Potrà
recare qualche meraviglia la circostanza che, a cinquant’anni dalla iniziata
riproduzione dei manoscritti vinciani - grazie alla quale lo studioso oggi può
facilmente giovarsi di un cospicuo materiale grafico, costituito da varie
migliaia di tavole in fac-simile - la
famigliarità colla scrittura di Leonardo non sia ancora riuscita a contrastare
vieti preconcetti e recenti errori, imperniati sulla tesi di Leonardo mancino:
ancor più dobbiamo meravigliarci che, a quindici anni di distanza dalla nomina
di una Commissione per la Edizione
Nazionale degli scritti di Leonardo da Vinci, i criteri per autenticare la
scrittura vinciana siano tuttora affidati alla sommaria constatazione della
direzione anormale da destra a sinistra: cosicchè, quanto si è potuto leggere
in merito alla scrittura di Leonardo, nell’attuale ricorrenza del quarto
centenario della morte, non ha recato un contributo qualsiasi a chiarimento di
ciò che Luca Paciolo, nel 1509 - dopo di avere accennato a scritti “alla
rovescia e mancina, che non si posson leggere se non collo specchio, overo
guardando la carta dal suo rovescio contro la luce” - ebbe a riferire: “come fa
il nostro Leonardo da Vinci, lume della pittura, qual è mancino, come più volte
è detto”. E così, la “ineffabile sinistra mano” contribuì a sagrificare la
destra.
Sebbene
il tema della scrittura di Leonardo non mi abbia, per il passato, fornito
particolare occasione di studio, mi trovo tentato ad occuparmene, non solo per
l’interesse che è intrinseco a qualsiasi argomento vinciano, ma perchè la tesi
di Leonardo mancino - e quindi la pretesa inabilità della mano destra a
scrivere, quale ha potuto in questi ultimi anni concretarsi, senza suscitare
obbiezioni - ha una diretta ripercussione nel campo dell’attività artistica, e
specialmente in quello dei disegni, favorendo la svalutazione che da tempo vi
si esercita, a danno di Leonardo.
La
tesi che ci proponiamo di confutare venne, due anni or sono, riassunta in
termini molto chiari ed espliciti da Gerolamo Calvi, nei suoi Contributi alla biografia di Leonardo da
Vinci: Archivio Storico Lombardo, Anno XLIII:
“Le
incertezze e le false opinioni perdurate sino ad oggi sulla supposta
originalità, così della lettera allo Sforza, come dell’altra istanza al
cardinale Ippolito d’Este, posseduta dal R. Archivio di Stato in Modena,
dimostrano che non si è ancora ben radicata tra i leonardisti l’opinione che
dovrebbe ormai apparire la sola ragionevole, circa la scrittura leonardesca:
Leonardo essere stato mancino; da questo fatto, per un meccanismo naturale ed
istintivo, non corretto dall’ educazione o dalla volontà, esser provenuto
l’altro della grafia a specchio; la scrittura nel senso ordinario (da sinistra
a destra) essere rimasta per lui il prodotto di uno sforzo, di una reazione
volontaria all’uso spontaneo, e quindi presentarsi, nei radi esempi che ce ne
rimangono, come più o meno rudimentale, o studiata, rendendo però nelle forme
più inesperte e di più stentata corsività, ancora l’impronta dei caratteri da
destra a sinistra”.
Per
ribattere questa tesi dovremo dimostrare:
I.
Che il riconoscere le due lettere allo Sforza e al Cardinal d’Este come
autografi di Leonardo, non è falsa, nè irragionevole opinione.
II.
Che Leonardo non era mancino nel senso comune della parola, e ancor meno
rispetto alle estreme conseguenze che se ne vollero ricavare.
III.
Essere la scrittura vinciana nel senso ordinario, da sinistra a destra, non già
il prodotto di uno sforzo, e tanto meno di reazione al naturale ed istintivo
uso della mano sinistra, ma la prova di una disposizione altrettanto naturale e
spontanea di Leonardo a valersi della destra.
IV.
Che i saggi di scrittura vinciana, in direzione da sinistra a destra, sebbene
rari rispetto alla prevalenza degli scritti in direzione opposta, non
presentano affatto forme inesperte e stentate, in confronto colla scrittura
nella direzione adottata ordinariamente da Leonardo.
V.
Che Leonardo ebbe a scrivere con eguale speditezza e spontaneità nelle due
direzioni, cosicchè, nella notevole varietà grafica dei saggi in direzione da
sinistra a destra, possono prendere posto le succitate lettere, sulle quali si
fonda la tesi di Leonardo mancino, quale venne formulata dal Calvi.
Questo
complesso di asserzioni, che ci proponiamo di sostenere, in aperto contrasto
colla tesi generalmente ammessa dagli studiosi vinciani, potrebbe ingenerare
nel lettore il sospetto di trovarsi in presenza di una di quelle contestazioni,
che sono influenzate da partito preso; il che, trattandosi di una questione
calligrafica, suscettibile di gratuite divergenze di opinioni - come risulta
dai frequenti casi di stabilire, o di escludere la paternità di uno scritto, in
base a perizie giudiziarie, inevitabilmente contraddittorie, per quanto giurate
- potrebbe giustificare qualche scetticismo riguardo le conclusioni. Non sarà
quindi superfluo, per escludere tale sospetto, non solo ripetere come
nell’argomento della grafia vinciana, io non abbia, prima d’ora, avuto
particolare occasione di esprimere giudizi od opinioni, che possano vincolarmi,
ma aggiungere di avere, per il passato, accolto non dirò ciecamente, ma con
deferenza le conclusioni formulate da benemeriti studiosi, dei quali conosco ed
ho apprezzata la famigliarità coi manoscritti vinciani. Di modo che, se oggi mi
trovo a sostenere una tesi divergente da quella che io stesso ebbi tacitamente
ad ammettere per il passato, ciò deriva da una più estesa cognizione
dell’argomento, consentita da elementi di fatto rimasti fatalmente trascurati,
tali da potere rettificare uno degli aspetti della operosità di Leonardo.
Tre
documenti vinciani hanno recentemente contribuito a dar corpo alla suaccennata
tesi restrittiva, riguardo la scrittura normale di Leonardo: il più importante
di questi è la nota lettera contenuta nel Codice
Atlantico, a fol. 391 r, sprovvista
di indicazione, tanto della persona alla quale è diretta, quanto della persona
che la scrisse: la lettera però si richiama ad un figlio di Francesco Sforza,
il quale non può essere che Lodovico il Moro, mentre i dieci paragrafi
elencanti gli argomenti d’indole militare e le opere civili, di cui lo
scrittore si dichiara pronto a prendere impegno, identificano la persona in
Leonardo. Trascritta per la prima volta dall’Oltrocchi verso la fine del secolo
XVIII, pubblicata dall’Amoretti nel 1804,
quella pagina venne spontaneamente considerata autografa, e come tale
riprodotta nel 1872 in facsimile, nel Saggio
del Codice Atlantico (vedi pag. 16). A partire da questa riproduzione,
cominciarono i dubbi e le contestazioni sull’ autenticità di quella pagina: e
il Ravaisson, non solo escluse
trattarsi di un autografo di Leonardo, ma non ammise nemmeno che il testo sia
stato da questi dettato, ravvisandovi, a torto, una presunzione nel proprio
valore, non degna di Leonardo. Ad ogni modo, pur rimanendo contestata la
autenticità materiale dello scritto, si convenne nel ravvisarvi una minuta,
dallo stesso Leonardo dettata; cosicchè la questione presenterebbe ormai un
interesse secondario, se non avesse costituito il germe per il preconcetto che
ammette Leonardo inabile a servirsi della destra.
Nel
1865, quando non ancora si erano concretati i dubbi succitati riguardo la
lettera nel Cod. Atlantico - che
chiameremo per brevità Lettera Sforza
- era stata segnalata dal marchese Campori una lettera, esistente nell’Archivio
di Stato di Modena (vedi pag. 17), che Leonardo in data 18 settembre 1507,
inviò da Firenze al Cardinale Ippolito d’Este, a Ferrara.
Munita del sigillo che comprova l’effettuato invio, la lettera tratta di una
questione che in quei giorni preoccupava effettivamente Leonardo, vale a dire
il litigio coi fratelli carnali, riguardo alle eredità del padre e di uno zio. A
quel modo che, al momento di trasferirsi da Milano a Firenze per perorare la
sua causa, Leonardo si munì di una lettera del Governatore di Milano, Carlo d’Amboise,
colla quale veniva raccomandato alla Signoria di Firenze di prestare al pittore
“omne adjuto et favore justo”, così egli si era rivolto, appena giunto a
Firenze nel settembre 1507, al Cardinale Ippolito, affinchè avesse a sua volta
a sollecitare il magistrato incaricato di risolvere il litigio. Il fatto del
rivolgersi di Leonardo al Cardinale, si spiega quando si ricordi come questi,
fratello di Beatrice d’Este, avesse occupato la cattedra arcivescovile di
Milano durante gli ultimi anni del dominio di Lodovico il Moro, il
che implica una relazione personale, che qualche anno dopo potè incoraggiare
Leonardo a scrivere quella lettera.
A
sua volta, questo documento - che chiameremo per brevità Lettera d’Este - non tardò, dopo la riproduzione in fac-simile, a sollevare dubbi che
portarono alla esclusione sua come autografo di Leonardo, in base ad obbiezioni
che ci riserviamo di ribattere.
Il
terzo dei documenti che, contribuendo a questa esclusione della Lettera d’Este, venne a ribadire la tesi
di Leonardo incapace a scrivere correntemente colla destra, è quello contenuto
nel Cod. Atl. a fol. 71 r. v.,
segnalato dal compianto Solmi, or sono dieci anni come
autografo di Machiavelli. Si tratta della descrizione della battaglia di
Anghiari, svoltasi il 29 giugno 1440 fra le truppe del Duca di Milano,
comandate dal Piccinino, e le schiere fiorentine. La tesi del Solmi, resa
attendibile da varie circostanze di fatto che vi collimano, venne accettata
senza contrasto, sebbene lo stesso Solmi ammettesse di non potere addurre “un
sicuro ricordo di rapporti fra i due grandi fiorentini”. In realtà, non manca
una testimonianza positiva di tale relazione personale, poichè l’atto notarile
del contratto passato fra Leonardo e la Repubblica Fiorentina, per il dipinto
della battaglia, in data 3 maggio 1504, registra la presenza, come testimonio,
di Nicolao dom. Bernardi de Machiavellis,
cancellario dictorum ‘Dominorum.
A
non dubbie analogie fra gli appunti della battaglia, nel Cod. Atl. e la narrazione della medesima, stesa più tardi dal
Machiavelli nelle Istorie Fiorentine,
il Solmi volle aggiungere la prova di un raffronto calligrafico con un
autografo di questi: di modo
che, or sono dieci anni, si presentava per i menzionati documenti questa
condizione di fatto: le due lettere, al Moro e ad Ippolito d’Este, escluse come
autografi di Leonardo: il fol. 71 del Cod.
Atl. riconosciuto come autografo del Segretario della Repubblica
Fiorentina.
Anche
la tesi del Solmi non tardò ad essere contestata, in base a successivi
raffronti calligrafici con altri scritti del Machiavelli, più vicini alla data
della commissione del dipinto a Leonardo, fra il 1503 e il 1504: cosicchè, nell’
attuale ricorrenza centenaria vinciana, i tre documenti avevano la sorte comune
di essere giudicati come scritture di ignota mano.
Riassunto
quanto può considerarsi come antefatto della tesi che intendiamo di affrontare,
passeremo alla rassegna delle argomentazioni che hanno contribuito
all’anzidetto risultato negativo.
La
precipua ragione per cui la descrizione della battaglia d’Anghiari - che per
brevità chiameremo mss. Anghiari -
venne contestata a Machiavelli, sta nell’avervi riconosciute alcune analogie
calligrafiche colla lettera al Cardinale d’Este: tale correlazione si volle
senz’altro ritenere quale prova decisiva per escludere a sua volta la Lettera d’Este, come autografo di
Leonardo. Di fronte a questa affrettata conclusione, osserveremo come una
lettera recante in calce il nome: S.tor
humil. Leonardus Vincius pictor, indirizzata Ill.mo ac. R.mo d.no meo unico ‘D.
hip. Car.li Estensi D. meo col.mo Ferrarie, e munita
del sigillo d’invio, non si possa escludere quale autografa senza tenere conto,
in pari tempo, delle obbiezioni che la esclusione stessa può sollevare: poichè,
se il testo non lascia, come si disse, incertezza di autenticità -
corrispondendo a vicende familiari di Leonardo all’epoca della lettera,
riconfermate da documenti che, rimasti in parte sconosciuti, ebbi a segnalare
di recente nel volume Documenti e Memorie
riguardanti la vita e le opere di L. da V. - non è ammissibile che
Leonardo, rivolgendosi al suo protettore, “per
non mancare a me medesimo in una cosa che io stimo assai” come egli stesso
dichiara, non abbia giudicato doveroso di aggiungere alla lettera - qualora
avesse realmente fatto ricorso ad altri per assicurare a questa una scrittura
regolare - la garanzia e il prestigio almeno della firma autografa. Dato, e non
concesso, ch’egli stentasse a scrivere colla destra, si dovrà spingere
l’effetto di questa accampata e congenita inabilità, sino al punto da ritenerlo
incapace di apporre la firma scritta in senso normale, come ebbe a fare per il
contratto del 1483, relativo alla Vergine
delle Roccie?.
A
questa conclusione non si dovrebbe arrivare, prima di avere fornito qualche
prova per la tesi accampata “essere la scrittura in senso ordinario rimasta in
Leonardo il prodotto di uno sforzo”: la quale prova si cercherebbe invano,
poichè, pur rimanendo nel campo del Cod.
Atlantico, del quale fanno parte due dei documenti succitati - e
comprendente senza alcun limite di tempo o di argomento, scritti di Leonardo, a
partire dal periodo verrocchiesco, venendo sino a poche settimane prima della
morte - noi possiamo, dopo di avere eliminati, non solo gli scritti che
certamente non sono di Leonardo, ma anche a quelli per i quali può sussistere
qualche dubbio, elencare circa ottanta esempi di scrittura da sinistra a
destra, sicuramente di Leonardo: pochi, per verità, rispetto ai quattrocento
fogli recto e verso costituenti il Cod.
Atlantico, ma non eccezionali, nè privi d’importanza, oltre che per il
numero, per la loro varietà calligrafica. Abbiamo infatti più di quaranta saggi
di scrittura che si riferiscono ad argomenti di geometria, meccanica, ecc.,
limitati in qualche foglio a poche righe frammiste ad altri scritti da destra a
sinistra (vedi a pag. 23, 24, 25 e 27), in altri comprendenti l’intera pagina;
il rimanente di questi saggi di scrittura normale, è costituito da
registrazioni di spese giornaliere personali, da appunti e da esercitazioni in
latino, poesie, e persino saggi calligrafici in greco e in francese (vedi pag.
37, 39 e 40); infine abbiamo delle minute di lettere di Leonardo, di argomento
familiare, rimaste sinora trascurate (vedi pag. 31, 33 e 45). In tutti questi
esempi, mentre possiamo facilmente rilevare la grande varietà nella scrittura
da sinistra a destra, non troviamo alcuna traccia di stento: anzi, riportandoci
a qualcuno dei saggi riprodotti, si dovrebbe concludere che Leonardo abbia dato
prova di sufficiente regolarità nella scrittura normale, certo non minore di
quella in senso inverso: mentre nel caso di appunti affrettati - come sono le
annotazioni di spese giornaliere, o le minute di lettere familiari - la stessa
negligenza nella scrittura è prova della rapidità colla quale la destra seppe
stenderle. Non mancino, adunque, dobbiamo ritenere Leonardo, ma ambidestro.
A
questo punto, il lettore potrebbe trovarsi ancora riluttante ad ammettere che i
saggi segnalati siano di mano di Leonardo; per il che non sarà superfluo
ripetere come gli esempi siano rigorosamente scelti fra quelli senza dubbio di
mano di Leonardo: infatti si tratta, come si disse, di saggi ricavati da fogli
nei quali lo scritto con la destra è intimamente frammisto ad altri scritti
colla sinistra, formando un sèguito naturale delle dimostrazioni geometriche,
coi relativi riferimenti alle figure disegnate da Leonardo: in uno di questi
esempi si presenta la singolarità dell’avere Leonardo, in un passo scritto
colla mano destra, intercalato una parola scritta colla sinistra. E
nemmeno si può pensare che le frasi in direzione da sinistra a destra siano
state aggiunte da un’altra mano - come si verifica specialmente per il Cod. B, nel quale uno studioso spagnolo
ebbe ad inserire qua e là la traduzione di qualcuna delle frasi vinciane
scritte a rovescio - poichè la mescolanza degli scritti nelle due direzioni,
nel medesimo foglio, e trattanti lo stesso argomento, si verifica, tanto in
passi che risalgono al periodo giovanile, quanto in passi appartenenti agli
ultimi anni del soggiorno in Francia. Di modo che, senza dover ricorrere agli
altri esempi di scrittura normale - note di spese domestiche, minute di lettere,
esercitazioni varie calligrafiche, ecc. - abbiamo le prove sufficienti per
concludere che la destra di Leonardo scrivesse colla stessa facilità della
sinistra, non lasciando traccie di stento, che si debbano spiegare come
reazione all’uso spontaneo della mano sinistra; tanto che qualche saggio di
questa scrittura da sinistra a destra, ha potuto inavvertitamente essere
riprodotto in fac-simile a rovescio,
per una svista ben giustificabile, data la singolare rassomiglianza conservata
dalla scrittura, malgrado le opposte direzioni.
Accertato
come Leonardo scrivesse facilmente nelle due direzioni - di modo che la ragione
della preferenza sua a valersi della mano sinistra si dovrà ricercare in altre
circostanze di fatto, che non siano la difficoltà dell’uso della destra, e lo
sforzo per vincere e correggere una disposizione naturale per l’uso della
sinistra - potremo esaminare e ribattere gli argomenti d’ordine meno generale,
sui quali si è basata la esclusione delle lettere al Moro e al Cardinal d’Este,
come autografe.
Il
Calvi, di cui abbiamo riportato il giudizio riassuntivo riguardo la grafia
normale di Leonardo, passando a trattare della lettera d’Este vi riconobbe “un’abile penna cancelleresca, una
disinvoltura che manca a Leonardo tutte le volte ch’egli deve scrivere lettere
d’importanza, così che lo vediamo cominciare e ricominciare faticosamente la
sua minuta”. Questa asserzione, non solo mira a ribadire il gratuito concetto
di uno stento nell’ uso della destra, che non sussiste, ma vorrebbe additarne
la prova in minute di lettere d’importanza, ricominciate più volte
faticosamente, mentre se realmente questo caso si è verificato, non è già per
la scrittura normale, di cui ci occupiamo, bensì per il caso della scrittura da
destra a sinistra; di modo che l’argomento addotto riesce di pregiudizio,
piuttosto che a sostegno della tesi contestata. Infatti, nei saggi di scrittura
normale che si conoscono - compresi quelli che intendiamo di rivendicare a
Leonardo - non troviamo un esempio qualsiasi di lettere d’importanza, e nemmeno
di lettere famigliari, le quali siano state cominciate e ricominciate
faticosamente dal punto di vista grafico: mentre l’esempio di questi
ricominciamenti si trova in minute di lettere scritte da destra a sinistra,
vale a dire colla disposizione che si vorrebbe considerare come la sola
spontanea in Leonardo. E nemmeno si può dire siano queste minute ricominciate
da un punto di vista calligrafico, bensì per modificare o perfezionare la
frase: tali sono gli abbozzi di lettere al Magnifico Giuliano, al D’Amboise,
allo stesso Melzi. Si aggiunga che, se negli esempi di scrittura normale
possiamo rilevare alcune ripetizioni, queste sono limitate a poche parole, e
tali da indurre, non solo ad escludere lo stento della destra a scrivere, ma a
riconoscere in questa mano un particolare vezzo a compiere delle esercitazioni
calligrafiche, come risulta dagli esempi di alcuni nomi di persona e frammenti
di frase, che si direbbero ripetuti soltanto per sfoggiare qualche scolastico
svolazzo di penna.
Perciò,
gli argomenti addotti all’intento di sottrarre la lettera d’Este a Leonardo, non hanno valore; la regolarità dello
scritto non essendo una ragione attendibile, allo stesso modo che non lo sono,
nè la asserita eccezionalità, nè il preteso stento degli scritti in direzione
normale. Non è quindi nè irragionevole, nè falsa, e nemmeno incerta la opinione
che -, pur ammettendo la preferenza di Leonardo a valersi della sinistra per
scrivere e disegnare - riconosce come della destra egli abbia fatto un uso non
meno regolare e spedito, per quanto meno frequente.
La
eliminazione della lettera d’Este
come autografo di Leonardo si è basata, come si disse, oltre che sui citati
argomenti d’indole generale, sopra un gruppo di analogie grafiche fra la
lettera stessa e il manoscritto Anghiari,
tanto che il Calvi concluse:
“Questi
due documenti sono della stessa mano. La prova della identità della scrittura
si raggiunge agevolmente e pienamente: tutte le lettere (ad eccezione di
qualche majuscola che non si trova rappresentata in entrambi i documenti, e per
la quale il confronto non è possibile) si ritrovano colla stessa forma e col
medesimo ductus in tutti e due i
casi; le loro legature “si corrispondono”.
Dopo
di che, il Calvi passa a specificare alcune analogie: trova identico il nesso et; segnala specialmente l’e della legatura te finale “tratteggiata corsivamente al modo nel quale lo scrittore
eseguisce la x, senza il distacco
della penna”: trova identiche le abbreviature che, per: identica
l’abbreviatura di eccetera: identici
certi apici che separano di quando in quando le parole. Con ciò si entra nel
campo dei raffronti calligrafici, dei quali siamo ben lontani dal valere
contestare la efficacia, ma che richiamano fatalmente i casi delle perizie
giudiziarie, sistematicamente contraddittorie nel compito di riscontrare se due
scritti siano, o no, della stessa mano.
Non
avendo, ad ogni modo, il proposito di svalutare quelle analogie - giacchè la
comune derivazione dei mss. Anghiari
e d’Este collima colla tesi nostra,
che li considera entrambi come autografi di Leonardo - le accoglieremo
senz’altro, salvo a ritrarne più innanzi qualche maggiore deduzione.
Ciò
che può maggiormente interessare, è piuttosto il raffronto di quei due scritti,
col gruppo degli altri vinciani, pure tracciati da sinistra a destra, e
specialmente con alcuni brani di lettere sinora trascurate, od anche non
trascritte, che si trovano nel Cod.
Atlantico.
Qualche
lettore potrebbe a questo punto meravigliarsi vi siano lettere di Leonardo, contenute
nel Cod. Atl., che abbiano potuto
giungere sino alla ricorrenza del quarto centenario della sua morte, senza
essere state trascritte; tale meraviglia non è fuori di proposito, poichè il
pregiudizio di considerare come una eccezione per Leonardo, l’uso della destra
per scrivere, e il conseguente preconcetto di uno stento nella scrittura
normale, hanno condotto fatalmente ad eliminare in blocco, come non di
Leonardo, numerosi scritti contenuti nel Cod.
Atl. E non si tratta solo di passi d’indole scientifica intimamente
collegati cogli argomenti svolti nelle stesse pagine, con riferimento a figure
geometriche e disegni indubbiamente di Leonardo, essendovi anche delle minute
di lettere accennanti ad argomenti ed a persone dell’ambiente famigliare di Leonardo.
Il trascrittore del Cod. Atl.,
influenzato da tale preconcetto, non ebbe ad adottare una linea di condotta
decisa, coerente, quale logicamente, e in ogni caso praticamente sarebbe stata
quella di trascrivere tutto, senza alcuna eccezione, rimettendo impregiudicata
al lettore la questione dell’autenticità, o meno, di quanto si trova nel
Codice; invece, si ebbe il risultato che, del complesso degli scritti da
sinistra a destra nel Cod. Atl.,
parte si trova trascritta e tacitamente ammessa come di mano di Leonardo: parte
venne trascritta ed accompagnata dalla avvertenza, non essere di Leonardo;
infine, di una parte che non è la minore per numero ed interesse intrinseco,
non è fatta alcuna menzione nel testo della edizione. Mancando la indicazione
dei criteri che possono avere guidato il trascrittore in questo diverso
trattamento applicato agli scritti da sinistra a destra, lo studioso si trova
in balìa delle incertezze e delle lacune derivanti da apprezzamenti personali,
ch’egli non è in grado di valutare.
Le
conseguenze di tale condizione anormale, sebbene non siano per sè stesse
irrimediabili - poichè lo studioso, disponendo della riproduzione in fac-simile di tutto il Cod. Atl. si trova in condizione di
potere integrare, per conto suo, le lacune della trascrizione - risultano
gravi, non solo per le deduzioni che molti studiosi hanno potuto ritrarne, a
sostegno del preconcetto della scarsità dei saggi di scrittura vinciana da
sinistra a destra, e del conseguente stento che si volle riconoscere nella mano
destra di Leonardo, ma per il fatto altresì che scritti d’interesse
scientifico, e note personali di Leonardo vennero sottratte all’attenzione
degli studiosi, e più facilmente poterono sfuggire dopo la pubblicazione del Cod. Atl.: tanto che, la segnalazione di
queste omissioni riuscirà interessante per sè stessa ed opportuna, non soltanto
come sostegno della nostra tesi che riconosce le lettere Sforza ed Este, e
il manoscritto Anghiari, come
autografi vinciani.
Comincieremo
dal segnalare, in questo negletto materiale vinciano, la minuta di lettera che
si trova a fol. 342 v. del Cod. Atl. (vedi pag. 31). Il Richter, al
n. 1564, ne trascrisse solo le prime tre linee, ed è strano che abbia
completamente omesso la seconda parte della lettera, trascritta invece
dall’Amoretti, che a sua volta tralasciò la prima parte. Questa minuta di
lettera risulta indubbiamente scritta da Leonardo, non solo per la circostanza
di fatto delle ultime sei linee, nella stessa pagina, stese da destra a
sinistra e di argomento scientifico, ma per il contenuto suo: Leonardo scrive -
sembra al Gonfaloniere - ricordandogli “come se offerse de conciar le cose
nostre fra noi fratelli de comune, cioè de la eredità de mio zio, e quella
constringa la expeditione qual conteneva la littera che lui me mando”.
Ci
troviamo nello stesso argomento della lettera
d’Este, vale a dire il litigio di Leonardo coi fratelli per questioni di
eredità, cosicchè la minuta a fol. 342 v.
e la lettera d’Este si possono
ritenere scritte a pochi giorni di distanza, fra l’agosto e il settembre 1507.
Certo, dal raffronto materiale dei due documenti non scaturisce immediata la
impressione di una stessa mano, l’uno essendo un abbozzo affrettato ed
incompleto di lettera, l’altro una missiva effettivamente inviata ad un
personaggio di riguardo, per sollecitarne la protezione: però, a meglio
giustificare la diversità della grafia, può contribuire l’altra minuta di
lettera (vedi pag. 33) di pochi giorni anteriore, essendo in data 5 agosto
1507, diretta alla madre, sorelle e cognato di Leonardo; lettera dal Richter
riportata solo in parte (n. 1559), data la difficoltà di interpretare lo
scritto, che giunsi a trascrivere quasi integralmente nel volume Documenti e memorie di Leonardo da Vinci,
al n. 190. In questa lettera,
Leonardo, dopo di avere dato qualche commissione, accenna al suo proposito di
“spedire la facenda di piero (era suo cognato) in modo ch’esso rimarrà
contento”. La minuta di questa lettera alla madre è ancora più affrettata
dell’altra, già citata: poichè non si può mettere in dubbio sia scritta da
Leonardo - sul medesimo foglio trovandosi altri scritti da destra a sinistra, e
disegni di sua mano - così possiamo già costituire un gruppo di tre lettere
accennanti all’argomento della eredità, scritte fra il 5 agosto ed il 18
settembre 1507; due delle quali sono indubbiamente di Leonardo per la stessa
loro forma di minute, che non possono essere state dettate, mentre la terza si
trova contestata soltanto come autografo, in base alla gratuita ragione della
scrittura troppo regolare “cancelleresca”.
A
questo punto, prima di procedere nei raffronti puramente calligrafici per
stabilire delle analogie tenendo conto del diverso grado di diligenza e di
regolarità dei tre scritti, si presenta opportuno l’esame della Lettera Sforza e del manoscritto Anghiari, allo scopo di metterli in
relazione col gruppo di quei tre scritti.
Ad
escludere la lettera Sforza come autografo vinciano, ha contribuito senz’altro
l’argomento che la scrittura, presentandosi regolare, non può essere attribuita
alla mano che avrebbe costantemente tradito lo stento a scrivere in direzione
normale. E solo in base a questo preconcetto della inabilità nella mano destra
di Leonardo, che la lettera Sforza si
trovò accomunata alla lettera d’Este
nella sorte di essere contestata come autografo, senza che siasi tenuto conto
di alcune circostanze, troppo essenziali per un giudizio ponderato.
Sta
il fatto che la regolarità della lettera
d’Este, definita come “prodotto di un’abile penna cancelleresca” si ritrova
nella lettera Sforza, altro esempio
di scrittura regolare, accurata, quale si conviene ad una lettera, a sua volta
indirizzata a persona di riguardo, per sollecitarne la protezione: ma ciò che
troppo leggermente venne trascurato da chi volle approfittare di tale
regolarità per escludere sia autografa, è la circostanza - che pure è così
evidente - dell’essere la scrittura accurata e regolare soltanto nelle prime
linee, dopo le quali si altera gradatamente, rendendosi più minuta, fitta e
trascurata. Basta gettare uno sguardo sul raffronto fra le prime due linee, e
le linee 25 e 26 (vedi pag. 16) per abbandonare l’idea che chi ebbe a
scriverla, sia giunto sino alla fine, conservando la persuasione di poterla
inviare a destino.
La
ragione della diminuita regolarità si può riconoscere in circostanze di fatto,
a loro volta comodamente trascurate dagli oppositori a Leonardo: poichè le
cancellature che, a partire dalla sesta linea, si notano nel foglio 391 r. portano a pensare che, accintosi a
scrivere da sinistra a destra, con tutto l’impegno richiesto dalla importanza
dell’ argomento e della persona alla quale si rivolgeva, e trovatosi a dover
fare qualche cancellatura, Leonardo abbia sentito ben presto sminuita la
persuasione che lo scritto fosse presentabile, e lo abbia quindi continuato con
decrescente sostenutezza di calligrafia, man mano che, col succedersi delle
correzioni e cancellature, svaniva quella persuasione; e così lo scritto
assunse una forma sempre più corrente e l’aspetto trascurato, quale si
constata, raffrontando le prime alle ultime linee. A questa interpretazione
delle circostanze nelle quali si svolse lo scritto, concorre la irregolarità
della numerazione nei paragrafi, fra il primo “Ho modo....” e il decimo “In tempo
di pace...”: poichè l’ordine della numerazione 2 3 4 9 5 6 7 8, accenna ad
uno spostamento da attuare nella copia definitiva, per meglio raggrupparvi gli
argomenti di offesa militare.
Ciò
premesso, risulta evidente come non si possa affatto considerare la lettera Sforza, nè come un saggio di
calligrafia uniformemente regolare, quale è la lettera d’Este, nè come testo dettato da Leonardo e destinato ad
essere in quella forma spedito; d’altra parte, le stesse cancellature e
correzioni escludono che quella pagina del Cod.
Atl. sia la copia materiale di un originale smarrito, ricavata dal Melzi
oppure dal Mazenta, come il Richter ebbe ad accennare.
A
questo punto, converrà segnalare un altro argomento, o per meglio dire una
riflessione formulata da chi nega l’autenticità della lettera Sforza. La constatazione di analogie calligrafiche fra la lettera d’Este e il manoscritto Anghiari - per cui si immaginò
l’intervento di una persona incognita, la quale avrebbe due volte aiutato
Leonardo a tirarsi dall’ impaccio di scrivere colla destra - venne estesa alla lettera Sforza, schiudendo in tal modo
l’adito all’ipotesi che anche questa possa derivare dalla medesima mano:
ipotesi appena adombrata, non senza avvertire il peso della obbiezione
provocata da questo più esteso intervento; il quale, se ancora sembra
ammissibile trattandosi di due scritti, uno del 1504, e l’altro del 1507,
diventa eccessivamente ipotetico per l’intervallo di venticinque anni, quale
corre fra la lettera Sforza e la lettera d’Este. Immaginare una persona
che abbia trascritto in bella copia queste due lettere, per conto di Leonardo,
equivale ad ammettere che questi si potesse pagare il lusso di un segretario
permanente, per il caso di dover scrivere qualche lettera di riguardo. E
allora, quale conclusione più logica si dovrà ricavare da quelle correlazioni
calligrafiche? La conclusione è abbastanza semplice ed immediata; se di tre
scritti, dei quali si ammette possibile la derivazione da una medesima mano,
non è dubbio il comune rapporto con Leonardo - il primo per il contenuto stesso
della lettera, il secondo per il diretto riferimento suo ad un dipinto commesso
a Leonardo, il terzo per il testo e la firma - con quale fondamento si vorrà
escludere siano di Leonardo, quando risulti dimostrato che della mano destra
egli si serviva senza alcun sforzo, e dando prova di tale varietà nella
calligrafia, da comprendere anche i tre saggi a lui contesi ?
E
qui si presenta il momento opportuno per esaurire la dimostrazione della
singolare varietà della scrittura vinciana colla destra. Nella pagina 36
abbiamo compendiati vari saggi di scrittura, da sinistra a destra, del periodo
giovanile di Leonardo: sono nomi di persone dell’ambiente fiorentino e frasi
staccate, che ci ricordano la grafia normale da sinistra a destra, quale
Leonardo dovette apprendere a scuola - colle caratteristiche della scrittura
comune nella seconda metà del secolo XV - non senza qualche svolazzo di penna,
che ricorda ancora l’esercitazione scolastica.
Raffrontando
questi saggi giovanili da sinistra a destra, coi due saggi da destra a
sinistra, datati 1473 e 1478, nei due disegni agli Uffizi di Firenze, si può
dedurre - il che risponde ad una condizione normale di fatto - come soltanto
dopo di avere appreso a scrivere colla destra, Leonardo abbia ricorso alla
sinistra; poichè nello scritto colla data 1473 - il più remoto che di lui si
conosca, in direzione da destra a sinistra - non si ravvisa una decisa
corsività di scrittura, e la stessa abbondanza degli svolazzi tradisce
l’impaccio di un tentativo, quale non si riscontra negli scritti in direzione opposta.
Passando poi ai saggi di epoca posteriore, quelli del periodo milanese - nei
quali la scrittura da destra a sinistra si presenta concretata in un tipo
abbastanza costante, formatosi coll’esercizio - vediamo come la destra abbia
saputo conservare, pur trovandosi raramente adoperata, maggiore e più libera
varietà di estrinsecazione; il che si spiega, giacchè della destra Leonardo
ebbe a valersi ogni qualvolta si verificava una minore opportunità di ricorrere
alla direzione da lui adottata abitualmente, da sinistra a destra: come ad
esempio, in tutti i casi di trascrivere frasi in latino - si tratti di
citazioni classiche in prosa o poesia, di esercitazioni grammaticali, ecc. -
pei quali si valse esclusivamente della destra, come risulta dai vari saggi
radunati nella pag. 37. Lo
stesso si può dire per il greco, di cui il Cod.
Atl. offre l’esempio di frasi, che Leonardo non poteva certo trascrivere a
rovescio (pag. 39).
Non
manca nemmeno un saggio di calligrafia francese, che si presta ad una
osservazione non priva di interesse.
A
fol. 174 v del Cod. Atl. in mezzo a figure geometriche e scritti da destra a
sinistra, si trova il brano in francese riprodotto a pag. 40.
Il
Richter lo trascrisse solo in parte (n. 1561) accompagnandovi l’opinione del
Ravaisson, che lo collegava ad una probabile gita di Leonardo in Francia, verso
il 1509, considerando la parola Amboise come firma di Carlo d’Amboise, allora
governatore di Milano; tale opinione trovò facile credito, malgrado i dati di
fatto che concorrono ad escluderla. Quel passo - che io procurai di trascrivere
con minori lacune del Richter (vedi Mem.
e docum. di L. d. V. n.° 241 ) - accenna ad un pagamento fatto, o da fare,
a Lyonard flerentin paintre du Roy,
mentre la circostanza che la parola Amboise, ritenuta come firma, vi è ripetuta
quattro volte, induce a ricercare se realmente si riferisca al nome del
Governatore, anzichè alla località di Amboise, come risulta più logico di
pensare, sia perchè il Governatore, nelle quattro lettere che di lui
conosciamo, dall’agosto del 1506, all’agosto 1507, relative a Leonardo, si
firma sempre d’Amboyze, sia perchè Amboyse, considerato come nome di
località, trova la spiegazione nel soggiorno di Leonardo in Francia, a Cloux,
presso Amboise, dove egli ebbe effettivamente a riscuotere la pensione come
pittore del Re, dalla fine del 1517, al 1519. Ma, rettificata la
interpretazione di questa parola, non risulta ancora spiegato il trovarsi la
medesima ripetuta quattro volte, in due linee, precedute dalla lettera A.
Ad
ajutarci nel trovare una spiegazione, concorre la circostanza che, poco più
avanti, nello stesso Cod. Atl. e
precisamente a fol. 177 r, troviamo
un altro saggio di calligrafia francese, pure riprodotto alla pag. 40.
Mons.r Je me racomande a votre bone grace...
La
scrittura, come risulta dal riavvicinamento di quei due saggi, è identica nelle
caratteristiche della calligrafia francese di quell’epoca, specialmente nelle
iniziali e nelle abbreviazioni, mentre la frase accennante ad una delle solite
espressioni usate come chiusa di una lettera, pur non avendo un nesso col primo
brano riportato, ci può aiutare nel trovare la spiegazione, mediante una
ipotesi attendibile. Infatti, niente di più naturale che, durante il soggiorno
in Francia, Leonardo abbia avuto occasione, o necessità di rivolgersi, se non
al Re in persona, a qualche personaggio della Corte, il che dovette metterlo
nella condizione di esercitarsi nello scrivere in francese, sia ricopiando, in
mezzo ai suoi fogli di geometria, il modulo relativo ad un pagamento di
pensione fattogli in Amboise, come si vede a fol. 174 v, sia esercitandosi in qualche frase epistolare, come quella a
fol. 177 r. Data questa ipotesi, si
spiega il trovarsi la parola Amboyse,
ripetuta quattro volte, in forma di esercitazione calligrafica di Leonardo, per
addestrarsi a scrivere in francese: come si spiega l’addestrarsi a scrivere la
frase di chiusa: “Je me racomande a votre bonne grace” la quale risponde alla
formula, già da lui adottata nella lettera
Sforza “a la quale umilmente me racomando” e nella lettera d’Este “a la quale iterum mi racomando”.
Ad
ogni modo, non è a questi due saggi di scrittura francese che dovremo
ricorrere, per stabilire ciò che già risulta abbondantemente accertato dagli
altri saggi di scrittura normale di Leonardo, in opposizione della tesi che
questi fosse mancino.
Ed
ora sembra giunto il momento propizio per ricapitolare le osservazioni e
constatazioni fatte, nelle seguenti conclusioni:
a) Il Cod. Atl. presenta una ottantina di
saggi di scrittura in senso normale, da ritenersi autografi, sia per l’intima
loro correlazione col testo che Leonardo tracciò in senso inverso nelle stesse
pagine, assieme alle figure dimostrative del testo medesimo: sia per
riferimenti a persone ed a casi dell’ambiente vinciano; sia per la loro natura
di appunti personali, sempre frammisti ad altri appunti, scritti da destra a
sinistra.
b) Dal complesso di
questi saggi risulta una notevole varietà nelle caratteristiche calligrafiche,
dalla scrittura minutissima regolare (vedi pag. 36) alla scrittura più sciolta
e larga (vedi pag. 24 e 25): di modo che non è possibile di stabilire
caratteristiche, o tassative particolarità, per identificare la mano di
Leonardo.
c) Rimane
definitivamente escluso da questi saggi, non solo la loro eccezionalità, ma
l’asserito stento materiale della destra a scrivere, mentre si può rilevare
come questa mano abbia dato prova di sapere scrivere, secondo le occorrenze,
sia colla massima rapidità, sia con grande diligenza: a proposito della quale
diligenza, merita di essere segnalato l’esempio di scrittura da sinistra a
destra, che si trova sul margine del fol. 297 v (vedi pag. 43), non rilevato dagli studiosi vinciani, e per la
prima volta trascritto nel citato volume Documenti
e Memorie, edito per il IV centenario della morte di Leonardo.
L’appunto
è il seguente, scritto con accuratezza:
M.ca d.
Cecilia - Amantissima mia Diva. Lecta la tua suaviss.
Fatalmente
il foglio è stato ritagliato sotto a questa linea, la quale si presenta, ad
ogni modo, come il principio di una lettera, da Leonardo indirizzata alla bella
Cecilia Gallerani, della quale egli ebbe a fare il ritratto “in età imperfecta”
nei primi tempi del suo soggiorno alla Corte di Lodo vico il Moro: il breve
frammento comprova l’ammirazione del giovane artista per la gentile giovinetta,
e la famigliarità colla quale si accingeva a rispondere ad una di lei
richiesta. Ma, se manca il sèguito della lettera, abbiamo nell’altra metà dello
stesso foglio, originariamente piegato in due, cinque linee di una calligrafia
ancora regolare, concordante colla scrittura di quell’inizio di lettera: di
modo che, sopra questo duplice rapporto materiale fra i due scritti, possiamo
basare una correlazione nel testo: le cinque linee, accennanti alla difficoltà
in chi scrive, di narrare la nobiltà di Roma e della Campania, può indurre a
pensare che Leonardo siasi trovato a dovere soddisfare ad una domanda della
bella giovinetta, ansiosa di avere da lui notizie di Roma e di un paese “tanto
fertile e dilettevole di sua natura”.
Un
altro riferimento alla bella Cecilia, possiamo intravvedere a fol. 373 r Cod. Atl.: nel quale, sotto la parola amatiss... scritta da sinistra a destra,
si legge la frase, riprodotta a pag. 37: “amor
omnia vincit et nos cedamus amori”.
Volendo
esaurire l’argomento, rimangono da esaminare le già accennate analogie,
riscontrate fra i tre documenti Sforza,
Anghiari, d’Este: le quali, come hanno servito per intravvedervi una medesima
mano, dovrebbero concorrere in pari tempo a stabilire il nesso cogli altri
saggi di scrittura normale che abbiamo segnalato, per raggiungere in tal modo
la prova definitiva della comune autenticità come autografi di Leonardo.
Per
riscontrare queste analogie, basterà limitarci agli esempi più affini ai
medesimi scritti, vale a dire agli abbozzi di lettere, tralasciando i saggi di
dimostrazioni geometriche, o meccaniche, e specialmente i passi in latino o
francese, scritti in condizioni non identiche rispetto a quei tre documenti; ci
baseremo specialmente sulla citata lettera a fol. 342 v, e rinunciando per questo caso alla lettera 132 r - per la eccezionale sua irregolarità
di scrittura, dipendente dall’essere l’affrettato abbozzo di una lettera familiare
- vi sostituiremo un altro frammento epistolare, a fol. 299 r, completamente inedito come
trascrizione (vedi pag. 45).
Si
tratta della minuta di lettera indirizzata a “Messer Nicolò mio quanto magior fratello hon.o” al quale
Leonardo scrive come, dopo di avere con lui conferito, abbia lungamente
ricercato il registro, sul quale doveva essere annotato il nome del fratello,
in relazione ad una supplica presentata al Datario, che a Leonardo premeva
fosse presa in considerazione. Possiamo quindi intravvedere l’argomento della
lettera nel più volte citato litigio coi fratelli, e pensare altresì che la
persona, alla quale Leonardo si rivolgeva affinchè agisse sul Datario, fosse lo
stesso Machiavelli.
Ora,
chi voglia raffrontare questo esempio di scrittura da sinistra a destra,
tracciato diligentemente nelle sue prime cinque linee, poscia meno
regolarmente, essendo intervenute modificazioni e correzioni, non può a meno di
constatare delle affinità col manoscritto Anghiari,
e di riflesso colle lettere Sforza e d’Este: affinità che si possono
approfondire col raffronto di particolari calligrafici, sull’esempio dato dal
Calvi per questi tre documenti.
Fra
le analogie preferibilmente segnalate dal Calvi fra la lettera d’Este e il mss.
Anghiari, vi è quella della “lettera e, nella legatura te finale, tratteggiata corsivamente al modo nel quale lo scrittore
eseguisce la x, senza il distacco
della penna” a proposito della quale, il Calvi rileva, in una nota, che questa
legatura te si trova una volta nella lettera d’Este, in fine della parola molte, e quattro volte nella colonna di
sinistra del mss. Anghiari, fol. 74 v, Cod.
Atl. Questa analogia è certamente caratteristica: ma oltre che non
potrebbe, per sè stessa, escludere che Leonardo abbia - come sosteniamo -
scritto i due documenti di suo pugno, non ha neppure valore intrinseco, che
consenta di farne un argomento contrario a Leonardo. Infatti, osservi il
lettore il breve passo riprodotto a pag. 19 del mss. Anghiari, e vi troverà, a due linee di distanza, la parola ponte scritta dapprima colla legatura te, come per eseguire la x senza il distacco della penna, e poco
dopo scritta colla e finale uncinata,
quale si vede ed è così caratteristica in tutti gli scritti di Leonardo, da
sinistra a destra: cosicchè, il concludere che “le coincidenze sono così
esaurienti e persuasive da non lasciare alcun dubbio sull’ identità della mano”
risulta asserzione non abbastanza ponderata, quando si voglia trame argomento
per escludere la mano di Leonardo; mentre le coincidenze, in quanto realmente
esistano e consentano qualche deduzione, risultano a favore di Leonardo.
Anche
la osservazione riguardo ai “non rari accenti sulle toniche finali delle
parole” nella lettera d’Este - che
nel mss. Anghiari, mancherebbero
perchè “meno accuratamente scritto” - non è conclusiva: la stessa eccezione
rilevata dal Calvi per la parola mandò,
alla linea 4a della 2a colonna del mss. Anghiari, non esiste, per il fatto che invece di un accento,
si tratterebbe dello svolazzo della lettera f
della parola fanti, susseguente la
parola mando (vedi pag. 19, linea 3a).
Ad
ogni modo, nel caso attuale, la questione della destra mano di Leonardo non può
essere risolta in base a singolarità di calligrafia, quali in mancanza di altri
dati, si devono ricercare e constatare, quando si tratti di riconoscere
l’autore di un unico e determinato scritto, tenendo conto delle più minute
particolarità calligrafiche per basarvi una ipotesi, non mai la assoluta
sicurezza di un giudizio: poichè la tesi di Leonardo scrittore colla mano
destra non meno sicuro che colla sinistra, si fonda sopra una serie di esempi
della sua scrittura destrorsa, più che sufficiente per sè stessa a risolvere la
tesi, persuadendoci che i documenti Sforza,
Este ed Anghiari sono di sua mano. Convengono in questa conclusione: il
carattere, il significato, le correlazioni dei tre documenti: vi convengono non
solo le analogie calligrafiche, ammesse dagli stessi avversari alla nostra
tesi, ma quelle che si possono stabilire coi numerosi scritti di Leonardo colla
mano destra, sino ad ora dimenticati e trascurati sotto l’incubo del
preconcetto che Leonardo fosse mancino, inetto quindi a servirsi della destra.
Colla
tesi di Leonardo non mancino, non solo risulta giustificata la esistenza di due
di quegli scritti nel Cod. Atl., ma
si viene ad ammettere ciò che - senza la intromissione di quel preconcetto -
sarebbe da tempo spontaneamente sembrato naturale: vale a dire che Leonardo,
per la stessa sua straordinaria facoltà di eseguire, sia colla destra che colla
sinistra, i più svariati lavori di pittura, sfoggiandovi la più minuziosa
diligenza, del pari che la maggiore larghezza di tocco, si trovò a maggior
ragione in grado di valersi della sinistra e della destra nelle più svariate
forme calligrafiche, dalle più minute e diligenti, alle più larghe e
irregolari; nel complesso delle quali varietà grafiche, sarebbe quasi puerile
la pretesa di cercare segni, legature, accenti, che siano caratteristici e
necessari elementi di riconoscimento, quali si possono invece cercare ed
intravvedere - non mai accertare sicuramente - nella scrittura ordinaria di chi
scriva soltanto colla destra.
Ed
anche per queste considerazioni, possiamo concludere che le lettere Sforza, d’Este, e il mss. Anghiari
sono di mano di Leonardo; il quale ebbe campo nei numerosi suoi scritti, e
nelle più svariate circostanze, di valersi della mano destra al pari della
sinistra, così da potere essere considerato, non mancino, ma “ambidestro”.
Trascrizione delle
lettere di Leonardo
Pagina 31 (Cod. Atl., fol. 342 v - Tav. MCLI, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo dell’Edizione).
“Ricordo
a V.ra Ell.tia come Ridolpho Manini portò conduse a Firenze soma 1a de cristallo cum poche
altre pietre come sono pietre da far
Camorini e simile altre pietre da
intaiar. Ma li cristalli son più che i 7/8 de la soma. Infra li quali glie un
pezo de berillo dun bz (brazo?) e grosso 1/5 de br. questo è neto quanto [è]
possibile, e ven che si ruppe in mezo de la sua longheza, altri pezi bellis.mi
e tutto il rimanente de essi son bellissimi. Questo la cognitione
Informatione de quello Ridolpho ve sara date dali mulatieri de la dogana.
“Ancora
R.do a v. E.tia che
parli de la facenda che o cum Ser Juliano mio fratello capo de li altri
fratelli Ricordandoli come se offerse
de conciar le cose nostre fra noi fratelli de comune, cioè de la eredità de mio
zio e quella constringa a la expeditione qual conteneva la littera che lui me
mando”...
(Le parole in corsivo sono cancellate nell’originale).
Pagina 33 (Cod. Atl., fol. 132 r - Tav. CCCIII, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo).
“L … ome di Dio adì 5 di lu di luglio 1507.
“Cara
mia dileta madre e mie sorele e mio cognato e avisovi chome sano per la grazia per dio e chosi ispero di voi per
ricordarvi quello che avete a fare di quella spada che io vi lasciaj portatela
alla piaza delli Strozi a maso dele viole e la tegna a ognj modo perchè e la
mimporta assaj e rachomandovi quelle veste e rachomandovi la Dianjra fatele vezi
aciochè ella non dicha ch’io non mi richordi di lei. E anchora mi rachomando a
piero mio chognato e ditegli che no sareno chosta a presto per tuto el mese di
setembre tuti estareno ben per ognun, eppoi rivereno in qua presto e spediro la
facenda di piero in modo chesso ramara chontento e...”
(Sulla stessa pagina si
legge, scritta ancora da sinistra a destra, due volte la parola “Roma”.
Pagina 45 (Cod. Atl., fol. 299 r - Tav. DCCCCLXXXX1X, ediz. Lincei)
(non trascritta nel testo).
“Messer
Nicolo mio quanto magior fratello hon. etc. Da poi chio me partì da v. Sig.ria
Andai per veder il registro s’era signato il nome de mio fratello. Il libro non
era lì. Io fui mandato in molti lochi avanti ch’io lo trovassi. Ultimamente
andai da la Sig.ria del Datario e gli dissi ch’io pregava sua Sig.ria
non havendo fatto assignar la supplica che domane la volesse far legare e farla
assignare. Sua Sig.ria me rispose che lui era cosa molto difficile e che la supplicatione domandava
troppo cose quale non si posson far e tanto più che il benefitio era de poca intrata e che se fusse cossa
de che importasse più se assegnaria cum mancha
poca difficoltà”…
(Le parti in corsivo sono cancellate nell’originale).
Il sottosegretario di Stato
all’Istruzione, nel giugno 1914, rispondendo alla Camera alla domanda “per
sapere a qual punto sia la pubblicazione delle opere vinciane, e se non creda
opportuno di sollecitare la Commissione perché dia ampio ragguaglio dei suoi
lavori, prima del Centenario di Leonardo che si compie nel 1919”, rispondeva
che “le vicende della Commissione incaricata di raccogliere e di pubblicare gli
scritti e i disegni di Leonardo procedono in modo singolare ed avventuroso”. E
dopo alcune circostanze affatto sconosciute agli studiosi vinciani e alla
stessa Commissione - come quella dell’esaurimento dei fondi stanziati, in spese
burocratiche, indennità alla Commissione, compensi alla segreteria, e
rimunerazione ad uno studioso dell’opera leonardiana, che ebbe l’incarico di
raccogliere gli scritti e compilare l’indice del Cod. Atlantico - il
sottosegretario di Stato concludeva: “il Ministero, allorché la Commissione si
rivolgerà a lui per avere nuovi fondi, si farà un dovere di conoscere rigorosamente
dove questi fondi debbono andare, come questi fondi si vogliono spendere”.
A ragione il
prof. A. Favaro, richiamando questa grave dichiarazione, osservava come non si
fosse levata contro di essa la voce della Commissione, e nemmeno quella di
alcuno dei suoi componenti.
Verso il 1914 si cominciò a parlare di
un Corpus Vincianum, che avrebbe
dovuto precedere i lavori della Edizione nazionale propriamente detta, cioè la
“rappresentazione ordinata e per quanto sia possibile completa di tutte le
manifestazioni di quel genio spaventevolmente (?) multiforme, mostrando le fasi
attraverso le quali è passato il suo pensiero, affannosamente intento alla
ricerca d’una perfezione che si crucciava di non potere raggiungere”. A
tutt’oggi il Corpus Vincianum,
annunciato con questa circonlocuzione, non ha trovato una definizione
maggiormente intelligibile.
Allorquando, or sono molti anni, prima
ancora di avere sperimentato la deficiente costituzione della R. Commissione
Vinciana, decisi di promuovere in Milano la “Raccolta Vinciana”, il primo pensiero - dopo di avere concretato
questa iniziativa col dono della biblioteca da me formata durante un ventennio
di studi vinciani - fu quello di assicurarle il riconoscimento legale come
istituzione di pubblico interesse, aggregata ad un organismo municipale e
disciplinata da un regolamento, approvato dall’autorità cittadina. Non
altrimenti deve comportarsi chi si proponga di fondare una istituzione, che
voglia presentarsi ed agire come “ente di interesse pubblico”.
Vedasi “Una lettera del sen. Beltrami”
in Idea Nazionale, 19 maggio 1919.
Il prof. A. Favaro, membro come si
disse della Commissione Vinciana, scriveva recentemente: “ad ogni modo, che questa sospiratissima Edizione Nazionale
Vinciana venga curata dalla Commissione, oppure dall’erigendo Istituto
Vinciano, non importa affatto, purché si faccia, e bene, e al più presto”.
Ora, pur convenendo nel desiderio di tale risultato finale, non si può a meno
di rilevare la anormalità della situazione che si va delineando, secondo la
quale, una R. Commissione, avente un ordinamento già basato sopra decreti e
disposizioni ministeriali, lascierebbe compromettere il compito suo, da
iniziative e responsabilità puramente individuali. E già l’equivoco si
consolida, tanto che il giornale Pagine
d’Arte ha dato questa notizia: “Il governo che ha creato, con i denari di
alcuni generosi lombardi, addirittura un Istituto Vinciano, promette di aprire
a Roma una Casa Vinciana, e annuncia una serie di monografie, che i competenti
già criticano, solo a sentirne i titoli”.
Questo si
stampa, mentre in realtà la R. Commissione Vinciana per l’Edizione nazionale
non ha i fondi occorrenti per il suo compito, e il Governo si riserva di darli
a condizione di conoscere “rigorosamente dove questi fondi debbono andare”!
Il fascicolo IX della Raccolta Vinciana (15 ottobre 1918)
portava le seguenti notizie, che si dovevano ritenere di fonte ufficiale:
a) Quasi
compiuta la riproduzione del materiale vinciano, sparso nelle biblioteche di
Windsor, Oxford, Chatsworth, Parigi, ecc.
b) Sostituita
all’idea dell’Edizione Nazionale, quella di un Corpus Vincianum, limitandosi così l’opera della Commissione alla
pubblicazione pura e semplice dei manoscritti, escluso il Codice Atlantico.
Lo studioso di
Leonardo non poteva a meno di meravigliarsi che una Commissione, nominata da un
Decreto Reale, modificasse o lasciasse modificare arbitrariamente il suo
compito: si domandava altresì, per quale ragione venisse fatta una eccezione
per il Cod. Atlantico, e non per
altri codici già riprodotti con pari, se non con maggiore cura.
La stessa Raccolta Vinciana, annunciando il
rimaneggiamento della Commissione, compiuto nel 1918, informava: “venne
stabilito di comprendere nel Corpus
Vincianum anche il Cod. Atlantico”
(quasi che si fosse potuto ideare un Corpus,
senza questo ricco materiale vinciano): aggiungeva che era stato deciso di “por
mano senza indugio alla pubblicazione, incominciando da quella della serie
colla quale più rapidamente ci si accosta alle cose tuttora inedite”, altra
notizia non meno problematica della precedente. Infine annunciava che il nuovo
Presidente della Commissione si augurava che accanto a questa sorgesse un
Istituto di studi vinciani “costituito per adesso da paleografi trascrittori e
da specialisti ordinatori delle materie trattate da Leonardo, e destinato in
seguito ad ampliarsi e consolidarsi in un Istituto permanente”. La confusione
delle idee e dei propositi non potrebbe risultare maggiore.
Lo stesso
fascicolo IX della Raccolta Vinciana
annunciava come un comunicato della R. Commissione del 1 settembre 1918,
promettesse per la ricorrenza del IV centenario della morte di Leonardo “la
pubblicazione di un primo saggio del Corpus
Vincianum, con tre codici, le cui pagine sono per la massima parte inedite”.
Nel fatto non si ebbe, per questa ricorrenza, neppure un programma preciso dei
lavori della Commissione, ma solo l’abboracciatura di una Miscellanea, promossa dal Presidente della Commissione Vinciana, ed
attuata coi mezzi e la responsabilità dell’Istituto Vinciano.
Vedasi a pag. 11 delle Memorie su Leonardo da Vinci, di don
Ambrogio Mazenta, ripubblicate ed illustrate da D. Luigi Gramatica,
Prefetto dell’Ambrosiana - Milano, Alfieri & Lacroix, 1919.
L. Paciolo, Divina proportione. - Venezia, 1509.
Nella Vita di Leonardo, premessa all’edizione del Trattato della pittura. L’Amoretti ebbe a valersi delle note
dell’Oltrocchi, senza avere esaminato il Cod.
Atlantico, giacchè riferisce che la lettera di Leonardo al Moro è scritta
da destra a sinistra.
Ravaison-Mollien,
Les écrits de Leonard de Vinci: in Gazette des Beaux-Arts, Paris 1881.
Marchese Campori, in Atti R. Deputazione Modenese, vol. III,
pag. 49.
La morte di Ser Piero, padre di
Leonardo, avvenuta nel luglio 1504, aveva dato luogo a contestazioni, che nel
1507 non erano ancora risolte; nel frattempo, la morte di uno zio di Leonardo
aveva fornito nuovo argomento di litigio. Le ragioni di questo non risultano
ben chiare, ma si può pensare che nei riguardi della eredità paterna, Leonardo
mirasse a farsi riconoscere come figlio di Ser Piero, non tanto per materiale
interesse, quanto per definire la sua posizione morale nella famiglia:
posizione che maggiormente gli interessava di sistemare, in sèguito alla morte
dello zio, per far valere, nella eredità di questi, quanto risultava essere suo
diritto.
In quello stesso anno 1507, il
Cardinale Ippolito aveva avuto in commenda il vescovado di Modena: il che può
spiegare come la lettera di Leonardo si trovi nell’Archivio di questa città.
Ed. Solmi, Pagine autografe di Nicolò Machiavelli nel “Cod. Atlantico”: in Giornale storico della letteratura italiana,
1909, vol. LIV, p. 90.
In Archivio
di Stato di Firenze. Deliberazioni della Signoria. Vedi n. 140, in Documenti e memorie di L. da V. - Milano
1919, Treves editori.
Da lettera 2 gennaio 1502, di N.
Machiavelli: in Gior. stor. lett. ital,
1909.
Vedasi in Arch. Stor. Lombardo, Anno XXXVII, 1910, la riproduzione in facsimile della pagina del contratto,
colla firma di Leonardo.
Infatti, nella prima linea di questo
passo, la parola unjta venne
intercalata nella frase “L’acqua
[unjta] che con gran quantità...”.
Cito ad esempio il passo relativo alle
misure del capitello, scritto da sinistra a destra nel Cod. Atl. a fol. 325 r il
quale venne dal Richter inavvertitamente riprodotto nella Tav. CIII n. 3, come
se fosse scritto da destra a sinistra.
Alla trascrizione data al n. 190 dei Doc. e Mem. di L. d. V., si faccia la
seguente rettifica: “conciar le cose mie
fra noi fratelli de … cioè de la eredità de mio patre” si legga: “conciar le cose nostre fra noi fratelli de
comune, cioè de la eredità de. mio zio”.
Alla trascrizione si facciano le
seguenti rettifiche: “di una spada”
si legga “di quella spada”; “a patro mio chognato” si legga “a piero mio chognato”: “torneremo” si legga “rivereno”; “pietra” si legga “piero”.
A “tuti restareno ben...” si aggiunga
“per ognun”.
A proposito di
tali rettifiche, si ‘osservi come l’originale della minuta presenti molte
macchie, che rendono oltremodo ardua la lettura, già per sè stessa non facile
per la eccezionale corrività della calligrafia.
Un altro appunto latino si trova sulla
coperta del Cod. E Ist. di Francia,
il quale merita un chiarimento: annota Leonardo “Tullius de Divinatione ail. Astrologiam fuisse adiuventam ante troianum
bellum quingentis septuaginta milibus annorum 57000”: il Ravaisson esclude
la mano di Leonardo, e il riferimento a Cicerone. Sta il fatto che nel Libro
Secondo De Divinatione, Cicerone
accenna all’origine dell’Astrologia presso i Caldei, la quale risalirebbe a
47000 anni; anzichè ai 57000 accennati da Leonardo. La differenza - che non
diremo errore, giacchè i due numeri risultano egualmente fantastici - si può
attribuire alla facilità colla quale il 4 e il 5 potevano essere scambiati,
nella scrittura del tempo di Leonardo.
L’epiteto di Magnifica era già dato a Cecilia Gallerani nell’atto della
donazione, a lei fatta dal Moro nel 1481, del feudo di Saronno.
La relazione fra Leonardo e
Machiavelli, attestata dal citato contratto del maggio 1504, relativo alla
composizione della Battaglia d’Anghiari, dovette certamente rafforzarsi durante
il soggiorno in Firenze dal 1504 al 1506, offrendo occasione a Leonardo di
rivolgersi al Segretario della Repubblica, in conseguenza delle richieste del
Re di Francia, che lo voleva a Milano; è naturale il pensare che, ritornando a
Firenze nel 1507 per risolvere le sue faccende domestiche, Leonardo abbia
ricorso al Gonfaloniere, al quale avrebbe diretta la lettera riprodotta a pag.
31, ed a Machiavelli con quella riprodotta a pag. 45.
Camorini,
o chamuini, come si legge a fol. 30 v del Cod. Atl. (...punte de
diamante con che s’intaglia i camuini) nel senso di cammeo, dal latino camaynum (“camaynum illud lapidis in quo
sculpitus est equus unus”, in testamento 26 luglio 1496, a favore della
Fabbrica del Duomo di Milano).