domenica 15 febbraio 2015

1919 - BELTRAMI. La destra mano di Leonardo da Vinci



Potrà recare qualche meraviglia la circostanza che, a cinquant’anni dalla iniziata riproduzione dei manoscritti vinciani - grazie alla quale lo studioso oggi può facilmente giovarsi di un cospicuo materiale grafico, costituito da varie migliaia di tavole in fac-simile - la famigliarità colla scrittura di Leonardo non sia ancora riuscita a contrastare vieti preconcetti e recenti errori, imperniati sulla tesi di Leonardo mancino: ancor più dobbiamo meravigliarci che, a quindici anni di distanza dalla nomina di una Commissione per la Edizione Nazionale degli scritti di Leonardo da Vinci, i criteri per autenticare la scrittura vinciana siano tuttora affidati alla sommaria constatazione della direzione anormale da destra a sinistra: cosicchè, quanto si è potuto leggere in merito alla scrittura di Leonardo, nell’attuale ricorrenza del quarto centenario della morte, non ha recato un contributo qualsiasi a chiarimento di ciò che Luca Paciolo, nel 1509 - dopo di avere accennato a scritti “alla rovescia e mancina, che non si posson leggere se non collo specchio, overo guardando la carta dal suo rovescio contro la luce” - ebbe a riferire: “come fa il nostro Leonardo da Vinci, lume della pittura, qual è mancino, come più volte è detto”. E così, la “ineffabile sinistra mano” contribuì a sagrificare la destra.[8]
Sebbene il tema della scrittura di Leonardo non mi abbia, per il passato, fornito particolare occasione di studio, mi trovo tentato ad occuparmene, non solo per l’interesse che è intrinseco a qualsiasi argomento vinciano, ma perchè la tesi di Leonardo mancino - e quindi la pretesa inabilità della mano destra a scrivere, quale ha potuto in questi ultimi anni concretarsi, senza suscitare obbiezioni - ha una diretta ripercussione nel campo dell’attività artistica, e specialmente in quello dei disegni, favorendo la svalutazione che da tempo vi si esercita, a danno di Leonardo.
La tesi che ci proponiamo di confutare venne, due anni or sono, riassunta in termini molto chiari ed espliciti da Gerolamo Calvi, nei suoi Contributi alla biografia di Leonardo da Vinci: Archivio Storico Lombardo, Anno XLIII:
“Le incertezze e le false opinioni perdurate sino ad oggi sulla supposta originalità, così della lettera allo Sforza, come dell’altra istanza al cardinale Ippolito d’Este, posseduta dal R. Archivio di Stato in Modena, dimostrano che non si è ancora ben radicata tra i leonardisti l’opinione che dovrebbe ormai apparire la sola ragionevole, circa la scrittura leonardesca: Leonardo essere stato mancino; da questo fatto, per un meccanismo naturale ed istintivo, non corretto dall’ educazione o dalla volontà, esser provenuto l’altro della grafia a specchio; la scrittura nel senso ordinario (da sinistra a destra) essere rimasta per lui il prodotto di uno sforzo, di una reazione volontaria all’uso spontaneo, e quindi presentarsi, nei radi esempi che ce ne rimangono, come più o meno rudimentale, o studiata, rendendo però nelle forme più inesperte e di più stentata corsività, ancora l’impronta dei caratteri da destra a sinistra”.
Per ribattere questa tesi dovremo dimostrare:
I. Che il riconoscere le due lettere allo Sforza e al Cardinal d’Este come autografi di Leonardo, non è falsa, nè irragionevole opinione.
II. Che Leonardo non era mancino nel senso comune della parola, e ancor meno rispetto alle estreme conseguenze che se ne vollero ricavare.
III. Essere la scrittura vinciana nel senso ordinario, da sinistra a destra, non già il prodotto di uno sforzo, e tanto meno di reazione al naturale ed istintivo uso della mano sinistra, ma la prova di una disposizione altrettanto naturale e spontanea di Leonardo a valersi della destra.
IV. Che i saggi di scrittura vinciana, in direzione da sinistra a destra, sebbene rari rispetto alla prevalenza degli scritti in direzione opposta, non presentano affatto forme inesperte e stentate, in confronto colla scrittura nella direzione adottata ordinariamente da Leonardo.
V. Che Leonardo ebbe a scrivere con eguale speditezza e spontaneità nelle due direzioni, cosicchè, nella notevole varietà grafica dei saggi in direzione da sinistra a destra, possono prendere posto le succitate lettere, sulle quali si fonda la tesi di Leonardo mancino, quale venne formulata dal Calvi.
Questo complesso di asserzioni, che ci proponiamo di sostenere, in aperto contrasto colla tesi generalmente ammessa dagli studiosi vinciani, potrebbe ingenerare nel lettore il sospetto di trovarsi in presenza di una di quelle contestazioni, che sono influenzate da partito preso; il che, trattandosi di una questione calligrafica, suscettibile di gratuite divergenze di opinioni - come risulta dai frequenti casi di stabilire, o di escludere la paternità di uno scritto, in base a perizie giudiziarie, inevitabilmente contraddittorie, per quanto giurate - potrebbe giustificare qualche scetticismo riguardo le conclusioni. Non sarà quindi superfluo, per escludere tale sospetto, non solo ripetere come nell’argomento della grafia vinciana, io non abbia, prima d’ora, avuto particolare occasione di esprimere giudizi od opinioni, che possano vincolarmi, ma aggiungere di avere, per il passato, accolto non dirò ciecamente, ma con deferenza le conclusioni formulate da benemeriti studiosi, dei quali conosco ed ho apprezzata la famigliarità coi manoscritti vinciani. Di modo che, se oggi mi trovo a sostenere una tesi divergente da quella che io stesso ebbi tacitamente ad ammettere per il passato, ciò deriva da una più estesa cognizione dell’argomento, consentita da elementi di fatto rimasti fatalmente trascurati, tali da potere rettificare uno degli aspetti della operosità di Leonardo.

Tre documenti vinciani hanno recentemente contribuito a dar corpo alla suaccennata tesi restrittiva, riguardo la scrittura normale di Leonardo: il più importante di questi è la nota lettera contenuta nel Codice Atlantico, a fol. 391 r, sprovvista di indicazione, tanto della persona alla quale è diretta, quanto della persona che la scrisse: la lettera però si richiama ad un figlio di Francesco Sforza, il quale non può essere che Lodovico il Moro, mentre i dieci paragrafi elencanti gli argomenti d’indole militare e le opere civili, di cui lo scrittore si dichiara pronto a prendere impegno, identificano la persona in Leonardo. Trascritta per la prima volta dall’Oltrocchi verso la fine del secolo XVIII, pubblicata dall’Amoretti nel 1804,[9] quella pagina venne spontaneamente considerata autografa, e come tale riprodotta nel 1872 in facsimile, nel Saggio del Codice Atlantico (vedi pag. 16). A partire da questa riproduzione, cominciarono i dubbi e le contestazioni sull’ autenticità di quella pagina: e il Ravaisson,[10] non solo escluse trattarsi di un autografo di Leonardo, ma non ammise nemmeno che il testo sia stato da questi dettato, ravvisandovi, a torto, una presunzione nel proprio valore, non degna di Leonardo. Ad ogni modo, pur rimanendo contestata la autenticità materiale dello scritto, si convenne nel ravvisarvi una minuta, dallo stesso Leonardo dettata; cosicchè la questione presenterebbe ormai un interesse secondario, se non avesse costituito il germe per il preconcetto che ammette Leonardo inabile a servirsi della destra.
Nel 1865, quando non ancora si erano concretati i dubbi succitati riguardo la lettera nel Cod. Atlantico - che chiameremo per brevità Lettera Sforza - era stata segnalata dal marchese Campori una lettera, esistente nell’Archivio di Stato di Modena (vedi pag. 17), che Leonardo in data 18 settembre 1507, inviò da Firenze al Cardinale Ippolito d’Este, a Ferrara.[11] Munita del sigillo che comprova l’effettuato invio, la lettera tratta di una questione che in quei giorni preoccupava effettivamente Leonardo, vale a dire il litigio coi fratelli carnali, riguardo alle eredità del padre e di uno zio.[12] A quel modo che, al momento di trasferirsi da Milano a Firenze per perorare la sua causa, Leonardo si munì di una lettera del Governatore di Milano, Carlo d’Amboise, colla quale veniva raccomandato alla Signoria di Firenze di prestare al pittore “omne adjuto et favore justo”, così egli si era rivolto, appena giunto a Firenze nel settembre 1507, al Cardinale Ippolito, affinchè avesse a sua volta a sollecitare il magistrato incaricato di risolvere il litigio. Il fatto del rivolgersi di Leonardo al Cardinale, si spiega quando si ricordi come questi, fratello di Beatrice d’Este, avesse occupato la cattedra arcivescovile di Milano durante gli ultimi anni del dominio di Lodovico il Moro,[13] il che implica una relazione personale, che qualche anno dopo potè incoraggiare Leonardo a scrivere quella lettera.
A sua volta, questo documento - che chiameremo per brevità Lettera d’Este - non tardò, dopo la riproduzione in fac-simile, a sollevare dubbi che portarono alla esclusione sua come autografo di Leonardo, in base ad obbiezioni che ci riserviamo di ribattere.
Il terzo dei documenti che, contribuendo a questa esclusione della Lettera d’Este, venne a ribadire la tesi di Leonardo incapace a scrivere correntemente colla destra, è quello contenuto nel Cod. Atl. a fol. 71 r. v., segnalato dal compianto Solmi, or sono dieci anni[14] come autografo di Machiavelli. Si tratta della descrizione della battaglia di Anghiari, svoltasi il 29 giugno 1440 fra le truppe del Duca di Milano, comandate dal Piccinino, e le schiere fiorentine. La tesi del Solmi, resa attendibile da varie circostanze di fatto che vi collimano, venne accettata senza contrasto, sebbene lo stesso Solmi ammettesse di non potere addurre “un sicuro ricordo di rapporti fra i due grandi fiorentini”. In realtà, non manca una testimonianza positiva di tale relazione personale, poichè l’atto notarile del contratto passato fra Leonardo e la Repubblica Fiorentina, per il dipinto della battaglia, in data 3 maggio 1504, registra la presenza, come testimonio, di Nicolao dom. Bernardi de Machiavellis, cancellario dictorum ‘Dominorum.[15]
A non dubbie analogie fra gli appunti della battaglia, nel Cod. Atl. e la narrazione della medesima, stesa più tardi dal Machiavelli nelle Istorie Fiorentine, il Solmi volle aggiungere la prova di un raffronto calligrafico con un autografo di questi:[16] di modo che, or sono dieci anni, si presentava per i menzionati documenti questa condizione di fatto: le due lettere, al Moro e ad Ippolito d’Este, escluse come autografi di Leonardo: il fol. 71 del Cod. Atl. riconosciuto come autografo del Segretario della Repubblica Fiorentina.
Anche la tesi del Solmi non tardò ad essere contestata, in base a successivi raffronti calligrafici con altri scritti del Machiavelli, più vicini alla data della commissione del dipinto a Leonardo, fra il 1503 e il 1504: cosicchè, nell’ attuale ricorrenza centenaria vinciana, i tre documenti avevano la sorte comune di essere giudicati come scritture di ignota mano.
Riassunto quanto può considerarsi come antefatto della tesi che intendiamo di affrontare, passeremo alla rassegna delle argomentazioni che hanno contribuito all’anzidetto risultato negativo.

La precipua ragione per cui la descrizione della battaglia d’Anghiari - che per brevità chiameremo mss. Anghiari - venne contestata a Machiavelli, sta nell’avervi riconosciute alcune analogie calligrafiche colla lettera al Cardinale d’Este: tale correlazione si volle senz’altro ritenere quale prova decisiva per escludere a sua volta la Lettera d’Este, come autografo di Leonardo. Di fronte a questa affrettata conclusione, osserveremo come una lettera recante in calce il nome: S.tor humil. Leonardus Vincius pictor, indirizzata Ill.mo ac. R.mo d.no meo unico ‘D. hip. Car.li Estensi D. meo col.mo Ferrarie, e munita del sigillo d’invio, non si possa escludere quale autografa senza tenere conto, in pari tempo, delle obbiezioni che la esclusione stessa può sollevare: poichè, se il testo non lascia, come si disse, incertezza di autenticità - corrispondendo a vicende familiari di Leonardo all’epoca della lettera, riconfermate da documenti che, rimasti in parte sconosciuti, ebbi a segnalare di recente nel volume Documenti e Memorie riguardanti la vita e le opere di L. da V. - non è ammissibile che Leonardo, rivolgendosi al suo protettore, “per non mancare a me medesimo in una cosa che io stimo assai” come egli stesso dichiara, non abbia giudicato doveroso di aggiungere alla lettera - qualora avesse realmente fatto ricorso ad altri per assicurare a questa una scrittura regolare - la garanzia e il prestigio almeno della firma autografa. Dato, e non concesso, ch’egli stentasse a scrivere colla destra, si dovrà spingere l’effetto di questa accampata e congenita inabilità, sino al punto da ritenerlo incapace di apporre la firma scritta in senso normale, come ebbe a fare per il contratto del 1483, relativo alla Vergine delle Roccie?.[17]
A questa conclusione non si dovrebbe arrivare, prima di avere fornito qualche prova per la tesi accampata “essere la scrittura in senso ordinario rimasta in Leonardo il prodotto di uno sforzo”: la quale prova si cercherebbe invano, poichè, pur rimanendo nel campo del Cod. Atlantico, del quale fanno parte due dei documenti succitati - e comprendente senza alcun limite di tempo o di argomento, scritti di Leonardo, a partire dal periodo verrocchiesco, venendo sino a poche settimane prima della morte - noi possiamo, dopo di avere eliminati, non solo gli scritti che certamente non sono di Leonardo, ma anche a quelli per i quali può sussistere qualche dubbio, elencare circa ottanta esempi di scrittura da sinistra a destra, sicuramente di Leonardo: pochi, per verità, rispetto ai quattrocento fogli recto e verso costituenti il Cod. Atlantico, ma non eccezionali, nè privi d’importanza, oltre che per il numero, per la loro varietà calligrafica. Abbiamo infatti più di quaranta saggi di scrittura che si riferiscono ad argomenti di geometria, meccanica, ecc., limitati in qualche foglio a poche righe frammiste ad altri scritti da destra a sinistra (vedi a pag. 23, 24, 25 e 27), in altri comprendenti l’intera pagina; il rimanente di questi saggi di scrittura normale, è costituito da registrazioni di spese giornaliere personali, da appunti e da esercitazioni in latino, poesie, e persino saggi calligrafici in greco e in francese (vedi pag. 37, 39 e 40); infine abbiamo delle minute di lettere di Leonardo, di argomento familiare, rimaste sinora trascurate (vedi pag. 31, 33 e 45). In tutti questi esempi, mentre possiamo facilmente rilevare la grande varietà nella scrittura da sinistra a destra, non troviamo alcuna traccia di stento: anzi, riportandoci a qualcuno dei saggi riprodotti, si dovrebbe concludere che Leonardo abbia dato prova di sufficiente regolarità nella scrittura normale, certo non minore di quella in senso inverso: mentre nel caso di appunti affrettati - come sono le annotazioni di spese giornaliere, o le minute di lettere familiari - la stessa negligenza nella scrittura è prova della rapidità colla quale la destra seppe stenderle. Non mancino, adunque, dobbiamo ritenere Leonardo, ma ambidestro.
A questo punto, il lettore potrebbe trovarsi ancora riluttante ad ammettere che i saggi segnalati siano di mano di Leonardo; per il che non sarà superfluo ripetere come gli esempi siano rigorosamente scelti fra quelli senza dubbio di mano di Leonardo: infatti si tratta, come si disse, di saggi ricavati da fogli nei quali lo scritto con la destra è intimamente frammisto ad altri scritti colla sinistra, formando un sèguito naturale delle dimostrazioni geometriche, coi relativi riferimenti alle figure disegnate da Leonardo: in uno di questi esempi si presenta la singolarità dell’avere Leonardo, in un passo scritto colla mano destra, intercalato una parola scritta colla sinistra.[18] E nemmeno si può pensare che le frasi in direzione da sinistra a destra siano state aggiunte da un’altra mano - come si verifica specialmente per il Cod. B, nel quale uno studioso spagnolo ebbe ad inserire qua e là la traduzione di qualcuna delle frasi vinciane scritte a rovescio - poichè la mescolanza degli scritti nelle due direzioni, nel medesimo foglio, e trattanti lo stesso argomento, si verifica, tanto in passi che risalgono al periodo giovanile, quanto in passi appartenenti agli ultimi anni del soggiorno in Francia. Di modo che, senza dover ricorrere agli altri esempi di scrittura normale - note di spese domestiche, minute di lettere, esercitazioni varie calligrafiche, ecc. - abbiamo le prove sufficienti per concludere che la destra di Leonardo scrivesse colla stessa facilità della sinistra, non lasciando traccie di stento, che si debbano spiegare come reazione all’uso spontaneo della mano sinistra; tanto che qualche saggio di questa scrittura da sinistra a destra, ha potuto inavvertitamente essere riprodotto in fac-simile a rovescio, per una svista ben giustificabile, data la singolare rassomiglianza conservata dalla scrittura, malgrado le opposte direzioni.[19]
Accertato come Leonardo scrivesse facilmente nelle due direzioni - di modo che la ragione della preferenza sua a valersi della mano sinistra si dovrà ricercare in altre circostanze di fatto, che non siano la difficoltà dell’uso della destra, e lo sforzo per vincere e correggere una disposizione naturale per l’uso della sinistra - potremo esaminare e ribattere gli argomenti d’ordine meno generale, sui quali si è basata la esclusione delle lettere al Moro e al Cardinal d’Este, come autografe.

Il Calvi, di cui abbiamo riportato il giudizio riassuntivo riguardo la grafia normale di Leonardo, passando a trattare della lettera d’Este vi riconobbe “un’abile penna cancelleresca, una disinvoltura che manca a Leonardo tutte le volte ch’egli deve scrivere lettere d’importanza, così che lo vediamo cominciare e ricominciare faticosamente la sua minuta”. Questa asserzione, non solo mira a ribadire il gratuito concetto di uno stento nell’ uso della destra, che non sussiste, ma vorrebbe additarne la prova in minute di lettere d’importanza, ricominciate più volte faticosamente, mentre se realmente questo caso si è verificato, non è già per la scrittura normale, di cui ci occupiamo, bensì per il caso della scrittura da destra a sinistra; di modo che l’argomento addotto riesce di pregiudizio, piuttosto che a sostegno della tesi contestata. Infatti, nei saggi di scrittura normale che si conoscono - compresi quelli che intendiamo di rivendicare a Leonardo - non troviamo un esempio qualsiasi di lettere d’importanza, e nemmeno di lettere famigliari, le quali siano state cominciate e ricominciate faticosamente dal punto di vista grafico: mentre l’esempio di questi ricominciamenti si trova in minute di lettere scritte da destra a sinistra, vale a dire colla disposizione che si vorrebbe considerare come la sola spontanea in Leonardo. E nemmeno si può dire siano queste minute ricominciate da un punto di vista calligrafico, bensì per modificare o perfezionare la frase: tali sono gli abbozzi di lettere al Magnifico Giuliano, al D’Amboise, allo stesso Melzi. Si aggiunga che, se negli esempi di scrittura normale possiamo rilevare alcune ripetizioni, queste sono limitate a poche parole, e tali da indurre, non solo ad escludere lo stento della destra a scrivere, ma a riconoscere in questa mano un particolare vezzo a compiere delle esercitazioni calligrafiche, come risulta dagli esempi di alcuni nomi di persona e frammenti di frase, che si direbbero ripetuti soltanto per sfoggiare qualche scolastico svolazzo di penna.
Perciò, gli argomenti addotti all’intento di sottrarre la lettera d’Este a Leonardo, non hanno valore; la regolarità dello scritto non essendo una ragione attendibile, allo stesso modo che non lo sono, nè la asserita eccezionalità, nè il preteso stento degli scritti in direzione normale. Non è quindi nè irragionevole, nè falsa, e nemmeno incerta la opinione che -, pur ammettendo la preferenza di Leonardo a valersi della sinistra per scrivere e disegnare - riconosce come della destra egli abbia fatto un uso non meno regolare e spedito, per quanto meno frequente.
La eliminazione della lettera d’Este come autografo di Leonardo si è basata, come si disse, oltre che sui citati argomenti d’indole generale, sopra un gruppo di analogie grafiche fra la lettera stessa e il manoscritto Anghiari, tanto che il Calvi concluse:
“Questi due documenti sono della stessa mano. La prova della identità della scrittura si raggiunge agevolmente e pienamente: tutte le lettere (ad eccezione di qualche majuscola che non si trova rappresentata in entrambi i documenti, e per la quale il confronto non è possibile) si ritrovano colla stessa forma e col medesimo ductus in tutti e due i casi; le loro legature “si corrispondono”.
Dopo di che, il Calvi passa a specificare alcune analogie: trova identico il nesso et; segnala specialmente l’e della legatura te finale “tratteggiata corsivamente al modo nel quale lo scrittore eseguisce la x, senza il distacco della penna”: trova identiche le abbreviature che, per: identica l’abbreviatura di eccetera: identici certi apici che separano di quando in quando le parole. Con ciò si entra nel campo dei raffronti calligrafici, dei quali siamo ben lontani dal valere contestare la efficacia, ma che richiamano fatalmente i casi delle perizie giudiziarie, sistematicamente contraddittorie nel compito di riscontrare se due scritti siano, o no, della stessa mano.
Non avendo, ad ogni modo, il proposito di svalutare quelle analogie - giacchè la comune derivazione dei mss. Anghiari e d’Este collima colla tesi nostra, che li considera entrambi come autografi di Leonardo - le accoglieremo senz’altro, salvo a ritrarne più innanzi qualche maggiore deduzione.
Ciò che può maggiormente interessare, è piuttosto il raffronto di quei due scritti, col gruppo degli altri vinciani, pure tracciati da sinistra a destra, e specialmente con alcuni brani di lettere sinora trascurate, od anche non trascritte, che si trovano nel Cod. Atlantico.

Qualche lettore potrebbe a questo punto meravigliarsi vi siano lettere di Leonardo, contenute nel Cod. Atl., che abbiano potuto giungere sino alla ricorrenza del quarto centenario della sua morte, senza essere state trascritte; tale meraviglia non è fuori di proposito, poichè il pregiudizio di considerare come una eccezione per Leonardo, l’uso della destra per scrivere, e il conseguente preconcetto di uno stento nella scrittura normale, hanno condotto fatalmente ad eliminare in blocco, come non di Leonardo, numerosi scritti contenuti nel Cod. Atl. E non si tratta solo di passi d’indole scientifica intimamente collegati cogli argomenti svolti nelle stesse pagine, con riferimento a figure geometriche e disegni indubbiamente di Leonardo, essendovi anche delle minute di lettere accennanti ad argomenti ed a persone dell’ambiente famigliare di Leonardo. Il trascrittore del Cod. Atl., influenzato da tale preconcetto, non ebbe ad adottare una linea di condotta decisa, coerente, quale logicamente, e in ogni caso praticamente sarebbe stata quella di trascrivere tutto, senza alcuna eccezione, rimettendo impregiudicata al lettore la questione dell’autenticità, o meno, di quanto si trova nel Codice; invece, si ebbe il risultato che, del complesso degli scritti da sinistra a destra nel Cod. Atl., parte si trova trascritta e tacitamente ammessa come di mano di Leonardo: parte venne trascritta ed accompagnata dalla avvertenza, non essere di Leonardo; infine, di una parte che non è la minore per numero ed interesse intrinseco, non è fatta alcuna menzione nel testo della edizione. Mancando la indicazione dei criteri che possono avere guidato il trascrittore in questo diverso trattamento applicato agli scritti da sinistra a destra, lo studioso si trova in balìa delle incertezze e delle lacune derivanti da apprezzamenti personali, ch’egli non è in grado di valutare.
Le conseguenze di tale condizione anormale, sebbene non siano per sè stesse irrimediabili - poichè lo studioso, disponendo della riproduzione in fac-simile di tutto il Cod. Atl. si trova in condizione di potere integrare, per conto suo, le lacune della trascrizione - risultano gravi, non solo per le deduzioni che molti studiosi hanno potuto ritrarne, a sostegno del preconcetto della scarsità dei saggi di scrittura vinciana da sinistra a destra, e del conseguente stento che si volle riconoscere nella mano destra di Leonardo, ma per il fatto altresì che scritti d’interesse scientifico, e note personali di Leonardo vennero sottratte all’attenzione degli studiosi, e più facilmente poterono sfuggire dopo la pubblicazione del Cod. Atl.: tanto che, la segnalazione di queste omissioni riuscirà interessante per sè stessa ed opportuna, non soltanto come sostegno della nostra tesi che riconosce le lettere Sforza ed Este, e il manoscritto Anghiari, come autografi vinciani.
Comincieremo dal segnalare, in questo negletto materiale vinciano, la minuta di lettera che si trova a fol. 342 v. del Cod. Atl. (vedi pag. 31). Il Richter, al n. 1564, ne trascrisse solo le prime tre linee, ed è strano che abbia completamente omesso la seconda parte della lettera, trascritta invece dall’Amoretti, che a sua volta tralasciò la prima parte. Questa minuta di lettera risulta indubbiamente scritta da Leonardo, non solo per la circostanza di fatto delle ultime sei linee, nella stessa pagina, stese da destra a sinistra e di argomento scientifico, ma per il contenuto suo: Leonardo scrive - sembra al Gonfaloniere - ricordandogli “come se offerse de conciar le cose nostre fra noi fratelli de comune, cioè de la eredità de mio zio, e quella constringa la expeditione qual conteneva la littera che lui me mando”.[20]
Ci troviamo nello stesso argomento della lettera d’Este, vale a dire il litigio di Leonardo coi fratelli per questioni di eredità, cosicchè la minuta a fol. 342 v. e la lettera d’Este si possono ritenere scritte a pochi giorni di distanza, fra l’agosto e il settembre 1507. Certo, dal raffronto materiale dei due documenti non scaturisce immediata la impressione di una stessa mano, l’uno essendo un abbozzo affrettato ed incompleto di lettera, l’altro una missiva effettivamente inviata ad un personaggio di riguardo, per sollecitarne la protezione: però, a meglio giustificare la diversità della grafia, può contribuire l’altra minuta di lettera (vedi pag. 33) di pochi giorni anteriore, essendo in data 5 agosto 1507, diretta alla madre, sorelle e cognato di Leonardo; lettera dal Richter riportata solo in parte (n. 1559), data la difficoltà di interpretare lo scritto, che giunsi a trascrivere quasi integralmente nel volume Documenti e memorie di Leonardo da Vinci, al n. 190.[21] In questa lettera, Leonardo, dopo di avere dato qualche commissione, accenna al suo proposito di “spedire la facenda di piero (era suo cognato) in modo ch’esso rimarrà contento”. La minuta di questa lettera alla madre è ancora più affrettata dell’altra, già citata: poichè non si può mettere in dubbio sia scritta da Leonardo - sul medesimo foglio trovandosi altri scritti da destra a sinistra, e disegni di sua mano - così possiamo già costituire un gruppo di tre lettere accennanti all’argomento della eredità, scritte fra il 5 agosto ed il 18 settembre 1507; due delle quali sono indubbiamente di Leonardo per la stessa loro forma di minute, che non possono essere state dettate, mentre la terza si trova contestata soltanto come autografo, in base alla gratuita ragione della scrittura troppo regolare “cancelleresca”.
A questo punto, prima di procedere nei raffronti puramente calligrafici per stabilire delle analogie tenendo conto del diverso grado di diligenza e di regolarità dei tre scritti, si presenta opportuno l’esame della Lettera Sforza e del manoscritto Anghiari, allo scopo di metterli in relazione col gruppo di quei tre scritti.

Ad escludere la lettera Sforza come autografo vinciano, ha contribuito senz’altro l’argomento che la scrittura, presentandosi regolare, non può essere attribuita alla mano che avrebbe costantemente tradito lo stento a scrivere in direzione normale. E solo in base a questo preconcetto della inabilità nella mano destra di Leonardo, che la lettera Sforza si trovò accomunata alla lettera d’Este nella sorte di essere contestata come autografo, senza che siasi tenuto conto di alcune circostanze, troppo essenziali per un giudizio ponderato.
Sta il fatto che la regolarità della lettera d’Este, definita come “prodotto di un’abile penna cancelleresca” si ritrova nella lettera Sforza, altro esempio di scrittura regolare, accurata, quale si conviene ad una lettera, a sua volta indirizzata a persona di riguardo, per sollecitarne la protezione: ma ciò che troppo leggermente venne trascurato da chi volle approfittare di tale regolarità per escludere sia autografa, è la circostanza - che pure è così evidente - dell’essere la scrittura accurata e regolare soltanto nelle prime linee, dopo le quali si altera gradatamente, rendendosi più minuta, fitta e trascurata. Basta gettare uno sguardo sul raffronto fra le prime due linee, e le linee 25 e 26 (vedi pag. 16) per abbandonare l’idea che chi ebbe a scriverla, sia giunto sino alla fine, conservando la persuasione di poterla inviare a destino.
La ragione della diminuita regolarità si può riconoscere in circostanze di fatto, a loro volta comodamente trascurate dagli oppositori a Leonardo: poichè le cancellature che, a partire dalla sesta linea, si notano nel foglio 391 r. portano a pensare che, accintosi a scrivere da sinistra a destra, con tutto l’impegno richiesto dalla importanza dell’ argomento e della persona alla quale si rivolgeva, e trovatosi a dover fare qualche cancellatura, Leonardo abbia sentito ben presto sminuita la persuasione che lo scritto fosse presentabile, e lo abbia quindi continuato con decrescente sostenutezza di calligrafia, man mano che, col succedersi delle correzioni e cancellature, svaniva quella persuasione; e così lo scritto assunse una forma sempre più corrente e l’aspetto trascurato, quale si constata, raffrontando le prime alle ultime linee. A questa interpretazione delle circostanze nelle quali si svolse lo scritto, concorre la irregolarità della numerazione nei paragrafi, fra il primo “Ho modo....” e il decimo “In tempo di pace...”: poichè l’ordine della numerazione 2 3 4 9 5 6 7 8, accenna ad uno spostamento da attuare nella copia definitiva, per meglio raggrupparvi gli argomenti di offesa militare.
Ciò premesso, risulta evidente come non si possa affatto considerare la lettera Sforza, nè come un saggio di calligrafia uniformemente regolare, quale è la lettera d’Este, nè come testo dettato da Leonardo e destinato ad essere in quella forma spedito; d’altra parte, le stesse cancellature e correzioni escludono che quella pagina del Cod. Atl. sia la copia materiale di un originale smarrito, ricavata dal Melzi oppure dal Mazenta, come il Richter ebbe ad accennare.
A questo punto, converrà segnalare un altro argomento, o per meglio dire una riflessione formulata da chi nega l’autenticità della lettera Sforza. La constatazione di analogie calligrafiche fra la lettera d’Este e il manoscritto Anghiari - per cui si immaginò l’intervento di una persona incognita, la quale avrebbe due volte aiutato Leonardo a tirarsi dall’ impaccio di scrivere colla destra - venne estesa alla lettera Sforza, schiudendo in tal modo l’adito all’ipotesi che anche questa possa derivare dalla medesima mano: ipotesi appena adombrata, non senza avvertire il peso della obbiezione provocata da questo più esteso intervento; il quale, se ancora sembra ammissibile trattandosi di due scritti, uno del 1504, e l’altro del 1507, diventa eccessivamente ipotetico per l’intervallo di venticinque anni, quale corre fra la lettera Sforza e la lettera d’Este. Immaginare una persona che abbia trascritto in bella copia queste due lettere, per conto di Leonardo, equivale ad ammettere che questi si potesse pagare il lusso di un segretario permanente, per il caso di dover scrivere qualche lettera di riguardo. E allora, quale conclusione più logica si dovrà ricavare da quelle correlazioni calligrafiche? La conclusione è abbastanza semplice ed immediata; se di tre scritti, dei quali si ammette possibile la derivazione da una medesima mano, non è dubbio il comune rapporto con Leonardo - il primo per il contenuto stesso della lettera, il secondo per il diretto riferimento suo ad un dipinto commesso a Leonardo, il terzo per il testo e la firma - con quale fondamento si vorrà escludere siano di Leonardo, quando risulti dimostrato che della mano destra egli si serviva senza alcun sforzo, e dando prova di tale varietà nella calligrafia, da comprendere anche i tre saggi a lui contesi ?
E qui si presenta il momento opportuno per esaurire la dimostrazione della singolare varietà della scrittura vinciana colla destra. Nella pagina 36 abbiamo compendiati vari saggi di scrittura, da sinistra a destra, del periodo giovanile di Leonardo: sono nomi di persone dell’ambiente fiorentino e frasi staccate, che ci ricordano la grafia normale da sinistra a destra, quale Leonardo dovette apprendere a scuola - colle caratteristiche della scrittura comune nella seconda metà del secolo XV - non senza qualche svolazzo di penna, che ricorda ancora l’esercitazione scolastica.
Raffrontando questi saggi giovanili da sinistra a destra, coi due saggi da destra a sinistra, datati 1473 e 1478, nei due disegni agli Uffizi di Firenze, si può dedurre - il che risponde ad una condizione normale di fatto - come soltanto dopo di avere appreso a scrivere colla destra, Leonardo abbia ricorso alla sinistra; poichè nello scritto colla data 1473 - il più remoto che di lui si conosca, in direzione da destra a sinistra - non si ravvisa una decisa corsività di scrittura, e la stessa abbondanza degli svolazzi tradisce l’impaccio di un tentativo, quale non si riscontra negli scritti in direzione opposta. Passando poi ai saggi di epoca posteriore, quelli del periodo milanese - nei quali la scrittura da destra a sinistra si presenta concretata in un tipo abbastanza costante, formatosi coll’esercizio - vediamo come la destra abbia saputo conservare, pur trovandosi raramente adoperata, maggiore e più libera varietà di estrinsecazione; il che si spiega, giacchè della destra Leonardo ebbe a valersi ogni qualvolta si verificava una minore opportunità di ricorrere alla direzione da lui adottata abitualmente, da sinistra a destra: come ad esempio, in tutti i casi di trascrivere frasi in latino - si tratti di citazioni classiche in prosa o poesia, di esercitazioni grammaticali, ecc. - pei quali si valse esclusivamente della destra, come risulta dai vari saggi radunati nella pag. 37.[22] Lo stesso si può dire per il greco, di cui il Cod. Atl. offre l’esempio di frasi, che Leonardo non poteva certo trascrivere a rovescio (pag. 39).
Non manca nemmeno un saggio di calligrafia francese, che si presta ad una osservazione non priva di interesse.
A fol. 174 v del Cod. Atl. in mezzo a figure geometriche e scritti da destra a sinistra, si trova il brano in francese riprodotto a pag. 40.
Il Richter lo trascrisse solo in parte (n. 1561) accompagnandovi l’opinione del Ravaisson, che lo collegava ad una probabile gita di Leonardo in Francia, verso il 1509, considerando la parola Amboise come firma di Carlo d’Amboise, allora governatore di Milano; tale opinione trovò facile credito, malgrado i dati di fatto che concorrono ad escluderla. Quel passo - che io procurai di trascrivere con minori lacune del Richter (vedi Mem. e docum. di L. d. V. n.° 241 ) - accenna ad un pagamento fatto, o da fare, a Lyonard flerentin paintre du Roy, mentre la circostanza che la parola Amboise, ritenuta come firma, vi è ripetuta quattro volte, induce a ricercare se realmente si riferisca al nome del Governatore, anzichè alla località di Amboise, come risulta più logico di pensare, sia perchè il Governatore, nelle quattro lettere che di lui conosciamo, dall’agosto del 1506, all’agosto 1507, relative a Leonardo, si firma sempre d’Amboyze, sia perchè Amboyse, considerato come nome di località, trova la spiegazione nel soggiorno di Leonardo in Francia, a Cloux, presso Amboise, dove egli ebbe effettivamente a riscuotere la pensione come pittore del Re, dalla fine del 1517, al 1519. Ma, rettificata la interpretazione di questa parola, non risulta ancora spiegato il trovarsi la medesima ripetuta quattro volte, in due linee, precedute dalla lettera A.
A        Amboyse         Amboyse
A        Amboyse         Amboise
Ad ajutarci nel trovare una spiegazione, concorre la circostanza che, poco più avanti, nello stesso Cod. Atl. e precisamente a fol. 177 r, troviamo un altro saggio di calligrafia francese, pure riprodotto alla pag. 40.
Mons.r Je me racomande a votre bone grace...
La scrittura, come risulta dal riavvicinamento di quei due saggi, è identica nelle caratteristiche della calligrafia francese di quell’epoca, specialmente nelle iniziali e nelle abbreviazioni, mentre la frase accennante ad una delle solite espressioni usate come chiusa di una lettera, pur non avendo un nesso col primo brano riportato, ci può aiutare nel trovare la spiegazione, mediante una ipotesi attendibile. Infatti, niente di più naturale che, durante il soggiorno in Francia, Leonardo abbia avuto occasione, o necessità di rivolgersi, se non al Re in persona, a qualche personaggio della Corte, il che dovette metterlo nella condizione di esercitarsi nello scrivere in francese, sia ricopiando, in mezzo ai suoi fogli di geometria, il modulo relativo ad un pagamento di pensione fattogli in Amboise, come si vede a fol. 174 v, sia esercitandosi in qualche frase epistolare, come quella a fol. 177 r. Data questa ipotesi, si spiega il trovarsi la parola Amboyse, ripetuta quattro volte, in forma di esercitazione calligrafica di Leonardo, per addestrarsi a scrivere in francese: come si spiega l’addestrarsi a scrivere la frase di chiusa: “Je me racomande a votre bonne grace” la quale risponde alla formula, già da lui adottata nella lettera Sforza “a la quale umilmente me racomando” e nella lettera d’Este “a la quale iterum mi racomando”.
Ad ogni modo, non è a questi due saggi di scrittura francese che dovremo ricorrere, per stabilire ciò che già risulta abbondantemente accertato dagli altri saggi di scrittura normale di Leonardo, in opposizione della tesi che questi fosse mancino.
Ed ora sembra giunto il momento propizio per ricapitolare le osservazioni e constatazioni fatte, nelle seguenti conclusioni:
a) Il Cod. Atl. presenta una ottantina di saggi di scrittura in senso normale, da ritenersi autografi, sia per l’intima loro correlazione col testo che Leonardo tracciò in senso inverso nelle stesse pagine, assieme alle figure dimostrative del testo medesimo: sia per riferimenti a persone ed a casi dell’ambiente vinciano; sia per la loro natura di appunti personali, sempre frammisti ad altri appunti, scritti da destra a sinistra.
b) Dal complesso di questi saggi risulta una notevole varietà nelle caratteristiche calligrafiche, dalla scrittura minutissima regolare (vedi pag. 36) alla scrittura più sciolta e larga (vedi pag. 24 e 25): di modo che non è possibile di stabilire caratteristiche, o tassative particolarità, per identificare la mano di Leonardo.
c) Rimane definitivamente escluso da questi saggi, non solo la loro eccezionalità, ma l’asserito stento materiale della destra a scrivere, mentre si può rilevare come questa mano abbia dato prova di sapere scrivere, secondo le occorrenze, sia colla massima rapidità, sia con grande diligenza: a proposito della quale diligenza, merita di essere segnalato l’esempio di scrittura da sinistra a destra, che si trova sul margine del fol. 297 v (vedi pag. 43), non rilevato dagli studiosi vinciani, e per la prima volta trascritto nel citato volume Documenti e Memorie, edito per il IV centenario della morte di Leonardo.

L’appunto è il seguente, scritto con accuratezza:
M.ca d. Cecilia - Amantissima mia Diva. Lecta la tua suaviss.[23]

Fatalmente il foglio è stato ritagliato sotto a questa linea, la quale si presenta, ad ogni modo, come il principio di una lettera, da Leonardo indirizzata alla bella Cecilia Gallerani, della quale egli ebbe a fare il ritratto “in età imperfecta” nei primi tempi del suo soggiorno alla Corte di Lodo vico il Moro: il breve frammento comprova l’ammirazione del giovane artista per la gentile giovinetta, e la famigliarità colla quale si accingeva a rispondere ad una di lei richiesta. Ma, se manca il sèguito della lettera, abbiamo nell’altra metà dello stesso foglio, originariamente piegato in due, cinque linee di una calligrafia ancora regolare, concordante colla scrittura di quell’inizio di lettera: di modo che, sopra questo duplice rapporto materiale fra i due scritti, possiamo basare una correlazione nel testo: le cinque linee, accennanti alla difficoltà in chi scrive, di narrare la nobiltà di Roma e della Campania, può indurre a pensare che Leonardo siasi trovato a dovere soddisfare ad una domanda della bella giovinetta, ansiosa di avere da lui notizie di Roma e di un paese “tanto fertile e dilettevole di sua natura”.
Un altro riferimento alla bella Cecilia, possiamo intravvedere a fol. 373 r Cod. Atl.: nel quale, sotto la parola amatiss... scritta da sinistra a destra, si legge la frase, riprodotta a pag. 37: “amor omnia vincit et nos cedamus amori”.

Volendo esaurire l’argomento, rimangono da esaminare le già accennate analogie, riscontrate fra i tre documenti Sforza, Anghiari, d’Este: le quali, come hanno servito per intravvedervi una medesima mano, dovrebbero concorrere in pari tempo a stabilire il nesso cogli altri saggi di scrittura normale che abbiamo segnalato, per raggiungere in tal modo la prova definitiva della comune autenticità come autografi di Leonardo.
Per riscontrare queste analogie, basterà limitarci agli esempi più affini ai medesimi scritti, vale a dire agli abbozzi di lettere, tralasciando i saggi di dimostrazioni geometriche, o meccaniche, e specialmente i passi in latino o francese, scritti in condizioni non identiche rispetto a quei tre documenti; ci baseremo specialmente sulla citata lettera a fol. 342 v, e rinunciando per questo caso alla lettera 132 r - per la eccezionale sua irregolarità di scrittura, dipendente dall’essere l’affrettato abbozzo di una lettera familiare - vi sostituiremo un altro frammento epistolare, a fol. 299 r, completamente inedito come trascrizione (vedi pag. 45).
Si tratta della minuta di lettera indirizzata a “Messer Nicolò mio quanto magior fratello hon.o” al quale Leonardo scrive come, dopo di avere con lui conferito, abbia lungamente ricercato il registro, sul quale doveva essere annotato il nome del fratello, in relazione ad una supplica presentata al Datario, che a Leonardo premeva fosse presa in considerazione. Possiamo quindi intravvedere l’argomento della lettera nel più volte citato litigio coi fratelli, e pensare altresì che la persona, alla quale Leonardo si rivolgeva affinchè agisse sul Datario, fosse lo stesso Machiavelli.[24]
Ora, chi voglia raffrontare questo esempio di scrittura da sinistra a destra, tracciato diligentemente nelle sue prime cinque linee, poscia meno regolarmente, essendo intervenute modificazioni e correzioni, non può a meno di constatare delle affinità col manoscritto Anghiari, e di riflesso colle lettere Sforza e d’Este: affinità che si possono approfondire col raffronto di particolari calligrafici, sull’esempio dato dal Calvi per questi tre documenti.
Fra le analogie preferibilmente segnalate dal Calvi fra la lettera d’Este e il mss. Anghiari, vi è quella della “lettera e, nella legatura te finale, tratteggiata corsivamente al modo nel quale lo scrittore eseguisce la x, senza il distacco della penna” a proposito della quale, il Calvi rileva, in una nota, che questa legatura te si trova una volta nella lettera d’Este, in fine della parola molte, e quattro volte nella colonna di sinistra del mss. Anghiari, fol. 74 v, Cod. Atl. Questa analogia è certamente caratteristica: ma oltre che non potrebbe, per sè stessa, escludere che Leonardo abbia - come sosteniamo - scritto i due documenti di suo pugno, non ha neppure valore intrinseco, che consenta di farne un argomento contrario a Leonardo. Infatti, osservi il lettore il breve passo riprodotto a pag. 19 del mss. Anghiari, e vi troverà, a due linee di distanza, la parola ponte scritta dapprima colla legatura te, come per eseguire la x senza il distacco della penna, e poco dopo scritta colla e finale uncinata, quale si vede ed è così caratteristica in tutti gli scritti di Leonardo, da sinistra a destra: cosicchè, il concludere che “le coincidenze sono così esaurienti e persuasive da non lasciare alcun dubbio sull’ identità della mano” risulta asserzione non abbastanza ponderata, quando si voglia trame argomento per escludere la mano di Leonardo; mentre le coincidenze, in quanto realmente esistano e consentano qualche deduzione, risultano a favore di Leonardo.
Anche la osservazione riguardo ai “non rari accenti sulle toniche finali delle parole” nella lettera d’Este - che nel mss. Anghiari, mancherebbero perchè “meno accuratamente scritto” - non è conclusiva: la stessa eccezione rilevata dal Calvi per la parola mandò, alla linea 4a della 2a colonna del mss. Anghiari, non esiste, per il fatto che invece di un accento, si tratterebbe dello svolazzo della lettera f della parola fanti, susseguente la parola mando (vedi pag. 19, linea 3a).
Ad ogni modo, nel caso attuale, la questione della destra mano di Leonardo non può essere risolta in base a singolarità di calligrafia, quali in mancanza di altri dati, si devono ricercare e constatare, quando si tratti di riconoscere l’autore di un unico e determinato scritto, tenendo conto delle più minute particolarità calligrafiche per basarvi una ipotesi, non mai la assoluta sicurezza di un giudizio: poichè la tesi di Leonardo scrittore colla mano destra non meno sicuro che colla sinistra, si fonda sopra una serie di esempi della sua scrittura destrorsa, più che sufficiente per sè stessa a risolvere la tesi, persuadendoci che i documenti Sforza, Este ed Anghiari sono di sua mano. Convengono in questa conclusione: il carattere, il significato, le correlazioni dei tre documenti: vi convengono non solo le analogie calligrafiche, ammesse dagli stessi avversari alla nostra tesi, ma quelle che si possono stabilire coi numerosi scritti di Leonardo colla mano destra, sino ad ora dimenticati e trascurati sotto l’incubo del preconcetto che Leonardo fosse mancino, inetto quindi a servirsi della destra.
Colla tesi di Leonardo non mancino, non solo risulta giustificata la esistenza di due di quegli scritti nel Cod. Atl., ma si viene ad ammettere ciò che - senza la intromissione di quel preconcetto - sarebbe da tempo spontaneamente sembrato naturale: vale a dire che Leonardo, per la stessa sua straordinaria facoltà di eseguire, sia colla destra che colla sinistra, i più svariati lavori di pittura, sfoggiandovi la più minuziosa diligenza, del pari che la maggiore larghezza di tocco, si trovò a maggior ragione in grado di valersi della sinistra e della destra nelle più svariate forme calligrafiche, dalle più minute e diligenti, alle più larghe e irregolari; nel complesso delle quali varietà grafiche, sarebbe quasi puerile la pretesa di cercare segni, legature, accenti, che siano caratteristici e necessari elementi di riconoscimento, quali si possono invece cercare ed intravvedere - non mai accertare sicuramente - nella scrittura ordinaria di chi scriva soltanto colla destra.
Ed anche per queste considerazioni, possiamo concludere che le lettere Sforza, d’Este, e il mss. Anghiari sono di mano di Leonardo; il quale ebbe campo nei numerosi suoi scritti, e nelle più svariate circostanze, di valersi della mano destra al pari della sinistra, così da potere essere considerato, non mancino, ma “ambidestro”.

* * *

Trascrizione delle lettere di Leonardo

Pagina 31 (Cod. Atl., fol. 342 v - Tav. MCLI, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo dell’Edizione).

“Ricordo a V.ra Ell.tia come Ridolpho Manini portò conduse a Firenze soma 1a de cristallo cum poche altre pietre come sono pietre da far Camorini[25] e simile altre pietre da intaiar. Ma li cristalli son più che i 7/8 de la soma. Infra li quali glie un pezo de berillo dun bz (brazo?) e grosso 1/5 de br. questo è neto quanto [è] possibile, e ven che si ruppe in mezo de la sua longheza, altri pezi bellis.mi e tutto il rimanente de essi son bellissimi. Questo la cognitione Informatione de quello Ridolpho ve sara date dali mulatieri de la dogana.
“Ancora R.do a v. E.tia che parli de la facenda che o cum Ser Juliano mio fratello capo de li altri fratelli Ricordandoli come se offerse de conciar le cose nostre fra noi fratelli de comune, cioè de la eredità de mio zio e quella constringa a la expeditione qual conteneva la littera che lui me mando”...
(Le parole in corsivo sono cancellate nell’originale).


Pagina 33 (Cod. Atl., fol. 132 r - Tav. CCCIII, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo).

L … ome di Dio adì 5 di lu di luglio 1507.
“Cara mia dileta madre e mie sorele e mio cognato e avisovi chome sano per la grazia per dio e chosi ispero di voi per ricordarvi quello che avete a fare di quella spada che io vi lasciaj portatela alla piaza delli Strozi a maso dele viole e la tegna a ognj modo perchè e la mimporta assaj e rachomandovi quelle veste e rachomandovi la Dianjra fatele vezi aciochè ella non dicha ch’io non mi richordi di lei. E anchora mi rachomando a piero mio chognato e ditegli che no sareno chosta a presto per tuto el mese di setembre tuti estareno ben per ognun, eppoi rivereno in qua presto e spediro la facenda di piero in modo chesso ramara chontento e...”
(Sulla stessa pagina si legge, scritta ancora da sinistra a destra, due volte la parola “Roma”.


Pagina 45 (Cod. Atl., fol. 299 r - Tav. DCCCCLXXXX1X, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo).

“Messer Nicolo mio quanto magior fratello hon. etc. Da poi chio me partì da v. Sig.ria Andai per veder il registro s’era signato il nome de mio fratello. Il libro non era lì. Io fui mandato in molti lochi avanti ch’io lo trovassi. Ultimamente andai da la Sig.ria del Datario e gli dissi ch’io pregava sua Sig.ria non havendo fatto assignar la supplica che domane la volesse far legare e farla assignare. Sua Sig.ria me rispose che lui era cosa molto difficile e che la supplicatione domandava troppo cose quale non si posson far e tanto più che il benefitio era de poca intrata e che se fusse cossa de che importasse più se assegnaria cum mancha poca difficoltà”…
(Le parti in corsivo sono cancellate nell’originale).





[1] Il sottosegretario di Stato all’Istruzione, nel giugno 1914, rispondendo alla Camera alla domanda “per sapere a qual punto sia la pubblicazione delle opere vinciane, e se non creda opportuno di sollecitare la Commissione perché dia ampio ragguaglio dei suoi lavori, prima del Centenario di Leonardo che si compie nel 1919”, rispondeva che “le vicende della Commissione incaricata di raccogliere e di pubblicare gli scritti e i disegni di Leonardo procedono in modo singolare ed avventuroso”. E dopo alcune circostanze affatto sconosciute agli studiosi vinciani e alla stessa Commissione - come quella dell’esaurimento dei fondi stanziati, in spese burocratiche, indennità alla Commissione, compensi alla segreteria, e rimunerazione ad uno studioso dell’opera leonardiana, che ebbe l’incarico di raccogliere gli scritti e compilare l’indice del Cod. Atlantico - il sottosegretario di Stato concludeva: “il Ministero, allorché la Commissione si rivolgerà a lui per avere nuovi fondi, si farà un dovere di conoscere rigorosamente dove questi fondi debbono andare, come questi fondi si vogliono spendere”.
A ragione il prof. A. Favaro, richiamando questa grave dichiarazione, osservava come non si fosse levata contro di essa la voce della Commissione, e nemmeno quella di alcuno dei suoi componenti.
[2] Verso il 1914 si cominciò a parlare di un Corpus Vincianum, che avrebbe dovuto precedere i lavori della Edizione nazionale propriamente detta, cioè la “rappresentazione ordinata e per quanto sia possibile completa di tutte le manifestazioni di quel genio spaventevolmente (?) multiforme, mostrando le fasi attraverso le quali è passato il suo pensiero, affannosamente intento alla ricerca d’una perfezione che si crucciava di non potere raggiungere”. A tutt’oggi il Corpus Vincianum, annunciato con questa circonlocuzione, non ha trovato una definizione maggiormente intelligibile.
[3] Allorquando, or sono molti anni, prima ancora di avere sperimentato la deficiente costituzione della R. Commissione Vinciana, decisi di promuovere in Milano la “Raccolta Vinciana”, il primo pensiero - dopo di avere concretato questa iniziativa col dono della biblioteca da me formata durante un ventennio di studi vinciani - fu quello di assicurarle il riconoscimento legale come istituzione di pubblico interesse, aggregata ad un organismo municipale e disciplinata da un regolamento, approvato dall’autorità cittadina. Non altrimenti deve comportarsi chi si proponga di fondare una istituzione, che voglia presentarsi ed agire come “ente di interesse pubblico”.
[4] Vedasi “Una lettera del sen. Beltrami” in Idea Nazionale, 19 maggio 1919.
[5] Il prof. A. Favaro, membro come si disse della Commissione Vinciana, scriveva recentemente: “ad ogni modo, che questa sospiratissima Edizione Nazionale Vinciana venga curata dalla Commissione, oppure dall’erigendo Istituto Vinciano, non importa affatto, purché si faccia, e bene, e al più presto”. Ora, pur convenendo nel desiderio di tale risultato finale, non si può a meno di rilevare la anormalità della situazione che si va delineando, secondo la quale, una R. Commissione, avente un ordinamento già basato sopra decreti e disposizioni ministeriali, lascierebbe compromettere il compito suo, da iniziative e responsabilità puramente individuali. E già l’equivoco si consolida, tanto che il giornale Pagine d’Arte ha dato questa notizia: “Il governo che ha creato, con i denari di alcuni generosi lombardi, addirittura un Istituto Vinciano, promette di aprire a Roma una Casa Vinciana, e annuncia una serie di monografie, che i competenti già criticano, solo a sentirne i titoli”.
Questo si stampa, mentre in realtà la R. Commissione Vinciana per l’Edizione nazionale non ha i fondi occorrenti per il suo compito, e il Governo si riserva di darli a condizione di conoscere “rigorosamente dove questi fondi debbono andare”!
[6] Il fascicolo IX della Raccolta Vinciana (15 ottobre 1918) portava le seguenti notizie, che si dovevano ritenere di fonte ufficiale:
a) Quasi compiuta la riproduzione del materiale vinciano, sparso nelle biblioteche di Windsor, Oxford, Chatsworth, Parigi, ecc.
b) Sostituita all’idea dell’Edizione Nazionale, quella di un Corpus Vincianum, limitandosi così l’opera della Commissione alla pubblicazione pura e semplice dei manoscritti, escluso il Codice Atlantico.
Lo studioso di Leonardo non poteva a meno di meravigliarsi che una Commissione, nominata da un Decreto Reale, modificasse o lasciasse modificare arbitrariamente il suo compito: si domandava altresì, per quale ragione venisse fatta una eccezione per il Cod. Atlantico, e non per altri codici già riprodotti con pari, se non con maggiore cura.
La stessa Raccolta Vinciana, annunciando il rimaneggiamento della Commissione, compiuto nel 1918, informava: “venne stabilito di comprendere nel Corpus Vincianum anche il Cod. Atlantico” (quasi che si fosse potuto ideare un Corpus, senza questo ricco materiale vinciano): aggiungeva che era stato deciso di “por mano senza indugio alla pubblicazione, incominciando da quella della serie colla quale più rapidamente ci si accosta alle cose tuttora inedite”, altra notizia non meno problematica della precedente. Infine annunciava che il nuovo Presidente della Commissione si augurava che accanto a questa sorgesse un Istituto di studi vinciani “costituito per adesso da paleografi trascrittori e da specialisti ordinatori delle materie trattate da Leonardo, e destinato in seguito ad ampliarsi e consolidarsi in un Istituto permanente”. La confusione delle idee e dei propositi non potrebbe risultare maggiore.
Lo stesso fascicolo IX della Raccolta Vinciana annunciava come un comunicato della R. Commissione del 1 settembre 1918, promettesse per la ricorrenza del IV centenario della morte di Leonardo “la pubblicazione di un primo saggio del Corpus Vincianum, con tre codici, le cui pagine sono per la massima parte inedite”. Nel fatto non si ebbe, per questa ricorrenza, neppure un programma preciso dei lavori della Commissione, ma solo l’abboracciatura di una Miscellanea, promossa dal Presidente della Commissione Vinciana, ed attuata coi mezzi e la responsabilità dell’Istituto Vinciano.
[7] Vedasi a pag. 11 delle Memorie su Leonardo da Vinci, di don Ambrogio Mazenta, ripubblicate ed illustrate da D. Luigi Gramatica, Prefetto dell’Ambrosiana - Milano, Alfieri & Lacroix, 1919.
[8] L. Paciolo, Divina proportione. - Venezia, 1509.
[9] Nella Vita di Leonardo, premessa all’edizione del Trattato della pittura. L’Amoretti ebbe a valersi delle note dell’Oltrocchi, senza avere esaminato il Cod. Atlantico, giacchè riferisce che la lettera di Leonardo al Moro è scritta da destra a sinistra.
[10] Ravaison-Mollien, Les écrits de Leonard de Vinci: in Gazette des Beaux-Arts, Paris 1881.
[11] Marchese Campori, in Atti R. Deputazione Modenese, vol. III, pag. 49.
[12] La morte di Ser Piero, padre di Leonardo, avvenuta nel luglio 1504, aveva dato luogo a contestazioni, che nel 1507 non erano ancora risolte; nel frattempo, la morte di uno zio di Leonardo aveva fornito nuovo argomento di litigio. Le ragioni di questo non risultano ben chiare, ma si può pensare che nei riguardi della eredità paterna, Leonardo mirasse a farsi riconoscere come figlio di Ser Piero, non tanto per materiale interesse, quanto per definire la sua posizione morale nella famiglia: posizione che maggiormente gli interessava di sistemare, in sèguito alla morte dello zio, per far valere, nella eredità di questi, quanto risultava essere suo diritto.
[13] In quello stesso anno 1507, il Cardinale Ippolito aveva avuto in commenda il vescovado di Modena: il che può spiegare come la lettera di Leonardo si trovi nell’Archivio di questa città.
[14] Ed. Solmi, Pagine autografe di Nicolò Machiavelli nel “Cod. Atlantico”: in Giornale storico della letteratura italiana, 1909, vol. LIV, p. 90.
[15] In Archivio di Stato di Firenze. Deliberazioni della Signoria. Vedi n. 140, in Documenti e memorie di L. da V. - Milano 1919, Treves editori.
[16] Da lettera 2 gennaio 1502, di N. Machiavelli: in Gior. stor. lett. ital, 1909.
[17] Vedasi in Arch. Stor. Lombardo, Anno XXXVII, 1910, la riproduzione in facsimile della pagina del contratto, colla firma di Leonardo.
[18] Infatti, nella prima linea di questo passo, la parola unjta venne intercalata nella frase “L’acqua [unjta] che con gran quantità...”.
[19] Cito ad esempio il passo relativo alle misure del capitello, scritto da sinistra a destra nel Cod. Atl. a fol. 325 r il quale venne dal Richter inavvertitamente riprodotto nella Tav. CIII n. 3, come se fosse scritto da destra a sinistra.
[20] Alla trascrizione data al n. 190 dei Doc. e Mem. di L. d. V., si faccia la seguente rettifica: “conciar le cose mie fra noi fratelli de … cioè de la eredità de mio patre” si legga: “conciar le cose nostre fra noi fratelli de comune, cioè de la eredità de. mio zio”.
[21] Alla trascrizione si facciano le seguenti rettifiche: “di una spada” si legga “di quella spada”; “a patro mio chognato” si legga “a piero mio chognato”: “torneremo” si legga “rivereno”; “pietra” si legga “piero”. A “tuti restareno ben...” si aggiunga “per ognun”.
A proposito di tali rettifiche, si ‘osservi come l’originale della minuta presenti molte macchie, che rendono oltremodo ardua la lettura, già per sè stessa non facile per la eccezionale corrività della calligrafia.
[22] Un altro appunto latino si trova sulla coperta del Cod. E Ist. di Francia, il quale merita un chiarimento: annota Leonardo “Tullius de Divinatione ail. Astrologiam fuisse adiuventam ante troianum bellum quingentis septuaginta milibus annorum 57000”: il Ravaisson esclude la mano di Leonardo, e il riferimento a Cicerone. Sta il fatto che nel Libro Secondo De Divinatione, Cicerone accenna all’origine dell’Astrologia presso i Caldei, la quale risalirebbe a 47000 anni; anzichè ai 57000 accennati da Leonardo. La differenza - che non diremo errore, giacchè i due numeri risultano egualmente fantastici - si può attribuire alla facilità colla quale il 4 e il 5 potevano essere scambiati, nella scrittura del tempo di Leonardo.
[23] L’epiteto di Magnifica era già dato a Cecilia Gallerani nell’atto della donazione, a lei fatta dal Moro nel 1481, del feudo di Saronno.
[24] La relazione fra Leonardo e Machiavelli, attestata dal citato contratto del maggio 1504, relativo alla composizione della Battaglia d’Anghiari, dovette certamente rafforzarsi durante il soggiorno in Firenze dal 1504 al 1506, offrendo occasione a Leonardo di rivolgersi al Segretario della Repubblica, in conseguenza delle richieste del Re di Francia, che lo voleva a Milano; è naturale il pensare che, ritornando a Firenze nel 1507 per risolvere le sue faccende domestiche, Leonardo abbia ricorso al Gonfaloniere, al quale avrebbe diretta la lettera riprodotta a pag. 31, ed a Machiavelli con quella riprodotta a pag. 45.
[25] Camorini, o chamuini, come si legge a fol. 30 v del Cod. Atl. (...punte de diamante con che s’intaglia i camuini) nel senso di cammeo, dal latino camaynum (“camaynum illud lapidis in quo sculpitus est equus unus”, in testamento 26 luglio 1496, a favore della Fabbrica del Duomo di Milano).