultima di esse, volume in 12°, che ha per titolo:
Sonetti del Burchiello del
Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca. In Londra, 1758.
Questa
edizione, la sola che contenga il nostro sonetto, fu curata, stando almeno ad
alcuni bibliografi, dal canonico Anton Maria Biscioni, che ne riscontrò il
testo con codici della Magliabechiana, e poi fu stampata parte a Lucca e parte
a Pisa: non già a Londra come vorrebbe il suo titolo.[56]
Nella
prefazione si dice che questa edizione contiene molti più sonetti che non le
anteriori del 1552 e 1568 curate dal Lasca, ossia dal Grazzini, e stampate dal
Giunti, e vi si legge ancora che i medesimi furono tolti non solo dai mss.
Magliabechiani, ma anche dalle edizioni di Venezia del 1480, 1522 e 1525, e
dalla raccolta dell’Allacci; anzi l’editore avverte di aver contrassegnato con
doppia virgola i sonetti così aggiunti all’edizione del Lasca.
Fra
questi sonetti vi è appunto a p. 175 quello che comincia:
Chi non può quel che vuol,
quel che può voglia &.
Esso
non si trova nelle edizioni di Venezia, nè in quelle del Giunti; è bensì nell’Allacci,[57]
il quale dice averlo ricavato insieme ad altri dalla Biblioteca Barberini.[58]
Questo Sonetto si legge infatti a carte 89
verso del codice XLV, 11, che in essa si conserva; e il confronto suo col testo
dato dall’Allacci mostra che è precisamente quello da esso pubblicato e
riprodotto quindi dagli editori del 1767.
Nella
Biblioteca Riccardiana di Firenze vi è una copia della raccolta dell’Allacci
con correzioni e postille mss. in inchiostro rosso fatte dal Salvini che aveva
in animo di pubblicarne una nuova edizione. Le correzioni al testo del Sonetto
dato dall’Allacci, testo che io ho indicato con la lettera B nell’elenco che si troverà più avanti, sono lievi. Nel primo
verso è cassata l’e di vuole, e sottolineata la parola voglia; nel sesto verso sono messe
virgole dopo voler e saper; di fronte al settimo è scritto τά δέουτα; all’8vo verso sono posti gli accenti alle
parole ma tra. Di fianco al primo
verso della 1a terzina è scritto nec
unquam ratione eliminare e alla parola de
è posto l’accento. Infine ciascun verso di questa terzina, forse per mostrare
che è la parte migliore della poesia, è racchiuso fra due lineette. Si noti
finalmente che questo Sonetto, tolto dall’Allacci dal codice Barberiniano,
differisce insensibilmente dal testo che si legge nel codice Mediceo
Laurenziano e che io ho contrassegnato con la lettera i.
V.
Il sonetto attribuito a
Niccolò Cieco
Niccolò
Cieco, che visse nei tempi dei papi Martino V ed Eugenio IV, ai quali indirizzò
dei versi, vien ricordato dal Quadrio,[59]
dal Crescimbeni,[60] dal Baruffaldi
nell’Indice dei poeti Ferraresi [61]
e da altri. Alcuni suoi sonetti trovansi nell’edizione del Burchiello del 1757
sotto il nome N. cieco fiorentino. Il
Crescimbeni poi crede, e non a torto, che sia lo stesso che Niccolò Cieco di
Arezzo. Questo poeta fu nominato l’8 ottobre 1432 canterino ossia cantatore officiale per il comune di Perugia; anzi
i documenti che lo ricordano hanno termini di lode grandissima per il suo
valore in musica e in poesia.[62]
I
versi di Niccolò Cieco si leggono in codici antichi insieme a componimenti di
altri poeti contemporanei, e il Crescimbeni indica i seguenti: Codici Vaticano
N.o 3212, fol. 11; Chigiano, N.o 576, fol. 92; Isoldiano,
fol. 89.112.
A
me preme solo osservare che il Sonetto di cui sto parlando è attribuito a Mo Nic. Cieco nel Cod.
Magliab. 25, Cl. VII, palch. 11, a c. 120; a Niccolò Cieco nel Cod. Magliab. (degli illustrati) 109, palch. II,
a c. 274; a Niccho Cieco nel Cod. Laurenziano
35 (I) plut. 90 inf. a c. 144.
VI.
Il Sonetto attribuito ad
Antonio di Meglio.
Il
Sonetto è sotto il nome di: Messer
Antonino Buffone, nel Cod. Magliab. 1009, Cl. VII, a c. 116; Messer Araldo di Palagio, nel Cod.
Magliab. 1168, Cl. VII, palch. 7, a c. 116; Messere
Antonio di Matteo di Meglio, Araldo della Signoria, nel Cod. ex-Palatino di
Firenze, 215, a c. 91 verso, Messer
Antonio di Matteo, chavalier Araldo, nel Cod. H, XI, 54, a p. 91, Bibl. Comunale
di Siena; Messere Anto di
Meglio buffone, nel Cod. Moückiano
XI, a c. 275, Bibl. Pubblica di Lucca.
Sotto
questi diversi nomi, come supposero pure il Crescimbeni[63]
ed il Mazzuchelli[64]
che conobbero se non tutti parte almeno dei sopra indicati codici, si comprende
evidentemente uno stesso poeta, il quale altro non è che quel Messer Antonio di Matteo di Meglio cavaliere
Araldo della Magnifica Signoria di Firenze, ricordato nell’accademia
bandita nell’ottobre del 1441 da Leon Battista Alberti e da Cosimo dei Medici
per distrarre gli animi dei cittadini fiorentini oppressi da privazioni e
molestie in causa della guerra sostenuta con Filippo Maria duca di Milano.
Il
22 ottobre 1441 si tenne la giostra con gran solennità in Santa Maria del Fiore.
Era imposto ai poeti il tema intitolato: della
vera amicizia; e questi concorrenti, o dicitori, come allora chiamavansi,
furono M. Francesco Altobianco degli Alberti, M. Antonio degli Agli, M. Mariotto
d’Arrigo Davanzati, M. Anselmo Calderoni araldo della Signoria di Firenze, M.
Francesco di Buonanni Malecarni fiorentino, M. Benedetto di Michele di Arezzo,
M. Michele di Noferi del Giogante e Leonardo Dati.[65]
I versi di questi poeti furono recitati nell’ordine col quale li ho qui sopra
rammentati; se non che Mariotto Davanzati e Benedetto di Michele di Arezzo
incaricarono altri per tale ufficio; pel primo lesse Messer Antonio di Matteo di Meglio, cavaliere Araldo della Magnifica
Signoria di Firenze,[66]
pel secondo Ser Ghirigoro di Messer
Antonio di Matteo di Meglio fiorentino.[67]
Poco
sappiamo della vita di Antonio di Meglio, benchè si conoscano varie sue
composizioni che se non lo pongono fra gli scrittori mediocrissimi, non lo
fanno annoverare neanche fra i primi. Ma senza dir altro di lui, sarà forse
opportuno dare alcune notizie intorno agli uffici affidati a questo cavalier
Araldo, poeta e buffone.
Il
titolo di Araldo della Signoria che
aveva Antonio di Meglio, indicava quali ne fossero gli obblighi. Non solo gli
araldi della Signoria di Firenze come i cantarini
di Perugia, così egregiamente fatti conoscere dal d’Ancona, recitavano versi
per ordine delle autorità, ma avevano altri incarichi, illustrati da Gaetano
Milanesi con quella dottrina che ha non solo nella storia dell’arte fiorentina,
ma ancora in quella dei costumi di Firenze. «L’Araldo della Signoria» egli
dice, «che faceva parte della famiglia di Palazzo, era un ufficiale, nel quale
in processo di tempo si riunivano le incombenze che avevano in antico il
Sindaco e Referendario del Comune, ed il Cavaliere di Corte o Buffone della
Signoria. A questo ufficio erano sempre eletti uomini che avessero qualche spirito
di poesia, perchè era loro commesso di comporre canzoni morali o storiche da
recitarsi alla mensa dei Signori. E restano ancora poesie, parte a stampa e
parte a penna, composte e recitate dagli Araldi; i quali cominciando dal 1350 durarono
fino al 1539, e tra questi, come compositori di versi, sono più noti, Antonio
di Matteo di Meglio, Anselmo Calderoni, Gio. Batta dell’Ottonaio e maestro
Jacopo del Bientina, che fu l’ultimo. Negli ultimi tempi l’ufficio dell’Araldo
consisteva più specialmente nel guidare tutte le cerimonie occorrenti per
ricevere i grandi personaggi che capitavano con ufficio pubblico in Firenze, e
gli ambasciatori de’ Potentati e delle Signorie; e nel tenere un libro dove
brevemente era registrata la venuta ed il ricevimento loro.»[68]
E aggiunge il Milanesi che fra gli Araldi Francesco Filarete fu il primo cui fu
commesso l’ufficio di formar questo registro. Richiedevasi negli Araldi parola
chiara e sonora e quindi sovente ricevevano l’incarico di pronunziare per altri
discorsi e poesie; ma avveniva ancora che essi stessi ne fossero gli autori e
li recitassero insieme a ragguardevoli persone; così fece appunto Anselmo Calderoni
collega di Antonio di Meglio nell’Accademia Coronaria, ove fu uno dei dicitori
come sopra si è detto.
La
parte attiva che questi Araldi prendevano nelle feste fu forse la causa che fece
avere ad alcuni, come al di Meglio, il titolo di buffone. Pochi, però,
meritarono come questi il nome di poeta, nè come lui videro i proprî versi, raccolti con quelli di Dante,
del Petrarca, del Cavalcanti, del Burchiello e di altri poeti, non tutti certo
egualmente grandi, ma tutti celebri nei tempi in cui vissero.
VII.
Il Sonetto attribuito ad
Anonimi.
Si
trova il Sonetto senza nome di autore nei seguenti codici: Cod. Laurenziano 4,
plut. 90 inf., a c. 36; Cod. Laurenziano 44, plut. 89 inf., a c. 167; Cod.
Magliab. 1171, Cl. VII, a c. 107 verso;
Cod. Riccardiano 1103, a c. 154 verso.
VIII.
Antonio di Meglio vero
autore del Sonetto.
Fra
i codici sopra indicati, e dei quali tutti si troverà l’esatta descrizione più
avanti, quello che mi sembra dileguare ogni dubbio è il Codice Palatino di Firenze
segnato CCXV ove il nostro Sonetto si legge a c. 91 verso, sotto il titolo: Sonetto del detto Messer Antonio di Matteo
Araldo. E questo titolo è ripetuto nel sonetto antecedente, se non che sono
aggiunte le parole: della Signoria.
Questo
Codice Palatino è evidentemente riferibile al secolo XV ed è scritto tutto di
una mano, con inchiostro rosso e nero. Poco avanti il Sonetto, cioè a carta 65 verso, si legge: «In nel prencipio di
queste hopere le quali io Sandro di Piero di Lotteringho scriverrò. Come
lettore vedrai. Et così chille compose et fecie ed eziandio chille recitò
dicendo in Sancta Liperata in di 22 d’ottobre 1441... E prima comincierò a scrivere
per prima operetta stanze XXV fatte per Michele di Noferi del Gioghante le
quali hopere trattano d’Amicizia.»
Questi
versi sono quelli appunto composti da Michele del Giogante nell’Accademia Coronaria
di cui sopra ho parlato.
A
c. 75 recto si leggono quelli, fatti
nella medesima occasione da Mariotto Davanzati e recitati da Antonio di Meglio,
così intitolati: «Chapitolo di Mariotto d’Arrigho Davanzati et pure sopra la
vera et unicha amicizia detto et pronuncptiato in Sancta Liperata in di 22 d’ottobre
1441 nel prealeghato luogho da Messer Antonio di Matteo di Meglio chavaliere et
araldo della nostra magnificha Signoria pronunptiandolo tanto mirabilmente et
con tanta dolcezza qual filomena in boscho, deponendo ogni parlare che dir si
potessi et disse chosì in pa volgi.»
In
altri luoghi del codice si leggono le date 1428, 1430, 1433, 1435, 1436, 1437,
ed il sig. Cesare Paoli, che volle gentilmente esaminarlo, notandovi la
mancanza di date posteriori al 1441, così conclude: «Io credo che questa raccolta
di poesie possa essere fatta non molto tempo dopo l’ultima data; e anche l’insieme
della scrittura ha tale aspetto da potere essere attribuita alla prima metà del
secolo XV.»
Da
quanto precede può quindi argomentarsi che lo scrittore del codice abitasse
Firenze mentre viveva Antonio di Meglio, di modo che è molto probabile che egli
non abbia errato attribuendo il Sonetto a questo poeta.
Una
conferma di tale opinione la trovo nel codice della Biblioteca Comunale di
Siena segnato Cod. H. XI, 54.
Dopo
avermi mandato copia del Sonetto, che vi si legge a pagine 91 ed è attribuito
ad Antonio di Matteo di Meglio Araldo della Signoria, il bibliotecario, signor
Fortunato Donati, aggiunge:
«Le
trascrivo integralmente la prima pagina del codice contenente il Sonetto
inviatole, dalla quale risulta la data precisa del codice originale dal quale
questo fu copiato.»
« Copia
d’un
libretto manoscritto di questa grandezza, coperto dasse scritto l’anno
1454
da
autore non nominato. Nel qual libro ci si legono più e diversi sonetti ottave e
Terzetti amorosi, quali tutti questi nel presente libro non si copieranno, e
solo si copieranno quelli che in qual cosa si farà menzione della nostra città
di Firenze et alcune memorie et ragionamenti in prosa al fine del qual libro ce
l’appiè iscrizione e sonetto che dovrebbe essere dapprincipio e però qui si
descriverà a parola a parola appiè &. »
« Copia
Questo
libro è di …………………….[a questo punto leggesi
al margine questa nota: così è l’originale essendo rastiato il nome e non c’è
casato] di Sandro in sul quale è scritte moltissime chose cioè chanzone e
Sonetti di molti dicitori e anchora ci è dua piacevole operette in prosa el
detto libro iscrissi io di mia propia mano fornito di scrivere a di XVI Gennaio
1454. E nel detto millesimo lo cominciai a scrivere.»
«Come
Ella vede, con una dichiarazione così esplicita, è ben difficile formare dei
dubbi sulla data del codice originale. D’altronde i fatti e le persone
rammentate nel codice, s’io non m’inganno, non parmi che contradicano alla data
del 1454.»
Si
può quindi concludere che Leonardo da Vinci non è l’autore del Sonetto, in
primo luogo perchè in nessun codice si trova quel componimento sotto il suo
nome; in secondo luogo perchè essendo egli nato nel 1452 non poteva aver fatto
versi copiati da altri due anni dopo; ma che invece lo dovè comporre non più
tardi di quella data, o almeno del 1454, Antonio di Matteo di Meglio Araldo
della Signoria di Firenze.
IX.
Confronto dei differenti
testi.
Il
Sonetto, stampato qui appresso, è tratto dal Cod. Palatino di Firenze 215 a c.
91 ove, come ho detto, esso è attribuito a Antonio di Matteo di Meglio. In nota
ho posto le varianti dei testi differenti del Sonetto medesimo,
contrassegnandoli con lettere dell’alfabeto; i numeri romani indicano il verso
e i numeri arabi il posto che in esso occupa ogni parola. Dopo il Sonetto si
troverà la descrizione dei diversi codici donde ho tratto i varî testi di esso.
Ho
veramente creduto conveniente non amplificare il mio lavoro con una discussione
filologica sopra le analogie e le differenze dei testi ricavati dai diversi
codici; in primo luogo per la mia incompetenza in simile argomento; in secondo
luogo perchè mi sembra aver già raggiunto lo scopo che mi ero prefisso, di trovare
cioè qual fosse il vero autore del Sonetto attribuito dal Lomazzo a Leonardo da
Vinci.
Ho
creduto però conveniente disporre il mio lavoro in modo che se mai qualcuno
volesse fare una simile indagine potesse avere sotto gli occhi i materiali convenienti
per compierla senza ulteriori ricerche.
Non
posso terminare questo mio scritto senza ringraziare il Prof. Alessandro d’Ancona
il quale avendo ricevuto dall’avv. Pietro Bilancioni di Ravenna l’elenco di
quasi tutti i codici ove trovasi il Sonetto e dal Prof. Reihold Köhler di Weimar, come ho già indicato, quello
dei traduttori tedeschi di esso, me li ha liberalmente comunicati, non
lasciandomi quasi altra parte da fare che quella di compilatore.
SONETTO
DI MESSER ANTONIO DI
MATTEO DI MEGLIO
ARALDO DELLA SIGNORIA
DI FIRENZE
Firenze, Bibl. Nazionale,
Mss. Codice ex-Palatino N.
215, fol. 91 v.
(c)
Chi non può quel che vuole quel che può
voglia
Che quel che non si può folle è volere
E quell’uom che dicho saggio è da tenere
Che da quel che non possa il voler
toglia.
Però ch’ogni diletto nostro o doglia.
Sta in si o no saper voler potere
Sol cholui dunque può che vuol dovere
Ne mai tare la ragion fuor di sua
soglia.
Non sempre è da volere ciò chell’huom
puote
Spesso appar dolce quel che torna amaro.
Piansi già quel che volli poi chi
l’ebbi.
Adunque o tu lector di queste note
S’attè vuogli esser buono, agli altri
charo
Voglia sempre potere quel che tu debbi.
NOTE
[1] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato dell’Arte della Pittura &.
Milano, Pontio M.D.LXXXV in 8o - Vedi p. 282-283.
[2] Uzielli G., Ricerche interno a Leonardo da Vinci.
Firenze, Pellas 1872, in 8o - Vedi p. 99-104.
[3] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato &. p. 614-615.
[4] Lomazzo Gio. Paolo, Trattato &. p. 106.
[5] Il Lomazzo, Trattato dell’Arte della Pittura &. Roma, Del Monte 1844. 3
vol. in 8°. - Vedi vol. I. p. XVIII.
[6] Lomazzo, Trattato &. (ed. 1585) p. 299 - (ed. 1844) vol. I. p. XVII.
[7] Lomazzo, Trattato &. (ed. 1585) p. 232 - (ed. 1844) vol. II. p. 68.
[8] Vasari, Vite dei Pittori (Ed. Le Monnier) vol. VII. p. 26-27.
«Di queste carte della notomia degli uomini n’è
gran parte nelle mani di messer Francesco, di Melzo gentiluomo milanese, che
nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo e molto amato da lui, così come
oggi è bello e gentile vecchio, che le ha care e tiene come per reliquie tal
carte, insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo: e chi legge
quegli scritti, par impossibile che quel divino spirito abbi così ben ragionato
dell’arte e de’ muscoli e nervi e vene, e con tanta diligenza d’ogni cosa. Come
anche sono nelle mani di..., pittor milanese, alcuni scritti di Lionardo, pur
di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e
de’ modi del disegno e colorire. Costui non è molto che venne a Fiorenza a
vedermi, desiderando stampar quest’opera, e la condusse a Roma per dargli
esito; nè so poi che di ciò sia seguito.»
Non sembra però che il pittore milanese di cui
parla il Vasari fosse il Lomazzo perchè non si può supporre che questi,
ricordando spessissimo Leonardo nelle varie sue opere, non dicesse di posseder
scritti di esso ove ne avesse avuti.
[9] Nell’edizione del
Lomazzo del 1844 sopra citata e che porta in calce l’indicazione: Roma presso
Saverio del Monte editore proprietario (il quale deve aver forse scritto i Cenni sulla vita dell’autore che
precedono il Trattato) si legge a p. XV: «Cosimo de’ Medici lo chiamò a
Firenze, e lo elesse a custode di una galleria, nella quale si vedevano più di
quaranta mila quadri, giusta la testimonianza dello stesso Lomazzo; il che gli
fece sempre più conseguire quella vasta cognizione de’ lavori di tutti i
pittori, e quella sì profonda critica pittorica, che fa preziosi i suoi libri.»
Questa notizia fu riprodotta in molte enciclopedie
ed opere, nè si mancò di ricordare i 40.000 quadri. Il Pelli nel suo riputato Saggio storico delle Gallerie di Firenze
(Firenze Cambiagi 1779, 2 vol. in 8.o) parla del Lomazzo in due
luoghi. A p. 89 del vol. I, dice che il Lomazzo nell’opera Forme delle Muse (Pontio, Milano 1491, 4°), loda Cosimo V e il suo
Museo. Cosimo è pure rammentato nel Trattato
della Pittura del Lomazzo, ed. 1584, p. 436, e nell’Idea del tempio della Pittura, Milano, 1590 in 4°, cap. 38, p. 157.
A p. 194 del vol. Il, nota CXXI, il Pelli
rammenta il ritratto del Lomazzo, che il Lomazzo stesso aveva mandato a Cosimo
Io e di cui parla nella dedica fatta a Ferdinando Io nel
1491 della sua Forma delle Muse. A
queste notizie nulla aggiunge il Gotti (Le
Gallerie di Firenze. Firenze Cellini, 1873. 8° gr. - 2da ediz.
1875, in 12o).
Il passo ove più esplicitamente il Lomazzo
parla del Museo di Cosimo Io è quello sopra rammentato dell’Idea del tempio della Pittura: «A questo
siegue molto dappresso il Museo del gran Duca Cosimo di Firenze, il quale hora
il suo figliuol Ferdinando va arrichindo (sic)
ogni » giorno di nuovi ornamenti con l’ingegno, e il valore di Giacomo Ligozzi
Veronese grandissimo pittore e miniatore.»
Oltre le opere già citate del Lomazzo ho
percorso i suoi Grotteschi, la sua Vita scritta in versi sciolti, ove tace
del fatto notevolissimo di essere stato custode della Galleria di Cosimo.
Benchè non abbia veduto l’altra sua opera: Esposizione sopra il trattato del’Arte della
Pittura, pure mi pare doversi concludere che l’editore Romano abbia preso
abbaglio. Però affine di meglio confermarmi in tale opinione pregai il signor
Cesare Paoli di vedere se nell’Archivio di Stato di Firenze trovavansi, fra il
1538 e il 1591 notizie relative al Lomazzo. Egli mi scrive che in quegli anni
la Galleria propriamente non esisteva, ma vi erano solo magazzini di deposito e
m’aggiunge che il signor G. Milanesi nel libro dei morti dal 1581 al 1600 non
ha trovato menzione che di un Maestro Bernardo di Francesco Lumazzi milanese,
morto il 29 agosto 1600 e sepolto in Santa Maria Maggiore.
A me premeva di chiarire, anche per ricerche
future intorno a Leonardo, le possibili vicendevoli relazioni fra il Lomazzo e
il Vasari, due delle fonti principali cui è necessario ricorrere per scrivere
la storia del Vinci.
[10] Vedi nota (1) a pag. 36.
[11] Vasari G. Vite (Ed. Le Monnier)
vol. VII, p. 12.
[12] Dufresne, Vita di Lionardo da Vinci, premessa al Trattato della Pittura di Lionardo da Vinci. Parigi, Langlois
M.DC.LI in folio.
[13] Crescimbeni G. M. Istoria della volgar poesia. Venezia,
Baseggio, 1730, vol. 6 in 4° - Vedi vol. IV. p. 5.
[14] Amoretti C. Memorie Storiche su & Lionardo da Vinci.
Milano 1804. in 8° - Vedi p. 18.
[15] Fra i Mss. di Leonardo
si trovano pochi altri versi ma che valgono piuttosto meno che più del sonetto
di cui parlo.
[16] Da Vinci, Trattato della Pittura. Firenze,
Cambiasi, 1792. in 4° Vedi pref. p. II.
[17] Da Vinci, Traité de la Peinture Paris, Perlet,
M.D.CCCIII. in 8° - Vedi p. lj.
[18] Vasari, Vite dei Pittori (Ed. Le Monnier, 1851-70) vol. VII, p. 12.
[19] Saggio delle Opere di Leonardo da Vinci. Milano, Ricordi 1872, in
fol. Vedi p. 9-10.
[20] Calvi G. L., Notizie dei principali professori di Belle
Arti che fiorirono in Milano ecc. Milano, Borroni 1869, 3 vol. in 8.° -
Vedi Parte III, p. 26.
[21] Rio A. F. Léonard de Vinci et son
Ecole. Paris, Bray, 1855, in 8° - Vedi p. 52.
[22] Koenig Fr. Léonard de Vinci,
Tours, Mame. M.D.CCCLXX in 8o. - Vedi p. 171.
[23] Houssaye A. Histhoire de Léonard de
Vinci. Paris,
Didier, 1869 in 8.o - Vedi p. 25-26.
[24] Vasari G. Opere, Firenze 1832-38, 3 parti in 2
vol. in 8.o - Vedi p. 454.
[25] Delécluze E. Essai sur Léonard de Vinci, Paris 1844,
8.° - Vedi traduzione Milanesi (Siena, 1844, in 8°) a p. 100-101.
[26] Clément Ch., Michel-Ange, Léonard de
Vinci, Raphael. Paris,
Hetzel 1867, vol. 1 in 8.o - Vedi p. 243.
[27] Ivi, pag.
197.
[28] Taine H. Léonard de Vinci
(nella) Revue des Cours Littéraires.
Paris, 1865. N.o 26, p. 427.
[29] Journal du Voyage de Michel de
Montaigne en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581 &. A Rome et a Paris chez le Say 1774. - 2 vol. 12mo. Vedi vol. II, p. 572.
[30] Tasso T. Le lettere &. Firenze, Le Monnier,
1853-55, 5 vol. in 12° - Vedi vol. I, pag. 43.
[31] Valery. Voyages historiques et
littéraires en Italie pendant les années 1826, 1827 et 1828. Baudry, Paris, 1838.
Vol. 3 in 8° - Vedi vol. 1, p. 74 e 75.
[32] Boito C. Leonardo scultore e pittore nel Saggio sull’opere &. p. 27.
[33] Come Foscolo non
m’ingegno di tradurlo. Vedi a p. 213, vol. I, dei suoi Saggi di Critica storico letteraria, Firenze, Le Monnier.
[34] Saggio sulle opere &., p. 27.
[35] Brown J. W. The life of Leonardo da Vinci. London, Pickering, MDCCCXXVIII in-8o - Vedi p. 7.
[36] Vinci (da) A Treatise on Painting
& translated by J. F. Rigaud. London, Nichols, 1835, in 8o -
Vedi p. XV e XVI.
[37] Alford H. Our Lord and his twelve
disciples &, after & Leonardo da Vinci. London, Bell and Daldy
1869, in 4° - Vedi p. 60-61.
[38] Heaton C. W. Leonardo da Vinci
and his works. London-New York, Macmillan 1874, in 8.o, Vedi p.
107.
[39] Questa impotenza della
lingua italiana, segno del posto che occupiamo nell’evoluzione storica attuale,
si osserva veramente in gradi diversi anche nelle altre lingue moderne. Così, a
proposito della parola epoca la quale
in geologia significa altra cosa che nel linguaggio comune, il de Candolle
scrive: «Quoi qu’on fasse les langues sont anciennes, et routinières; elles ne
repondent jamais assez à la clarté de nouvelles idées.» Bulletin de l’Association Scientifique, 1876. 1er semestre, p. 251.
[40] La massima parte delle
notizie che seguono intorno alle traduzioni tedesche del Sonetto di Leonardo
furono a me inviate dal Sig. D.r Reihold Köhler Bibliotecario a
Weimar, per gentile intromissione del Prof. A. d’Ancona.
[41] Fiorillo, Geschichte der zeichnenden Künste. Göttingen 1798-1808, 5 vol. in 8gr. - Vedi vol.
I. p. 309.
[42] Schlegel, A. W. Sämmtliche Werke, 12 vol. in 8o,
1846-47. - Vedi vol. IX, p. 165.
[43] Schlegel. A. W. Sämmtliche
Werke, vol. I, p. 222.
[44] Si ha pure conferma di
tale opinione nei versi ove il Lomazzo dice che Francesco I pianse allorchè gli
fu recata la notizia della morte del diletto pittore (Lomazzo. G. P. Rime, Milano, Pontio, 1587, p. 109).
Tanto il Lomazzo quanto il Vasari avevano, come ho già ricordato, conosciuto il
Melzi erede principale di Leonardo: anzi la testimonianza del Lomazzo fu tenuta
come degna di fede sopra qualunque altra. Ma l’errore commesso riguardo al
sonetto diminuisce la fiducia che in lui deve riporsi benchè non la distrugga;
anzi, ricordando gli argomenti addotti dal Venturi, credo che il Lomazzo più
del Vasari abbia conosciuto la verità intorno agli ultimi momenti di Leonardo.
[45] Meyer F. Spiele des Witzes und der
Phantasie. Berlin,
1793, in 8.o p. 132. - Poetische
Blumenlese aufs Jahr 1792. Göttingen, p. 163.
[46] Hagen A. Leonhard da Vinci in Mailand, Leipzig,
1840, in 8.o - Vedi p. 99-100.
[47] Riemer F. W. Gedichte. Jena, 1826. vol. 2 in 12ogr.
- Vedi vol. I, p. 322.
[48] Vasari, traduzione
dello Schorn, 1832-49, 6 vol. in 8° gr. - Vedi vol. III, I, p. 5.
[49] Künstler - Briefe übersetzt und erläutert von E. Guhl. 1853-56.
vol. 2 in 8o gr. - Vedi vol. I, p. 103.
[50] Waagen G. F. Leonardo
da Vinci, Album. Berlin, Schauer, in 4° senza data. Vedi i (verso) e k (recto).
[51] Gries Joh. Dietr. Gedichte und poetische Übersetzubgen, Stuttgart, 1829. vol. II, in 8° gr. - Vedi
vol. II, p. 132.
[52] Schlosser J. Fr. H. Aus dem Nachlasse, Mainz 1856-1857. vol.
3 in 16° - Vedi vol. I, p. 144.
[53] Droysen (G.) Leonardo da Vinci [in] Preussische Jahrbücher, vol. XIX, 1867, p. 488-539.
[54] Manni D. M. Veglie piacevoli, ovvero notizie de’ più
bizzarri e giocondi uomini Toscani. Firenze, Ricci, 1815, Vol. 8 in 16.° -
Vedi vol. I, p. 34-63.
Passerini L. [Note all’opera] Marietta de Ricci &, di Agostino Ademollo.
Firenze, Chiari, 1845, 8.°, 2da ed. 6 vol. in 8.o - Vedi
vol. IV, p. 1351-52.
Bandini A. M. Specimen Literaturae Florentinae saeculi XV &. Firenze, Rigacci, 1747-51, vol. 2 in 8.o - Vedi
vol. I, p. 19.
Burchiello D. Sonetti del Burchiello del Bellincioni e di altri poeti fiorentini alla
Burchiellesca. Londra (Lucca-Pisa), 1757, in 8.o - Vedi
prefazione.
[55] Manni D. M. Veglie & vol. I, p. 63.
[56] Gamba B. Serie dei testi di lingua &. Venezia, co’ tipi del Gondoliere,
1839, in 4.o picc. - Vedi p. 80.
[57] Allacci L. Poeti antichi raccolti da codici manoscritti. Napoli, Sebastiano
d’Alecci 1661, in 8.o - Vedi p. 186.
[58] Allacci L. Poeti antichi, p. 69. Non so perchè
l’editore delle poesie del Burchiello stampate nel 1757 dice a p. XI che
l’Allacci tolse i sonetti di quel poeta dalla Biblioteca Ottaboniana ora unita
alla Biblioteca Vaticana. - Vedi Zanelli D. La
Biblioteca Vaticana dalla sua origine fino al presente, Roma, Tip. delle
Belle Arti, 1857, in 8.o, alle p. 78-82.
[59] Quadrio F. S. Storia e ragione di ogni poesia,
Bologna, Pisarri 1739; e Milano Agnelli, 1741-1752, vol. 7 in 4.° -
Vedi vol. II, p. 199.
[60] Crescimbeni G. M. Istoria & vol. V, p. 12.
[61] Gamba B. Serie & p. 75.
[62] D’Ancona A. Musica e poesia nell’antico comune di Perugia [in] Nuova Antologia 1875, T. XXIX, p. 61,
64, 65, 66.
[63] Crescimbeni G. M. Istoria & vol. I, p. 16 e vol. V, p. 28.
[64] Mazzucchelli G. Gli scrittori d’Italia. Brescia, Bossini 1753-1763, vol. 2. Parti 6
in foglio. - Vedi vol. I. Parte II, p. 930; vol. II, Parte IV, p. 2277.
[65] Alberti L. B. Opere volgari & annotate ed illustrate dal D.r
Anicio Bonucci. Firenze, tip. Galileiana 1846-50; 5 vol. in 8.° - Vedi vol. I,
p. CLXVII, e CLXVIII. - Il Bonucci ha pubblicato queste poesie (vol. I. p.
CLXVIII-CCXXIV) traendole dal Cod. Laurenziano N. 34, plut. 41.
[66] Alberti L. B. Opere, vol. I. p. CLXXXVII.
[67] Alberti L. B. Opere, vol. I. p. CCV.
[68] Buonarroti
Michelangelo, Le lettere pubblicate per
cura di Gaetano Milanesi. Firenze. Le Monnier 1875 in 4.o - Vedi
p. 9, nota 1.
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