lunedì 9 febbraio 2015

1804 - AMORETTI. Memorie storiche di Lionardo da Vinci


memorie storiche
di lionardo da vinci.

i. Se istruttiva e dilettevole riuscir deve a chi legge la storia degli uomini, che estesero i confini del sapere, raffinarono il gusto, e perfezionando le arti piacevoli come le utili, acerebbero i comodi della società, certamente, per l’importanza dell’argomento almeno, piacerà il leggere quì raccolte le Memorie Storiche intorno a Lionardo da Vinci, valente Musico, ingegnoso Meccanico, profondo Geometra e Matematico, egregio Architetto, esimio Idraulico, eccellente Plasticatore e sommo Pittore.
In nessun luogo aveansi avanti il maggio del 1796 tanti materiali per iscriver la vita di quel gran genio quanto in questa nostra biblioteca, ove l’immortal fondatore card. Federico Borromeo, e co’ proprj danari e per altrui generosi doni, raccolto avea più scritti e disegni del Vinci, che sparsi non n’erano in tutto il resto dell’Europa. Ma, dopo che que’ codici, disegni, e quadri furono δοpύληποι, per valermi d’un espressione d’Euripide,[1] non avrei mai osato d’incaricarmi di scrivere di quel grand’uomo la vita, quantunque già da venti anni ne avessi pubblicato un compendio,[2] se il mio predecessore Baldassare Oltrocchi, non avesse tutto letto collo specchio, (giacchè il Vinci scriver solea colla manca e all’orientale da destra a sinistra), copiato con somma pazienza e fatica oltre ogni credere fastidiosa e grave, come dic’egli medesimo, e lasciatoci quanto in que’ codici trovasi d’importante per la storia di Lionardo; e raccolte non avesse al tempo stesso le più accertate e peregrine notizie, che altri codici e i libri gli somministrarono, e indicate le fonti ove altre cercarne.[3]
Devo pur dire, e con riconoscenza il dico, che molto ancora mi giovai delle notizie intorno a Lionardo raccolte dal Consigliere Venanzio De Pagave, uomo eruditissimo in fatto di Belle Arti: le quali notizie insieme a quelle che risguardano Bramante, e altri celebri nostri Maestri nelle Arti del Disegno, serbansi presso il suo degnissimo figlio, che cortesemente mi permise non solo di leggerle, ma anche di trarne que’ lumi, che a migliorare il mio lavoro servir poteano.
Con questa suppellettile di cognizioni da altri preparatemi ho preso a scrivere queste Memorie, ben certo di non essere un semplice ripetitore di ciò che gli altri, dal Lomazzo e dal Vasari sino a noi, hanno scritto; anzi sicuro di dir cose nuove e importanti, specialmente riguardo a questo paese, in cui egli passò gli anni suoi migliori, e fece quelle opere che maggior nome gli acquistarono.
Meglio fors’anco, e con più di precisione alcune cose direi, se i codici di Lionardo, che nostri erano, avessi ora liberamente sott’occhio, onde di tutti agiatamente esaminare i disegni, e lo scritto; ma questi sono a Parigi. Fortunatamente per me, oltrecchè varie notizie già in altro tempo da que’ codici io avea tratte, l’amico mio e collega professor Venturi, ora Ministro della Repubblica Italiana presso l’Elvetica, con occhio di colto Fisico, e valente Matematico qual egli è, potè colà esaminarli, e ’l fece, pubblicandone poi un Saggio,[4] di cui varrommi; giacchè riguardo alla parte scientifica poco si estesero le ricerche del nostro Oltrocchi.
Non devo quì omettere che raccolse Oltrocchi quelle note per secondare i desiderj del ch. illustratore di Plinio sig. conte Anton-Giuseppe della Torre di Rezzonico, il quale, avendo avuto uno scritto inedito del celebre suo concittadino Monsignor Paolo Giovio contenente una compendiosa vita d’alcuni valenti artisti del secolo xv, e fra questi del nostro Lionardo da Vinci, volea pubblicarlo corredato di quante notizie potea raccogliere a loro spettanti. Egli non pubblicò mai nulla; ma intendo dal coltissimo Cigalini suo nipote ed erede degli scritti suoi, come delle sue sostanze, esservi di fatti il manoscritto di Giovio arricchito di copiose note dell’illustre suo avo, ch’egli pubblicherà forse un giorno.[5] Frattanto però ragion vuole, giacchè sì opportuna n’è l’occasione, che più non resti sconosciuto il risultato delle fatiche dell’Oltrocchi; e veggasi quanto a torto alcuni accusassero i Bibliotecarj dell’Ambrosiana di trascurare i monumenti del Vinci che possedevano.
Narrerò prima succintamente, seguendo quanto sarà possibile l’ordin cronologico, ciò che egli fece e che gli avvenne nel decorso de’ suoi giorni; e quindi, più diffusamente esaminerò i suoi studj, e i lavori da lui diretti, specialmente relativi all’Idrostatica. Delle sue teorie intorno all’arte del dipingere non parlerò che incidentemente e poco dironne; essendo i suoi precetti tutti raccolti nell’unito Trattato della Pittura.
ii. Nacque Lionardo in Vinci, piccol castello posto in Valdarno non lungi dal lago di Fucecchio, presso ai confini del Pistoiese; e nacque, non già nell’anno 1445, come generalmente leggesi presso gli Scrittori della sua Vita, ma nel 1452, come rilevò da registri originali di quel tempo il sig. Dei, il quale ne scrisse la genealogia, consultando non tanto le vecchie carte della famiglia Da Vinci, quanto i pubblici archivj.[6] Possiamo così annoverare Lionardo fra gl’illustri bastardi, dice l’autore della sua vita inserita fra quelle degli illustri Toscani, e dopo di lui Tiraboschi, Venturi ed altri. Ma, sebbene sull’illegittimità de’ natali di Lionardo sembri non potersi mover dubbio, sarebbe stato desiderabile che il sig. Dei avesse trovato qualche documento per dichiararlo almeno legittimato in appresso: la qual cosa è verisimile per le ragioni che son per addurre. Se Lionardo avea 17 anni quando ser Piero n’avea 40, questi dunque l’ebbe essendo giovinetto ancora, e probabilmente libero; il che poteva e dovea facilitarne la legittimazione. Ebbe ser Piero tre mogli, come rilevasi dalla geneaologia del Dei, cioè Giovanna di Zanobi Amadori, Francesca di ser Giuliano Lanfredini, e Lucrezia di Guglielmo Cortigiani. Se Lionardo visse in famiglia colla seconda moglie, come vedesi dal registro summentovato, ben è chiaro che v’era anche ai tempi della prima, giacchè allora, come or or diremo, pensò ser Piero a farlo istruire. Visse pur colla terza; e lo rilevo da un sonetto giocoso del Bellincioni[7] diretto a Madonna Lucrezia (certamente avanti l’anno 1483 in cui già era in Milano), nel quale dice d’essere A Fiesole con Piero e Lionardo.
Vedremo in seguito che a Fiesole i Vinci avean casa, e che v’era Lionardo anche nel 1505. È egli probabile che un fanciullo, tenuto come vile bastardo, vivesse continuamente nella famiglia paterna nel tempo di tre successive matrigne? Di più: nel codice atlantico in cui Pompeo Leoni[8] raccolse quanti scritti e disegni aver potè di Lionardo, e che sta ora a Parigi, havvi al fol. 128 la lettera d’una sua cognata in data de’ 14 dicembre 1514, la quale così scrive al marito suo in Roma: Erami schordato el dirvi che voi mi rechomandiate Lesandro in Firenze a vostro fratello Lionardo un omo excellentissimo, e singolarissimo… Pregiavasi dunque questa della fratellanza di Lionardo con suo marito: nè lo avrebbe certamente cotanto distinto, se per la legittimazione almeno non lo avesse riputato degno di questo titolo. Un argomento sicuro poi della legittimazion sua, se non della legittimità, io lo traggo dal vederlo nel 1511 in Firenze occupato a piatire co’ suoi fratelli, che molti n’avea come rileviamo dalla genealogia del Dei, per avere la sua parte dell’eredità d’un comune loro zio ser Francesco da Vinci matricolato nell’arte della seta; e ciò consta per più lettere sue scritte a Milano, esistenti nel mentovato codice atlantico al fol. 310, delle quali un frammento di quella sola quì trascrivo che diretta fu a monsig. Carlo d’Amboise luogotenente del re di Francia in Milano: Io sono, scrive egli, quasi al fine del mio letigio che io ò con mie’ fratelgli, e più sotto. Ancora ricordo a V. Exc.ia la facenda che ò cum S.r Juliano mio Fratello capi delli altri fratelli ricordandoli come se offerse di conciar le cose nostre fra noi fratelli del comune della eredità de mio Zio, e quelli costringa alla expeditione, quale conteneva la lettera che lui me mandò.
È egli verosimile che volesse Lionardo avventurare una lite per una sostanza alla quale non avrebbe potuto in nessun modo pretendere, qualora non avesse avuto il titolo, se non della legittimità, almeno della legittimazione? Aggiungasi che nel suo testamento medesimo rammemorava i fratelli, e loro lascia una somma di danaro che impiegata aveva in Firenze, e forse anche la sua parte del podere di Fiesole, come a suo luogo vedremo. E ciò basti per levarli di fronte, come meglio si può, la macchia de’ natali, a lui senza sua colpa improntata.
iii. Ne’ primi anni suoi Lionardo, sortito avendo dalla natura e belle forme e robustezza non ordinaria, e agilità somma con ingegno perspicacissimo ma inquieto, molti studj intraprese con ardore, come l’aritmetica, scienza allora non comune, la musica per cui molto piacque anche nella virilità, e la poesia in cui non solo ben riuscì scrivendo versi, ma anche cantandoli all’improvviso, se il vero ci narrano Lomazzo,[9] e Vasari.[10] Convienci confessar però che nel sonetto morale, sola composizione poetica di lui rimastaci, ha mostrato d’esser più uomo sensato che immaginoso poeta.[11] Ma fra gli studj suoi, quello per cui dimostrò una più costante inclinazione, e un’assiduità maggiore, si fu il disegno, e le arti tutte che ne dipendono. Per gli sforzi di Cimabue e di Masaccio, cominciava a risorgere allora in Italia, e specialmente in Toscana, l’arte della Pittura; e i migliori ingegni che se ne occupavano, richiamavanla alle belle forme de’ greci lavori, anzi della natura; e già scorgeasi ch’essa condor poteva alle ricchezze, e alla gloria. Ser Piero, tanto per secondare l’inclinazione del figliuolo quanto per istradarlo in un’arte onorevole e lucrosa, dopo d’eesersi consigliato con messer Andrea da Verocchio, valente pittore, scultore, e architetto a que’ dì, a lui stesso diello perchè nell’arte del disegno lo istruisse. Seco il prese a discepolo messer Andrea, e poichè ne vide i meravigliosi progressi, per viepiù animarlo allo studio e alla diligenza, mentre stava dipingendo una tavola, in cui san Giovanni battezzava il Salvatore, volle che Lionardo in quel lavoro avesse parte; e questi vi dipinse un Angiolo che teneva alcune vesti: » e benchè fosse giovanetto, dice Vasari, lo condusse di tal maniera che molto meglio delle figure d’Andrea stava l’Angiolo di Lionardo; il che fu cagione che Andrea mai più non voller toccar colori; sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui «. De’ suoi progressi nella pittura, e de’ più rinomati lavori del suo pennello, avrò in appresso occasione di ragionare; ma prima d’ogni cosa mi convien dare un breve ragguaglio de’ principali avvenimenti della sua vita.
iv. Pare che sino all’anno suo trentunesimo Lionardo vivesse in patria, o nella Toscana almeno, occupato bensì principalmente della pittura come provanlo e la rotella di fico, in cui pinse un sì strano mostro composto di quanto trovar seppe di più schifoso e spaventevole fra i rettili e gl’insetti, che spaventò suo padre medesimo; e la testa di Medusa, e ’l Nettuno fatto per Antonio Segni, e ’l cartone d’Adamo ed Eva, di cui dice il Vasari essere stato disegnato con tanta diligenza e naturalità, che al mondo divino ingegno far non può la simile. Nel tempo stesso però impiegava quanto d’ozio restavagli nello studio variato sì, ma assiduo di tutto ciò che poteva ornargli lo spirito o giovargli. Egli certamente molto lavoro facea, poichè, non possedendo ricco censo paterno, sappiam da Vasari, che con qualche lautezza vivea, cavalli e domestici avendo, e de’ avalli volendo i più belli e vivaci; il che far non potea che c’ proprj guadagni. La sua giovinezza, e la vivacità sua gli fecere nascere talora de’ pensieri, che parer possono, e talor furono stravaganti, come il creare de’ pessimi odori, che or noi diremmo gas, con misture di cose inodore, e spignerli invisibilmente nelle stanze per cacciarne chi v’era: il celare allo stesso fine lunghissime e ripiegate budella in modo che, gonfiandole con mantice non veduto, tutto il luogo occupassero: il formare tal congegno, per cui quasi spontanea una tavola del letto s’alzasse a destare e spaventare chi dormìa, e altre simili celie parecchie. Meno inutile fu il suo capriccio di copiare dal vero[12] le stravaganti fisionomie che incontrava, per farne le famose sue caricature, nel che fu tanto superiore, dice Sulzer, a quei che poscia vollero imitarlo quanto una buona commedia di Moliere a un’insulsa farsa d’arlecchino. Egli studia vasi non solo di dipingere ne’ volti e negli atteggiamenti il bello e ’l deforme, ma ben anche di esprimervi le idee, gli affetti, l’anima stessa, per la qual cosa talora, dice Lomazzo,[13] chiamò i contadini a convito per farli ridere alla smascellata, raccontando loro le più pazze cose del mondo, e sì ben disegnolli che senza riderne guardar non poteansi quelle figure: e talor seguì i condannati al patibolo per esaminare le traccie dell’angoscia e della disperazione sul loro viso. Utili ritrovati pur sovente meditava, tentava, ed eseguiva. Vasari e Lomazzo ci dicono che lasciò de’ disegni ora per iscaricar acque, ora per traforar monti, ora per tirare gran pesi, ora per oriuoli, e mulini, per gualchiere, e cento altri congegni d’arti, de’ quali parleremo. Due principalmente de’ suoi progetti meritavano d’esser annoverati; quello cioè di sollevare, sottoponendovi acconcia base, la basilica di s. Lorenzo senza che avesse a risentirne l’edifizio; e l’altro d’incanalare il fiume Arno da Firenze a Pisa: questo però, siccome a suo luogo diremo, deve probabilmente riferirsi all’età sua più matura. Lavorò da giovanetto anche di scultura e di plastica, facendo alcune teste di femmine ridenti e di putti che parevano uscite di mano d’un maestro; e d’architettura pur occupandosi fe’ disegni di varj edifizj, delle quali cose tutte abbiamo a testimonj il Lomazzo, e ’l Vasari, e i suoi disegni medesimi.
Ciò che scrisse e che fece in appresso ben ci prova quanti e quali studj facesse Lionardo ne’ suoi primi anni, attese le cognizioni vaste e profonde che in diverse scienze ed arti mostrò d’avere. Per formarcene un’idea basta leggere la lettera ch’egli indirizzò a Lodovico il Moro reggente, e poco men che signore del ducato di Milano, allorchè quì chiamollo. Ricoppiolla Oltrocchi dal summentovato atlantico codice vinciano. Eccola scritta, quale ivi si legge al foglio 382,[14] se non che Lionardo scrissela colla manca, e perciò da destra a sinistra alla maniera degli Orientali.
» Havendo S.or mio Ill. visto et considerato oramai ad sufficientia le prove di tutti quelli che si reputono maestri et compositori d’instrumenti bellici; et che le inventione et operatione de dicti instrumenti non sono niente alieni dal comune uso: mi exforserò, non derogando a nessuno altro, farmi intendere da Vostra Excellentia: aprendo a quello li secreti miei: et appresso offerendoli ad ogni suo piacimento in tempi opportuni sperarò cum effecto circha tutte quelle cose, che sub brevità in presente saranno quì di sotto notate.
1. Ho modo de punti (ponti) leggerissimi et acti ad portare facilissimamente et cum quelli seguire et alcuna volta fuggire li inimici; et altri securi et inoffensibili da fuoco et battaglia: facili et commodi da levare et ponere. Et modi de ardere et disfare quelli de linimici.
2. So in la obsidione de una terra toglier via laqua de’ fossi et fare infiniti pontighatti a scale et altri instrumenti pertinenti ad dicta expeditione.
3. Item se per altezza de argine o per fortezza di loco et di sito non si pottesse in la obsidione de una terra usare lofficio delle bombarde: ho modo di ruinare ogni roccia o altra fortezza se già non fusse fondata sul saxo.
4. Ho anchora modi de bombarde commodissime et facili ad portare: et cum quelle buttare minuti di tempesta: et cum el fumo de quella dando grande spavento al inimico cum grave suo danno et confusione.
5. Item ho modi per cave et vie strette e distorte facte senz’alcuno strepito per venire ad uno certo .… che bisognasse passare sotto fossi o alcuno fiume.
6. Item fatio carri coperti sicuri ed inoffensibili: e quali entrando intra ne linimici cum sue artiglierie: non è sì grande multitudine di gente darme che non rompessimo: et dietro a questi poteranno seguire fanterie assai inlesi e senza alchuno impedimento.
7. Item occorrendo di bisogno farò bombarde mortari et passavolanti di bellissime e utile forme fora del comune uso.
8. Dove mancassi la operazione delle bombarde componerò briccole manghani trabuchi et altri instrumenti di mirabile efficacia et fora del usato: et in somma secondo la varietà de’ casi componerò varie et infinite cose da offendere.
9. Et quando accadesse essere in mare ho modi de’ molti istrumenti actissimi da offendere et defendere: et navili che faranno resistentia al trarre de omni grossissima bombarda: et polveri o fumi.
10. In tempo di pace credo di satisfare benissimo a paragoni de omni altro in architettura in composizione di edifici et publici et privati: et in conducer aqua da uno loco ad uno altro.
Item conducerò in sculptura de marmore di bronzo et di terra: similiter in pictura ciò che si possa fare ad paragone de omni altro et sia chi vole.
Ancora si poterà dare opera al cavallo di bronzo che sarà gloria immortale et eterno onore de la felice memoria del S.re vostro Padre, et de la inclyta Casa Sforzesca.
Et se alchune de le sopra dicte cose ad alchuno paressino impossibili, et infactibili me ne offero paratissimo ad farne experimento in el vostro parco, o in qual loco piacerà a Vostra Excellenzia ad la quale umilmente quanto più posso me raccomando etc.
Di molte fra le progettate macchine, congegni militari, e stromenti bellici ci lasciò Lionardo de’ disegni ne’ codici, che posseduti erano dalla nostra biblioteca; e basta anche vedere le Tavole di Gerli, le notizie pubblicate da Venturi, e i pochi cenni ch’io ho dati de’ disegni Vinciani non copiati da Gerli, per averne un’idea. Fra i disegni di Gerli vedonsi i ponti (Tav. xlv), la pioggia o tempesta d’accese sostanze (Tav. xxxviii); i mangani o trabucchi (Tav. xv.*); ogni maniera d’armi (Tav. xiv.*); disegni d’architettura (Tav. xv.*, e nella Tav. ii. quì unita fig. 7); e altre simili cose, delle quali avrò in seguito occasione di ragionare.
v. Cosa importante nella storia del Vinci è il fissar l’epoca di questo scritto, e quindi della sua venuta a Milano; intorno alla quale, poichè vide tutti gli scrittori aver preso abbaglio, delle giudiziose ricerche fece il nostro Oltrocchi. Vasari, e con lui tutti quasi i biografi vogliono che Lionardo venisse a Milano nel 1494; ma noi sappiamo da Vasari istesso[15] che Lorenzo de’ Medici mandò a Lodovico il Moro l’architetto Giuliano da San Gallo; che questi quì visse e conversò con Lionardo, quindi tornò a Firenze, e di là portossi a Prato, ove, mentre attendeva all’edificazione di quella cattedrale, intese con acerbo dolore la morte di Lorenzo. Or questo Principe morì nel 1492: dunque assai prima di quest’anno Giuliano quì venne e vi trovò Lionardo, a cui, dice il Vasari, diè de’ buoni consigli intorno alla statua equestre, di cui era occupato.
L’altrui trascuratezza ha fatto passare nelle mani di un mio colto amico un libro di spese della fabbrica del nostro duomo, in cui non poche notizie trovansi relative alle Belle Arti sul finire del secolo xv. Alla pag. 107 leggesi:
» 1491. M.er Leonardus         |        Debet habere scri-
» florentinus debet dare       |        ptum sibi in debito
» scriptum sibi in credi-        |        in libro albo ma-
» to in Libro viridi ma-          |        stri anni 1492, in
» stro anni praeteriti in        |        fo. 88. pro resto
» fo. 199. ll. xij.                   |        isto ll. xij.
Ecco dunque Lionardo che nel 1490 aveva un debito colla fabbrica del duomo, e pagollo, o scontollo nel 1492. Ma non cerchiamo di ciò altri testimonj che Lionardo medesimo e gli amici, e contemporanei suoi.
Se veramente il consigl. De Pagave avesse letto nel codice atlantico ambrosiano alla pag. 2 che Lionardo disegnò in Milano un padiglione nel settembre del 1482, siccome scrive d’aver rilevato dalle sue Memorie l’amico mio il chiar. P. Dellavalle;[16] e se Lionardo, come questi crede, fosse stato l’architetto della casa del conte Giovanni Melzi edificata a Vaprio nello stesso anno 1482, posseduta pur oggidì dal suo successore e ottimo Vice-Presidente della Repubblica nostra Francesco Melzi, avremmo due argomenti incontrastabili della venuta di Lionardo a Milano in quest’anno, o prima. Ma sebbene, come vedremo, ciò non sia punto improbabile, pure, ch’egli fosse l’architetto della casa Melzi di Vaprio, lo congettura solo, e nol dimostra il Dellavalle; e che trovisi la nota riferita dal De Pagave ne dubito, poichè non seppe vedervela l’Oltrocchi, diligentissimo scrutatore e copiatore di quel codice, in cui cercava soprattutto argomenti per anticipare quanto potea la venuta del Vinci a Milano. Egli vide bensì il disegno del padiglione, ma disegnato il vide pel bagno della duchessa quì venuta nel 1490, e nella vicina pagina trovò notato l’anno 1492.[17] Aggiungasi che nemmeno vi vide quella nota Venturi, il quale nelle notizie sulle epoche di Lionardo[18] ne avrebbe fatta menzione. Cerchiamo dunque più certe prove.
Lionardo col codice segnato Q. A. alla pag. 31 così lasciò scritto: Vigne di Vigevano (adì 20 Marzo 1492) alla vernata si sotterrano. Eccol dunque in Milano nel 1492. A qual oggetto andasse ne’ contorni di Vigevano, lo vedremo poi. Di più: abbiamo un altro codice suo, dice l’Oltrocchi, intitolato: Della luce, e delle ombre: in cui leggonsi queste parole da lui scritte all’usata sua maniera: A di 23 d’Aprile 1490, chominciai questo libro, e richominciai il cavallo. È chiaro alludersi quì al cavallo della statua equestre, destinata a Francesco i Sforza: è chiaro che, se nel 1490 ricomincionne il gran modello in plastica, doveva averlo cominciato già qualche tempo prima, e tempo pur si voleva a formare studj, disegni, abbozzi, e modelletti prima di cominciarlo. Da ciò non potè Lionardo molto occuparsi nello stesso anno 1490, poichè essendosi a quell’epoca celebrate le nozze di Lodovico, che allora avea nome di reggente del ducato, con Beatrice d’Este, a lui tutta fu addossata la direzione e l’apparecchio degli spettacoli, che in quella occasione si diedero. Per un analogo motivo egli dovè essere occupatissimo nel precedente anno 1489, in cui celebraronsi colla massima pompa le nozze del duca Gian Galeazzo con Isabella d’Aragona; e che dirette fossero col grande ingegno ed arte di Maestro Lionardo cel dice chiaramente il poeta Bellincioni, il quale scrisse i versi a quelle relativi.[19] E prima di queste feste altre probabilmente aveane immaginate e dirette, come più sotto diremo.
Nei versi del sullodato Bellincioni un altro argomento abbiamo per maggiormente anticipata la venuta di Lionardo in Lombardia. Il Poeta nel primo suo componimento finge che in sogno gli compaia l’ombra di Galeazzo Maria Sforza (trucidato da congiurati nel 1476), il quale era anzioso pel figliuolo Gian Galeazzo, lasciato d’otto anni, e che allora aveva = già d’anni presso a quattro lustri = cioè da 18 a 19 anni. e poichè nato egli era nel 1468, è chiaro che quei versi furono scritti nel 1486, o al più 1487. Ometto altri versi ove dello stesso Gian-Galeazzo dicesi che all’età sua verde e acerba licite son le ciancie e fole; però non pensiam tristo il grano in erba; il che certamente deve intendersi de’ tempi anteriori al suo matrimonio progettato nel 1488. Or a quell’epoca, scrive il Bellincioni che Lionardo già era in Milano; poichè, volendo il poeta rassicurare Galeazzo Maria sulla buona riuscita del figliuolo suo, gli dice che tutto dee sperare dalla conversazione de’ grandi uomini da Lodovico chiamati alla sua corte, fra i quali, se non nomina apertamente Lionardo, perchè fosse il verso e la rima il ricusavano, sì ben lo accenna sotto il nome d’Apelle fiorentino che l’editore Tantio o Tanzi l’ha egli apertamente nominato in margine. Scritto aveva il poeta:
» Quì come l’ape al mel vienne ogni dotto
» Di virtuosi ha la sua corte piena:
» Da Fiorenza un Apelle ha quì condotto; »
ed a spiegazione di quest’ultimo verso l’editore ha posto in margine: Magistro Leonardo da Vinci. Pertanto il fissare prima del 1487 la venuta di Lionardo in Milano non è certamente anticiparne l’epoca vera. Ma un’altra cosa abbiamo più arredata ancora, e non meno sicura, sapendo noi dal cav. Fr. Sabbà da Castiglione, che Lionardo, suo contemporaneo, già era in Milano, e lavorava al modello della statua equestre nel 1483: imperciocchè narrando egli come i Francesi lo distrussero quando Lodovico xii s’impadronì di Milano nel 1499, soggiugne che il Vinci intorno a quella grand’opera sedici anni continui avea consumati.[20] Non abbiamo è vero altro argomento che quest’epoca confermi; ma nemmeno nessuno ve n’ha che la contraddica: e altronde il dotto e savio scrittore milanese, che narra d’aver veduta una sì nobile e ingegnosa opera fatta a bersaglio a balestrieri Guasconi, ben merita tutta la fede.
vii. Un altro abbaglio del Vasari, e generalmente de’ biografi del Vinci, si è che Lodovico il Moro alla corte sua l’invitasse, perchè il divertisse col suono della sua cetra. Vero è che eccellente musico, e sopra tutto esimio suonator di lira riputato egli era, cosicchè, al dire del Lomazzo tutti in quest’arte ci superava. Vedesi in una nota del suo codice (segnato Q. R. pag. 28) fatta menzion d’una viola con nuova tastatura: in un altro codice v’è d’una lira il disegno da lui fatto; d’un’altra sua lira formata del teschio con cavallo con molta parte d’argento parla il Vasari summentovato; e con una chitarra in mano io vidi il suo ritratto fra gli ornati del frontispizio di un bel codice triulziano in pergamena, ch’è un trattato di Musica di prete Florentio dedicato al cardinale Ascanio Sforza. Con tutto ciò non è punto credibile che il Vinci sia stato quì chiamato per divertire suonando e cantando Lodovico, il quale gli uomini più grandi de’ suoi dì in ogni scienza ed arte studiavasi di quì raunare; e che conoscer dovea quanto Lionardo valesse nelle belle arti, e specialmente nella pittura, avendo nella sua corte la mentovata famosa rotella da lui giovanetto dipinta, e dal duca Galeazzo Maria comperata per 300 scudi, siccome scrive lo stesso Vasari; e appunto in vista di questa, al dire del Lomazzo, egli è stato quì ricercato.
E in vero, o si considerino le idee grandiose e politiche di Lodovico il Moro, o le prove di sapere e di abilità nelle arti offerte da Lionardo, che di musica e di stromenti musicali mai non fa parola, o ciò che questi quì fece, ben vedesi ch’egli vi fu chiamato non meno ad istruire che ad operare, e anche ad istituire e dirigere un’accademia di scienze e d’arti. Sappiamo dagli scrittori della vita di Lodovico, che questo accortissimo Principe, avendo, dopo l’assassinio del fratello duca Galeazzo Maria, fatto il progetto di salire sul trono paterno, nel tempo stesso che colla forza e più coll’arte, tolse il comando alla vedova duchessa Bona di Savoia, e la vita a Cecco Simonetta di lei sagace consigliere e ministro, cercò di trarre al suo partito gli nomini più rinomati d’Italia per le scienze e per le lettere, e sopra tutto per le belle arti, le quali avendo, per la protezione de’ Medici, cominciato a risorgere a Firenze e quindi pe’ Visconti a Milano, tanta gloria aveano acquistata a quelle famiglie.[21] A ciò s’aggiunse il lodevol motivo, o pretesto almeno, di dare al piccol duca nipote suo una educazione quale a gran sovrano conveniva; onde meglio colorir così l’iniquo progetto di togliergli la Signoria. » Egli pertanto, non contento, come dice il Tantio,[22] d’aver ornato Milano di pace, dovizia, templi e magnifici edifizj, volle ancora arricchirlo di mirabili, e singolari ingegni, i quali a lui, di loro vera calamita, concorreano ». Perciò chiamò quì con onorevoli stipendj il lodato fiorentino Bellincioni, che teneasi allora pel più arguto e faceto poeta italiano, acciocchè, dice il mentovato Tantio, » per l’ornato parlare fiorentino e per le argute e terse sue rime venisse a limare e polire l’alquanto rozzo parlare della nostra città; e sì gran frutto ei fece, che non solo la Cantarana e ’l Nirone, ma tutti due i navigli sono diventati acqua di Parnasso ». Il Bellincioni[23] medesimo ha fra le sue rime un » Sonetto in laude del signor Lodovico, il quale vuole che Milano in scientia sia una nuova Athene. «
Io non istarò quì a rammentare tutti i grandi uomini che a Milano invitò Lodovico a que’ dì. Molti ne ricorda il Bellincioni, poeti e artisti celebri, lodando fra questi in ispecial maniera Lionardo col dire:
Del Vinci e suoi pennelli, e suoi colori
I moderni e gli antichi hanno paura.
Molti più ne commenda Frate Luca Paciolo,[24] di Lionardo l’amico e ’l compagno, e ’l ristoratore degli studj matematici in Italia, il quale pur mette innanzi a tutti Lionardo, dicendo, che » il Vinci di scoltura getto e pittura con ciascuno il nome verifica » cioè tutti vince. E chi vuol meglio sapere quanto coltivate allor quì fossero colle arti le scienze e le lettere, legga l’Argelati e ’l Sassi,[25] e vedrà quali e quanti uomini illustri quì fossero allora. È egli credibile che in mezzo a tanti dottissimi uomini chiamato fosse Lionardo, in ogni scienza ed arte versato, unicamente per divertire colla cetra sua Lodovico?
Il fatto ben prova l’opposto. Già osservai, e dallo scritto da lui presentato,[26] e dalle sue note rilevarsi, che la prima occupazione di Lionardo fu la formazione della statua equestre di Francesco i. Sforza; allo studio della quale ha dato, al riferire del Castiglione, incominciamento nel 1483: e prima ancora, dice il poeta taccone, sarebbesi messa mano all’erezione di quel monumento se Lionardo fosse quì prima venuto.
E se più presto non s’è principiato,
La voglia del Signor fu sempre pronta:
Non s’era Lionardo ancor trovato,
Che di presente tanto ben l’impronta.[27]
Non avrà dunque questi tardato ad occuparsene appena giunto in Milano; e Lodovico in lui non certo il suonator di lira ma un eccellente statuario di cui abbisognava avea condotto. Osservai già che direttore esser solea Lionardo delle pubbliche feste, e rappresentazioni che davansi ora dal Sovrano, ora dai gentiluomini, delle quali ci ha serbata memoria il Bellincioni, che versi a quelle occasioni scrivea; e se il Tantio, che li raccolse e pubblicolli, tenne, siccome pare aver tenuto, l’ordine cronologico con cui erano scritti, certamente le due rappresentazioni, in lode della Pazienza e della Fatica, date dai Sanseverini, siccome precederono le feste nuziali d’Isabella e di Beatrice, così riportar si devono ai primi anni del suo soggiorno in Milano. A questi tempi possiamo pur riferire i ritratti fatti da Lionardo delle due belle damigelle amate da Lodovico, cioè Cecilia Gallerani,[28] e Lucrezia Crivelli,[29] pe’ quali più versi scrissero i poeti di que’ di, i quali onta non ebbero di vendere la musa loro a commendazione degli amori scandalosi di Lodovico, che nobili e rispettabili donzelle a piaceri suoi sfacciatamente prostituiva. Tanto allora corrotti erano i costumi de’ Grandi!
viii. Uno de’ più chiari argomenti del conto in cui Lodovico il Moro tenne Lionardo, non solo come gran meccanico, eccellente statuario, e pittore esimio, ma come uomo in ogni maniera di scienze e d’arti versato, trarre lo possiamo dall’accademia, che il Vinci ha quì stabilita, e che da lui avendo preso il nome dovea certamente il fondator suo e direttore in lui solo riconoscere. Che il Moro bramasse l’unione de’ dotti uomini e valenti artisti, e chiedesse che reciprocamente i lumi loro comunicandosi estendessero i confini del sapere, e migliorassero le arti, l’abbiamo dal mentovato Fra Luca Paciolo.[30] Che poi vi fosse quì stabilita un’accademia (la prima di cui siavi certa memoria), a cui avea dato il nome Lionardo, oltre il testimonio del Vasari,[31] non con lascia dubitare la stampa di sei tavole incise in rame esistenti fra i nostri codici, nelle quali in mezzo a un ingegnoso disegno di cifre, e d’andirivieni, variato in ogni tavola, leggesi: academia leonardi vinci. Dassi per fregio o vignetta alla prima pagina di queste memorie il centro d’un di que’ disegni, i quali, comprese le quattro cifre degli angoli fatte a complemento del quadrilatero, hanno pollici parigini 9, lin. 5 in lunghezza, e pollici 7 lin. 3 in larghezza.
Ben è probabile che ad uso di quell’accademia, per ragionare co’ suoi colleghi, e per istruzione de’ suoi scolari, tante cose abbia scritte il Vinci quante sen’leggono non solo nel suo Trattato della Pittura, ma anche ne’ molti suoi volumi manoscritti. Spiegasi così perchè di tanti e sì variati argomenti ei prendesse a trattare; e perchè non trovi usi generalmente ne’ suoi scritti se non idee staccate, opere abbozzate, e materiali per far libri, anzichè trattati compiuti. In questo conto pur tenere possiamo, e vel tennero i più colti uomini che lo esaminarono, il presente Trattato della Pittura, quantunque Fr. Luca Paciolo dica che » Lionardo con tutta diligentia al degno libro de pictura et movimenti umani abbia posto fine »; e l’opera sia altronde in se stessa sì pregevole che il conte Algarotti non esitò a dire che in una scuola di disegno altro libro elementare di pittura fuor di questo trattato non v’avrebbe voluto.[32] Il ch. Venturi, il quale dai codici vinciani, che or sono in Parigi, ha estratto ciò che più onora l’ingegno e ’l sapere di Lionardo, pubblicandone il già mentovato Saggio, ci fa vedere che » la Pittura non fu che una parte delle occupazioni di quest’uomo straordinario. I suoi manoscritti, dic’egli, contengono delle specolazioni sui rami della scienza naturale che più rapportansi alla Geometria: vi sono delle viste nuove, delle note fatte per le circostanze del momento; e vedesi che l’autore aveva il progetto di trattare estesamente quegli argomenti... È vero che trovansi talora ne’ suoi manoscritti delle specolazioni inutili, e delle false deduzioni, che forse avrebbe omesse, ove avesse ridotte le sue idee a trattati; pur v’è molt’oro fra mezzo a quella arena ». Colla scorta di questo Scrittore di tutte quelle cose daremo un’idea più sotto.
ix. Ciò premesso, possiamo ora con qualche miglior ordine cronologico di Lionardo stabilitosi in Milano e delle cose sue ragionare. Del 1483 ecco quì dunque per lavorare al modello della colossale statua equestre. Fra quest’anno e ’l 1489 abbiamo di lui la direzione d’alcune feste e rappresentazioni per giostre e per nozze; e i ritratti delle due concubine di Lodovico. Abbiamo pure l’istituzione dell’accademia vinciana, sebbene di questa non possiamo fissare l’epoca precisa; e per essa certamente furon disegnate, in gran parte almeno, le cose vinciane relative alla pittura, come alla meccanica, e alla geometria, e scritte molte delle note che trovansi ne’ suoi codici. Nel 1789 molto occuparonlo le feste nuziali pel real maritaggio del duca Gian Galeazzo e di Isabella d’Aragona, nelle quali rappresentò i movimenti de’ pianeti, onde chiamò Paradiso l’ingegnosissima macchina a tal oggetto costruita; e a misura che ognun di loro, nell’aggirarsi del macchinismo, avvicinavasi agli augusti sposi, usciane un Cantore, che la divinità figurava al pianeta attribuita, e i versi cantava scritti dal Bellincioni.[33] Nell’anno stesso lo veggiamo formare un congegno di carucole e di corde, con cui trasportare in più venerabile e più sicuro luogo, cioè nell’ultima arcata della nave di mezzo della metropolitana, la sacra reliquia del santo Chiodo, che ivi ancor si venera. Al fol. 15 del codice segnato Q. R. in 16, egli ci ha lasciata di tal congegno una doppia figura, cioè una di quattro carucole, e una di tre colle rispettive corde, soggiugnendovi: in Domo alla carucola del Chiodo della Croce.
L’anno 1490 abbiamo la sua già indicata nota esistente nel codice = Della luce e delle ombre = che dimostra d’avere allora scritte quelle sue osservazioni ottiche, e ricominciato un nuovo modello o disegno della statua equestre.[34] Segue poi nello stesso luogo a dar notizie, poco gloriose al certo, d’un suo scolare o servitore: Jachomo, scriv’egli, venne a star con meco d’età d’anni 10. Ivi narra come questi rubò a lui e ad altri, fra i quali a Marco, e Giannantonio suoi scolari, de’ quali il primo era probabilmente Marco d’Oggiono, e ’l secondo Giannantonio Beltraffio. E per epilogarne i vizj vi pose in margine: ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto. Da questo medesimo scritto abbiamo accidentalmente notizia d’una figurata e mascherata giostra diretta da Lionardo medesimo, che così narra uno de’ furti del suo Jachomo: Item a di 26 di Gennaro seguente 1491 essendo io in casa di Messer Galeazzo da San Severino a ordinare la festa della sua giostra, e spogliandosi certi staffieri per provarsi alcune vesti d’uomini salvatici, che a detta fetta accadeano, Jachomo s’accostò alla scarsella d’uno di loro, la qual era in sul letto, e tolse li danari. Sappiamo poi dal Bellincioni[35] che in questa giostra il Sanseverino medesimo riportò la palma. Nel 1791 fu, come vedemmo, debitore alla fabbrica del duomo, o per fitto di casa ciò avvenisse, o per marmi comperati.
x. Nel 1492 mirò Lodovico a trarre dalle acque del Ticino altro partito per le campagne poste alla destra del fiume; e di Lionardo specialmente si valse; imperocchè dalle sue note rileviamo ch’egli fu a Sesto-Calende, a Varal-pombio, e a Vigevano ove ai 20 di Marzo del 1492 osservò che nella vernata le vigne si sotterrano. (cod. Q. A. fol. 31). E poichè nel medesimo libro parlasi d’un canale, Oltrocchi inclinò dapprima a credere, che il canal fosse quello destinato ad irrigare e fertilizzare il latifondio che fu poi denominato la Sforzesca, se non che la lunghezza di 30 miglia ivi indicata parvegli piuttosto al canale della Martesana applicabile, che a quello della Sforzesca, che pur in questi tempi scavossi.
A questa medesima epoca si può riportare lo studio fatto da Lionardo per rendere navigabile il testè mentovato canale della Martesana da Trezzo alla città (giacchè più non lo era per le acque vendute) e navigabile anche nel circuito della città medesima, alla qual cosa non erasi ancora ben provveduto. Ne riparleremo a suo luogo, e basta per ora l’averlo accennato.
Nell’anno medesimo fu molto occupato Lionardo a dirigere gli ornati, e a dipingere egli stesso le sale della rocca ossia castello, in cui Lodovico soggiornava; giacchè trovasi nel codice stesso (fol. 18) la seguente nota che intera trascrivo, perchè ci dà un’idea degli ornati delle camere, de’ colori, de’ prezzi loro, e delle giornate degli artefici. Eccola: La gronda stretta sopra le sale, lire 30 - la gronda sotto a questa fanno ciascuno quadro per se lire 7; e di spesa fra azzurro, oro, biacca, gesso, indaco, e colla lire 3 - di tempo giornate 3 - le storie sotto esse gronde co’ suoi pilastri lire 12 per ciascuna: stimo la spesa fra smalto e azzurro, e altri colori lire 1 ½ - Le giornate stimo 5 tra la investigazione del componimento, pilastrello, e altre cose - Item per ciascuna voltaiola lire 7 - Di spesa tra azzurro e oro lire 3 ½ - Di tempo giorni 4 - Per le finestre lire 1 ½ - Il cornicione sotto le finestre soldi 6 il braccio - Item per 24 storie romane lire 10 - Per un oncia d’azzurro soldi 10 - In oro soldi 15 - fumo lire 2 ½.
Si può anche argomentare che circa questo tempo introducesse quì Lionardo l’incisione in legno e in rame. Pensa Oltrocchi che de’ suoi dì possano essere alcune vecchie incisioni in legno che trovansi in un antico codice di stampe della nostra biblioteca non per altro pregevoli, che per l’antichità; e ben è probabile, e poco men che certo essere suo disegno il ritratto del Bellincioni (morto nel 1492 ovvero nel seguente) intagliato artistamente in rame, ove la sveltezza della figura, la mossa, il panneggiamento, l’espressione dell’uomo attento a leggere, la stessa architettura quasi rappresentante una camera, ben mostrano l’abilità del disegnatore, secondato da valente bulino. Pur di Lionardo dobbiamo credere che siano que’ pochi tratti maestri che servirono a incidere in legno il ritratto medesimo che vedesi alla prima pagina delle sue rime pubblicate nel 1493 dal Tanzi. Vuolsi esser questo il primo ritratto d’un autore premesso al libro; a meno che non vogliamo, come alcuni opinano sul rapporto di Plinio,[36] che i Romani amanuensi così usassero, imprimendo con istampe in legno le figure degli autori. De’ disegni relativi alla sua accademia intagliati in rame già parlammo.
Una sua opera da riportarsi a quest’anno fu il Bagno fatto per la duchessa Beatrice nel parco o giardino del Castello. Lionardo non solo ne disegnò il piccolo edifizio a foggia di padiglione, nel cod. segnato Q. 3., dandone anche separatamente la pianta; ma sotto vi scrisse: Padiglione del giardino della duchessa; e sotto la pianta: Fondamento del padiglione ch’è nel mezzo del labirinto del duca di Milano. Nessuna data è presso il padiglione, disegnato nella pagina 12, ma poco sopra fra molti circoli intrecciati vedesi: = 10 Luglio 1492; = e nella pagina 2 presso ad alcuni disegni di legumi qualcheduno ha letto Settembre 1482 in vece di 1492, come dovea scrivervi, e probabilmente scrisse Lionardo. Disegnò pure le chiavi colle quali dare al bagno l’acqua ora calda ora fredda, e così temprarla, nominando tal congegno: Sciavatura del bagnio della duchessa (fol. 28.); e indicando eziandio le proporzioni dell’acqua bollente colla fredda per averne il piacevol tepore conveniente al bagno, onde scrive alla pag. 34: per iscaldare l’acqua della Stuffa della duchessa torrai tre parti d’acqua calda, e quattro parti d’acqua fredda.
Il bel quadro rappresentante la Beata Vergine col Bambino, San Giovanni, e San Michele, alto br. tre milanesi su due e più di larghezza, che ammirasi nella casa de’ conti Sanvitali di Parma, porta la data di quest’anno; e, quello ch’è senza esempio, v’è scritto: Lionardo Vinci fece. 1492.
xi. Dal summentovato Tanzi rileviamo che quando egli scrivea la dedicatoria a Lodovico premessa alle rime del Bellincioni, cioè nel 1498 il Moro » onorava il proprio padre (Francesco i.) con la magna e perpetua opera del gran Colosso ». Dunque di questo occupavasi pur in quell’anno Lionardo. Sappiamo di più. Già formato erane allora, e alla pubblica ammirazione esposto il gran modello. Si celebrò in quest’anno la più illustre alleanza che gli Sforza facesser mai, cioè il matrimonio di Bianca Maria Sforza sorella del giovin duca e nipote di Lodovico coll’imperatore Massimiliano Austriaco. Trattato avealo e conchiuso l’accorto reggente del ducato colla condizione che l’imperatore, considerando questo paese come feudo imperiale, e lui come il primo figliuolo nato da Francesco Sforza già duca (poichè Galeazzo Maria nato era essendo il padre in privata fortuna) investitone lo avrebbe a preferenza del vero crede Gian-Galeazzo, abbenchè questi cognato suo pur divenisse. A questo titolo fu stipulata una dote di 400,000 fiorini d’oro (che altri dice essere stati nel fatto soli 300,000) oltre 100,000 fiorini in gemme, oro, e fardello. Due poeti, latino l’uno e l’altro italiano, cioè Pietro Lazzarone valtellinese, e Baldassare Taccone alessandrino, quella pompa nuziale descrissero. Nessun dei due, è vero, ci dice che quelle feste dirigesse Lionardo; ma amendue parlano della statua equestre di lui opera. Scrive il Lazzaroni, che sotto un arco trionfale nella piazza del castello stava a cavallo Francesco Sforza a tutti noto;[37] e ’l Taccone parlando degli esimu monumenti e lavori che in Milano a quell’occasione ammiravansi, dice, di Lodovico parlando,
« Vedi che in corte fa far di metallo
« Per memoria del padre un gran Colosso. »
Le quali parole pienamente confermano quanto in quest’anno scrivea Tanzi, come dicemmo; e mostrano che, terminato essendo il modello, solo pensavasi a farne il getto. A quest’epoca pertanto possiamo riportare il disegno copiato, e pubblicato dal  Gerli[38] del cavallo intelarato, cioè preparato a servire di forma alla fusione.
xii. Lodovico, sicuro pel precedente trattato di esser duca di Milano di nome, come lo era di fatto, sempre più nell’abbiezione teneva il nipote; e Beatrice sua vilipendeva Isabella d’Aragona, a cui per sangue come per diritto dovea sudditanza e ossequio. Questa non mancò di scrivere al padre Alfonso d’Aragona, figliuolo di Ferdinando re di Napoli, eloquentissime lettere, che il Corio ci ha conservate,[39] per dipingergli la trista situazione del marito e sua; e Ferdinando mandò quì ambasciatori, perchè inducessero Lodovico a cedere al nipote lo scettro, e ’l minacciasser di guerra, ove ricusasse di farlo. Ricusollo egli altamente; e le minacce non servirono che ad accelerare a Gian-Galeazzo la morte. Ma prima d’ogni cosa Lodovico meditò d’opporre a Ferdinando il re di Francia Carlo viii, che delle pretensioni avea sul regno di Napoli conceduto un secol prima dal Papa in feudo alla casa d’Angiò, offerendo a lui di seco confederarsi per conquistarlo, e spogliarne gli Aragonesi: il che pur ottenne; ma a suo mal danno, come vedremo, l’ottenne. Venne di fatto Carlo viii in Italia nell’anno 1494, e giunse a Pavia sul finir dell’autunno. Magnifiche feste ivi preparò Lodovico, essendo vivente ancora, ma già di veleno infetto, il nipote. Che tutta la pompa di quelle feste dirigesse Lionardo ben è probabile; ma io scritto nol leggo. Vogliono alcuni che a questa occasione formasse egli il lione pieno di gigli, che al re, squarciandosi il seno, presentolli; ma vedremo doversi ciò riferire ai tempi del re Francesco i dopo la vittoria riportata a Meregnano.
E poichè di Pavia ci occorre di far menzione, non sarà fuor di luogo il rammentar quì il lungo e diligente studio che Lionardo colà fece della notomia, avendo a maestro il valente professore Marc’Antonio Della Torre genovese, a cui coll’esattezza de’ disegni il Vinci grandemente giovava, mentre un’esatta cognizione egli stesso traevano dell’umana struttura, e dell’uso delle parti. Che Lionardo necessario trovasse lo studio di notomia ad un dipintore cel dice egli medesimo sovente nel Trattato della Pittura; ma più energicamente anche il dimostra nella seguente nota, che trovasi nel Cod. segnato Q. in 16. = Necessaria cosa è al Pittore per essere buon Membrificatore nell’attitudine e gesti che far si possono per li nudi di sapere la notomia de’ nervi, ossi, muscoli, e lacerti per sapere nelli diversi movimenti e forze qual nervo o muscolo è di tal movimento causa, e solo quelli fare evidenti e ingrossati; e non gli altri per tutto come molti fanno, che per parere gran disegnatori fanno i loro nudi legnosi e senza grazia, che paiono al vederli un sacco di noci più presto che superficie umana, ovvero un fascio di ravanelli più presto che muscolosi nudi. Che insieme a quel dotto Anatomico Lionardo disegnasse con matita rossa, tratteggiandole di penna, le parti tutte del corpo umano, mentre quello il dissecava, e talor anche scorticando le parti egli stesso, e n’avesse poi formato un libro colle spiegazioni a caratteri rovesci, ce lo attesta il Vasari, da cui altresì sappiamo » che gran parte di quella notomia era nelle mani di Francesco Melzo gentiluomo Milanese, il quale nel tempo di Lionardo era un bellissimo fanciullo[40] così come oggi è bello e gentile vecchio, che ha care, e tiene come reliquie tali carte »; e soggiunge che Lionardo allora fu il primo che cominciò a dar vera luce alla notomia.
Vero è che il Parodi[41] nel catalogo de’ Professori Pavesi colloca Marc’Antonio Della Torre all’anno 1511; ma è ben più probabile ch’egli sia stato colà chiamato molto prima: non essendo in quell’epoca stato in Lombardia Lionardo, se non per brevissimo tempo, come vedremo. V’ha chi pretende, perchè Vasari dice che quell’opera servir doveva ad illustrar la dottrina di Galeno, essere stato bensì scritto dal Vinci il libro, ma sotto la dettatura del professore; ma perchè mai, copiando le cose altrui, scritto avrebbe Lionardo colla manca? Trovasi ora il codice, o almeno parte di esso, co’ disegni nella biblioteca regia a Londra; e ’l cel. Hunter[42] che’ l vide, ammirò la somma diligenza e la squisita esattezza del Vinci, specialmente nel disegnare le parti anche più minute de’ muscoli.
Forse un resto degli studj anatomici, che allor fece Lionardo sono alcuni disegni che da’ nostri codici, e dalla raccolta del fu consigl. de Pagave copiò il Gerli,[43] de’ quali pur alcuno ne riproduciamo (Tav. ii. Fig. 1.2.) insieme ad un disegno, in cui egli indicò le proporzioni delle varie parti della testa, accanto al quale ha scritto alla sua maniera,[44] ond’abbiasi un’idea dell’acuratezza del suo lavoro, e al tempo stesso del suo singolar modo di scrivere colla mano manca, e della forma de’ suoi caratteri; giacche più non abbiamo i suoi codici, e rare le tavole del Gerli divennero, dispersi essendosene i rami intagliati. A questo doppio oggetto diamo il disegno suo delle proporzioni della testa del cane (fig. 6); e ben meriterebbe d’essere nuovamente inciso e pubblicato il bellissimo e istruttivo disegno delle proporzioni del corpo umano, che vedesi nella Tav. i.* del Gerli, collo stesso scritto vinciano del disegno originale, che nella preziosa raccolta del De Pagavo s’ammira. V’ha, è vero, qualche disegno analogo ad alcuni de’ summentovati  nel suo Trattato della Pittura; ma è noto essere quelli stati immaginati e disegnati dal Poussin, e ombreggiati (anzi guastati secondo questo Pittore) dall’Errard, onde chiara e istruttiva rendere l’opera di sì gran maestro. Altre figure ci furono poi date come disegni del cel. intagliatore Stefano Della Bella[45] perchè trovate in un codice del Trattato della Pittura, che a lui appartenuto aveva; ma io ho sott’occhio le stesse figure in un manoscritto del Trattato medesimo di Lionardo fatto copiare, anzi nelle prime linee copiato, dal coltissimo raccoglitore di codici Vincenzo Pinello, che morto era già nel 1610 quando nacque Stefano Della Bella. E poichè questi disegni meglio fatti e più istruttivi sono che i pubblicati nell’edizione fiorentina, quì si danno (sebbene con poca esattezza copiati) nella Tav. iii; essendosi però omessi tutti quelli che non risguardano la figura.[46]
Della notomia del cavallo, intorno alla quale pure Lionardo ha scritta un’opera rammentata dal Vasari e dal Lomazzo[47] che la vide » presso Francesco Melzi, disegnata divinamente di mano di Lionardo «, e che esigea pur essa il sussidio di valente anatomico, ben è verosimile, che il Vinci siasi occupato in quella stessa occasione. Alla notomia del cavallo dee riportarsi il disegno che sta nella Tav. xxxv del Gerli.
Morì, sul chiudersi dello stesso anno 1494, il giovane duca Gian-Galeazzo, e Lodovico allora dagli avviliti e prezzolati cortigiani, e dal popolo che ei sapea divertire, si fe’ invitare a salire sul trono paterno, escludendone i nipoti infelici. Da lungo tempo a ciò mirando egli non obbliava nulla per coprire l’iniquo usurpamento, e ’l suo crudele contegno colla vedova duchessa; e per acquistarsi la benevolenza de’ sudditi, e buon nome presso gli stranieri, teneasi amici i letterati, e gli artisti (che al dire del Corio, condotti aveva con grossi stipendi da tutte le parti d’Europa) e la città quanto poteva adornava; cosicchè ebbe a dire il mentovato Lazzaroni che d’una rugosa vecchia fatta aveane un’avvenente ed elegante donzella. Allor fu che la moda s’introdusse d’abbellire l’esterno delle case or con pitture a varj colori, or a chiaro-scuro, or a fregi incavati; del che molte reliquie abbiamo.
Un quadro relativo alla generosità di Lodovico, se non dipinse, almeno immaginò in quest’anno Lionardo. Egli così ne  descrive il pensiero in una nota di sua mano che leggesi nel codice segnato Q. 3. fol. 90 a tergo = Il Moro in figura di Ventura colli cappelli e panni e mani inanzi; e Messer Gualtieri [48] con riverente atto io piglia per li panni da basso venendoli dalla parte dinanzi ancora: la povertà in figura spaventevole corra dietro a un giovinetto, el Moro lo copra col lembo del la veste, e colla verga dorata minacci cotale mostro. E che la mentovala idea del quadro Lionardo scrivesse in quest’anno, argomento da una nota che a questa precede nel codice medesimo, ove si fa menzione di certo Galeazzo seco lui accordatosi a scolare. A di 24. marzo 1494 venne Galeazzo a stare meco con patto di dare 5 lire al mese pagando ogni 14 dì de’ mesi. Datimi da suo padre fiorini due di Reno: e più sotto: a di 14 di Luglio ebbi da Galeazzo fiorini 2 di Reno. Veggiamo da questa, e altre annotazioni pur ce lo confermano, ch’egli tenea gli scolari a pensione, onde ad ogni ora istruirli, e di loro ad ogni uopo valersi.
xiii. Per l’anno 1495 poco o nulla di particolare trovo registrato intorno a Lionardo che in questo tempo di men lavoro avrà probabilmente scritto il Trattato diretto al duca, in cui esaminava quale delle due arti Scoltura e Pittura debba all’altra preferirsi; e compiuto avrà il Trattato della Pittura e de’ movimenti umani, come scrive frate Luca. Non abbiamo il primo libro; ma che abbialo scritto lo attesta chiaramente il Lomazzo.[49]
Non fu però in quest’anno inoperoso il suo pennello, perchè, essendosi dipinto dal Montorfani il Calvario nel refettorio del convento delle Grazie, volle il duca Lodovico che il Vinci vi dipingesse ai due lati, e dipingesse a olio, il ritratto suo, quel della moglie, e de’ figliuoli; il che Lionardo fece contro voglia, se crediamo al P. Gattico religioso domenicano che di quel convento lasciò una storia manoscritta; e soggiugne che » quelle pitture si sono infracidite per essere dipinte a olio, perchè l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre ».[50] Fu impresso in Milano nel 1496 il libro di musica di Franchino Gaforio[51] con una tavola assai ben disegnata, che opera di Lionardo amantissimo di musica, come s’è detto, o di qualche suo scolare, può riputarsi.
Sappiamo altresì da frate Paciolo più volte mentovato, che per la mediazione di Lionardo egli quì venne in quest’anno; e poichè amico e concittadino gli era, e comuni aveano gli studj di matematica di meccanica e d’architettura, insieme viveano, e l’uno l’altro ne’ rispettivi lavori ajutava. Di Lionardo frate Luca valeasi per disegnare le figure geometriche niun altro essendovi capace di ciò fare al par di lui con esattezza. Ecco ciò che ne scrive al capo vi del suo Trattato d’architettura. » Come a pien in le dispositioni de’ tutti i corpi regulari vedete quali sono stati fatti dal degnissimo Pittore, Prospettivo, Architetto, Musico, e de tutte virtù doctato Leonardo da Vinci fiorentino nella città de Milano quando alli stipendu dello excellentissimo duca di quello Lodovico Maria Sforza Anglo ci retrovavamo nelli anni de nostra salute 1496 ec. ».[52] Così al capo x scrive: » E le figure harete sopra in questo insieme con tutti li altri per mano del prelibato nostro compatriota Leonardo da Vinci fiorentino, alli cui disegni e figure mai con verità fu homo che li potesse opponere. »
Le figure quì mentovate fatte furono in origine, cioè in quest’anno 1496, dal Vinci in numero di 60, ben disegnate e colorite or d’una or d’altra tinta pel trattato De divina proportione, dello stesso frate Luca Paciolo, medicato allora manoscritto al duca Lodovico; e quindi pubblicato nel 1509, e dedicato al confaloniere di Firenze Pietro Soderini, a cui così egli scrive: Libellum.... Ludovico Sphortiae nuncupavi tanto ardore ut schemata quoque sua Vincii nostri Leonardi manibus scalpta, quod opticen instructiorem reddere possent, addiderim.[53] Fuvvi chi la voce scalpta interpretò per intagliate in legno o in rame; ma noi sappiamo dallo stesso Paciolo che le delineò e dipinse; e ciò tre volte almeno, pel duca cioè, pel sig. Galeazzo Sanseverino, e pel gonfaloniere Pietro Soderino. Il secondo codice unitamente ad altri vinciani per dono del conte Arconati alla biblioteca nostra pervenne. Quello del duca, involato nel 1499 all’occasione dell’ingresso de’ Francesi, fu dal Soderini medesimo ricuperato;[54] e, non so come, or trovasi fra i manoscritti della pubblica biblioteca di Ginevra.[55]
A quest’anno appartiene la pittura del già mentovato codice triulziano scritto pel piccolo Massimiliano figliuolo di Lodovico, che fanciulletto ancora i rudimenti della latina lingua studiava. In questo codice (scritto certamente prima del 1497, poichè parlasi della duchessa come presente al pranzo del figliuolo) in 4.° piccolo e in pergamena, ch’io potei per la gentilezza de’ proprietarj agiatamente esaminare nel 1764, e rivedere anche negli scorsi giorni, oltre molti ornati di stemmi e di fregi, v’ha parecchi quadretti che risguardano il giovanetto principe, che titolo già avea di conte di Pavia. Fra questi, due ve n’ha che giudicar si devono del pennello di Lionardo, quali li giudicava il ch. march. ab. Triulzi uomo di moltissima erudizione e di fino criterio specialmente in conto di belle arti. In uno rappresentasi il giovanetto come in atto di complimentare l’imperatore Massimiliano suo cugino, che in quest’anno venne, se non a Milano, almeno a Como e a Meda,[56] e quindi a Pavia; e v’è in tedesco, e in latino il dialogo del complimento che far gli dovea. Nell’altro rappresentasi lo stesso fanciullo, che sta giuocando, o piuttosto guardando il volo degli uccelli, col suo aio conte Secco di Borella che gli comanda di porre fine a’ giuochi: e son pur ivi de’ versi relativi alla pittura.
Allo stesso imperatore in Pavia magnifiche feste e archi trionfali giusta l’uso romano preparò il duca,[57] dovendo come a suo signore prestargli omaggio: onde bea è da presumersi che Lionardo avrà avuta parte in tutti que’ lavori di arti del disegno e di meccanica. Certo è, ch’egli non fu dimenticato, poichè in tal occasione il duca ordinogli una tavola rappresentante la natività di nostra Signora, ch’egli dipinse e fu all’imperatore mandata in dono.[58] Essa trovasi tuttavia nel gabinetto imperiale a Vienna.
xiv. In quest’anno, e forse anche prima, il Vinci diede quì incominciamento alla più grande delle opere sue, a quella che, al dire del ch. Lanzi, è il compendio di tutti i suoi studj e degli scritti suoi, e che gli acquistò maggior celebrità, cioè al Cenacolo nel refettorio del convento delle Grazie. Non ne abbiamo una prova diretta; ma che già lo dipingesse nel 1497 lo rileviamo da una nota tratta dal fol. 17 d’un libro di spese fatte dall’architetto, o capo-mastro, che per ordine del duca lavorar faceva in quel convento, comunicata già dal P. Monti a monsig. Bottari,[59] e riletta poi e ripubblicata dal lodato P. Pino[60] che in quel luogo soggiornò finchè soggiacque al general fato delle soppressioni: nè allor cominciava, giacchè pinta v’era la finestra. Ecco la nota: 1497. Item per lavori facti in lo refectorio dove dipinge Leonardo gli Apostoli con una finestra lire 37. 16. 5. Ci dà lo stesso Pino notizia d’un antico disegno di quella pittura intagliato in rame senza data di tempo e di luogo in cui leggesi essere stata fatta quell’opera negli anni 1496 e 1497. Sappiamo altresì da frate Luca Paciolo, che nel 1498 avea Lionardo » già di sua mano pennelleggiato il leggiadro dell’ardente desiderio de nostra salute simulacro nel degno e devoto luogo de spirituale e corporale refezione del sacro tempio delle grazie, al quale oggidì quelle di Apelle Mirone e Policrete convien che cedano ». Chi vede la grand’opera, quanto le passate vicende veder la lasciano ancora, ben comprende, che angusto spazio di tempo esser dovè un biennio e anche un triennio di lavoro; e meglio ancor lo comprende chi sa che Lionardo, difficilissimo ad essere soddisfatto delle cose sue, pria meditar ne dovè la composizione che i più gran pittori trovan mirabile in ogni mossa e in ogni atteggiamento, come nel tutto insieme; e formarne di corrispondente grandezza il cartone.[61] Disegnonne non solo in piccoli schizzi ed abbozzi, de’ quali alcuni tuttavia si sono conservati,[62] ma pur in quadri di giusta grandezza » tutte ad una ad una dipinse le figure de’ dodici Apostoli e del Salvatore, i quali esemplari (scrive il mentovato P. Monti), serbavansi nella casa de’ sigg. conti Arconati, che cederongli al Marchese Casnedi, da cui passarono nella famiglia veneta Sagredo, all’estinzione della quale furono dagli eredi venduti al sig. Odni console inglese. Io stesso (continua egli) col sig. Odni parlai, quando quì venne a vedere il Cenacolo, e da lui intesi che gli esemplari erano già passati in Inghilterra, e che erano interamente simili e corrispondenti in ogni loro figura all’originale di questo nostro refettorio ». Oltre le mentovate tavole asserisce il ch. Mussi, (già p. prof. di Belle Arti nell’università di Pavia, ed ora mio collega in questa biblioteca), che anche le sole teste degli Apostoli, e del Salvatore Lionardo dipinse a pastello in separati quadretti; e fondasi, non tanto sull’autorità del Lomazzo[63] il quale chiaramente dice » che il colorare in carta a pastello fu molto usato da Lionardo da Vinci che fece le teste di Cristo e degli Apostoli a questo modo eccellenti e miracolose in carta »; ma più ancora su notizia avuta da autorevol persona (la cel. Angelica Kauffmann), che le teste degli Apostoli (ma non quella del Salvatore) fatte a pastello da Lionardo, passate erano da Roma, ov’essa le vide, in Inghilterra, comperate sul finire dello scorso secolo da due pittori inglesi. Sopra tutto però ha di ciò egli stesso un’evidente prova in sua mano, essendogli riuscito per una fortunata combinazione, di acquistare, molti anni addietro, il quadretto più importante d’ogni altro, cioè la testa del Salvatore medesimo in grandezza naturale dipinta a pastello dal Vinci per istudio del Cenacolo, che veduta poi dalla medesima Kauffmann fu da questa eccellente pittrice giudicata originale e dello stesso stile di quelle degli Apostoli summentovate. « Oltre le forme della più scelta verità naturale, scrive egli[64] di vergine beltà maschile nel maturo e compiuto fiore di giovinezza, ella è il sommo dell’espressione degli affetti i più nobili e dilicati in un dolce e maestoso contegno di eroica pietà che sente d’altrui nell’alto che dice ai commensali = uno di voi sta per tradirmi = ... E tante cose vi si scorgono espresse, senza neppure accorgersi d’alterazione veruna ne’ lineamenti delle bell fattezze: ultima cima di maestria nell’arte; onde forse non abbiamo altro perfetto esempio che ne’ sublimi volti dell’Apollo Pithio, e della Niobe ». Imberbe è questa testa, e in tal guisa, al dire di Winkelmann, altre volte lo stesso Lionardo dipinse il Salvatore, lasciandoci così un modello della più sublime beltà, che nessuno ha saputo imitare.[65] Quella resta ritrasse fedelmente il valente pittore Matteini per servirsene nel fino ed espressivo disegno, ch’ei fece dello stesso originale Cenacolo, in cui il volto del Salvatore è guasto: disegno ora moltiplicato, e renduto pubblico dal bulino del cel. Morghen, ove gli è stato aggiunto un principio di barba quale gli si vede nel dipinto e in tutte le copie anche più vicine ai tempi del Vinci.[66]
Di questi tempi sarebbono, se veri fossero gli alterchi di Lionardo col P. Bandelli priore del mentovato convento a que’ dì, pe’ quali vuolsi che il pittore minacciasse d’effigiare in quell’apostolico consesso tal Giuda che a lui somigliasse; e ’l consiglio datogli da Bernardo Zenale, che Lomazzo e Vasari scrivono essere stato da lui abbracciato, di lasciare imperfetto il volto del Salvatore, non potendo dargli quella bellezza divina, che superiore agli Apostoli lo dimostrasse. Fatto sta che la grand’opera egli ha compiuta e perfezionata, e finitissima, secondo l’Armenini, era la testa del Salvatore; e che mai non pensò a trovare nel sereno e maestoso volto del P. Bandelli, giacchè tale il descrive Leandro Alberti,[67] il ritratto odioso dello Scariota, checchè abbia scritto Giraldo Cintio,[68] che gli altri copiarono.
Sì è disputato se ad olio, a fresco, o a tempera sia stato dipinto il Cenacolo vinciano; ma che sia fatta a olio quella dipintura, oltre il testimonio dell’antica carta incisa in rame summentovata, ove leggesi che fu cavata dal dipinto a olio di Lionardo da Vinci, abbiamo l’autorità dell’Armenini, che lo stesso dice,[69] e più chiara ancora è l’asserzione del Lomazzo, il quale scrive che » Lionardo, lasciato l’uso della tempera passò all’olio che usava assottigliare con lambicchi », e ivi parla espressamente del Cenacolo.[70] E col giudizio degli antichi vanno d’accordo su questo punto anche i men vecchi, e i moderni più intelligenti pittori ed amatori: se non che il ch. Requeno[71] vuol che Lionardo dipignesse a tempra sulla parete bianca e liscia; e quindi desse sopra la pittura una vernice a olio da lui con singolar cura preparata; ma il testimonio di scrittori coevi o vicini al pittore ben sono preferibili alle conghietture di Requeno. Che però Lionardo dipingesse, e consigliasse di pingere sul muro ben candido, cel dice egli medesimo;[72] avendo, tre secoli prima di Delaval,[73] conosciuto che i colori non vengono all’occhio se non perchè la luce riflettuta dal fondo passa per la sostanza colorata e colorasi; e la riflessione tanto è maggiore quanto più il fondo è candido.
Tanti elogi sono stati fatti di questa gran dipintura per l’esattezza del disegno, pel colorito, per l’arte di far riflettere i lumi anche dagli angoli, pe’ panneggiamenti, per le fisionomie che non solo unite agli atteggiamenti di ognuno ne manifestano gl’interni pensieri, ma ben anche i rapporti di parentela fra loro e col Salvatore; e con tanta enfasi, ammirazione ed entusiasmo n’è stato scritto, che vano riputo ora il rilevarne i pregi.[74]
xv. Solo pertanto mi resta a dire a quali danni quella pittura soggiacque, non tanto pel tempo e pel loco, quanto per ignoranza trascuratezza e malignità degli uomini. Dapprincipio fu la maraviglia di tutti, e la gloria di Lionardo. Ai tempi di Francesco i re di Francia, cioè dopo quattro lustri all’incirca, era si bella ancora, che ei meditò di farla portare in Francia, ma fortunatamente nol potè.[75] Alla metà del secolo xvi Armenini[76] la disse mezzo guasta. Se crediamo al milanese Lomazzo, presto ne scomparvero tutti i colori, cosicchè i soli contorni restarono a indicarne l’eccellente disegno.[77] Ai primi anni del secolo xvii il P. Gattico dominicano che lasciò ms. la storia del convento delle Grazie ove abitava, dice, che quella pittura era alterata; e ad un’epoca poco da questa lontana dobbiamo riportare quanto scrive il summentovato card. Borromeo, cioè che del Cenacolo vedeansi solo le reliquie, e che avendo egli osservato nascere ciò dalla parete, onde cadeane l’intonaco, pensò a farne cavar copia da abil dipintore, che sulle prime disperò di ritrarne cosa alcuna; ma, avendo cominciato dalle men guaste teste degli Apostoli, riuscì a poco a poco e in quadri diversi a copiarne il tutto; e sì bene il fece che avendo potuto le sue figure confrontare co’ disegni originali delle medesime presso di noi esistenti allora, trovaronsi pienamente corrispondere.[78] Il certosino Bartolommeo Sanese nel 1624, al vedere nella Certosa di Pavia la copia fattane da Marco Oggiono, dice che più a’ Certosini che a’ Dominicani riconoscenza doveasi, perchè mentre l’originale per l’età, pel luogo umido, e per l’infetta parete, era ridotto a tale che poco si godea, la copia ben conservata ammiravasi e tramandavasi a posteri.[79] Andò verso la metà del secolo peggiorando il Cenacolo, cosicchè lo Scannelli[80] avendol veduto nel 1642 dice » non conservarsi che poche vestigia nelle figure; e le parti ignude, come teste mani e piedi, essere quasi annichilate ». Forse perchè in sì cattivo stato la videro nel 1652 i Dominicani trascuraronla a segno che difficoltà non ebbero di tagliare i piedi al Salvatore, e ai vicini Apostoli, per ingrandire la porla del refettorio. Nel 1674 il Torri disse che ’l Cenacolo, sì bello un tempo, era in sì mal essere che dirsi poteva il sole all’occaso.[81] In questo stato, e probabilmente peggiorando ancora, stette il Cenacolo vinciano sino al 1726, quando il pittore Bellotti con un suo segreto metodo, premessi avendo opportuni sperimenti, riuscì a ripulirlo e quasi a farlo rivivere. Pretesero alcuni che Bellotti ridipinto avesse il Cenacolo sui contorni vinciani; ma testimonio contemporaneo, riportato dal medesimo Pino, assicura ch’egli » fece col segreto suo rifiorire la pittura, toccando a punta di pennello que’ soli luoghi ove i colori erano affatto scaduti «. Poichè verso il 1770 tornò quella a smontare e patire singolarmente in alcune parti, fuvvi un altro pittore che a ritoccarla s’offerì, e per poco non terminò di guastarla; giacchè al dire di Lanzi,[82] in tutta quella gran dipintura non vi sono più che tre teste, che dir si possano veramente di Lionardo. Essa tuttavia ben visibile serbossi finchè, alla partenza de’ dominicani da quel luogo, (malgrado il divieto fatto, presente il mentovato Pino, dal Generale in capo, ora Presidente della Repubblica nostra, ed Imperatore de’ Francesi Napoleone Bonaparte), destinato fu il refettorio, ad alloggiamento militare, anche di cavalleria; dal che sommo danno quella pittura risentì.
Io andai a rivedere il Cenacolo in questi ultimi giorni. Appena entrato nella sala che fu refettorio voltaimi a guardarlo da vicino, e quasi nulla più non vidi: m’allontanai, e meno maltrattato mi ricomparve. M’avvidi allora che una muffa, o piuttosto efflorescenza nitrosa, sorgendo perpendicolare alla parete, a chi guarda di sotto in su tutta d’un bianco velo lo copre. Ma ahi, che al tempo istesso, rodendone la crosta, lo divora! tanto maggiormente che non essendovi ora più all’intorno il tavolato, resta sotto le pareti della terra smossa e de’ rottami impregnati di ciò che più che altro è atto a dar nitro.
Il testè mentovato P. Gattico ci lasciò scritto che Lionardo dipinse in tela l’assunzione della B. Vergine aggiugnendovi, oltre alcuni angioletti, s. Domenico e ’l duca Lodovico da un lato, s. Pietro martire e la duchessa Beatrice dall’altro. Questa tela in forma di semicircolo fu collocata sulla porta della chiesa stessa delle Grazie; e solo nel 1726 fu di là tolta e trasportata in sagristia per avviso del Bellotti, che in quel luogo copiò a fresco il quadro vinciano. Alcuni negano, dice il P. Monti (dalla cui lettera ms. traggo queste notizie) che opera sia di Lionardo, perchè è in tela, e perchè il re Francesco i, che volea trasportar la parete del Cenacolo, non avrebbe quì lasciato un quadro di sì facil trasporto; ma risponde egli medesimo che i Francesi noi curarono perchè non era opera celebre come il Cenacolo; e fors’anco non osarono allora levarlo dalla porta della chiesa. Altronde non è questo il solo quadro in tela di Lionardo rimastoci; e ne riporteremo altri esempi ove daremo il catalogo delle sue pitture. Il ritratto della duchessa mostra esser questo un lavoro non più tardo del 1497. Un’altra pittura rammenta il P. Gattico fatta da Lionardo sopra la porta per cui dalla chiesa vassi nel chiostro, e che distrutta fu a suoi dì.
xvi. Il luttuoso avvenimento della morte di Beatrice d’Este consorte a Lodovico carissima, per cui, al riferire del Corio, furono fatte stupendissime esequie avrà dato pur esso occasione al Vinci d’esercitare l’ingegno, e la mano nell’anno 1497; nel quale, come rilevo da una sua nota aveva a scolare e familiare il Salai,[83] trovandosi nel codice segnato Q. R. al fol. 94 il conto d’una cappa fattagli, che metto a piè di pagina, perchè ci dà un’idea de’ fregi, de’ prezzi delle stofe, e della man d’opera di que’ dì.[84]
Ma ciò che piucchè altro dovè in quest’anno occuparlo, fu la navigazione dell’Adda fra Brivio e Trezzo. Difficilissima impresa ella era pel precipitare delle acque, e per gli scogli che ne ingombravano l’alveo, e per la qualità del fondo in cui convenìa scavar nuovo canale, e formare opportuni sostegni. Pensò Lionardo a superare tutte le difficoltà, e pare che usar pensasse quegli stessi mezzi co’ quali navigabil si reudè l’Adda nel 1775. Quali fossero su questo importantissimo oggetto i suoi pensamenti, i calcoli, e i disegni, dirollo in appresso ove particolarmente de’ suoi studj e lavori idrostatici prenderò a ragionare.
A questi tempi possiamo credere da Lionardo scritta la seguente nota de’ suoi lavori, che Oltrocchi copiò dal fol. 317 del cod. atlantico, ove sta di sua mano, e a caratteri rovesci.
Una testa in faccia di giovane con bella capellatura.
Molti fiori ritratti dal naturale.
Una testa in faccia ricciuta.
Certi Sangirolami in su duna figura.
Disegni di fornegli.
Una testa del Duca.
Molti disegni di gruppi.
Quattro disegni della tavola di Santangelo.
Una Storietta di Girolamo da Feghine.
Una testa di Cristo fatta a penna.
Un San Bastiano.
Molti componimenti d’Angioli.
Un Chalcidonio.
Una testa in profilo con bella capellatura.
Certi coppi di prospettiva.
Certi strumenti per navilj.
Certi strumenti de acqua.
Una testa ritratta de Atalanta che alzava il volto.
La testa de Geronimo da Feghine.
La testa di Gianfrancesco Borro.
Molte gole di vecchie.
Molte teste di vecchi.
Molti nudi integri.
Molte braccia, gambe, e piedi, e attitudini.
Una Nostra Donna finita.
Un’altra quasi con profilo.
La testa di N. Donna che va in Cielo.
Una testa d’un vecchio col mento lungo.
Una testa di zingana.
Una testa chol chapello in chapo.
Una Storia di Passione fatta in forma.
Una testa di putta con trecce rannodate.
Una testa bruna a chonciatura.
Confrontando questa nota co’ disegni di Lionardo che sono ne’ nostri codici, nel triulziano, e presso De Pagave, de’ quali alcuni pubblicaronsi dal Gerli, e dal Mantelli,[85] rilevasi che molti esistono ancora fra noi, o almeno pochi anni prima v’esistevano. Certamente dopo il Cenacolo, e prima delle sciagure del Moro dipinse Lionardo un’altra volta la bella Cecilia, già in età matura, sulla tavola che ammirasi nella casa Pallavicini a San Calocero, della quale parlerò trattando delle sue pitture.
xvii. Riuscì, come dicemmo, a Carlo viii re di Francia, cogli ajuti e più co’ raggiri di Lodovico il Moro, di spogliare del regno gli Aragonesi, e rendersi ligia tutta l’Italia. Nel 1498 egli morì, e gli succedè il mentovato duca d’Orleans col nome di Lodovico xii. Non tardò il Moro ad avvedersi dell’error suo chiamando quì i Francesi, che sul ducato, a norma d’antiche convenzioni, più di lui stesso avean diritto. Si studiò di ripararlo; e peggio ancora, come vedremo, gliene avvenne. Aveva egli intanto, fra gli altri mali, esausto talmente di danaro il suo erario, non tanto pel mantenimento dell’armata francese, quanto per infinite altre spese voluttuose, delle quali l’eloquente Arluno ci ha lasciato nella sua storia un vivissimo quadro,[86] che, sebbene i sudditi di grandissimi sussidj, e con sempre nuove gravezze sovraccaricasse, come dice Corio, pur l’oro mancavagli, onde pagare gli stipendiati, a gli operai, e dar compimento ai gran lavori incominciati. Il più importante di questi per Lionardo era il gitto della statua equestre. Egli, ajutato probabilmente ne’ calcoli dall’amico frate Paciolo, come dal modello vedeasene l’altezza,[87] e ogni altra dimensione, così calcolato avea che il peso del bronzo ascendeva a libbre 220,000 di dodici once ciascuna. Invano bramavasi l’eseguimento di sì bell’opera: invano il poeta Lancino Curzio andava cantando al Moro: » Stassi aspettando il colosso; fa che il bronzo scorra, e tutti esclameranno, ecco un Dio ».[88] Il duca non solo non aveva il modo di ciò fare; ma da una lettera di Lionardo, di cui solo ci è rimasto un frammento scritto a rovescio che si dà a piè di pagina,[89] rileviamo in quanta miseria egli lasciasse gli artisti e gli operai. E che altro voglion dire quelle espressioni che conosce i tempi; che gli restava ad avere il salario di due anni; che delle provvisioni già avute non si trovava in mano che lire 15 dedotte le spese; che vuol mutare la sua arte ec. se non che il lavoro intorno alla statua non procedeva, e che non potea più mantenere del suo gli operai?
Tuttavia il duca, in mezzo ai maneggi politici, co’ quali l’Italia tutta studiavasi d’armare contro la Francia, e ai militari apparecchi, le usate conversazioni letterarie nel suo castello tenea, come veggiamo dalla già mentovata epistola dedicatoria di frate Luca, che così comincia: » Essendo, excellentissimo duca, a dì 8 di Febbraio, di nostra salute gli anni 1498 correndo... alla presenza vostra costituito in lo laudabile e scientifico duello de’ molti celeberrimi e sapientissimi accompagnata... del cui numero è Leonardo da Vinci ec. ». Di tutti i più celebri uomini in ogni scienza ed arte che quì erano allora, fa in essa onorevol menzione, e Lionardo suo sopra tutti esalta, come altrove osservammo.
Così a quest’anno dobbiamo principalmente riferire i suoi studj di Fisica, e di Meccanica, de’ quali più sotto parlerassi; narrando lo stesso frate Luca, che Lionardo compiuta la gran dipintura del Cenacolo » non di questo sazio, all’opera iuextimabile del moto locale, delle percussioni e pesi e delle forze tutte cioè pesi accidentali (avendo già con tutta diligentia al degno libro de pictura e movimenti humani posto fine) quella con ogni studio al debito fine attende de condurre ». Ecco pertanto come in quest’anno in cose matematiche, e insieme nel disegno e nella pittura, malgrado la perversità de’ tempi, si occupò Lionardo.
xviii. O fosse per un giusto salario della grand’opera del Cenacolo, o un compenso per ciò di che gli era debitore, e per sollevarne l’esposta miseria, un generoso dono fece nel seguente anno 1499 il duca Lodovico a Lionardo, dandogli sedici pertiche d’una vigna che comperata dianzi aveva dal monistero di s. Vittore pressa porta Vercellina con pieno diritto di proprietà. Registrata trovasi questa donazione nel libro O all’ufficio Panigarola, che forma parte dell’archivio pubblico al fol. 182.[90] Di questa vigna di fatto egli dispose nel suo testamento, metà lasciandone al Salai, che di suo consenso già fabbricata v’aveva una casa, e metà al suo servitore de Vilanis, che fe’ procura a messer Gerolamo Melzo, perchè gliela vendesse, come più sotto vedremo. Di questa già posseduta dagli eredi di Lionardo, e quindi da loro venduta, trovasi frequente menzione come proveniente da un dono del duca a Maestro Leonardo Pittore, nelle carte dell’archivio de’ Gesuati, che pochi anni dopo fabbricarono nelle vicinanze di quella vigna il convento di s. Gerolamo, posseduto poi da Gesuiti, quindi da Somaschi, ed ora secolarizzato.
Fu questo senza dubbio l’ultimo tratto di generosità che con Lionardo usò il Moro, poichè essendogli venuto addosso con possente esercito il re di Francia, a cui, mal consigliati, collegati s’erano i Veneziani e ’l Papa, fu costretto a fuggire, e seco portò quanto di prezioso aveva, e ’l danaro tutto; interamente esausto, al dir del Corio, lasciando l’erario. Nè certo i Francesi, e molto meno i Milanesi loro collegatisi, diedersi cura de’ Letterati, e degli Artisti, e de’ bei monumenti dell’arte: anzi sappiamo dal Corio che distrussero la magnifica stalla di Galeazzo Sanseverino da Lionardo disegnata; e, ciò che sommamente deve aver rattristato quest’artista fu il vedere che, come narra il cav. Sabbà da Castiglione,[91] » la forma (cioè il modello) del cavallo, intorno a cui Lionardo avea sedici anni continui consumati, per ignorantia e trascuratezza d’alcuni, i quali, siccome non conoscono la virtù, così nulla la estimano, si lasciò vituperosamente minare, essendo stata una così nobile ed ingegnosa opera fatta bersaglio a balestrieri guasconi. »
xix. Scrive il sovente mentovato amico di Lionardo fr. Paciolo nel capo vi del suo Trattato d’Architettura che insieme trovaronsi agli stipendj del duca Lodovico Sforza dal 1496 al 1499 » donde poi, dic’egli, dassiemi per diversi successi in quelle parti ci partemmo, e a Firenze pur insieme traemmo domicilio ». Sembra dunque che in quest’anno Lionardo abbia abbandonato Milano; e andato siasene tosto a Firenze; ma altronde abbiamo sul cartone del codice segnato Q. R. in 16 una nota di sua mano tutta relativa a cose milanesi, e scritta certamente dopo che il Moro fu condotto prigione in Francia, cioè nell’anno 1500. Eccola:
Edificii di Bramante.
Il Castellano fatto prigione.
Il Visconte strascinato e poi morto il figliuolo.
Gan della Rosa toltoli i danari.
Bergonzo principiò e nol volle; e poi fuggì la fortuna.
Il duca perso lo stato ella roba ella libertà, e nessuna sua opera si finì per lui.
Non è facil cosa l’indovinare la mente di Lionardo in questi tronchi sensi; ma è chiaro che indicati vengono alcuni particolari disastri degli amici suoi in conseguenza della prigionia del duca. Fra gli Edificii del Bramante rimasti imperfetti deve annoverarsi la canonica di s. Ambrogio edificata da un solo lato, come tuttor si vede, pel compimento della quale già preparate erano le colonne, che dopo cento anni trovò ancora giacenti al suolo il card. Federico Borromeo. Il castellano di cui quì parlasi era forse il castellano francese, che avendo nel 1500 ceduto senza necessità il castello a Lodovico, al ritorno de’ Francesi fu tratto in prigione e punito al riferire del Daprato.[92] Chi fosse quel Visconte noi sapremmo indovinare fra tanti di questo nome. Arluno narra che allora atterrate furono le case de’ Visconti, de’ Castiglioni, de’ Sanseverini, e de’ Botta e non è improbabile che ne fossero insultati e morti i padroni. Molti Visconti annovera lo stesso Cronista[93] che per essersi rallegrati del ritorno del duca in Milano furono da’ Francesi arrestati, e strascinati in Francia come prigionieri di stato; e fra questi Messer Francesco Visconti, e suo figliuolo Battista. Gian o Giovanni della Rosa, forse Giovanni de Rosate prof. a Pavia,[94] Medico ed astrologo del duca. Borgonzio, o Brugonzio Botta fu regolatore delle ducali entrate sotto il Moro,[95] alla cui fuga la casa sua fu pur messa a sacco da’ partitanti francesi. Di lui narra Daprato[96] ch’ebbe bella moglie chiamata madonna Daria, la quale piacque al re Francesco i. Nota è l’infelice catastrofe del duca. Fuggito essendo, come dicemmo, nel 1499, dopo avere cercato invano in Italia, e per sino dal Turco[97] ajuto conlro i Francesi, ebbe dall’imperatore Massimiliano, e dagli Svizzeri tali forze, che unitesi ai Milanesi, ai quali, i Francesi, dice il Porcacchi continuatore del Corio, eran venuti a noja, scacciarono questi dalla Lombardia, e ’l Moro sul trono riposero. Ma breve fu la sua gloria; poichè, nell’aprile del 1500, gli Svizzeri medesimi lo venderono a suoi nimici, e dieronlo in mano al generale De la Trimouille, che mandollo al re, per cui ordine fu condotto in Francia, ove chiuso stette lungamente nel castello di Loches, e vi morì.
Sembra pertanto che non nel 1499 ma nel 1500, dopo il ritorno e la prigionia del duca, sia da quì partito Lionardo per andare a Firenze; ed è quindi probabile, che i mesi di governo nuovo e incerto abbia passati coll’amico suo Francesco Melzi a Vaprio, ove meglio che altrove studiar potea la natura, e soprattutto le acque, e l’Adda specialmente, che già era stato l’oggetto delle sue idrostatiche ricerche. Se il bel monumento di Lionardo, cioè l’effigie gigantesca della Vergine, che nella casa de’ Melzi a Vaprio ancor s’ammira, sia di quest’anno, ovvero del 1507, non oso determinarlo. Ne riparleremo più sotto.
Egli però non trascurò il nuovo sovrano, a cui già era noto, per non perdere interamente il frutto de’ lunghi servigj prestati a questo paese; onde sempre riputossi come artista addetto alla corte del signor di Milano: e si lusingò forse un momento di veder quì rifiorire le scienze e le arti; ma ben presto s’avvide che il re non pensava che alle danze e ai piaceri, onde fermò nell’animo suo di portare altrove i suoi talenti; e partissene col suo caro Salai e col valente matematico fra Paciolo, e insieme a Firenze, come già s’è notato andarono a fissare il loro domicilio.
xx. Certo è che in quel paese Lionardo non fu trascurato, perchè il gonfaloniere perpetuo Pietro Sederini annoverollo tra i suoi familiari come pittore, del che pur abbiamo a testimonio il collega suo frate Luca;[98] e conveniente provvisione aveagli assegnata. Narra a questo proposito il Vasari, che avendolo una volta il cassiere del gonfaloniere voluto pagare con cartocci di quattrini, egli non li volle pigliare, dicendo: io non sono pittore da quattrini.
Nè fu già egli in Toscana ozioso, ma de’ favoriti suoi studj, l’idrostatica cioè e la pittura, occupossi costantemente. In quello, o nel seguente anno fece il celebre cartone di s. Anna commendato dal Vasari, che minutamente ne descrive il pregio, e dice che fu portato in Francia, daddove fu riportato in Italia, e trovavasi in mano d’Aurelio Luino ai tempi di Lomazzo[99]. Tra le note del consiglier De Pagave trovo essere opinion sua, che Bernardino Luino padre d’Aurelio su questo cartone abbia dipinto sulla tela a tempra il bel quadro che sta ora nella cappella domestica de’ sigg. Venini nella contrada di Chiaravalle, venduto loro dalla famiglia Mauri, che tenealo per un’opera dello stesso Lionardo; e due valenti pittori, co’ quali ultimamente lo esaminai, tengon per fermo pur essi che lavoro sia del Luino, ed una delle buone sue opere. Scrisse il P. Resta[100] che tre simili cartoni fece Lionardo, de’ quali uno, dipinto dal Salai, trovasi ancora nella sagristia di san Celso in Milano.
Fece il Vinci stando a Firenze, i ritratti di due donne fiorentine rinomate per bellezza, cioè Lisa del Giocondo, e Ginevra d’Amerigo Benci, de’ quali il Vasari parla come di cose divine.
Colà studiossi pur egli di giovare alla sua patria calcolando il modo di render navigabile l’Arno da Firenze a Pisa, come già osservammo, traendone argomento da una sua nota, che probabilmente a questi tempi appartiene anzichè a quei che precederono la sua venuta a Milano. Sta questa nota nel codice segnato Q R alla prima pagina così scritta all’uso vinciano. Dal muro d’Arno della Giustizia allargine dArno di Sardegna dove sono i mori alle mulina è br. 7400 et dilà dArno è br. 5500. Chi ben conosce quel paese potrà trovarvi i luoghi indicati, l’esattezza della misura, e l’utilità del progetto argomentarne. Se questo, come ve n’ha tutta la probabilità, ha rapporto al progetto di cui parla Vasari, dobbiamo crederlo quello stesso che dopo due secoli s’eseguì colla direzione del cel. Viviani. V’è alla pag. 45 del codice medesimo il disegno d’un canale, che parte della Toscana attraversa, e che probabilmente al mentovato progetto riportasi.
Al tergo della stessa prima pagina altre cose parecchie ha notate Lionardo per ajuto della memoria, fra le quali veggo esservi una baga da nuotare, che mi richiama alcuni ingegnosi suoi ritrovati relativi allo stare, e moversi sull’acqua, e dentro l’acqua stessa, de’ quali ragioneremo in appresso.
xxi. Frattanto in quell’anno o nel seguente percorse gran parte d’Italia, e la percorse da artista, da meccanico, da architetto, da filosofo insomma quale egli era, tutto osservando, notando e disegnando quanto d’istruttivo gli si presentava. Visitò così la Romagna, ossia l’Emilia, poichè dalle note che trovansi nel codice segnato Q. R., veggiamo che ai 30 di luglio del 1502 era in Urbino ove disegnò una colombaja e una scala a varie entrate, e la fortezza (fol. 6): al primo d’agosto era a Pesaro ove fece d’alcune macchine i disegni che veggonsi sul cartone ultimo del libro: agli 8 d’agosto era in Rimino, ove lo colpì l’armonia risultante dal cader dell’acqua di quella pubblica fonte: agli 11 era a Cesena, e ivi disegnò una casa, descrisse un carro (fol. 83) e la maniera con cui i Cesenati portavano pendenti le uve (fol. 36). Ai 6 di settembre era al Cesenatico, e disegnonne il porto (fol. 65). Va notando poi in altre pagine le distanze da Bertinoro ad Imola, a Faenza, a Forlì. Dall’Emilia, per la via di Bologna, era egli tornato probabilmente alla patria, daddove un altro viaggio per la parte meridionale della Toscana ha intrapreso; poichè nel libro istesso (fol. 94) le note ha registrate delle distanze da Buonconvento alla Casanuova, a Chiusi, a Perugia, a Foligno. Altrove poi (pag. 6) scrisse l’osservazione fatta a Piombino su un’onda del mare che incalza l’altra e viene a spianarsi sul lido. Descrive una singolar campana di Siena e la snodatura del suo battocchio. Novera fra i paesi che vide Orvieto e Acquapendente; e fa la memoria di chiedere l’Archimede del vescovo di Padova, e l’opera di fra Luca al Vitelloso.
Nè credasi già che viaggiasse Lionardo per ozio o a cercar lavoro o per isfuggire ai mali della guerra che accesa aveva per una parte d’Italia la smodata ambizione del duca Valentino Borgia, e di suo padre Alessandro vi, che tutti i minori principi italiani di privar tentò, e privò in parte de’ loro stati per dare, se gli fosse stato possibile, il regno d’Italia a quello scelerato suo figliuolo. Fu appunto la prepotenza del duca Valentino, che a Lionardo giovò in quel momento, poichè dichiarollo suo architetto e ingegnere generale, e a visitare spedillo tutte le fortezze degli stati, de’ quali aveasi già usurpato il dominio, sotto il titolo di gonfaloniere, e capitano generale della Chiesa. Un documento autentico e importante di ciò, in data appunto del 1502, sta nell’archivio Melzi, da cui il consigl. De Pagavo per gentilezza del sig. cav. Giacomo Melzi (zio del Vice-Presidente della nostra Italiana Repubblica) ch’egli a ragion commenda come delle belle arti intelligente e amantissimo, potè trarre autentica copia. È questo una patente in pergamena, che il mentovato duca Valentino diede a Lionardo, e che trascrivo a piè di pagina.[101]
xxii. In questi anni, e, se crediamo al Moreri, precisamente nel 1503 Lionardo fu incaricato di dipingere nella sala del consiglio di Firenze un tratto luminoso della storia fiorentina. Abbiamo in una lunga sua nota[102] l’idea di ciò che rappresentar volea, cioè la battaglia in cui fu rotto Nicolò Picenino generale del duca Filippo Maria Visconti l’anno 1440 presso Anghiari in Toscana: abbiamo molti abbozzi di cavalli[103] in diverse positure, che di quel gran lavoro sembrano studj; e sebbene siasi smarrito l’intero cartone, pure si è serbato il disegno almeno d’una parte di esso, in cui veggonsi alcuni cavalieri combattere per uno stendardo; il qual disegno fu pubblicato nell’Etruria Pittrice;[104] e la stessa zuffa incise Edelinch, su disegno però che vuolsi essere stato ridotto e contraffatto da Rubens. Dal ragguaglio della battaglia scritto dal Vinci, diffuso e minuto, e a gran quadro adattato più che non cel danno gli storici,[105] scorgiamo come Lionardo ben s’informasse d’ogni circostanza, talor anche immaginaria ma verosimile qual è l’apparizione di san Pietro, prima d’effigiarsene in mente la composizione. Narrasi che la fama di questo cartone abbia attirato a Firenze il gran Raffaello, che lavorava allora nella libreria del duomo di Siena, ed abbia questi da Lionardo specialmente appreso ad ingrandire la sua maniera, e a dare alle sue figure una maggiore energia, applicandosi con diligenza ad imitarne la naturalezza, e la grazia.[106] Trae da questo cartone del Vinci argomento il Lomazzo d’avvertire i pittori che » negli uomini, ne’ cavalli, e in altri animali, non si dovrebbono del tutto esprimere i moti così estremi, se non si è costretto più che da necessità di effetto sforzato e terribile, siccome fece nella sala del consiglio di Firenze Lionardo, dov’egli espresse con atti stupendi, e scorci maravigliosi, alla concorrenza de’ quali Bonarotti, fece il suo maraviglioso cartone de’ nudi ».[107] Scrive il Vasari, che avendo il Vinci data sul muro una vernice per dipingervi a olio, questa mal riuscì, onde non eseguì la dipintura.
Nel tempo del suo soggiorno in Toscana, siccome rilevasi dal Baldinucci[108] e dal Vasari, egli ajutò coll’opera, formandogliene i modelli, e col consiglio il valente statuario, e gittatore in bronzo Francesco Rustici per le tre statue, che ancor veggonsi sulla porta boreale della basilica di s. Giovanni in Firenze.
xxiii. Nel 1504 egli perdè il padre suo ser Piero ai 9 di luglio, avendo egli stesso fatta di ciò memoria nel cod. atlantico al fol. 70; ma, ciò, comunque illegittimo ei fosse, non istaccollo punto dalla sua famiglia; poichè abbiamo da una sua nota scritta nel fol. 2 del cod. in 4 segnato S con questo titolo, Uccelli ed altre cose = che essendo nel 1505 Lionardo a Barbiga presso Fiesole, ove, come già vedemmo, i Vinci aveano una villa, v’osservò il volo d’un uccello di rapina, e così ne descrisse i movimenti: Quando l’uciello ha gran larghezza d’alie e pocha choda, e che esso si volglia inalzare, allora esso alzerà forte le alie, e girando riceverà il vento sotto l’alie, il qual vento facendosegli intorno lo spingerà molto con prestezza, come il cortone uccello di rapina chio vidi andando a Fiesole sopra il locho di Barbiga nel 5 (1505) addi 14 di Marzo. Delle osservazioni sue sul volo degli uccelli, e degli uomini, intorno al quale molti disegni ci ha lasciati, parlaremo trattando de’ suoi ritrovati meccanici.
Leggesi nello stesso codice. 1505. Martedi sera a dì 14 d’aprile. Venne Lorenzo a stare con mecho: disse essere d’età d’anni 17.... a dì 15 del detto aprile ebbi scudi 25 d’oro dal chamerlingo di santa Maria nuova. Vedremo come nelle mani di questo camerlingo collocò poi Lionardo ad interesse una somma di danaro di cui dispose nel testameuto; e poichè lo veggiamo ora riceverne 25 scudi d’oro, possiamo argomentare ch’egli qualche considerabil lavoro fatto avesse in Firenze degno di tanto premio. Cotesto Lorenzo, che poi gli fu sempre compagno, almeno sin che stette in Italia, sarebb’egli Lorenzo Lotto bergamasco? Sappiamo essere stato questo valente dipintore uno de’ bravi scolari del Vinci.
Trovandosi nel piccol codice archintiano in 24.mo il disegno del giardino di Bles (Blois), fatto dal Vinci, sospettar si può, che nel 1506 egli, che tuttavia consideravasi al servigio del re di Francia Lodovico xii, sia colà andato; e aceresce forza a questa congettura il leggere nel codice vinciano in 16 segnato X a nel primo foglio questa annotazione = Monbracco sopra Saluzzo, sopra la Certosa ad un miglio appiè del Monviso ha una miniera di pietre faldata, la quale è bianca come marmo di Carrara senza macule, che è della durezza di porfido e più,[109] delle quali il compare mio maestro Benedetto scultore hammi promesso mandarmene una tavoletta per li colori. Vero è che in quel foglio leggesi pur la data a dì 6 Gennajo 1511; ma oltrecchè queste ultime parole vi sono forse state scritte posteriormente; può ben anch’essere ch’egli abbia notato dopo alcuni anni ciò ch’avea prima osservato: altronde dalla minuta descrizione del luogo bea mostra d’esservi stato.
xxiv. Non è quindi improbabile che di Francia sia quì tornato Lionardo a richiesta de’ Milanesi, che forse non pienamente perfezionata dal Moro videro la navigazione del canale della Martesana, e imperfetta pur vedeano, per la soverchia acqua vegnentevi dal Ticino, quella del naviglio grande. Ma checchè siane del luogo d’ond’è partito per quì venire, e della cagione che a venire l’ha indotto, certo è che nel 1507 Lionardo era nuovamente in Lombardia. Al fol. 130 del codice atlantico leggesi un frammento dell’abbozzo d’una sua lettera da lui scritta alla sua maniera in questi termini = Canonica[110] di Vavro (Vaprio) a di 5 luglio 1507. Cara mia diletta madre et mia sorella et mia cognata avvisovi chome sono sano per la grazia di Dio ec.
Che non solo nella Casa de’ Melzi alla Canonica, ma anche nel loro palazzo di Vaprio Lionardo facesse soggiorno, n’abbiamo un argomento glorioso per lui, e pel suo ospite, cioè la già indicata immagine di mezza figura d’una Vergine su una parete » di stile gigantesco il più sublime, (per valermi dell’espressione del P. Dellavalle) e ’l più morbido che veder si possa. Che bella treccia di capegli cade dal capo della Vergine! che bell’impasto di carnagione, che morbidezza! che contorni! Oh quì sì che ognun vedrebbe Correggio uscito dalla scuola del Vinci «.[111]
La testa della Madonna è alta 6 palmi comuni, e quella del Bambino è alta 4. Alcuni la dissero di Bramante, che certamente tanto non sapea fare. Gran danno ebbe tal pittura nel 1796, poichè i soldati accesero il fuoco presso quella parete, e parte ne annerirono; ma i due volti si sono sufficientemente conservati.
In questo stesso anno 1507 fece il re Lodovico la conquista di Genova, e sì ne fu contento, e sì n’andò glorioso, che venir volle in Lombardia a trionfarne. Descrive il Daprato la regal pompa che in Milano si vide con archi e carri ad imitazione de’ romani trionfi; e più ancora ad imitazione della descritta festa nuziale del duca Gian Galeazzo e d’Isabella per la personificazione delle virtù, e pe’ versi che recitavano: per le quali cose, abbenchè non veggalo nominato, ben congetturo che non si sarà lasciato inoperoso il talento di Lionardo.
Sappiamo altresì che qnesti allora in Lombardia era col suo fido Salai, al quale nell’ottobre fece un imprestito di cui lasciò la seguente nota sul cartone interno dello stesso codice: Addì 15 ottobre 1507. Ebbi sc. 30. 13 ne prestai a Salai per compiere la dote alla sorella, e 17 ne restò a me.
Nè senza fondamento è il pensiere che quì veramente Lionardo tornasse per motivo de’ nostri canali. Vaprio, non dee soltanto considerarsi come luogo ove godea dell’ospitalità generosa dell’amico suo, ma anche come situazione opportunissima per esaminare il modo di migliorare il naviglio, e assicurarne la navigazione senza danno de’ particolari. Trovasi sul primo foglio del codice vinciano segnato X b = comprato in Milano a dì 12 ottobre 1508, e in questo codice alla pag. 76 leggesi un capitolo intitolato = Del canale della Martegana = cioè Martegiana, o Martesana, in cui espone il suo parere sul minorare il danno che risulterebbe al Lodigiano per l’acqua tolta all’irrigamento de’ prati a favore della navigazione, coll’introdurne nel canale una maggiore quantità, e destinando all’irrigazione quelle delle sorgenti (da noi volgarmente dette fontanili) che scaverebbonsi sulle sponde del canal medesimo.
Nel mentovato piccolo codice archintiano, scritto circa questi tempi, trovasi alla pag. 29 l’abbozzo d’uno scaricatoio pel naviglio grande; e un disegno pulitissimo dello scaricatoio medesimo progettato da Lionardo, ed eseguito presso san Cristoforo, ove tuttora si vede, trovasi nel codice atlantico con queste parole = Navilio di san Cristoforo di Milano, fatto a dì 3 di Marzo 1509; il qual lavoro meritogli il generoso premio, di cui parleremo fra poco.
xxv. Dominava, siccome dicemmo, nel testè mentovato anno in Lombardia il re di Francia Lodovico xii, e vedendo egli di continuo minacciati questi paesi dai Veneziani, che gli stati della chiesa, e d’altri principi cristiani invadevano o infestavano, entrò a parte della famosa lega di Cambrai, e con poderoso esercito, diretto specialmente dai consigli del suo maresciallo Giangiacomo Triulzi, quì venne. S’azzuffarono le armate ad Agnadello presso l’Adda. Le truppe venete furono interamente sbaragliate e rotte; e ’l re, riportata avendo una compiutissima vittoria, volle trionfare in Milano. che Lionardo fosse allora incaricato di quella trionfal pompa argomentasi dalla descrizione che ce ne ha lasciata Arluno,[112] nella quale sebbene non lo nomini, pur ne descrive le pitture, gli archi di trionfo e i fregi tutti, che le strade e i pubblici edifizj adornavano, in modo da far vedere che dal nostro valente pittore architetto e meccanico furono eseguite. Adopera fra le altre la frase di pitture mollissime, cioè mostranti morbidezza, che spiega poi come quasi viventi: frase da lui altrove applicata alle sole pitture di Lionardo. Essendo stato fatto tutto l’apparato della pompa in soli 46 giorni, ben possiamo argomentare che tutti gli scolari suoi egli seco a quel lavoro impiegasse, e molti n’avesse.
Probabilmente in quest’anno egli fece il ritratto del mentovato Giangiacomo Triulzi del quale trovo fatta menzione dal Lomazzo,[113] e che dicesi ora nella elettorale galleria di Dresda.
In questo stesso anno due singolari beneficenze ebbe il Vinci dal re: una cioè di dodici once d’acqua da estraersi dal naviglio grande in vicinanza di s. Cristoforo, ove immaginata e diretta avea la bell’opera degli scaricatoi; e l’altra d’aver titolo e stipendio di pittore del re. Il titolo gliel veggiamo dato in una nota al fol. 171 del codice atlantico, ov’è uno scritto in vecchio francese colla direzione = A Monsieur Lyonard Peintre du Roy pour Amboyse =, e nello stesso suo testamento Pittore del re si chiama. Della sua pensione a questo titolo fa menzione egli stesso in una sua lettera, che credesi diretta al governatore Carlo d’Amboise scritta da Firenze nel 1511 (poco prima che questi morisse, o forse già morto essendo, e ignorandolo Lionardo); e ivi pure rammenta il summentovato dono delle dodici once d’acqua. Avrei caro di sapere gli scrive egli, se a-vendo io quì lavorato pel cristianissimo re, la mia provisione è per correre a no. Scrivo anche al presidente intorno a quell’acqua che mi donò il re ec. D’amendue le reali summentovate beneficenze parla poi e dispone nel suo testamento rogato l’anno 1518, in cui fra le altre cose leggesi che » il Testatore dona et concede al detto Messer Francesco Melzo il resto della sua pensione ec. «.[114]
xxvi. La morte di Lodovico il Moro, dopo 10 anni di prigionia nel castello di Loches, avvenuta nel 1510, non senza sospetto di veleno[115] fu un terribile argomento della vanità delle umane grandezze e della instabilità delle cose. Non essendo in questo tempo Lionardo in Milano in nessuna particolare opera occupato, darsi avea determinato interamente allo studio delle scienze e della letteratura, il che argomento dalla seguente sua nota scritta nel cod. X  fol. 1, ove annovera i libri o prestatigli, o rendutigli, che aver volle. = Da Messer Ottaviano Pallavicino, il Vitruvio - Dal Bertuccio, Marliano de Calculatione - Da Fra Bernadigio, Alberto de cœlo  et mundo - Da Alessandro Benedetto, l’Anatomia - Da Nicolò della Croce, il Dante. La qual nota a due riflessioni ci porta, cioè che parecchi studiosi uomini di chiare famiglie quì v’erano, de’ libri e del sapere amatori; e che versato in ogni dottrina era Lionardo; e tali voleva gli scolari suoi: dal che ne nacque, come notò il ch. Lanzi, che la scuola Lombarda fu sempre più d’ogni altra osservante del costume e dell’antichità.
Morì in questo stesso anno o a principio del seguente il giù mentovato ser Francesco Vinci zio di Lionardo; e questi, avendo diritto a dividerne l’eredità co’ fratelli, che gliela contrastavano, determinò d’andare a Firenze; e chiese perciò lettere commendatizie al regio locotenente che gliele promise. Recammo giù sul principio di queste Memorie (pag. 17) lo squarcio della lettera scrittagli dal Vinci per impetrare in quest’affare il suo patrocinio, provando noi con essa, che, se legittimo ei pur non era, doveva almeno essere stato legittimato. Se  abbia vinta la causa, l’ignoro. È certo che messer Francesco Melzi, dando ai fratelli suoi nuova della morte di Lionardo, scrive loro aver questi lasciato in Fiesole un podere, che vuol tra loro diviso. Vero è che di questo podere non si fa menzione nel testamento; ma in esso Lionardo dispone » di quattrocento scudi del sole che avea messi in deposito in mano del camerlingo di santa Maria nuova in favore de’ suoi fratelli carnali «; e ben potrebbe questa somma essere una porzione datagli dell’eredità per cui era colà andato: alla qual congettura aceresce probabilità il vedere che questa sola somma (è forse il fondo di Fiesole) lasciò divisibile tra i fratelli, che se la diviser di fatti nel 1520,[116] mentre degli altri beni e danari per gli amici e domestici suoi dispose. Darò appiè di pagina le lettere (non però colla sua ortografia) da lui scritte al luogotenente, al presidente, e a messer Francesco Melzi,[117] sì perchè contendono de’ ragguagli nteressanti la vita di Lionardo e la storia de’ nostri canali, e della pubblica amministrazione; sì perchè egli vi fa menzione di due sue tavole di varia grandezza rappresentanti due nostre donne, cioè due quadri della B. Vergine, cred’io, anzichè i ritratti della Lisa del Giocondo, e della Ginevra Benci, come parve a taluno. Quali riscontri gli rendesse Salai venuto a Milano apportator delle lettere nol trovo notato; ma che allora o poi abbia ottenuto il pieno possesso dell’acqua donatagli dal re, lo rilevo dal suo testamento in cui ne dispose.
Con Salai e con Lorenzo il nostro Lionardo quì tornò nel 1512, forse per ottenere l’acqua non avuta ancora, e che formar dovea senza dubbio la maggiore delle sue rendite, e dalla quale egli pensava, come rileviamo dalla prima delle sue lettere, trarne anche maggiore profitto costruendovi sopra delle macchine e degli stromenti. Forse in questo tempo, acciò il miglioramento de’ bocchelli si facesse, e venisse fatto col giusto risparmio d’acqua, egli esaminò come calcolar si debba l’acqua uscente da una data luce secondo le diverse circostanze, come vedremo più sotto.
xxvii. Essendosi formata da principi italiani, secondati dall’imperatore, una lega per rimettere sul trono della Lombardia la discendenza degli Sforza, ricominciò la guerra; e Massimiliano figliuolo di Lodovico il Moro quì venne trionfante a pigliare il possesso del paterno retaggio condottovi da quegli stessi Svizzeri, che tradito aveano suo padre. Fecersi allora delle feste, delle quali a ordinar la pompa non oso dire che Lionardo avesse parte, sebbene di Massimiliano, al tempo di sua fanciullezza, fosse probabilmente stato maestro, e sicuramente avesse dipinto il suo abbecedario, e fattone il ritratto, come dicemmo (pag. 63). Se veritiero è il Campi[118] Lionardo fece quì, anche a questi tempi, il ritratto del duca Massimiliano; il che mostrerebbe che, sebbene avesse servito il nimico e l’usurpatore de’ suoi stati, tuttavia questo sovrano apprezzavalo, e dell’opera sua si valeva. Due ritratti del duca Massimiliano che voglionsi di mano del Vinci, abbiamo in Milano uno cioè nella galleria nostra, e l’altro in quella de’ Melzi.
A quest’epoca, come già avvertimmo, dovremmo riportare gli studj anatomici di Lionardo in Pavia se veramente Marcantonio della Torre solo nel 1511 fu fatto professore in quello studio; ma essendo stata in questo tempo brevissima la dimora del Vinci presso di noi, non pare verosimile che in quest’anno soltanto della anatomia siasi occupato; ed è ben più probabile che il mentovato professore, che pur vivea nel 1511, anno in cui ne fa menzione il Parodi, iusegnasse la notomia anche molti anni prima.
Nell’anno seguente i Francesi, disfatti alla battaglia di Novara, doverono abbandonar l’Italia; e Lionardo che si sarà veduto senza mezzi di sussistenza, attesa la miseria in cui il mantenimento di prepotenti armate aveano posto il duca, pensò bensì a ritirarsi dalla Lombardia, ove tutto era, dice il Daprato, confusione, vendetta e indigenza; ma, anzichè abbandonar l’Italia, s’avviò a Firenze in compagnia di mess. Francesco Melzo e de’ suoi scolari. Lasciò di ciò memoria nel codice segnato B alla pag. 1. Partii da Melano per Roma addì 24 di settembre con Giovanni, Franciescho Melzo, Salai, Lorenzo, el Fanjoia. Probabilmente quel Giovanni era il Beltraffio, di cui abbiamo l’onorevole epitafio in s. Paolo in compito, ma chi fosse il Fanfoia nol trovo. Forse è lo stesso che il Foiano.
Cammin facendo egli passò forse da sant’Angelo appiè del solitario colle di san Colombano, e alla riva del Po vide un luogo cupo e scosceso, detto da noi volgarmente un Orrido, ch’egli disegnò nel codice segnato B, scrivendovi accanto = Sulla riva del Po vicino a sant’Angelo nel 1514 addì 27 di settembre.
xxviii. Dopo la morte di Giulio u era stato eletto a sommo pontefice Giovanni de’ Medici, che prese il nome di Leon x, nome sempre venerabile e caro alle scienze e alle belle arti. Giuliano fratello del Pontefice e signor di Firenze, che ben sapea quanto Lionardo valesse, non contento di far conoscere in Patria (ove Lionardo, benchè diretto avesse il suo viaggio a Roma, fermato s’era) in qual conto lo tenesse egli, seco il condusse a quella metropoli, mentre colà portavasi ad assistere alla incoronazione del Pontefice. E quì certamente Lionardo avrebbe potuto considerarsi nel campo delle sue glorie, se gl’intrighi d’una corte, sempre superiori ai talenti semplici del valentuomo, non lo avessero indotto a sdegnosamente partirne, come or ora dirassi.
Nella breve dimora fatta in Roma, Lionardo, al riferir di Vasari, due quadretti dipinse per messer Baldassare Turini da Pescia datario di Leon x;[119] ma nè questo nè altro scrittore ci parla d’altra più pregevol tavola colà dipinta probabilmente pel Pontefice medesimo. Stava questa un tempo nel palazzo de’ duchi di Mantova: credesi rubata nel saccheggio dato a quella città dagli imperiali; celata fu e ignorata per molti anni, e acquistata nel 1775 dall’ab. Salvadori segretario di governo, che fecela bensì vedere ed esaminare ad alcuni intelligenti amici, e fra questi al De Pagave da’ cui scritti traggo questa notizia; ma un segreto faceane principalmente al ministro conte di Firmian per tema che gliela chiedesse ad arricchirne la propria galleria. Alla morte dell’ab. Salvadori, gli eredi suoi portaronsela a Moris loro patria sul Trentino, e credesi che abbianla venduta per considerevol prezzo alla imp. corte di Russia. Rappresenta questa tavola in legno la Sacra Famiglia, cioè la Beata Vergine, il Bambioo, san Giuseppe e san Giovanni, e dietro a queste figure v’è il ritratto di giovin donna in piedi di nobile aspetto, e di singolare avvenenza. Il lodato De Pagave tre cose vi notò degne di speciale considerazione. La prima è che quantunque vi si veda la maniera lionardesca, pure quel lavoro supera tutte le altre opere sue in bellezza, scorgendovisi ad evidenza ch’egli s’è studiato d’imitare, ed ha veramente emulato Raffaello, che già in grandissimo credito era alla romana corte.[120] L’altra sì è che v’ha apposto in una cifra il proprio nome; ed è questo (tranne quello de’ sigg. conti Sanvitali a Parma) il solo quadro in cui siasi, direm così, sottoscritto. La cifra sua, consistente in un monogramma formato dalle tre lettere L D V, vedesi nella tav. u fig. 10. Crede il De Pagave che appunto abbiavi apposta la cifra, perchè avendo egli in certo modo cangiato lo stile, non s’attribuisse ad altri quel suo lavoro.[121] L’avvenente donna poi certamente è quella per cui il quadro fu fatto; o alla famiglia del Pontefice appartenesse, o a quella de’ Gonzaga, a cui destinata era la tavola. A me sembra verosimile che rappresentar possa la cognata di Lion x moglie del duca Giuliano, giacchè sappiamo da Lionardo medesimo, che partissi il magnifico Giuliano de Medici addì 9 di gennaio 1515 in sull’aurora da Roma per andare a sposare la moglie in Savoia: e in tal dì vi fu la morte del re di Franeia.[122] Egli pertanto avrà une fatto il ritratto in quella bellissima tavola a lei destinata; e forse in premio di questo lavoro, comunque già vecchio ei fosse al confronto degli emuli suoi Michelangelo e Raffaello, che nella mente del Pontefice erano in maggior credito, gli sarà stato dato l’incarico di quel lavoro, che cagion fu poi de’ suoi dispiaceri, e della sua partenza.
Narra infatti il Vasari che » essendosegli allogata un’opera dal Papa, Lionardo subito cominciò a stillar olj ed erbe per fare la vernice; e che il Papa ciò risapendo dicesse: oimè, costui non è per far nulla dacchè comincia a pensare alla fine innanzi al principio dell’opera: del che sdegnatosi Lionardo, tanto più che sapeva essere stato chiamato a Roma il Bonarotti, che non gli era amico, se ne partì. «
Tra le sue carte altra memoria non v’ha relativa a Roma, se non che egli immaginò per contare in quella zecca le monete, e farle perfettamente tonde, un torchio migliore di quello che dianzi adoperavasi: del che abbiamo la notizia sul cartone del codice summentovato.
Probabilmente prima di essere malcontento del pontefice avrà dipinta a s. Onofrio sul muro quella B. Vergine di cui parlasi nel catalogo delle sue pitture; e forse altre tavole tuttora esistenti in Roma, delle quali parleremo a suo luogo.
xxix. Successore di Lodovico xii fu Francesco i, di cui primo pensiere fu la riconquista del Milanese, la quale pur gli riuscì in conseguenza de la vittoria riportata alla battaglia di Meregnano. A questo tempo riferir deggiamo la figura del lione formato in Pavia da Lionardo con mirabile artifizio per cui da sua posta videsi camminare in una sala, e fermarsi dinanzi al re, aprendogli il petto tutto ripieno di gigli, come narra il Lomazzo:[123] e ove ciò sia, dibbiamo pur argomentarne che il Vinci, appena udita la riconquista della Lombardia fatta da’ Francesi, sia quì tornato, e ben accolto sia stato da Francesco i, che del suo merito esser dovea già ben prevenuto: per la qual cosa seco a Bologna il condusse, quando il pontefice per dare la pace all’Italia e alla Chiesa, propose un colloquio col re in quella città, ove agli otto di dicembre si firmò il celebre concordato fra la Francia e Roma. Che Lionardo colà sia andato argomentasi dal vedere fra i suoi disegni il ritratto del sig. Artus, sotto cui sta scritto (non però di mano di Lionardo) » Ritratto di M. Artus maestro di camera del Re Francesco i nella Giunta con Papa Leon x. «[124]
Considerandosi quindi interamente addetto alla corte francese, Lionardo non solo segui il re nel suo ritorno a Milano; ma sul finir di gennaio del 1516 seco lui andò in in Francia, qual suo pittore con un assegnamento di 700 scudi annui; il che sappiamo dal Baldinucci a cui tal somma fu accordata per dargli un trattamento uguale a quello del Vinci.[125]
Essendo poi a Milano Francesco i, e fra le cose più rare e belle ammirando la pittura bellissima del Cenacolo, sì portentosa trovolla, che meditò di farla portare in Francia, e » tentò per ogni via, dice il Vasari, se ci fosse stati architetti che con travate di legnami o di ferri l’avessero potuto armare di maniera ch’ella si fosse condotta salva, senza considerare a spesa che vi si fosse potuta fare, tanto la desiderava: ma l’esser fatta nel muro fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, ed ella si rimase ai Milanesi. «
Di quello che facesse Lionardo in Francia, ove visse ancora due anni ed alcuni mesi, ben poco possiamo dire. Dal surriferito indirizzo = A Monsieur Lyonard Peintre pour Amboise = vediamo ch’egli era colà, e più ancora lo sappiamo dal suo testamento fatto in Amboise, in cui parla de’ mobili e utensili che avea nel loco du Cloux, villa reale, distante da Amboise un sol miglio, ov’egli abitava. Non è credibile che alcuna cosa vi dipignesse, giacchè sappiamo dal Vasari che il re invano desiderò d’avere il quadro di s. Anna di cui avea seco portato in Francia il cartone, che dipinto poi fu da’ suoi scolari.
Venturi[126] dice d’aver ricavato dal codice vinciano atlantico ora segnato N. 329, nella biblioteca nazionale a Parigi, che Lionardo era stato incaricato di far il progetto e ’l piano d’un canale navigabile che passar dovea da Romorentin, ov’gli di fatti andò colla corte nel gennaio del 1518; ma sebbene molti canali siano stati fatti in appresso in quel paese, ora dipartimento di Cher e Loira, non possiamo indovinare se egli abbia a questi contribuito, e quanto.
xxx. Scrive il Vasari che credendosi vicino a morte Lionardo si volse diligentemente informare delle cose cattoliche, quasi che per l’addietro egli avesse vissuto senza religione. Con qual fondamento il Vasari ciò asserisca, nol so; ma, sebbene da tutto l’insieme della vita di Lionardo non consti ch’egli fosse un uomo divoto, non appar nemmeno che incredulo fosse o libertino; onde dobbiamo interpretare l’espressione del Vasari d’una specie d’abdicazione a tutte le cose mondane, e d’una determinazione d’occuparsi unicamente del grand’affare della morte e dell’avvenire. Se il Vinci fosse stato uom dedito a piaceri, e al libertinaggio, per cui avrebbegli somministrata ogni opportunità e ogni mezzo la sua vivacità, la sua figura, i suoi comodi (giacchè quasi sempre ebbe buone provigioni, e molto guadagnò co’ suoi lavori) e soprattutto l’esempio d’una corte libertina, egli ne avrebbe lasciato delle tracce ne’ suoi scritti, nei quali abbiamo non infrequenti precetti d’ottima morale,[127] e più ancora ne’ suoi disegni: ma non sappiamo di lui che altra nudità abbia dipinta fuor d’una Leda, rammentata dal Lomazzo, che pur dipinse cogli occhi per vergogna abbassati;[128] e taluni hanno poi creduto di scorgere un gruppo lascivo nel piccolo schizzo copiato dal Gerli nella Tavola xxi.[129]
In Amboise, o Ambrosia, come la chiama Francesco Melzo, ai 18 d’aprile del 1518, cioè un anno prima della sua morte egli fece il suo testamento, che quì intero diamo qual copiollo da esemplare autentico e contemporaneo (comunicatogli dal sig. Vinci pretore di Barberino, che or possiede i beni e l’archivio della famiglia Vinci) il sig. conte Bindo Nero Maria Peruzzi a richiesta del sovente lodato consigl. De Pagave.
Sia manifesto ad ciaschaduna persona presente et advenire, che nella corte del Re Nostro signore in Amboysia avanti de noy personalmente constituito Messer Leonardo de Vince pictore del Re, al presente comorante nello locho dicto du Cloux appresso de Amboysia, el qual considerando la certezza dela morte e lincertezza del hora di quella, ha cognosciuto et confessato nela dicta corte nanzi de noy nela quale se somesso e somette circa ciò havere facto et ordinato per tenore dela presente il suo testamento et ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita. Primeramente el racomanda lanima sua ad nostro Signore Messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati Angeli Santi e Sante del Paradiso. Item el dicto Testatore vole essere seppelito drento la giesia de sancto Fiorentino de Amboysia et suo corpo essere portato lì per li capellani di quella. Item che il suo corpo sia accompagnato dal dicto locho fin nela dicta giesia de sancto Fiorentino per il colegio de dicta giesia cioè dal Rectore et Priore, o vero dali Vicarii soy el Capellani dela giesia di sancto Dionisio d’Amboysia, etiam li Fratri Minori del dicto locho, et avante de essere portato il suo corpo ne la dicta chiesia, esso Testatore, vole siano celebrate ne la dicta chiesia di sancto Fiorentino tre grande messe con diacono et sottodiacono, et il di che se diranno dicte tre grande messe che se dicano anchora trenta messe basse de Sancto Gregorio. Item nela dicta chiesia de Sancto Dionisio simil servtio sia celebrato como di sopra. Item nela chiesia de dicti Fratri et religiosi minori simile servitio.
Item el prefato Testatore dona et concede ad Messer Francesco da Melzo Gentilomo da Milano per remuneratione de’ servitii ad epso grati a lui facti per il passato tutti, et ciaschaduno li libri, che il dicto Testatore ha de presente et altri Instnunenti et Portracti circa larte sua et industria de Pictori. Item epso Testatore dona et concede a sempre mai perpetuamente a Battista de Vilanis suo servitore la metà zoè medietà de uno iardino, che ha fora a le mura de Milano et laltra metà de epso iardino ad Salay suo servitore nel qual iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa, la qual sarà e resterà similmente a sempremai perpetudine al dicto Salai, soi heredi, et successori, et ciò in remuneratione di boni et grati servitii, che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de quì inanzi. Item epso testatore dona a Maturina sua fantescha una vesta de bon pan negro foderata de pelle, una socha de panno et doy ducati per una volta solamente pagati: et ciò in remuneratione similmente de boni servitii ha lui facta epsa Maturina de quì inanzi. Item vole che ale sue exequie siano sexanta torchie le quale seranno portate per sexanta poveri ali quali seranno dati danari per portarle a discretione del dicto Melzo le quali torzi seranno divise nelle quattro chiesie sopradicte. Item el dicto Testatore dona ad ciascheduna de dicte chiesie sopradicte diece libre cera in candele grosse che seranno messe nelle dicte chiesie per servire al dì che se celebreranno dicti servitii. Item che sia dato ali poveri del ospedale di Dio alli poveri de Sancto Lazaro de Amboysia, et per ciò fare sia dato et pagato alli Tesorieri depsa confraternita la summa et quantità de soy sante dece soldi tornesi. Item epso Testatore dona et concede al dicto Messer Francesco Melce presente et acceptante il resto della sua pensione et summa de’ danari qual a lui sono debiti del passato fino al dì della sua morte per il recevoir, overo Tesaurario general M. Johan Sapin, et tutte et ciaschaduna summe de’ danari che ha receputo dal p.° Sapin de la dicta sua pensione, e in caxo chel  decede inanzi al prefato Melzo, e non altrimente li quali danari sono al presente nella possessione del dicto Testatore nel dicto loco de Cloux como el dice. Et similmente el dona et concede al dicto de Melze tucti et ciaschaduni suoi vestimenti quali ha al presente ne lo dicto loco de Cloux tam per remuneratione de boni et grati servitii, a lui facti da quì inanzi, che per li suoi salarii vacationi et fatiche chel potrà avere circa la executione del presente Testamento, il tutto però ale spexe del dicta testatore.
Ordina et vole, che la sunnna de quattrocento scudi del sole che ha in deposito in man del Camarlingo de Sancta Maria de Nove nela città de Fiorenza siano dati ali soy fratelli carnali residenti in Fiorenza con el profitto et emolumento che ne po essere debito fino al presente da prefati Camarlinghi ed prefato Testatore per casone de dicti scudi quattrocento da poi el dì che furono per el prefato Testatore dati et consigliati alli ditti Camarlinghi. Item vale et ordina dicta Testatore che dicto Messer Francisco de Melzo sia et remana sola et in sol per il tutto executore del Testamento del prefato Testatore, et che questo dicto Testamenta sortisca suo pieno et integro effecto, et circa ciò che è narrato et decto havere tenere guardare et observare epso Messer Leonardo de Vince Testatore constituto ha obbligato et obbliga per le presente epsi soy heredi et successori con ogni soy beni mobili et immobili presenti et advenire e ha renunciato et renuncia per le presente expressamente ad tucte et ciaschaduna le cose ad ciò contrarie. Datum ne lo dicto loco de Cloux ne le presencie de magistro Spirito Fleri Vicario nela chiesia de Sancto Dionisio de Amboysia, M. Gulielmo Croysant prete et capellani, Magistro Cipriane Fulchin, Fratre Francesco de Corton et Francesco da M.lano religioso del convento de fratri minori de Amboysia, testinionii ad ciò ciamati et vocati ad tenire per il uidicio de la dicta Corte, in presentia del prefato M. Francesco de Melze acceptante et consentiente il quale ha promesso per fede et sacramento del corpo suo per lui dati corporalmente ne le mane nostre di non mai fare venire, dire, ne andare in contrario. Et sigillato a sua requesta dal sigillo regale statuito a li contracti legali d’Amboysia, et in segno de verità. Dat. a dì xxiii de Aprile mdxviii avanti la Pasqua et a dì xxiii depso mese de Aprile mdxviii ne la presentia di M. Gulielmo Borian notario regio ne la corte de Baliagio d’Amboysia  il prefato M. Leonardo de Vince ha donato et concesso per il suo testamento et ordinanza de ultima voluntà supradicta al dicto M. Baptista de Vilanis presente et acceptante il dritto de laqua[130] che qdam bone memorie Re Ludovico xii ultimo defuncto ha alias dato a epso de Vince suxo il fiume del naviglio di sancto Cristoforo ne lo Ducato de Milano per gauderlo per epso De Vilanis a sempre mai in tal modo et forma che el dicto Signore ne ha facto dono in presentia di M. Francesco da Melzo Gentilhomo de Milano et io. Et a dì prefato nel dicto mese de Aprile ne lo dicto anno mdxviii epso M. Leonardo de Vinci per il suo testamento et ordinanza de ultima volunta sopradecta ha donato al prefato M. Baptista de Vilanis presente et acceptante tutti et ciaschaduni mobili et utensili de caxa soy de presente ne lo dicto loco du Cloux. In caxo però che el dicto de Vilanis surviva al prefato M. Leonardo de Vince, in presentia del prefato M. Francesco da Melzo et io Notario etc. Borean.
In questo scritto Lionardo dimostra in primo luogo quanto buon cattolico ei fosse; quanto riconoscente verso il summentovato Francesco Melzo, lasciandogli un dono convenevole all’amico e benefattor suo, e al tempo stesso pittore, e dell’arte pittorica amatore; quanto attaccamento avesse ai suoi fratelli ai quali lasciò quello che possedeva in Toscana, giacchè in favor loro, come non regnicoli, non a rebbe potuto testare di ciò che in Lombardia, o in Francia aveva, come rileviamo dalla lettera del Melzo medesimo, che più sotto riporteremo; e quanto grato ei fosse alla utile compagnia costantemente fattagli dal suo scolare e domestico Salai, e ai servigj rendutigli dal suo fedel servo de Vilanis.
xxxi. Leggesi su molti scrittori che Lionardo sia morto a Fontanablò, ed abbia spirato l’ultimo fiato nelle braccia del re, il quale ito era a fargli visita in tempo della sua infermità; ma ciò non esser vero argomentasi dall’esser egli morto a Cloux; dal vedere data dalla vicina città d’Amboise la lettera di Francesco Melzo (che diamo appiè di pagina) in cui ragguaglia della di lui morte i fratelli; e dal silenzio del Melzo medesimo, che non avrebbe ommessa sì onorevole circostanza.[131] Aggiungasi che Venturi, avendo potuto leggere nella biblioteca nazionale di Parigi il giornale di Francesco i trovò che la corte era a s. Germano en Laie[132] ai primi di maggio, e non v’è indicato nessun viaggio del re. Può anche in ciò esserci d’argomento il silenzio del Lomazzo, che nulla omise di ciò che onorar poteva il Vinci, e della morte sua fra le braccia reali non solo non parla; ma dice che il re la morte ne seppe dal Melzi.[133]
Che il mentovato zio di M. Francesco Melzo andasse ad Amboise, lo rilevo dall’estratto d’una procura in lui fatta dal mentovato de Vilanis, che trovo fra le carte dell’Oltrocchi senza nota donde l’abbia tratto.[134]
Fece il consigl. De Pagave molte ricerche per sapere se in Amboise eravi di Lionardo e del sepolcro suo qualche monumento o notizia; e n’ebbe in riscontro che non v’era nulla, nemmeno ne’ registri della chiesa di S. Fiorentino, ove dev’essere stato sepolto; il che attribuir si deve alle guerre distruttrici cagionate dagli Ugonotti, che quel paese dopo pochi anni infestarono. Indicata però gli venne come lavoro di Lionardo una tavola alta sei piedi rappresentante Gesù Cristo inanti a Pilato: ma credesi da lui disegnata soltanto, e dipinta da qualche suo scolare.
xxxii. Un esatto catalogo de’ suoi scritti, e de’ suoi lavori non m’è possibile il darlo, e molto meno il tener dietro alla sorte a cui soggiacquero, specialmente in questi ultimi tempi. Basterammi dare una notizia delle cose nostre, e di quelle di cui trovo o da lui, o dagli scrittori della sua vita, fatta certa menzione. Parlerò in primo luogo degli scritti suoi; quindi de’ suoi lavori relativi alle arti del disegno, e delle pitture singolarmente; e per ultimo di ciò che presso di noi riguardo alle acque scrisse ed operò.
Egli medesimo nel Trattato della Pittura, ch’è il solo libro suo sinora pubblicato colle stampe, molte sue opere annovera, altre come già scritte, e che suppone fra le mani degli scolari o accademici, ai quali esponeva i suoi precetti; e altre come già in sua mente ideate, delle quali preparati avea, direm così, i materiali.
Il medesimo Trattato della Pittura che abbiamo, nel codice Pinelliano di cui rendemmo conto,[135] vien così intitolato = Discorso sopra il disegno di Lionardo Vinci. Parte saconda = sebbene contenga quanto hanno pubblicato Dufrèsne, e poscia il sig. ab. Fontani valendosi del codice di Stefano Della Bella, a cui il nostro è molto somiglievole, se non che ha i titoli de’ capi che a questo mancano. Dunque il Trattato della Pittura non è che una parte d’una grand’opera Sul Disegno. La parte prima sarebb’ella il Trattato della Prospettiva?
Questo già era compiuto: egli sovente il cita nel Trattato della Pittura, volendo che in esso cerchinsi le dimostrazioni di quanto asserisce ne’ capi 81, 103, 110, 134, 315, 328. Vedesi ch’era diviso in capi, o in libri, citandosene il secondo, il nono, e ’l decimo; e che questi comprendeano molte proposizioni. Nel capo 134 colla proposizion terza del decimo, prova che più o meno azzurre esser devono le ombre, a misura che più o meno distante dall’orizzonte si dirige lo sguardo, e di questo colore dell’ombre più volte ragiona, avendo così prevenute le osservazioni ingegnose che sulle ombre azzurre de’ corpi fecer dopo due secoli Guericke, e poscia Buffon, ed altri.[136] Di quest’opera parlò senza dubbio Benvenuto Cellini nel suo Trattato sull’orificeria, e più diffusamente ancora nel Discorso suo pubblicato dal ch. Morelli,[137] in cui dice » d’aver comperato per 15 scudi d’oro un libro scritto a penna copiato da uno del gran Lionardo da Vinci.... Infra le altre mirabili cose ch’erano in esso, si trova, dic’egli, un Discorso della Prospettiva il più bello che mai fosse trovato da altr’uomo al mondo. » Un esemplare di questo libro esser potrebbe quel codice dell’Accademia Etrusca, che il Gori trovò con questo titolo scritto in color rosso: Opinione di Leonardo da Vinci, e contiene: Modo di dipingere Prospettive, Ombre, Lontananze, Altezze, Bassezze, da vicino e da lontano e altro, e Precetti di Pittura. Pag. 291.[138] Vuolsi che del codice vinciano siasi valso, senza indicarlo, il Serlio nell’opera sua di prospettiva.
Un altro libro suo, ch’ei cita nel capo 196, come opportuno a vedervi la dimostrazione del rapporto inverso fra l’alzamento delle spalle e de’ lati, e la velocità del moto, e il Trattato del moto locale, quello stesso senza dubbio, che aveva in vista frate Luca Paciolo quando scrisse, che nel 1498 Lionardo lavorava » all’opera inextimabile del moto, delle percussioni ec. «; e a quest’opera probabilmente riportansi tanti suoi pensieri e postulati e teoremi e disegni, che ne’ suoi codici sparsi si trovano, de’ quali alcuni pubbliconne il già lodato Venturi.
Al capo 234 prova per la nona De Ponderibus che l’uomo è più potente nel tirare che nello spingere; dal che argomentasi che questo libro già esistesse: e potrebbe anche dal titolo argomentarsi che l’avesse scritto in latino.
Così al capo 278 scrive d’avere dimostrato nel libro de’ lumi e delle ombre, che lucidarsi non possono le ombre per l’insensibilità de’ loro termini, Questo libro era uno de’ codici originali, che la biblioteca nostra possedeva.
Assai maggiore è il numero di que’ libri che Lionardo nel Trattato della Pittura, come opere non compiute ancora, ma già meditate, rammenta. Oltre il Trattato del moto locale, egli al capo 212, annunzia un libro de’ movimenti, e nel 219 un libro de’ moti, ch’è forse lo stesso.
Importante per le descrizioni e più pe’ disegni esser doveva il Trattato d’Anatomia, che promette ne’ capi 171, e 231; e di cui a lungo già parlammo.[139] Così un Trattato particolare proponsi nel capo 204 Lionardo di scrivere de’ piegamenti, e voltamenti dell’uomo.
Un altro particolar libro promette nel capo 223 di comporre su alcuni muscoli, e nel capo 227 propone di trattare de’ muscoli tutti in generale.
Delle ponderazioni dell’uomo caricato con pesi naturali, o accidentali, egli, nel capo 266, dice di voler fare un libro particolare.
Così nel capo 167 di scrivere si prefigge dell’universal misura dell’uomo; ma forse questo, anzichè essere un trattato, non era che il disegno che or possiede il De Pagave, corredato d’opportuna spiegazione,[140] pubblicato già dal Gerli nella Tav. 1.*
Per ultimo egli annunzia nel capo 121 un’opera sulla mistione de’ colori, che lunga opera di grande utilità, e necessariissima ei reputa, la quale comprender doveva la teorica e la pratica.
Nacque sospetto a Venturi, che d’alcune delle opere quì annunziate i materiali, non ordinati ancora, fossero da qualche suo scolare inseriti poi nel Trattato della Pittura; e che a ciò attribuir si debba il disordine, che in esso regna. Né, per alcuni almeno, senza fondamento è il sospetto; e in me pur lo aceresce l’osservare che il codice pinelliano, in cui originariamente i capi non erano numerizzati, è in certa maniera diviso in varj trattati, che veggo indicati dal titolo che dassi in carattere maiuscolo ai capi
164 dei varii accidenti et movimenti,
242 dei moti,
322 della prospettiva lineale.
Oltre quest’opere da Lionardo stesso nel Trattato di Pittura mentovate, ch’egli abbia scritto un libro, o una dissertazione almeno, in cui esaminava quale fra pittura e scoltura sia preferibile, ce lo dice Lomazzo,[141] che pur fa menzione del libro suo Della Notomia del Cavallo, smarritosi nel 1499 all’ingresso de’ Francesi in Milano.
Da ciò che raccontano Vasari, Lomazzo, e Giraldi (e che superiormente già riferimmo) dell’uso che avea Lionardo di copiare le fisionomie più significanti, cercando in esse non solo le passaggere affezioni dell’animo, come la gioia e ’l dolore, ma anche i sentimenti stabili, come la malvagità, la bontà, la grandezza de’ pensieri, possiamo argomentarne ch’egli abbia formata nn’opera di Fisiognomica pe’ suoi scolari, ai quali d’imitarlo su questo punto grandemente inculcava. Certo è almeno, ch’egli ne ha disegnate le figure; molte delle quali erano in mano d’Aurelio Luino, ed altre sparse ancor veggonsi fra i suoi disegni pubblicati e inediti, e sopra tutto in que’ libricciuoli che portar soleva alla cintola. Non trovo però che ai disegni abbia aggiunti gl’insegnamenti.
Molti libri scrisse, dice il Vasari, » ne’ quali insegnò quanti moti ed effetti si possono considerare nella matematica, e mostrò l’arte di tirare i pesi con facilità, de’ quali tutta l’Europa è piena, e sono tenuti in grandissima stima dagli intendenti «.
Se nel Libro de’ disegni intorno al modo di maneggiare ogni sorta d’armi sì per offesa che per difesa composto pel sig. Alessandro Borro, e in quello de’ trenta Mulini diversi, ch’era in mano di Mess. Ambrogio Figino, fossero uniti gl’insegnamenti, Lomazzo, che di quelle opere vinciane fa menzione, nol dice; ma ben è probabile che vi fossero almeno nel primo, per cui forse furon disegnate le armi pubblicate dal Gerli,[142] giacche Lionardo pensava di darlo alla luce a istruzione de’ combattenti.[143] Forse il secondo non avea che brievi spiegazioni, quali veggonsi nel codice atlantico presso alcuni mulini ed altri congegni, de’ quali parleremo. Quest’opera de’ mulini è forse quello stesso libro d’Idrostatica, che dicesi venduto al sig. Smith inglese.
xxxiii. Che, oltre i libri di Lionardo fatti di pubblica ragione, o ad altri da lui donati, e perciò mentovati dagli scrittori suoi coevi o vicini, altri molti egli abbiane scritti, ben certi ne siamo noi, poichè tredici volumi di varia forma e mole ne avevamo in questa biblioteca avanti l’anno 1796. Alcuni erano in 16° e in 24° contenenti disegni e note; e questi erano que’ libretti che il Vinci portar soleva attaccati alla cintola per disegnarvi collo stilo d’argento, o scrivervi tutto ciò che vedeva, o accadeagli, tlegno di serbarne memoria.
Che morendo ci lasciasse molti libri e disegni suoi a Messer Francesco Melzi, già lo vedemmo nel suo testamento. Narra il Dufrèsne,[144] cui tutti poi copiarono i biografi del Vinci, come i codici suoi siano stati rubati agli eredi di Melzi, restituiti, e quindi donati a Mess. Giannambrogio Mazzenta; ma giova copiarne il medesimo ragguaglio che questi ci lasciò scritto; e che il ch. Venturi, aveudol trovato in fine del codice che servito aveva alla prima edizione del Trattato della Pittura, tradusse in francese. Io lo rendo alla lingua originale. » Vennermi alle mani, scriv’egli, son’ornai 50 anni,[145] tredici volumi di Lionardo da Vinci in folio e in 4.° scritti a rovescio; e ’l caso me li fe’ capitare nella seguente maniera. Io studiava le leggi a Pisa in compagnia del giovane Aldo Manuzio grand’amator di libri. Certo Lelio Gavardi d’Asola, preposto di san Zeno a Pavia, e parente stretto di Aldo, venne in nostra casa. Egli era stato in Milano maestro di belle Lettere in casa de’ Signori Melzi, che chiamansi di Vavero (Vaprio) per distinguere questa da altre famiglie Melzi della stessa città. Egli avea veduti nella lor casa di campagna a Vaprio molti disegni istromenti e libri di Lionardo..... Francesco Melzo (suo scolare ed erede) erasi avvicinato piucchè altri alla maniera del Vinci: lavorò poco perchè era ricco; ma i suoi quadri sono ben finiti, e sovente confondonsi coi lavori del maestro... Egli, morendo, lasciò le opere di Lionardo nella sua casa di Vavero ai suoi figliuoli, che avendo differenti gusti e impieghi, negligentarono que’ tesori, e ben presto li dispersero. Lelio Gavardi ne prese ciò che gli piacque. Ne portò 13 volumi a Firenze, sperando di ricavarne buon prezzo dal gran duca Francesco, che volonteroso era d’acquistare simili opere; tanto più che Lionardo era molto stimato nella sua patria. Ma all’arrivo del Gavardi a Firenze il principe morì,[146] ond’egli sen venne a Pisa. Io non potei astenermi dal disapprovare la sua condotta: egli arrossinne; e poichè io, avendo colà terminati gli studj, dovea tornare a Milano, mi consegnò i volumi del Vinci, pregandomi di restituirli ai Melzi. Io feci lealmente la sua commissione, e ’l tutto li portai al sig. Dott. Orazio capo della famiglia Melzi, che fu ben sorpreso perchè io mi fossi preso tanto incomodo; e regalommi que’ libri, dicendomi che molti altri disegni aveva dell’autor medesimo, negligentati da lungo tempo in un angolo della sua casa di campagna. Così que’ libri divennero miei, e poscia de’ miei fratelli.[147] Vantandosi questi di tale acquisto fatto sì facilmente destarono l’invidia d’altri amatori, che portaronsi al dottor Orazio, e n’ebbero de’ disegni, delle figure, delle preparazioni anatomiche, ed altri preziosi avanzi dello studio di Lionardo. Un di que’ che più n’ebbero fu Pompeo Aretino figliuolo del cav. Leoni scolare di Bonarotti, ch’era al servigio del re di Spagna Filippo ii, per cui avea fatti tutti i bronzi che sono all’Escuriale. Pompeo promise al dottor Melzi un posto nel Senato di Milano, se riusciagli di riavere i tredici volumi, volendo offerirgli al re Filippo che di tali curiosità era amatore. Lusingato da questa speranza il dott. Orazio andò a mio fratello, pregandolo in ginocchio di rendergli il fattogli regalo; e poichè gli era collega, amico, e benefattore gliene rendè sette. Degli altri sei che restarono alla casa Mazzenta uno ne fu donato al card. Federico Borromeo per la biblioteca ambrosiana[148].... Un altro ne diede poi mio fratello ad Ambrogio Figini, che lasciollo al suo erede Ercole Bianchi col resto del suo studio.[149] Per la premura fattami dal duca di Savoia un terzo a lui pure ne procurai.[150] Essendo poi morto mio fratello fuor di Milano[151] pervennero anche gli altri tre volumi alle mani di Pompeo aretino, che altri disegni e scritti di Lionardo v’unì, e separandone i fogli ne formò un grosso volume[152] che passò al suo erede Polidoro Calchi, e fu poi venduto al sig. Galeazzo Arconati. Quest’uomo generoso lo ha tuttavia nella sua ricca biblioteca, avendo ricusato di venderlo al duca di Savoia, e ad altri principi che ’l ricercavano ». Fin quì il P. Mazzenta, delle cui notizie si valse Dufrèsne senza dire donde le avesse tratte. È probabile che i volumi chiesti dal Leoni pel re di Spagna siano quì rimasti, e venduti pur essi all’Arconati, che di undici volumi vinciani oltre il codice atlantico, come già s’è detto, ci ha fatto generoso dono. Alla biblioteca nostra fu pur donato nel 1674 dal conte Orazio Archinto un volumetto di scritti e disegni vinciani, del quale feci più volte menzione.
Quali notizie e disegni contenesse ciascuno de’ volumi ora rammentati, io non so dirlo, non trovandone da nessuno fatta una precisa nota, forse per la varietà e ’l disordine delle cose in essi contenute. Nello stromento della donazione fattane dal conte Galeazzo Arconati alla biblioteca ambrosiana nel 1687 ai 21 di Gennaio, trovo bensì registrati i dodici volumi col numero delle pagine di ciascuno, e coll’indicazione d’alcuno degli oggetti ivi in disegno o in iscritto contenuti; ma ciò è ben lungi dal darci un’idea di tutto quello, che scritto aveva o disegnato Lionardo in que’ libri. Dalle note dell’Oltrocchi sol rilevo che uno trattava Della luce e delle Ombre, un altro Della Prospettiva, uno Del Canale della Martesana, e uno Del volo degli uccelli, e altre cose; ma egli, non cercando allora, per servire alle viste del conte Rezzonico, se non notizie storiche intorno alle epoche di Lionardo e ad alcuni suoi particolari lavori, non pensò a darci di que’ codici un transunto.
xxxiv. Ma, poichè il ch. Venturi, dopo d’avere esaminati a suo agio i codici vinciani trasportati in Parigi, proponsi di pubblicare in tre compiuti Trattati tutto ciò che il Vinci ha fatto e scritto sulla Meccanica, sull’Idrostatica, e sull’Ottica,[153] convien dire che, se non i trattati medesimi ben ordinati, almeno tutti i materiali per iscriverli, ei v’abbia trovati.
Egli osservò, come un risultato della lettura di tutti que’ codici, che » lo spirito geometrico guidavalo in tutti i suoi studj, o volesse analizzare un oggetto, o volesse concatenare un ragionamento, o generalizzare le proprie idee. Egli sempre volea che l’esperienza precedesse il ragionar sulle cose. Tratterò, dic’egli stesso, tal argomento; ma dianzi farò alcuni sperimenti, essendo mio principio di citar prima l’esperienza, e poscia dimostrare perchè i corpi sono costretti ad agire in tale o tal altra maniera. Questo è il metodo da osservarsi nella ricerca de’ fenomeni della natura. Vero è che la natura comincia col ragionamento, e termina colla sperienza; ma non importa: convienci tenere la strada opposta: dobbiamo, come dissi, cominciare dall’esperienza, e per mezzo di questa scoprirne la ragione. Così parlava Lionardo un secolo avanti Bacone. In Meccanica egli conoscea fra le altre cose la teoria delle forze applicate obbliquamente al braccio della leva: la resistenza rispettiva delle travi: le leggi dello strofinamento dateci in seguito da Amontons: l’influenza del centro di gravità sui corpi in riposo o in moto: l’applicazione del principio delle velocità virtuali a molti casi che l’analisi sublime ha generalizzati a dì nostri. Nella Ottica egli descrisse la così chiamata Camera ottica prima di Porta: spiegò prima di Maurolico la figura dell’immagine del sole in un foro angolare: e insegnò la prospettiva aerea, la natura delle ombre colorate, i moti della iride, gli effetti della durata della impressione visibile; e molti altri fenomeni dell’occhio che non trovansi in Vitellone. In somma il Vinci non solo aveva osservato tutto ciò che Castelli ha scritto un secolo dopo di lui sul moto delle acque; ma sembrami di più, che il primo abbia in questa parte superato il secondo, che pur l’Italia ha sinora considerato come il fondatore dell’Idraulica. Possiamo dunque collocar Lionardo, conchiude Venturi, alla testa di quelli, che fra i moderni si sono occupati delle scienze fisico-matematiche, e del vero metodo di studiare. »
xxxv. Ecco un brieve transunto de’ frammenti che questo illustre Fisico, e savio Ministro, copiò da suoi codici, e rischiarò dando al tempo stesso un saggio del suo ingegno e del suo sapere. Alcune poche analoghe notizie aggiugnerovvi pur io.
1. Della discesa de’ gravi combinata colla rotazione della Terra. S’attribuisce al Card. Cusano, nel principio del secolo xvi, l’aver richiamata la sentenza degli antichi Astronomi, che avveduti s’erano del girare del nostro globo terracqueo intorno a se stesso e al sole; ma vedesi da quest’articolo, scritto circa il 1510, che tale pur era l’opinione del Vinci: e pare che ’l fosse in generale de’ migliori indegni di que’ di, quasi 40 anni prima che Copernico la pubblicasse.
2. Della Terra fatta in pezzi. Osserva che questi pezzi, cadendo dall’alto dell’atmosfera verso il centro, cadrebbono di là, indi tornerebbono indietro oscillando per lungo tempo, come un peso attaccato ad una corda, che non perde il moto se non lentamente. Vedesi da ciò ch’egli ha conosciute le leggi della forza d’inerzia; ed ebbe sin d’allora quell’idea di cui fanno uso oggidì gli Astronomi per ispiegare l’oscillazione de’ pianeti da un apside all’altra delle loro orbite.
3. Della Terra, e della Luna. Egli s’avvide che la scintillazione delle stelle non è nelle stelle medesime, ma nel nostr’occhio: verità, che non avea conosciuta nemmeno Keplero, quantunque grande fisico ed astronomo, che visse un secolo dopo Lionardo. Osserva quindi che la Terra, ricevendo la luce dal sole, serve di luna alla luna medesima, e n’ha a un dipresso le fasi; e se ne’ primi dì della luna nuova ne veggiam anche la parte oscura, ciò nasce, dic’egli, dal riflettere che fa la terra i raggi solari: verità che credeasi scoperta da Moestlim un secolo dopo Lionardo.
4. Dell’azione del sole sull’Oceano. Pensa Lionardo che in conseguenza di questa azione l’occano equinoziale s’inalzi, e l’acqua, cadendo dal due lati verso i poli, ristabilisca l’equilibrio. Halley sul finire del secolo xvii ha applicato questo principio ai movimenti dell’atmosfera, e ai venti etesii, o regolari.
5. Dello stato antico della Terra. Era Lionardo un buon osservatore orittologo. Vide gli strati di conchìglie marine in mezzo alla terra-ferma, e sui monti, ne’ quali pur vide degli ammassi de’ ciottoli fluitati; e argomentonne (e il primo fu fra i moderni filosofi che sì rettamente ragionasse su quest’oggetto) che il mare siasi a poco a poco ritirato, mentre la terra, che le acque portavano giù da monti formando nella loro discesa le vallate, andava in istato di fango a coprire i corpi marini, il qual fango indurissi poi e cangiossi in sasso. Egli pensa che il fondo del mare in cui stanno i corpi marini, che poi si petrificano, possa sollevarsi, col precipitare de’ corpi più pesanti verso il centro della terra. Se questa opinione non è ben certa, può stare almeno con molte altre congetture che i filosofi formarono; e mostra che Lionardo ha considerata la cagion del fenomeno in una maniera conforme al meccanismo della gravitazione.
6. Della fiamma e dell’aria. Lionardo dice d’una maniera chiara e precisa, che la fiamma si nutre d’aria; che ardendo la consuma; che della nuova aria sottentra, onde si produce intorno alla fiamma una continua corrente d’aria, un vento; che se nuov’aria non v’è, la fiamma muore; che lo stesso succede se l’aria è tale, che un animale non possa respirarla; che v’è del fumo nel centro della fiamma, perchè l’aria non può penetrarvi ec. Or chi non vede in ciò, che Lionardo ha di quasi tre secoli precedute le teorie de’ moderni Chimici e Fisici intorno alla combustione, e all’identità dell’aria vitale coll’aria del fuoco come la chiama Schede? Magow ed Hook appena aveano sospettato sul finire del secolo xvii, ciò che avea penetrato e chiaramente esposto il Vinci a principio del xvi; ed avea, diremo così, indicata la teoria della lampa d’Argand.
7. Della Statica. Con figure opportune determina Lionardo l’azione della leva, e specialmente della leva obbliqua.
8. Della discesa de’ gravi per un piano inclinato. Quì Lionardo prova che la discesa de’ gravi si fa più presto per un arco di cerchio che per una retta; e sebbene siasi poi dimostrato che la cicloide è la curva della discesa più veloce, pur Venturi, nella nota ivi annessa, prova con un suo teorema, esservi nell’arco circolare un minimo di tempo di discesa.
9. Dell’acqua che si deriva da un canale, intorno alla quale osserva Lionardo, che quattordici son le cagioni, le quali possono farne variare la quantità che esce da una data luce, o apertura; cioè l’altezza dell’acqua nel canale; la velocità con cui in esso corre, la convergenza delle pareti, e la loro grossezza medesima; la forma dell’apertura, la sua obbliquità, l’inclinazione all’orizzonte ec. Pare da quanto ci lasciò scritto, che non abbia dimenticata nessuna delle cagioni che in ciò influiscono; ma, non avendo egli il soccorso dell’analisi moderna, non potè calcolare la quantità dell’azione di queste cagioni; quantità però che nemmeno hanno pienamente determinata i moderni Idrostatici. Forse, siccome già osservammo, egli fu indotto a fare queste ricerche, perchè si mettesse un freno alle usurpazioni dell’acqua de’ nostri due canali navigabili.
10. Dei vortici d’acqua. Cerca Lionardo come mai, ne’ vortici che forma l’acqua, essa sostiensi, lasciando in mezzo un vuoto ? Osserva del fenomeno tutte le particolarità, e conchiude ciò succedere, perchè l’acqua ha due gravità (cioè due forze) una prodotta dal moto circolare, e l’altra dal proprio peso: per la prima sostiensi, perchè ogni corpo pesa, dic’egli, nella direzione del proprio moto, e per la seconda precipita.
11. Della Visione. Molto ed eccellentemente ha trattato questo punto il Vinci nelle mentovate sue opere Della Pittura, della Prospettiva, della Luce e delle Ombre; ma Veutari due importanti ritrovati d’ottica vide ne’ suoi scritti. Benchè Lionardo non faccia menzione della Camera ottica, pur sì bene ne descrive la costruzione e gli effetti, che a lui anzichè ad altri è chiaro doversi di questa macchina l’invenzione. Parlando poi d’oggetti lontani dice che può farsi in modo che la lontananza non gli impiccolisca; il che ottiensi, dic’egli, tagliando le piramidi che vengono dall’oggetto all’occhio prima che all’occhio
arrivino, cioè con qualche cosa d’equivalente alle lenti del telescopio; onde sembra ch’egli, come Roggero Bacone, abbia in qualche maniera traveduto questo stromento, eseguito poi dal Galileo. Aggiungasi che al fol. 247 del cod. atlant. v’è un cannocchiale disegnato.
12. Dell’Architettura militare. Osserva Lionardo che, essendo cresciuta di ¾ la forza della artiglieria (pel ritrovato della polvere), così proporzionatamente deve acerescersi la resistenza e quindi la grossezza delle muraglie: le quali pur devono avere de’ contrafforti e dietro di questi molta terra per resistere alle bombarde, cioè ai cannoni. Indica il luogo e ’l modo di fare i rivellini, aggiugnendo ai precetti i disegni, dai quali pare ch’egli avesse in vista il castello di Milano a un dipresso quale è ora dopo lo smantellamento delle esrene fortificazioni che v’erano state fatte dagli Spanuoli. Insegna il modo di fabbricare le fortezze sui monti; e quello che più interessa, di dar le mine per far saltare in aria le fortificazioni. È certo, dice Venturi, che paragonando ciò che scrisse Lionardo, con quello che sull’arte della guerra scrissero dopo di lui, e disegnarono Machiavelli,[154] e Alberto Durero,[155] ben iscorgesi che assai maggiori lumi, e più giuste idee sull’arte di offendere e di difendersi aveva il primo: nè, dopo ciò, più ci farà maraviglia che a suo Architetto e Ingegnere militare scelto l’avesse il duca Valentino.
Non vuolsi pretendere che Lionardo l’inventor fosse delle mine e de’ mortai da bombe, poichè di quelle, e di questi parlasi in un codice della biblioteca nazionale di Parigi veduto ed esaminato da Venturi medesimo,[156] e scritto da Paolo Santini lucchese circa l’anno 1449. Sembra che Lionardo abbia aggiunto all’arte di minare una fortezza l’artifizio d’avvicinarvisi per mezzo della strada coperta che ha delineata, e che veggo pur indicata al num. 5 della sua lettera a Lodovico Sforza;[157] e che alla bomba abbia aggiunto il getto delle sostanze pungenti fiammeggianti fumose e puzzolenti, che vedonsi indicate nel bel disegno da lui lasciatoci nel codice atlantico;[158] se pur ciò non aveva anch’egli appreso da alcuni viaggiatori che narravano d’aver vedute simili bombarde nelle Indie, ma non erano creduti.[159]
xxxvi. In un sol. capo parleremo de’ varj stromenti, congegni, e macchine da Lionardo immaginati. Solo alcuni pochi ne rammenta Venturi, e sono. Un compasso di proporzione col centro mobile, che può anche servire a fare un’ovale avente una data proporzione a un dato circolo; e di questo compasso egli dà un disegno, interamente simile ai compassi a centro mobile usati oggidì - Uno stromento atto ad indicare la costituzione e la densità dell’aria. Alla figura che ne dà sembra essere una specie d’igrometro, in cui v’è un’asta in bilico con due corpi alle estremità, de’ quali uno più suscettibile dell’umidità aerea inclinavasi, scorrendo su una porzione di cerchio in cui segnati erano i gradi. Un altro disegno vinciano di analogo igrometro copiò già il mio collega Mussi dal codice atlantico. In questo l’asta sostenente le bilance serve di base a un triangolo equilatero che al vertice è sostenuto su perno sottile, o su angolo tagliente, da cui pende un filo a piombo, che segna sull’asta i gradi or a destra or a sinistra, a misura che l’umidità fa pesare e quindi abbassare l’asta da un lato, e la siccità dal lato opposto. Sotto una delle bilance v’è scritto: banbagia, e sotto l’altra: cera; perchè la prima attrae l’umido aereo e ’l perde, e la seconda il ricusa. Sotto lo stromento leggesi: modo di vedere quando si guasta il tempo. Vedi la Tav. iii fig- 9. Non v’è, che si sappia, chi prima di Lionardo agli igrometri abbia pensato; e solo un secolo e mezzo dopo di lui, Santorio, avvedutosi dell’azione dell’umidità sulla corda, pensò a fare un igrometro - Una specie di maschera o d’elmo, con cui nel mare delle Indie l’uomo va in fondo al mare a pescare le perle, il quale gli copre il capo interamente, e guernito essendo di spine lo difende da grossi pesci. Ha de’ vetri agli occhi per vedervi; e in bocca un tubo pieghevole sostenuto all’estremità fuor d’acqua da un disco di sughero sormontato da un cannello comunicante col tubo, affine di respirare. Più d’una volta egli disegnò sì fatte maschere, e due disegni n’ha copiati, e incisi Gerli,[160] uno de’ quali pur quì si dà nella Tav. ii. fig. 4, presso cui veggonsi scritte a rovescio, come nell’originale, le parole dandar sottoacqua, sughero, channello. Nella figura 5, copiata pure dai disegni di Lionardo, vedesi l’uomo galleggiante dal petto in su, mediante un otre o budello gonfio, detto baga da nuotare da Lionardo,[161] equivalente al moderno scafandro, che l’uomo pel minore peso specifico sull’acqua sostiene. Un altro nuovo e più strano modo di camminare sopra l’acqua immaginò Lionardo e disegnollo, qual vedesi nella fig. 3 della Tav. ii., scrivendovi a lato: modo de chaminar sopracqua. Se sia questo eseguibile o no, altri sel vegga.
xxxvii. E non solo nell’elemento destinato a pesci voleva il Vinci che l’uomo vivesse e facesse cammino, ma ben anche per le vie degli uccelli e de’ venti. Non conoscendosi ai tempi suoi il peso dell’aria, nè la maniera di grandemente rarefarla, nè i gas più leggieri dell’aria stessa, non peusò a volare se non imitando gli uccelli, col battere e remigar delle ale. Avendo quindi i varj uccelli e’l volar loro esaminato,[162] trovò esser l’ala del pipistrello più facilmente imitabil d’ogni altra, e più adattabile all’uomo. Quindi un’ala di tal forma disegnò ingegnosissima, canne adoperando come più leggere delle verghe, la quale per mezzo di cordicelle e di carucole facilmente s’allarga, e si strigne;[163] disegnò poi un macchinismo adattabile all’uomo, che di simili ale voglia fornirsi, e valersi;[164] disegnò l’uomo di quel congegno rivestito,[165] indicando colla scrittura a rovescio il luogo ove dee posare il petto, il modo di torcer l’ala, di calarla, di girarla, di levarla, di tenere i piedi, l’uno alzando, e abbassando l’altro alternamente, e per ultimo di stugnere ossia calare le ale inverso i piè dell’uomo. Disegnò persino un batello a cui, in luogo di remi, delle larghe ali d’applicar pensava.[166] I due gran remi che il C. Zambeccari sul finire dell’anno scorso applicò alla sua macchina aerostatica, dell’effetto delle ali vinciane, benchè non ne avessero la forma, poteano dare un’idea.
Vasari e Lomazzo fanno pur menzione di certi uccelli formati da Lionardo di cera sì sottile e leggera, che con un soffio per lungo tratto d’aria li facea volare, come se vivi fossero.
Secondo Venturi Lionardo conobbe la verga del bilanciere negli orologi descrivendola come un bastone, che ingranando alternamente i denti d’un lato d’una ruota e gli opposti, produce un moto non interrotto.[167]
xxxviii. Di molti congegni servibili alle arti egli fu l’inventore, e ce ne ha lasciati i disegni, che dal cav. Leoni collocati furono nel codice atlantico, e che quì brevemente accenneremo.
1. Una semplicissima macchina idraulica, cioè un soffietto comune che alzandosi forma un vuoto, in cui l’acqua, compressa dal peso dell’aria, sale a riempierlo pel foro munito di valvola, e abbassandosi fa uscir l’acqua pel tubo del soffietto medesimo; e questo in altro disegno ha raddoppiato per avere un getto continuo.[168] Vi veggiamo delle fontane, e varie trombe[169] per sollevar acqua oltre le accennate, or a sacco, e a lampione, or colle norie, cioè con secchie attaccate a fune perpetua,[170] or co’ vapori.[171] Immaginò pur barche a ruota che andassero contr’acqua.[172]
2. Il Gerli (Tav. xlii) ci ha dato, copiandolo dal gran codice, il disegno del girarrosto mosso pel calore della fiamma e dal fumo, o piuttosto dall’aria che il fuoco fa salire pel fumaiuelo: e questo è il vero modo (d’arrostire) imperocche secondo chel foco è temperato o forte va adagio o presto. Così ha scritto accanto al disegno suo disegno Lionardo istesso.
3. Così avesse il Gerli copiato il disegno dello strettoio da olio costruito su buoni principi, onde, mediante una vite, girata prima per man d’uomo, indi con un cavallo attaccato alla leva maggiore talmente comprime la pasta oleosa che promettoti, scrisse presso al disegno Lionardo, chelle ulive si serreranno sì forte chelle rimarranno quasi che asciutte; ma sappi chesto strettoio vol essere molto più forte.[173]
4. Moltissime poi sono le sue invenzioni per facilitare de’ lavori meccanici, cioè un telaio da far nastri[174] un congegno da torcer fili,[175] una gran cesoia,[176] una macchina da formar lime,[177] gualchiere, martelli, mazze per gettare corpi lontani mediante una leva ec. Una macchina pur ha immaginata, che in qualche bottega ancor vedesi, di far il cervellato milanese, mescendone agevolmente e compiutamente gl’ingredienti. Lomazzo fa menzione d’alcuni suoi orivoli ad acqua, e collo svegliarino; e d’un torno col quale facea pur le forme ovate.
5. Ci ha lasciato scritto il seguente metodo per comporre le forme in cui gittare le medaglie: Polvere da medaglie. Stoppini inchonbustibili di fungo ridotti a polvere. Stagno brusato e tutti i metalli. Alume schagliolo. Fumo di fucina da ottone. E ciaschuna cosa inumidisci con agreste o malvagia o acieto forte di bon vino bianco, o della prima acqua di trementina distillata, o holio puro che poco sia inumidita, e gitta in telaroli.[178]
6. Per aver olio puro, cosa per Lionardo importantissima, due metodi ci lasciò nel codice atlantico. Uno è al fol. 4 = Le noci sono fasciate da una certa bucciolina che tiene della natura del mallo: se tu non le spogli quando ne fai l’olio, quel mallo si parte dall’olio, e viene in sulla superficie della pittura, e questo è quello che la fa cambiare. L’altro metodo ancor più ingegnoso e preciso ha copiato e tradotto Venturi dalla pag. 108 del cod. medesimo, ed io quì lo ritorno in italiano. Scegli le noci più belle, cavale dal guscio, mettile a molte nell’acqua limpida in vaso di vetro, sinchè possi levarne la buccia: rimettile quindi in acqua pura, e cangiala ogni volta che la vedi intorbidarsi, per sei e anche otto volte. Dopo qualche tempo le noci, movendole, si disfanno e stempransi formando quasi una lattata, Mettile in piatti all’aria aperta; e vedrai l’olio galleggiare alla superficie. Per cavarlo purissimo e netto prendi stoppini di bambagia che da un capo stiano nell’olio, e dall’altro pendano fuori del piatto, ed entrino in una caraffa, due dita sotto la superficie dell’olio ch’è nel piatto. A poco a poco l’olio filtrandosi per lo stoppino cadrà limpidissimo nella caraffa, e la feccia resterà nel piatto. Tutti gli olj in se stessi son limpidi, ma gli altera la maniera d’estimarli.
xxxix. Nel decorso della vita di Lionardo più d’una volta parlammo de’ suoi disegni d’architettura. Non v’ha dubbio ch’egli già ben l’avesse studiata avanti di venire a Milano, e che pur quì se n’occupasse alacremente, attesa l’amicizia che strettissima aveva con frate Luca Paciolo, il quale, architettura quì insegnò, specialmente per richiamare a veri principj vitruviani l’arte di fabbricare guastata da tedeschi, come provanlo le opere sue. Se questi chiama Lionardo pittore e architetto, come pur lo chiamano Vasari, e Lomazzo convienci ben dire che tale ei fosse. Che più ? lo dice egli medesimo nella lettera scritta a Lodovico il Moro[179] in cui si offre di sodisfare a parogon d’ogni altro in architettura, in composizione d’edificj pubblici e privati. Tale pur dimostranlo molti suoi disegni rimastici. Già notai gli edfiicj ch’ei copiò, viaggio facendo nel 1502, come architetto e ingegnere generale del duca Valentino.[180] Nel codice atlantico v’è il disegno d’un anfiteatro del chiostro di S. M. in pertica di Pavia, e della cupola della nostra metropolitana. Nel codice segnato S. in 4.° v’è disegnata la doppia chiesa, cioè superiore e sotterranea di S. Sepolcro; e di un’altra chiesa ha pubblicato il disegno suo il Gerli.[181] Il prospetto poi veramente finito d’un bel tempio a foggia d’una rotonda a quattro facciate e rispettivi atrii egli pur ci lasciò, e lo diamo quì inciso.[182] Parlammo già del suo disegno d’una magnifica stalla o pel Sanseverino servisse o pel duca. Certo è altresì che molto d’architettura dovè occuparsi nel disporre le molte feste per nozze, per trionfi, per esequie, ch’egli immaginò e diresse: e ben è probabile che disegno suo fosse quell’arco trionfale, che dietro al castello eretto s’era, o ergersi dovea, per collocarvi sotto la statua equestre di Francesco i Sforza, del qual arco fa menzione Lancino Curzio[183] in questi versi:
.   .   .   .   .   .   .   .   .Arcus
Ipse triumphalis jam designatus equestris
Excepturus Heri fulgentia signa colossi.
xl. Di questo colosso già molto s’è detto, ond’argomentare quanto ei fosse abile plasticatore e statuario. Ch’egli abbia scolpito in marmo nessun cel dice; ma certo è che ottimi precetti egli dà anche per questa maniera di lavoro nel capo cccli del Trattato della Pittura, e che anche per lavorare in marmi si offerì a Lodovico il Moro.[184] Quale eccellente plasticatore egli è commendato dal Paciolo, dal Vasari, e dal Lomazzo,[185] il quale gloriavasi d’avere nel suo studio » una testicciuola di Cristo fanciullo fatta dal Vinci, nella quale si vedeva la semplicità e purità accompagnata da sapienza intelletto e maestà «. Il nostro card. Borromeo, nel ragguaglio delle pitture ond’era ricca la sua galleria da lui unita alla biblioteca, parlando del quadro (che or è a Parigi) dipinto dal Luino sul disegno del Vinci, scrive che a giorni suoi vedeasi ancora formato in creta il Bambino che aveagli servito di modello.[186]
Che del mentovato colosso avesse il Vinci fatto prima il modello in cera cel dice Vasari.[187]
E v’è pur chi vuole che di due statue colossali di Francesco i abbia Lionardo fatto il modello; equestre l’una da porsi sotto l’arco di cui sopra parlammo, e giacente l’altra da collocarsi sulla sua tomba. A questa vuole il Sassi che riportisi un epitafio ch’egli copiò da un codice nostro, in cui fra gli altri versi leggesi:
Quisquis colosson Principis vides: asta.
.   .   .   .   .   .   opus Leonardi
Vinci. Vidisti? abi hospes et gaude.[188]
Già notammo che il valente statuario Francesco Rustici fu ajutato co’ consigli, e coll’opera da Lionardo per alcune statue in bronzo da lui gittate;[189] e v’ha pur chi scrive che questi gliene facesse il modello. Recammo pure la lettera in cui egli non solo tiensi per valente statuario in bronzo, ma dicesi l’unico che allor fosse in Lombardia.[190]
Era altresì principio suo che il buon pittore dovesse molto lavorare in gesso onde’ copiare dai lavori di rilievo per dare giusti i lumi e le ombre alle figure; e di fatti convengono tutti quelli che de’ progressi della pittura hanno scritto, essere stato il primo Lionardo che per questo mezzo seppe dare alle figure il giusto ribalto, e nessuno seppe poi superarlo.
xli. Più difficil cosa è l’annoverar le pitture di Lionardo; e più ancora i suoi disegni. Egli dipinse sul muro, sulla tavola, sulla tela, e sulla carta. Comincerò dalle prime.
Fra le pitture tutte di Lionardo tiene il primo luogo il Cenacolo delle Grazie, di cui abbastanza s’è ragionato;[191] come rammentaronsi i ritratti dipinti sull’opposta parete di Lodovico e Beatrice, e de’ loro figliuoli;[192] e la figura del Salvatore che venne dopo pochi anni distrutta, perchè dipinta sopra una porta che si volle dilatare.[193]
Alla Canonica di Vaprio in casa de’ Melzi dipinse il proprio volto sul fianco d’una finestra;[194] e in Vaprio la gigantesca immagine di Maria Vergine, che tuttora vi s’ammira, nella cospicua casa de’ Melzi medesimi.[195] Le dipinture da lui fatte nel Castello di Milano[196] furono, al riferire dell’Arluno, tutte distrutte nel 1499.
Abbiamo pur notizia che a Roma una pittura a olio sul muro abbiaci lasciata in S. Onofrio rappresentante la B. Vergine col Bambino.[197] È gran danno che di tutti questi dipinti vincieschi appena ci restino gli avanzi.
xlii. Lunghissimo e difficil catalogo converrebbe formare se tutti volessersi qui ricordare i quadri in tavola che sono, o pretendesi che siano stati dipinti dal Vinci.  Rammenterò quì i più noti, e specialmente quelli, che diconsi essere in Milano. Il Lettore sarà ben persuaso non esser possibile l’aver contezza delle tavole tutte del Vinci, e quindi il noverarle; onde ben sono scusevole se parecchie, perchè da me ignorate, su questo catalogo s’ommettono; o s’indicano ne’ luoghi ove più non sono, giacchè in questi ultimi tempi i monumenti dell’arte, come le ricchezze e i regni, cangiaron signore. Egli sentirà ugualment, quanto il sento io, che, ove un quadro per tradizione popolare o domestica dicesi di Lionardo, perigliosa cosa è raffermarlo come il negarlo.
È noto altronde presso gl’intelligenti di pittura, che molti quadri della scuola di Lionardo da chi li possiede a lui vogliono attribuirsi; come sappiamo che scolari egli ebbe molti e valenti. Eccone i nomi, tratti in parte dalle sue stesse note, e in parte dai Biografi. Francesco Melzi - Andrea Salaino - Marco Oggiono - Giannantonio Beltraffio - Cesare da Sesto - Pietro Ricci detto Gianpedrino - Lorenzo Lotto - Nicola Appiano - Bernardino Faxolo - Bernazzano - Fanfoia (Forse Soviano rammentato dal P. Resta) - Galeazzo - Jachomo. Bernardino Luino non fu propriamente suo scolare, ma dipinse sui suoi principi, molto studiollo, e n’ebbe de’ disegni e de’ cartoni che eccellentemente colorì, dando alle figure grazia e morbidezza maggiore di quella che data non gli avrebbe Lionardo istesso. Ciò ben vide l’immortale Fondator nostro che in una tavola del Luino da lui comperata a gran prezzo (quam satis magno auri pondere emimus) osservò che il disegno veramente squisito era opera di Lionardo; ma il Luino ciò che dargli poteva di bellezza e di pregio aggiunto v’aveva, cioè una certa soavità e pia tenerezza nell’espressione, nelle movenze, e nelle arie di testa. È stata portata a Parigi. Ciò premesso, ecco l’indicazione delle Tavole.
Nella galleria della nostra biblioteca, ch’era il Museo del card. Fondatore della medesima, non abbiamo più tutto quello che avevamo; ma ci resta ancora il ritratto d’un dottore di cui s’ignora il nome; quello della duchessa Beatrice, e forse quello pure del duca Massimiliano di cui parlossi alla pag. 111; e di cui un altro ve n’ha nella galleria Melzi. Oltre questi ritratti v’è un S. Giovambattista, mezza-figura.
V’ha di lui nella galleria delll’arcivescovato una tavola colla B. Vergine e ’l Barnbino; opera non fiita.
Un’altra bella e finita tavola, rappresentante lo stesso soggetto, la quale era dianzi alla Madonna di campagna di Piacenza, ammirasi ora nel palazzo Belgioioso.
Rappresenta la stessa Vergine una tavola ch’è nella galleria del palazzo Litta, Visconti, Arese, della prima maniera di Lionardo, a cui pur viene attribuito un san Giovambattista della stessa galleria, il quale però da alcuni vuolsi dipinto da Cesare da Sesto sul cartone del Vinci.
Così sul cartone del suo maestro dipinse Salaino il quadro di S. Anna ch’è nella sagristia di S. Celso.
Una bella Madonna pur riputata di Lionardo quì portata ha da Roma la sig. march. Vittoria Lepri.
Un’altra bella immagine di M. Vergine ha il sig. can. Foglia.
Parlossi già di simil quadro fatto per l’amica del duca Lodovico Cecilia Gallarani; ma esso, malgrado il giudizio di qualche valente pittore, potrebbe, secondo altri, ben essere lavoro d’uno scolare.
Per opera indubitata di Lionardo tiensi la bella tavola de’ sigg. Pallavicini di san Calocero, rappresentante la testè mentovata Cecilia. Al solo mirarla ben vedesi che è fatta dal Vinci dopo il Cenacolo, quando egli ebbe perfezionata la sua maniera di dipingere, perdendo quella secchezza ch’è ne’ suoi primi lavori. Questa rinomata donna è quì dipinta come nel primo ritratto fattole dal Vinci medesimo ne’ tempi della fiorente sua giovinezza; ma in vece della cetra essa sembra tenere colla mano una piega della veste; la stessa è la fisonomia, se non che quì mostra un’età fra i 30 e 40 anni, che aver doveva al finir del secolo xv. Già osservammo che Lodovico seguitò ad esserle amico anche dopo il matrimonio; onde non è maraviglia che Lionardo abbiale fatto un altro ritratto.
Di questa bella amica del Moro un bel ritratto (di cui poi fecesi una santa Cecilia) o di mano di Lionardo, o di valente suo scolare, vedesi presso il cel. Prof. Franchi.
Una tavola veramente bella, rappresentante S. Catterina con due angioletti possiede l’eccellente nostro pittore e mio collega Appiani, la quale già da oltre un secolo come pittura di Lionardo sta nella sua famiglia. oltre il vedersi in essa tutta quella esattezza di disegno ch’è propria del Vinci, c’è pure quella morbidezza, e quella grazia, che di rado nelle sue tavole s’incontra.
Il C. Giacomo Sannazzari, che raccoglie quanto può di più pregevole dei bei monumenti dell’arte, ha del Vinci due belle teste, ed una bella Venere ignuda in piccol quadretto.
Un Angiolo dipinto da Lionardo in atto d’annunziare il gran mistero a Maria Vergine, vedesi in casa Anguissola.
Un bellissimo ritratto dello stesso pennello è in casa Scotti in abito d’alta dignità. Osservasi però che le memorie presso questa illustre famiglia, diconlo ritratto del Cancellier Moroni, che tal carica sol ebbe alcuni anni dopo la partenza di Lionardo: onde dee credersi ritratto d’altro personaggio; o deve dirsi che quell’abito non era de’ soli cancellieri dello stato.
Così dicesi del re Francesco i un ritratto del Vinci, ch’è in casa Piantanida erede dei Sitoni; ma è più probabile che sia ritratto di Gaston de Foix.
V’ha de’ bei puttini lionardeschi nella casa Greppi alla Cavalchina; e sappiamo di fatti che il Vinci parecchi ne dipinse.
Una di lui Madonna non finita mostrasi in casa Vedani, ove pure gli si attribuisce un quadro di contadini ridenti. Leggiamo nel Lomazzo ch’egli tal quadro fece ritraendolo dal vero.
Or delle tavole vinciane che sono fuor di Milano. Hanno i Borromei all’Isola Bella una tavola del Vinci rappresentante un giovane: mezza figura.
In Piacenza mostransi quadri di Lionardo nelle gallerie degli Scotti, e de’ Landi.
Parlammo già del quadro de’ sigg. conti Sanvitali a Parma.[198]
Ivi pur trovasi nella collezione de’ quadri dell’ex-ministro della nostra repubblica Ceretti un ritratto che credesi del Cancellier Morone,.e vien riputato di Lionardo. Appartenne alla estense galleria di Modena. Colà pur erano due altre tavole di S. Catterina l’una, e l’altra di giovane armato, riputate del Vinci.
Mostrasi in Bologna la figura d’un Bambino di Lionardo nella stanza chiamata del Confaloniere.
A Firenze vedesì nella r. galleria la Medusa di Lionardo dipinta ne’ suoi primi anni, il ritratto suo proprio, e quel di Raffaele da lui fatti; l’Epifania, tavola non finita. V’è nel palazzo Pitti una Maddalena. In casa Nicolini un ritratto; forse la testa che un cognato di Lionardo mandò nel 1536 in dono al card. Salviati, come rilevo da una memoria dell’archivio de’ Vinci, che trevo fra le note dell’Oltrocchi.
Molte tavole di Lionardo contansi in Roma. Una delle più belle è certamente quella del palazzo Borghesi, ove alle figure della B. Vergine e del Bambino è aggiunta una caraffa di fiori ammirabile per la verità; e credesi perciò la stessa tavola, di cui parla Vasari, posseduta già da Clemente vii. Nel palazzo Aldobrandini v’era la disputa di G. C. co’ dottori; che però da valente pittore vien riputata del Luino sul disegno vinciano, come altre molte. Nel palazzo Barberini, un’Erodiade e un quadro con due altre figure, simboli della vanità l’una, e l’altra della modestia. Nella galleria Giustiniani una Sacra Famiglia. Un bel ritratto di donna ha il sig. principe Albani; e la sig. Kauffmann ha un San Gerolamo, del quale un disegno è quello che ha pubblicato Gerli (Tav. xxxi). Nel palazzo Strozzi v’è la figura d’una bella fanciulla.
Parigi è il luogo in cui maggior numero che altrove di tavole vinciane ammirasi, secondo la nota datacene nello scorso anno dal cit. Gault S. Germain,[199] della cui inesattezza però, ove parla delle cose vinciane esistenti in altri paesi, tosto accorgesi chi getta lo sguardo sul suo catalogo.
Ecco quelle che annovera, rappresentanti i seguenti soggetti:
M. Vergine col Bambino, S. Elisabetta e San Giovanni.
La stessa col Bambino, San Michele e un uomo in ginocchio sul dinanzi.
La stessa col Bambino, San Giovanni, ed un Angiolo. Questo quadro, dipinto originariamente sul legno, fu trasportato sulla tela.
La Sacra Famiglia con San Michele. La stessa sui ginocchi di S. Anna. Sappiamo che il Vinci non ne fece che il cartone, e probibilmente dipinsero la tavola i suoi scolari Melzi o Salaino. Lo stesso dicasi d’una consimil tavola ch’era della nostra galleria, dipinta da Bernardino Luino, e assai ben descritta dal cardinale Borromeo.
San Giovambattista: mezza figura.
La figlia d’Erodiade colla testa di San Giovanni presentatate dal carnefice.
S. Catterina con due angioli. Questa però credesi copia del quadro di cui parlammo.
Il famoso ritratto della Lisa del Giocondo.[200]
Quello di Anna Bolena conosciuto sotto il nome della Bella Ferraia.
Altro di bella donna (mezza figura) creduto di Lucrezia Crivelli.[201]
La Pomona, e la Leda di cui parlano Vasari, e Lomazzo, dicendo di quest’ultima, che a suoi dì stava a Fontanablò. Io però trovo notato ne’ mss. del De Pagave, che la Leda di Lionardo stava a suoi dì presso il sig. conte di Firmian, daddove passò in Germania; che, dalle ricerche fatte a sua istanza in Parigi dal cel. Goldoni amico suo, risultò che mai non vi fu, non trovandosi su nessun registro; e che Lomazzo ha preso abbaiglio fra la Leda di Lionardo e quella di Michelangiolo. Taluno scrisse che la Leda di Lionardo era nel palazzo Mattei in Roma. La Pomona è lodata dagli scrittori pe’ tre trasparenti veli che la ricoprono.
La Flora, la quale fu disegnata da Lionardo, è dipinta da Francesco Melzo, a cui acquistò fama di valente pittore.
Soggiugne il c. Gault, che il sig. di Chamois aveva una bella tavola vinciana rappresentante Giuseppe colla moglie di Putifare; e che un quadro con otto figure di contadini stava nella galleria del re, ma che or più non v’è.
Più breve è la nota delle tavole di Lionardo esistenti nel resto dell’Europa.
In Ispagna G. G. avanti Pilato. Due quadri rappresentanti la B. Vergine. Una testa di S. Giovanni. Due fanciullini che scherzano con un agnellino. Un San Gerolamo nella grotta.
A Dresda il ritratto d’un vecchio guerriere che credesi di Gian Giacomo Triulzi.[202]
A Dusseldorff. Una delle due tavole della B. V. che Lionardo dipinse in Roma pel datario di Leon x.[203]
A Pietroburgo. La tavola ch’era dell’ab. Salvatori.[204]
In Inghilterra. Il quadro della Concezione cotanto commendato dal Lomazzo, che stava dianzi nella chiesa di san Francesco in Milano; e quì pur era presso il can. Chiesa una bella tavola della B. Vergine, ad un Inglese venduta non ha molto.
Un altro Inglese ha pur comperata la tavola della disputa di G. C. ch’era in casa Aldobrandini.
All’Aia v’è la figura di bella matrona.
In Germania v’ha nella galleria imperiale di Vienna la tavola della Natività di Nostro Signore[205] e una Erodiade.
Presso il principe di Kaunitz la mentovata Leda.
Nella galleria del principe di Lichtestein la bellissima testa del Salvatore commendata da Winkelmann, come un modello di perfetta bellezza virile.[206]
xliii. Veggonsi alcune pitture attribuite a Lionardo, che di lui non sono indegne, e ne mostrano la maniera; ma da taluno negasi loro questa gloria, perché sono sulla tela anzichè sulla tavola, e a tempra anzichè ad olio. Dell’insussistenza di questa ragione però ognuno dee persuadersi che legga il capo cccliii del suo Trattato di Pittura, in cui insegna il modo di dipingere in tela e a tempera, e nol disapprova nè move difficoltà sulla esecuzione; o legga il Vasari il quale chiaramente dice che Lionardo » studiò in ritrarre dal naturale o da modelli sopra a certe tele sottilissime di renzo o di pannilini adoperati ec. «; e legga poi il Lomazzo che, ragionando del Cenacolo vinciano, scrive che diedesi a dipingerlo a olio, laddove dianzi dipingeva a tempra.
De’ quadri in tela uno ne dipinse egli che collocato fu nel semicircolo sopra la porta della chiesa delle Grazie.[207] Uno ve n’ha in casa Venini, cui, le memorie della famiglia Mauri da cui l’ebbe, dicono di Lionardo, sebbene valenti pittori sospettino che sia stato eseguito su cartone vinciesco da Bernardino Luiuo. Un altro ne acquistò non ha guari il mio già lodato collega Mussi, che potendo più agevolmente essere esaminato, benchè sia, com’egli dice, una superba ruina d’antico edificio, ben mostra d’esser lavoro se non di Lionardo medesimo, almeno di qualche abile e intelligente scolare, che ne ha adottati, ed eseguiti gl’insegnamenti tutti. Esso è dipinto su tela di renzo sottile, e probabilmente anche usato, qual la descrive Vasari; e dipinto come appunto vuol Lionardo che in tela si dipinga, cioè colla sola imprimitura di colla debole, cosicchè in più luoghi anche per la vecchiezza veggonsi della tela i fili; coi dintorni con gran nettezza disegnati, quali egli far li soleva. L’incarnazione pare appunto di biacca lacca (di quella che tira al carmino quale usar la solea Lionardo) e giallolino: nell’ombra ch’è benissimo sfumata si scorge nero, e un po’ di lacca: nelle ombre più oscure e in un contorno che restò nudo, si scopre chiaro l’inchiostro con lacca; e più chiaro ancora vedesi il cinabro della veste ombrato di lacca semplice, principalmente nelle maniche oscure. Il fondo è una tappezzeria all’uso vinciesco, con intreccio di gruppi di corde o cifre simile a quelle della vignetta che fregia il principio di queste Memorie, e più vi somigliano ancora i fregi messi ad oro degli orli del manto, quali pur veggonsi nel mentovato ritratto lionardesco di Beatrice d’Este. L’artifizio del passaggio dal chiaro all’oscuro per ombre e mezzetinte impercettibili e sfumose; il grandissimo rilievo che ne risulta, sebbene appena velato di colore sia il fondo; l’esatta osservanza de’ lumi riflessi, e anche i colori verde e rosso degli abiti, che Lionardo insegna di prescegliere, e usò egli quasi costantemente, mostrano che sia opera sua o degna d’esserla; come il mostrano la nobiltà, e l’espressione de’ volti e degli atteggiamenti sì della Madre che del Bambino.
D’altri quadri vinciani in tela ho inteso farsi menzione, e nominatamente d’un ritratto della regina Giovanna ch’era in casa Barberini, ma non avendone una notizia precisa stimo più opportuno il tacerne.
Fra le pitture vinciesche convien pur commemorare quello che Lionardo fece a pastello, poichè sappiamo dal Lomazzo che così egli talora dipingeva, e dipinse di fatto le teste de’ dodici Apostoli, e del Salvatore.[208] Così da lui pinti a pastello ha due bellissimi piedi il mentovato Appiani; e un’immagine della Vergine di figura quasi al naturale abbiamo ancora nella galleria nostra, che opera sua vien riputata.
xliii. Più numerosi senza dubbio, anzi innumerevoli, possiamo dire che sono i disegni di Lionardo. Fra questi i più ragguardevoli sono i cartoni; e certamente tanti deve averne fatti quanti furono le sue grandi tavole o pitture sul muro. Perdemmo quello d’Adamo ed Eva ch’ei fece in Firenze, essendo ancor giovane. Perirono tra le fiamme i bei cartoni degli ignudi del Questor Melzo. Non sappiamo ove siano i cartoni che servirono a Salaino, e a Luino il seniore per le mentovate loro tavole.
Nei mss. del consigl. De Pagave trovo fatto menzione de’ cartoni di sei duchi di Milano. Sono in Inghilterra quelli ch’erano pria del conte Arconati, rappresentanti le figure del Cenacolo. Del cartone per la battaglia d’Anghiari non ci rimane che una copia in piccolo d’una parte del gran disegno. Il lodato mio collega Mussi possiede il cartone originale vinciano fatto per la testa di Nostra Donna nel celebrato quadro della Concezione della stessa grandezza della pittura, ch’è un po’ meno del naturale. Il lavoro è di lapis carboncino in carta con tratti finissimi con acquarella di fuligine e inchiostro nelle ombre e nelle mezzetinte, con lumi a pennello soavemente sfumati. In casa Monti, ov’erano già i disegni che or possiede il De Pagave, v’erano pure i disegni di tre teste degli Apostoli, che al Cenacolo servirono; ma dove sian’ora s’ignora.
De’ semplici disegni il solo codice atlantico, sulla cui coperta leggesi = Disegni di Macchine, e delle Arti segrete di Leonardo Vinci raccolti da Pompeo Leoni = ne contiene 1750. Tutti gli altri suoi codici ne son pieni. Già avvisai che disegnate egli pur ha tutte le figure appartenenti al Trattato della Pittura, delle quali probabilmente son copia quelle del nostro codice pinelliano. (Vedi la pag. 56).
Pubblicò cento suoi disegni, esistenti nella collezione Arundeliana, Hollar. Caylus ne pubblicò 59, e tutti questi quasi di sole caricature. Altri ne iucise Cooper in nove tavole, per lo più relativi ai movimenti del corpo umano. Il sig. card. Silvio Valenti comperonne poi gli originali, almeno in parte. Son noti presso di noi i disegni vinciani pubblicati dal Gerli, e dal Mantelli, oltre quello della Cena intatagliato dal prof. Aspari.
Dal Vasari e dal Lomazzo troviamo fatta menzione d’altri disegni che si sono perduti, come i due fanciulli mostruosi nati presso Milano; i disegni d’armati e d’armi fatti pel Borri; di mulini che aveva il Figino, di contadini ridenti in numero di 250 posseduti da Avrelio Luino; quei della notomia dell’uomo veduti dal Vasari presso messer Francesco Melzo, e quei della notomia del cavallo, che perderonsi al partire di Lodovico il Moro.
Alcuni ve n’ha ancora nella galleria dell’Arcivescovato, molti presso il De Pagave e nel mentovato codice triulzano, e qualcheduno presso i colti nostri raccoglitori. N’è pur rimasto alcuno presso di noi, che avevamo anche il suo ritratto fatto da lui stesso con matita rossa. Fu questo preso per trasportarlo a Parigi, ma non vi giunse; e ’l cit. Gault Saint-Germain, dice che fu rubato a Coni.[209]
A Parigi alcuni ve n’erano, ed al altri ven furono portati in questi ultimi anni. Il mentovato Gault fa menzione di un San Giovanni; di cinque figure di vecchie; d’un uomo con uno specchio ustorio per far perire insetti; d’un giovane in profilo; d’un vecchio. Scrive inoltre che più di cinquanta disegni vincieschi ha saputo raccogliere in Italia l’architetto Legrand, e che pensa di pnbblicarli.
In Inghilterra ve n’ha pure gran numero.
xlv. Fra gli studj matematici e fisici, che facea Lionardo, quello del moto delle acque come il più vantaggioso alla società, quello fu che lo occupò maggiormente. Già vedemmo, come esaminò le cagioni che alterar possono la quantità dell’acqua che esce da una data apertura; come un semplicissimo macchinismo formando un vuoto possa sollevarla; come entro d’essa e sovr’essa muoversi possa l’uomo. Non gli sfuggia nulla di ciò che l’acqua risguardava. Essendo a Piombino esaminò il moto delle onde che inseguianisi e veniano a spianarsi sul lido; a Rimino fece attenzione alla melodia, che certe acque cadendo faceano; giuochi d’acque firmò nel giardino del castello, acciò servissero al bagno della duchessa di cui ci lasciò il disegno; e varj ordigni movibili dall’acqua proponeasi di costruire, ove avesse ottenute le 12 once d’acqua assegnategli la compenso de’ suoi lavori dal Re Lodovico xii. Leggiamo nel Lomazzo[210] ch’egli disegnò trenta diverse maniere di mulini, movibili parte dall’acqua e parte da altri agenti, e que’ disegni uniti in un libro stavano presso M. Ambrogio Figino. Parecchi disegni di mulini sono pure nel codice atlantico; e fra questi ricordomi di due che molto rapporto hanno con alcuni congegni presentati tre secoli dopo come un nuovo ritrovato, alla Società Patriotica d’agricoltura e d’arti, quando avea l’onore d’esserne il Segretario. Uno mostra come una sola ruota mossa dall’acqua, col movere una ruota dentata, fa girar due e anche tre mole, ed è rimarchevole che la mola superiore di legnio gira sopra quella de sasso: il che può far pensare che s’adoperasse non a macinare il grano; ma a sgusciare il miglio, e fors’anco il riso, operazione che or noi diciamo pilare. L’altra mostra le pale della ruota percossa dall’acqua snodate, cosicchè nel salire, piegandosi, restano pendenti, e gran parte perdono del loro peso, e quindi della loro resistenza ad essere sollevate. Ometto le molte maniere di sifoni da lui disegnati nello stesso libro.
Ma questi erano giuochi per lui, e ben più alto miravano le sue specolazioni, cioè alla navigazione de’ nostri canali, intorno alla quale mi conviene prima di tutto esaminare in quale stato ella fosse allorchè qui venne Lionardo. I Milanesi, appena riebbersi dai danni immensi fatti loro da Federico Enobardo, pensarono nell’anno 1179 a scavare un canale che una considerevol copia d’acque derivasse dal Ticino. Allor solo si mirò alla irrigazione, onde il canale non giunse oltre Gagiano; ma nel seguente secolo, all’anno 1227, veggendo essi il vantaggio sommo che alla città sarebbene derivato ove l’acqua servisse al tempo stesso alla navigazione, sino alla città il canale prolongarono, e poscia alle acque del Ticino, quì giunte sotto nome di Tesinello, mischiarono quelle che la città attraversavano o circondavano sotto i nomi di Cantarana, Vedra, Nirone, Vettabbia, Redefosso ec.; e queste acque poi uscir fecero in varj canali divise verso la parte australe per l’inaffiamento delle campagne. In tanta copia erano già esse allora, che nel 1296 si progettò d’unirle in un sol canale navigabile, che al Lambro portassele e con esso al Po e al Mare.
Quel progetto restò ineseguito. Ma quando Gian-Galeazzo Visconti Signor di Milano nel 1333 pensò a far edificare l’immenso e interminabil duomo, ultimo sforzo della gotica architettura; ed ebbe a quella fabbrica destinata l’inesauribil carriera de’ marmi della Candoglia alla sponda del fiume Tosa, o Atosa, ove imbarcati, tragittando il Verbano, pel Ticino e pel nuovo canale sino alla città veniano, trovossi che grande ancora era la difficoltà a trasportare gli enormi massi marmorei sino al luogo dell’edifizio. Allora fu che col consiglio, e coll’opera di valenti Ingegneri, si riunirono entro la fossa circoudante la città (quella stessa in cui ora scorre il naviglio della Marlesana) molte delle acque destinate dianzi ad altri usi, perchè alla navigazione bastassero; e allor fu che le chiuse, sin d’allora chiamate conche, quì s’introdussero per sostenere le acque, alzarle e abbassarle a piacimento, onde le barche cariche dalla bassa sponda del Tesinello fosser sollevate al livello del mentovato fossato, su di cui erano tratte sino al Laghetto già esistente presso S. Stefano, e non lungi dal duomo.
xlvi. Non v’ha, ch’io sappia, storico contemporaneo o vicino a que’ tempi, che di questa util opera ci abbia lasciato un ragguaglio, mentre gli scrittori di que’ dì impiegarono volumi a descrivere le guerre, le stragi, e i devastamenti di questo paese. Agli storici supplì la diligenza dell’eruditissimo mio amico e collega Fumagalli,[211] (che con sommo dispiacer mio e di tutti i buoni nello scorso marzo perdemmo), e del nostro Oltrocchi, i quali hanno tutte raccolte le vecchie carte nelle quali parlasi della navigazione del fossato, e delle conche in esso costruite per ottenerla coll’alzamento e abbassamento alterno del livello delle acque. E ciò forse non sapremmo se gli archivj pubblici e i monastici, e le carte della nostra biblioteca non ci avessero conservate le memorie delle spese, e i ricorsi dati a chi reggea questo stato, e ai magistrati che giudicar doveano de’ rispettivi diritti. In un libro esistente nell’archivio pubblico, detto del Castello perchè in esso custodiasi, intitolato = Dati et accepti = havvi un capo = Delle spese de’ lavorerii ducali fatte da Delfino de Giorgi tesoriere pe’ medesimi nell’anno 1438 = In questo, non solo continuamente parlasi del naviglio nuovamente cominciato, detto ducale, a differenza del Tesinello detto grande (navigium magnum); ma trattasi de’ sostegni che per far crescere e decrescer l’acqua serviano (pro faciendo crescere et decrescere aquam); e convien dire che nuovo fosse il modo di quel sostegno, perchè, prima d’eseguirlo nel naviglio, provaronlo in piccolo nel Redefossino, canale che costeggiava il giardino del castello. I medesimi sostegni adoperar voleansi nel canale allor nuovo di Bereguardo;[212] e questi vengono chiamati conche, delle quali parecchie sen rammentano, come or or vedremo.
Ne’ ricorsi poi leggesi, che ove si fosse voluto mantener navigabile il nuovo naviglio, che così chiamavasi l’interno canale, più non avrebbono potuto correre le acque della Vettabbia ad inafffiare i prati di Chiaravalle, ne’ quali il primo esempio erasi dato dai monaci circestiensi di quella irrigazione, che da cinque secoli fa la ricchezza della Lombardia. Espressamente ivi si parla delle conche; e più d’una sen nomina nell’interno della città in un ricorso di Giorgio Rolandi figliuolo di Giacobino di porta Vercellina che nel 1445 avea l’impresa della gabella che pagavasi per la navigazione, la quale, medianti le conche, faceasi pel naviglio recentemente costruito, specialmente verso porta vercellina, e porta giovia (che stava ov’ora è il castello); e vuol essere indennizzato pel danno avuto, ora perchè certe banche poste avanti le prime conche verso porta Vercellina erano state fatte in pezzi per la caduta dell’acqua, ora perchè le acque vi portavano sul fondo tanta ghiaia dalle sponde che le barche più non vi poteano galleggiare.
Ecco dunque e naviglio nuovo e conche o chiuse formate circa un secolo prima di Lionardo: le quali cose ho dovuto osservare, sì per rettificare l’error di coloro che trovar vogliono in lui l’inventor delle chiuse presso di noi, che per determinare quale e quanta parte abbia egli avuta nel miglioramento di questo ritrovato.
xlvii. Qual forma e quali congegni avessero le antiche nostre conche noi ben nol sappiamo. Da ciò che leggiamo in una carta del 1439[213] sembra potersi argomentare che prima di quell’epoca a certa determinata ora del giorno, cioè dalle 22 alle 24 italiane, si chiudessero tutte le bocche d’estrazione, e con banche (planche) si tenesse sollevata inferiormente l’acqua, sicchè ad ugual livello s’alzasse ne’ due navigli o canali; onde le conche altro non fossero che un otturamento de’ fori o rivi inservienti alla irrigazione. Ma altronde, poichè nel ricorso di Giorgio Rolandi parlasi dì caduta d’acque (propter undas aquae defluentis in conchis), e di tal caduta che spezzava le sottoposte tavole, é chiaro che quelle conche aveano un doppio sostegno mobile, perchè le barche a inegual livello salir potessero e discendere. Sappiamo altresì che nel mentovato anno 1439 Filippo Maria, ultimo dei duchi Visconti, per mezzo de’ due Ingegneri Filippo da Modena e Fioravante da Bologna fece costruire la conca di Viarena, affinchè navigabile si rendesse tutto il fossato che la città circondava; e poichè di oltre quattro braccia era la differenza di livello nelle acque, è chiaro che quella conca esser dovea di doppio sostegno fornita; ma in qual guisa fosse eostruita nol trovo negli scrittori.
Leggiamo che la chiusa immaginata nel 1198 da maestro Alberto Pitentino per sostenere il Mincio a Governolo[214] consisteva in varie travi cacciate nelle scanalature de’ due pilastri della porta e del ponte, le quali travi l’una dopo l’altra si sollevavano nell’aprire, e ricacciavansi giù per chiudere. In seguito vi si formarono porte, che, a foggia delle saracinesche de’ castelli o delle città, dall’alto al basso entro scanalature, come tavole scorsoie, salir faceansi e discendere. Forse di una di queste maniere erano le prime conche anche fra noi; e a queste ben possono applicarsi le osservazioni fatte dal nostro Lionardo, e da lui scritte nel piccol codice segnato Q.3 pag. 39, intorno al moto che l’acqua ha nell’aprire le catteratte di sopra, in mezzo, o di sotto; le differenze nel calare o movere in superficie, le cadute, i ritrosi, gl’incurvamenti delle onde, come si vede nelle conche di Milano.
Si cangiarono in appresso, come rilevasi dal disegno, fatto di mano di Lionardo medesimo, d’una conca o chiusa, quanto diversa dalle testè mentovate, tanto analoga a quelle che oggidì veggiamo. Questa però, siccome in appresso dimostrerassi, non fu da lui immaginata.
Se però riguardo alle conche per la navigazione del canal grande tratto dal Ticino nulla o ben poco operò Lionardo, ben fece in esso un miglioramento quanto necessario alla città altrettanto utile alla irrigazione, cioè gli scaricatoi presso San Cristoforo, de’ quali, e del premio avutone già parlammo,[215] come pur facemmo menzione del canale dal Ticino derivato per l’irrigazione della Sforzesca.[216]
xlviii. I ricorsi incessanti di quelli che aveano diritto alle acque colle quali formato s’era il naviglio nuovo, come dicemmo, indussero il duca Francesco i Sforza a derivare dall’Adda un canale, che molta copia d’acqua alla città conducesse, e alla irrigazione non meno che alla navigazione servisse. Il francese biografo Dufrêsne, copiato quasi da tutti gli oltramontani, e da alcuni italiani che di Lionardo scrissero, ben mostrò non solo d’ignorare le nostre storie, ma di non avere nessuna idea della topografa dei nostro paese, quando scrisse che Lionardo fu impiegato da Lodovico il Moro » a condurre le acque dell’Adda sino a Milano e formare quel canale navigabile volgarmente detto il Naviglio di Martesana con l’aggiunta di più di 200 miglia di fiume navigabile, sino alle valli di Chiavenna e Valtellina; e soggiugne che Lionardo, superando ogni difficoltà con moltiplicate cataratte, o vogliam dire sostegni, fece camminar le navi per monti e valli ». Così Dufrèsne a cui crederono anche il Milizia[217] e ’l cel. Bettinelli,[218] sebbene a poche verità siano misti molti errori.
Di fatti sappiamo dagli Storici contemporanei, e dallo stesso decreto ducale riportatoci dal Benaglia,[219] che quel canale fu ordinato dal duca Francesco i Sforza nel 1457, tempo in cui Lionardo aveva un lustro appena; e ’l Settala[220] ci ha conservato altro decreto della sua vedova duchessa Bianca Maria che nel 1465 prescrive il modo con cui venderne e condurne le acque, che già scorreano per l’irrigazione. Argomentò da ciò il ch. Fumagalli,[221] che sia stato scavalo il canale fra ’l 1457 e ’l 1460 dirigendo l’opera l’ingegnere Bertola da Novate.
Ecco pertanto il canale o naviglio della Martesana, derivato dal fiume Adda sotto il forte di Trezzo, e, dopo d’avere percorso quasi 30 miglia di paese, giunto sin presso Milano, certamente senza l’opera del nostro Lionardo. Francesco i, nell’ordinarlo, alla navigazione sino alle porte della città certamente mirava; e, la mente del padre eseguendo, ve la condusse, o a condurvela era vicino il duca Galeazzo Maria, poichè una conca avea già fatta costruire presso san Marco: della qual cosa abbiamo autentico documento in un decreto dell’arcivescovo Stefano, che ai 28 di settembre del 1496 » dichiara non più sacra ma profana quella parte del cimitero di san Marco, di cui si servì il duca per fare la conca del naviglio della Martesana ec. ».[222]
È incerto se ne’ primi anni quel canale alla navigazione effettivamente abbia servito; ma certa cosa è che poco atto esser poteva a portar barche, dopo il mentovato editto di Bianca Maria che una quantità grandissima d’acqua vendè per l’irrigazione; e a questa pur mancò nel 1480, quando sfiancatesi le mura e ’l suolo, che il canale sosteneano, nel fiume ricadde, onde 200 braccia di canale fu d’uopo di nuovamente scavare nel sasso. Quando Lodovico, richiamato dall’esilio, a cui accortamente aveanlo condannato la vedova duchessa Bona, e ’l sagace di lei ministro Simonetta, per vendicarsi di loro e dominare, fece sì che il figlio Gian-Galeazzo togliesse alla madre le redini del Governo, come dicemmo, suggerigli pure il pensiere di rendere navigabile il canale della Martesana, e in di lui nome emanò in data de’ 16 maggio 1483 il decreto di ciò eseguire. » E benchè per esso naviglio (ivi leggesi) ne segua molti beni per il macinar delli mulini e per adacquar li prati, non di meno il più principale e singolar beneficio che ne seguita si è per il navigare, per il quale si ha da render copiosa ed abbondante di vettovaglie, e di mercantie essa nostra città ec. « Dalle quali parole apertamente rilevasi, che allora l’acqua dell’Adda bensì pel canale della Martesana a Milano venia, ma non serviva alla navigazione voluta da Gian Galeazzo o piuttosto da Lodovico; il quale per averla ottenuta venne poi da Lancino Curzio largamente commendato.[223]
xlix. A chi il Moro la direzione di quest’opera sul principio affidasse non bene il sappiamo. Vedemmo che una conca v’era bensì presso san Marco, molto prima della venuta di Lionardo a Milano (che fu appunto in quest’anno 1483) immaginata ed eseguita; ma che altronde egli l’architetto fosse, e ’l direttor primario di questa grande impresa di Lodovico non ce ne lasciano dubitare le memorie, ch’egli medesimo ci ha lasciate. Egli fe’ in primo luogo i calcoli del lavoro e della spesa: egli pensò a far sì che l’acqua alla navigazion necessaria non mancasse al canale: egli rilevò il difetto delle conche o sostegni esistenti, per proporne i ripari. Nella pagina 43 del codice segnato Q. a. lasciò scritto: Il naviglio, che sia largo in fondo br. 16, e in bocca 20. Si potrà in somma calcolare tutto largo br. 18; e se sarà profondo 4 - 8, a 4 danari il quadretto, costerà il miglio, cavatura sola, ducati 900, essendo i quadretti di comune braccio. Ma se le braccia saranno a uso di misura di terra, ogni 4 son 4 ½. Ma se il miglio s’intende di 3000 braccia, tornano manco ¼, che restano br. 2250, che a 4 dan. il braccio monta il miglio 675. A tre danari il quadretto, monta il miglio ducati 506 ¼; così che la cavatura di 30 miglia di naviglio monterà 15187 ½. Quì veramente non s’indica nè il tempo nè il luogo di questo progettato naviglio; ma poichè sul foglio 38 dello stesso codice leggonsi le giù riportate parole relative al sotterramento delle viti a Vigevano a 20 marzo 1492, risultane l’epoca del progetto vinciano circa quest’anno.
Poiché questo rifar si doveva, Lionardo ne computò prima tutta la lunghezza da Trezzo a Milano, aggiugnendovi pure il fossato della città, a 30 miglia: indi ne calcolò lo scavo in ragione di larghezza conguagliata di braccia 18 colla profondità di braccia 4. Veggo altresì, dice Oltrocchi esaminando il codice atlantico, il disegno delle porte inferiori e superiori delle cataratte, ossiano conche; veggo che ne livellò precisamente l’altezza ne’ luoghi opportuni, provedendo prima all’evasione del Lambro che attraversava il canale; e trovando sino a Gorla un dolce scorrimento d’acqua, ivi ne fissò la prima conca, che poi da Francesco ii Sforza fu portata alla Cassina de’ Pomi; e progettò che si formasse il canale in linea retta verso la città quanto era possibile. Così, mediante altre due conche, portò l’Adda sul piano del fossato; a cui non erano ancora portate le acque per la soverchia loro altezza; e con due altre conche loro diede sfogo nel vecchio fossato navigabile di cui sopra parlammo, onde circondare tutta la città, dopo d’averne assicurato il perpetuo uguale livello con adattato scaricatoio, che tuttora sussiste, prima che in esso entrasse. Fin quì Oltrocchi; e giova ben credere ch’egli, che tutti avea sotto gli occhi i codici del Vinci, veduti v’abbia i disegni, e le note di quanto quì asserisce.
Per circondare con canale navigabile la città necessario era sottrarre dai canale istesso prima del suo ingresso, o da altri rivi tal quantità derivarne, che, dopo d’aver servito al castello presso porta Vercellina scorrendo, tendesse al meriggio: e abbiamo di Lionardo un disegno (Cod. Q. pag. 32) del Redefosso, o Rifosso com’egli lo chiama, da cui traggesi un canale largo due braccia, non certamente per se navigabile, ma tale da somministrare acqua che sostenuta con chiuse occupasse costantemente un più largo canale, siccome di fatto avvenir veggiamo anche oggidì fra ’l castello e la conca di Viarena.
Conveniva in secondo luogo ristringere l’interno canale, e dalle 40 braccia fu ridotto alle 18; e perchè la già introdotta irrigazione avesse meno a sentire la diminuzione delle acque, allor fu ch’egli propose di scavare a lato del naviglio le vene d’acqua da noi dette fontanili, che comuni ora sono fra noi, e mirabilmente servono alla irrigazione.
I sostegni che v’erano o troppo facilmente scomponeansi, o non abbastanza bene a ritenere, e a rilasciar l’acqua serviano; e Lionardo diessi in primo luogo ad osservare in essi tutti i diversi movimenti dell’acqua.[224] Non v’ha dubbio che Lionardo disegnata abbia la conca di san Marco; e ben lo mostra la sua maniera e ancor più lo scritto suo da destra a sinistra. Ivi s’indica il luogo: Conca di san Marco, e leggesi che quella conca è di muro costruito su pali: che al fondo della conca fu gittata ghiaia e calcina, e mentre questa era fresca ancora vi furon messi dentro de’ travicelli verdi di 3 a 4 once in traverso; che sino alla lor sommità tutto fu riempiuto di ghiaia e calcina, e sopra la testa de’ travicelli furon collocate delle tavole; e avverte che i travicelli furon essi medesimi prima inchiodati e assicurati sopra i pali, siccome vedesi nel disegno, ove pur s’indica il luogo in cui si pose la ghiaia e la calcina, e su di essa i mattoni e le tavole. Parlasi della costruzione dello sportello, aggirantesi su un perno, il quale non ista nel centro, ma più presso l’estremità della porta, la quale trovasi nel mezzo del canale; e ivi osserva che a motivo di tale costruzione, l’acqua che dallo sportello esce va a battere la sponda, e dee facilmente romperla. Questa osservazione, ossia critica fatta alla costruzione del sostegno; il leggere da lui descritta la conca di S. Marco, come edifizio di già esistente, e non come costruzione da farsi; il vedervi un solo sportello, e questo chiuso con una catena, laddove oggidì due e non uno veggiamo essere gli sportelli, in cui s’alza il saliscendolo con una pertica armata d’uncino, e si aprono e chiudonsi per la sola azione dell’acqua: tutto ciò m’induce a credere, che Lionardo, come dicemmo, non abbia immaginata quella costruzione di conche, ma bensì queste abbia all’attuale perfezione ridotte. Quindi conchiudiamo che anche nel correggere e migliorare le altrui invenzioni diede Lionardo una riprova della sua intelligenza ne’ lavori meccanici, e pel regolamento delle acque.
Possiamo forse a quest’epoca riferire il suo pensiere di formare un canale a zig-zag mezzo aperto, e mezzo chiuso or da un lato or dall’altro, per rimontarlo senza sostegni, del qual pensiere ci ha lasciato un disegno. E certamente alla grand’opera della navigazione intorno alla città si rapporta la topografia di Milano da lui disegnala, che vedesi al fol. 72 del codice atlantico.
l. I vantaggi che dalla navigazione di questo canale traeva il governo, fece pensare ad estenderla; e come il canale tratto dal Ticino portava a Milano i prodotti del Verbano, così un uguale comunicazione aprirsi sarebbe voluta da Lodovico il Moro col Lario; ma un grandissim’ostacolo a ciò opponeva non tanto la rapidità della discesa, quanto gli scogli che l’Adda attraversano a mezzo viaggio fra Lecco e Trezzo. L’osservatore che que’ luoghi percorre vede che il fiume s’è ivi tagliata una strada nella breccia detta da noi ceppo, la quale, un composto essendo di ghiaia legata da natural cemento di sciolta calce depostavi, e non avendo perciò la durezza dello scoglio, sostener non si potè a formare sponde perpendicolari ed elevate, e in mezzo al fiume precipitò in enormi massi. Il toglierli di mezzo non era eseguibil progetto; e altronde sempre vi rimanea tal rapidità da superare che, se non impossibile, costosissimo avrebbe quì renduto il rimontare delle barche.
Lodovico della grand’opera incaricò senza dubbio Lionardo, che sul luogo prese le opportune misure e fece le necessarie livellazioni. Ciò abbiamo da una relazione del Pagnani, che manoscritta sta nella nostra biblioteca. In essa leggesi, che quando nel 1518 mandati furono dal governo francese gl’Ingegneri per esaminare come render navigabile l’Adda fra Brivio e Trezzo, seppero dai contadini del paese, che molto prima, per comando di Lodovico Sforza, eransi fatte le medesime illustrazioni, e livellazioni, alle quali essi erano intervenuti, Vero è che ivi si nomina Giuliano Vascono fra gli architetti e non Lionardo; ma ben è probabile che l’opera sua vi prestasse pur egli, cui sempre, ove d’acque trattavasi, vedemmo dal duca adoperato.
Che se pur è dubbio che di tal navigazione s’occupasse il Vinci allora, se n’occupò certamente dopo le convulsioni sofferte da questo paese nel cangiamento di governo, nella qual epoca passando egli lungo tempo, come già dicemmo, col suo protettore e amico Francesco Melzi, in Vaprio o alla Canonica, luoghi presso al canale e sull’Adda, più volte senza dubbio era stato ad esaminare il fiume, ed aveva osservata che la rapidità del suo corso, sebbene ineguale, estendeasi da Brivio sin presso a Trezzo, pel tratto di circa 6 miglia. Quando pertanto fu chiesto de’ suoi lumi e dell’opera sua per rendere navigabile l’Adda, egli pensò a fare un canale in luogo opportuno che, medianti i necessarj sostegni, atte quelle acque rendesse a sostenere le barche. Delle sue indagini locali sul modo di riuscirvi, delle misure da lui prese, e della fattane livellazione, non ci lascia dubitare il disegno del corso dell’Adda che di sua mano abbiamo, nel quale indiconne con semplici linee gli andamenti e i giri, e la scogliera che sotto Paderno il dividea. A fianco del disegno ha notate le misure del lavoro da farsi, su cui computarne le spese. Comincia il disegno da Brivio e stendesi sino all’imboccatura del naviglio sotto Trezzo. Ivi leggesi (riducendo il suo scritto sul diritto e alla nostra ortografia):
Il cavo del naviglio è miglia 6 e 2/5, dal mulin di Brivio al porto di Trezzo. Da Brivio al mulin del Travaglia è miglia 3 2/3: e da esso mulino al ponte di Trezzo è miglia 2 2/5 … Adunque il cavo sarà la metà di 8/10: spesa della costa la qual costerà 3000 ducati: e con 13 mila si serrerà la valle, (cioè farassi un sostegno o  briglia al fiume) a li tre corni (scogli che ancora così chiamansi) e di sotto si risparmia il cavo di due miglia. Al Mulino del Tura profondo br. 7 dalla pelle (superficie) del naviglio alla pelle della data trabucchi 2794. Sotto il luogo corrispondente all’attuale naviglio di Paderno, v’è scritto: uno ingegno (congegno) perpetuo brieve come una conca. Poco sopra il luogo del castello di Trezzo, leggesi: Br. 10 più basso che il Travaglia, e dal mulin del Travaglia a quì son trabucchi 4078. Rimpetto al luogo del castello di Trezzo: Tranne 3 2/3 di 6 ½ resta miglia 3. Più sotto: Fanno once 6: 6 via 12 fa 72: aggiugnivi 6 once fa 78, da cui tranne 36 e aggiungivi 8 once fa 44. Ora tranne 44 di 78 resta 34; e da questo tranne il miglio compartito in 12, e sarà 2 miglia e 10/12, cioè 5/6.
 Tutto ciò copiò il laborioso Oltrocchi dal foglio 328 del codice atlantico, disegnando leggermente con matita l’andamento del fiume.
Ineseguito fu allora il progetto di Lionardo, come lo fu quello de’ due ingegneri milanesi Bartolommeo Della valle, e Benedetto Massaglia; i quali, poco dopo Lionardo, proposto aveano di fare in quel luogo una deviazione navigabile di circa due miglia. Ne’ successivi cangiamenti delle cose pensarono sempre i Milanesi alla navigazione dell’Adda; e dal re di Francia Francesco i ottennero nel 1516 per quest’oggetto 5000 scudi annui, co’ quali nel 1518, come notammo, si rifecero per la seconda volta le indagini; e più ancora ottennero dalla Spagna, a cui la Francia ceduto avea di questo paese il dominio, poichè nel 1591 l’architetto e pittor milanese Giuseppe Meda disegnò e fece eseguire la gran conca di Paderno, che noi vedemmo distruggersi per sostituirvene sei colle quali nel 1777, sotto il governo austriaco, si ottenne la tanto desiderata navigazione dell’Adda. Di quell’antica conca saggiamente ci ha conservata la descrizione e i disegno il valente nostro idraulico, e architetto Bernardino Ferrari.[225]
Mi lusingo d’aver così rammentato quel tutto che a mia notizia è pervenuto intorno alla vita, agli studj, e alle opere di Lionardo da vinci, le cose scrivendo da Storico anzichè da Encomiatore; e mi si vorrà ben perdonare, io spero, se per la distanza de’ tempi, per la lontananza de’ luoghi ove molte opere sue s’ammirano, e per la perdita degli originali suoi scritti e disegni, alcune cose ho omesse o non ho con tutta la precisione esposte.






[1] Nota qui introdotta da Giancarlo Mauri: dory = ficcone, lungo legno appuntito usato per uccidere; liptoi = ricevo. Termine che ricorda il metodo utilizzato per uccidere un vampiro. In Eanda Euripide ne fa un uso metaforico, dando a doryliptoi (una pugnalata) il significato di ‘rapina’ operata da chi ha vinto la guerra (o ‘bottino’, con valenza spregiativa).
[2] Disegni di Leonardo da Vinci incisi e pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli. Ragionamento premesso, e Spiegazione delle Tavole. Ital. e Franc. Milano, Presso Galeazzi 1784. fol. atl.
[3] Contemporaneamente a queste Memorie del Vinci pubblicansi le notizie intorno alla vita, e agli scritti di Baldassare Oltrocchi scritte dal suo successore ed amico Pietro Cighera Prefetto della nostra biblioteca.
[4] Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard da Vinci avec des fragmens tires de ses Manuscrits apportés de l’Italie etc. Par J. B. Venturi etc. A Paris, chez Duprat. An. V. 1797. in 4. fig.
[5] Mi scrive il ch. C. Giambattista Giovio, che da suo padre ebbe copia di quello scritto Gioviano il Sig. Co. Rezzonico suo zio; e che egli poi ignorando la di lui intenzione di pubblicarlo mandollo al cel. Tiraboschi, che divolgollo nel x. tomo (p. 290) della sua Storia Letteraria.
[6] Nell’albero genealogico della famiglia da Vinci, la quale tuttora conservasi, trovasi
Ser Piero notaio della Signoria nell’anno 1484.
[suoi figli:]
Domenico autore de’ viventi.
Ser Giuliano notaio della Signoria nel 1515.
Leonardo Pittore naturale, nato nel 1452.
Ciò rilevò il sig. Dei dal Catasto di Decima di Firenze dell’anno 1469, quartiere Santo Spirito, Drago, nel qual Catasto vengono nominati tutti quelli, che componeano la famiglia de’ Vinci in quell’anno colla rispettiva loro età; e leggesi: Ser Piero d’Antonio d’anni 40. Francesca Lanfredini (sua moglie) d’anni 20, e per ultimo, Lionardo figliuolo di detto Ser Piero non legittimo, d’anni 17. Vedi Serie di ritratti d’uomini illustri toscani, n. xxv., ove la prima parte di questa genealogia si riferisce. Il resto l’ho trovato fra le carte del nostro Oltrocchi, che avrà forse avute originalmente da Firenze quelle notizie, non mai, per quanto io so, pubblicate.
[7] Rime del faceto et arguto poeta Messer Bernardo Belinzone fiorentino. Milano 1493. Per Filippo Maria de’ Mantigazzi.
[8] Questo gran codice, che chiamasi atlantico pel sesto e per la mole, contiene quanti disegni e scritti di Lionardo il cav. Pompeo Leoni potè raccogliere poco dopo la di lui morte, avendone avuta gran parte dal Mazzenta, che l’ebbe dagli eredi di Messer Francesco Melzo. Contiene questo codice 1750 disegni. Dopo varie vicende pervenne esso nelle mani del sig. conte Galeazzo Arconati, a cui Giacomo i. re d’Inghilterra fece offerire 3000 doppie di Spagna per averlo; ma egli, più avido di gloria che d’oro, ricusò quel danaro; e ’l gran codice con altri undici del medesimo Vinci donò alla biblioteca ambrosiana, lusingandosi di lasciare un monumento illustre, durevole ed istruttivo ai suoi concittadini; delle quali cose fa fede lo stromento di donazione esistente nel nostro archivio, e la seguente iscrizione tuttora rimasta sopra il vuoto serbatoio di quel tesoro.
leonardi . vincii
manv . et . ingenio . celeberrimi
lvevbrationvm . volvmina . xii
habes . o . civis
galeaz. arconatvs
inter . optimates . tuos
bonarvm . artivm . cvltor . optimvs
repvdiatis . regio . animo
qvos . angliae . rex . pro . vno . offerebat
avreis . ter . mille . hispanicis
ne . tibi . tanti . viri . deesset . obrnamentvm
bibliothecae . ambrosianae . consecravit
ne . tanti . largitoris . deesset . memoria
qvem . sanguis . qvem . mores
magno . federico . fvndatori .
adstringvnt
bibliothecae . conservatores
posvere . anno mdcxxxvii
[9] Idea del tempio della pittura, pag. 42.
[10] Vite de’ più eccellenti Pittori ec., Vita di Lionardo da Vinci; e questa intendesi sempre indicata, qualunque volta nomino Vasari.
[11] Eccolo riportato dal Dufresne e da altri.
Chi non puo quel che vuol, quel che puo voglia;
Che quel che non si puo folle è il volere.
Adunque saggio è l’uomo da tenere
Che da quel che non puo suo voler toglia.
Però che ogni diletto nostro e doglia
Sta in sì e no, saper voler potere.
Adunque quel sol puo che è col dovere,
Nè trae la ragion fuor di sua soglia.
Nè sempre è da voler quel che l’uom pote:
Spesso par dolce quel che torna amaro,
Piansi già quel ch’io volsi, poichè io l’ebbi.
Adunque tu, Lettor di queste note,
Se a te vuoi esser buono, e ad altri caro
Vogli sempre poter quel che tu debbi.
[12] Che Lionardo le copiasse dal vero lo rilevo da suoi disegni, ove sovente accanto alla caricatura trovasi il nome o ‘l soprannome della persona rappresentata. Così nella figura inferiore a sinistra (di chi guarda) della Tav. xiv del Gerli leggesi: ol bolgia che porta el capelet in cima al co: alla prima figura a destra della Tav. xvii sta scritto: il S.or gio. Cirello; e alla sottoposta: S. Hieronimo de la Porta; alle due inferiori della Tav. xix leggesi a destra D. James, e a sinistra il S.r Bocal. Alla sinistra inferiormente nella Tav. xxi Capatagn Nasotra; e così di molte altre. Queste caricature, siccome appare da nomi scritti in dialetto milanese, furon certamente disegnate da Lionardo in Milano; ma da ciò pur rilevasi che uso egli era a copiarle dal vero.
[13] Trattato dell’Arte della Pittura. Lib. i. cap. i.
[14] Oltrocchi ottenne l’ortografia vinciana, e quì pur io la ritengo. Certo è non esser quella ch’è adottata oggidì; ma v’ha alcuni casi, in cui la trovo ragionevole. Egli generalmente non riconosce che la c e la g quali le pronunziamo inanti all’e, e all’i, onde scrive ca, co, cu, ga, go, gu ove noi scriviamo cia, cio, ciu, gia, gio, giù; e aggiunge la h alla c e alla g ove vuole chi si pronunzino come noi la pronunziamo avanti a, o, u. Così ammette la sola s dolce, raddoppiandola quando si pronunzia forte, ancorchè talora sia impura. Sovente pur unisce l’articolo e la preposizione al nome, come faceano i primi scrittori italiani. Di tutto ciò avremo frequenti esempi negli squarci che riporterò tratti da suoi scritti; sebbene questi medesimi suoi principj egli non segua costantemente.
[15] Vita di Giuliano da San Gallo.
[16] Supplemento alla Vita di Lionardo da Vinci, nel Tomo v. delle Vite de’ più eccellenti pittori ec. del Vasari, ediz. di Siena 1792.
[17] Vedi sotto al numero x.
[18] Essay etc. pag. 36.
[19] Rime, loc. cit.
[20] Ricordi di Monsig. Sabbà da Castiglione. Vineia (sic) presso Farri 1560. Vedi il num. xviii.
[21] Non furon mai le arti del disegno interamente trascurate presso di noi. Veggasi nella Storia Pittorica del ch. sig. ab. Lanzi (Tom. ii. pag. 386) ove tratta della Scuola Lombarda, come sempre in mezzo alla maggior barbarie che oscurava l’Europa tutta, in Lombardia conservossi e l’uso, e un certo gusto della pittura, della qual cosa parecchi monumenti presso di noi esistenti egli indica, e altri avrebbe potuto indicarne, fra i quali la chiesa pievana, or secolarizzata di Galliano a sei miglia al sud di Como, dipinta nel 1007. Quando Giotto quì venne, certamente prima del 1334, e dipinse il palazzo de’ Visconti, la pittura prese migliori norme, e formossi una scuola, che diede de’ grandi nomini, le opere de’ quali in alcune chiese, e presso qualche famiglia s’ammirano tuttavia. Del risorgimento della scoltura un monumento n’era in s. Francesco, chiesa ora secolarizzata, lavoro del 1316 rappresentante scolpito in marmo il Transito della B. Vergine; e due monumenti ancor ve n’ha, de’ quali uno è il mausoleo di s. Pietro Martire in Sant’Eustorgio, e l’altro di Lanfranco Settala in San Marco: amendue di Giovanni da Pisa, che il primo terminò nel 1339, e poco dopo fe’ l’altro lavoro. Risorse pure l’Architettura quando Gian Galeazzo Visconti invitò i più valenti maestri di quest’arte per la fabbrica del duomo; ma non lasciò essa le così dette gotiche maniere. Come poi sino a Lionardo s’andassero le tre arti migliorando, veder si può nella mentovata opera del Lanzi; e più diffusamente ancora il leggo nelle inedite Memorie per servire alla Storia de’ Pittori Scultori e Architetti milanesi, del fu ab. Antonio Albuzzi possedute ora dal valente Raccoglitore degli Economisti italiani Pietro Custodi che cortesemente me le ha comunicate.
[22] Prefazione alle Rime del Bellincioni.
[23] Pag. 30.
[24] Prefaz. al Libro de divina proportione.
[25] Biblioth. scriptorum Mediolanens. Tom. i. Histor. Literar. Typograf. Mediol. Pag. 337.
[26] Vedi sopra alla pag. 26.
[27] Coronazione e sponsalizio de la ser. Regina M. Bianca Maria Sforza, di Baldassare Taccone ec. Milano, presso Pachel. 1493.
[28] Pel ritratto della prima scrisse il Bellincioni il seguente sonetto, che assai più al pittore che al poeta fa onore.
Di che t’adiri a chi invidia hai Natura !
Al Vinci che ha ritratto una tua stella !
Cecilia sì, bellissima, oggi è quella
Che a suoi begli occhi il sol par ombra oscura.
L’onor è tuo, sebben con sua pittura
La fa che par che ascolti, e non favella.
Pensa, quanto sarà più viva e bella,
Più a te fia gloria nell’età futura.
Ringraziar dunque Lodovico or puoi
E l’ingegno e la man di Lionardo
Che a posteri di lei voglion far parte.
Chi lei vedrà così, benchè sia tardo
Vederla viva, dirà: basti a noi
Comprender or quel ch’è natura ed arte.
Trovo fra le note mss. del De Pagave, che il ritratto della Gallerani, maritata poi al conte Lodovico Pergamino, vedevasi ancora in Milano nel secolo ora scorso presso i marchesi Bonesana, e una bella e antica copia n’abbiamo nella nostra galleria. Un bellissimo quadro dello stesso Lionardo dipinto per questa Cecilia esiste, e vidilo negli scorsi giorni, presso Giuseppe Radici mercante di vino nella contrada di s. Vito al carrobbio in porta ticinese ora marengo. Rappresenta questa tavola la B. Vergine col Bambino sedente in atto di benedire una di quelle rose che dal volgo diconsi rose della madonna, dipinta con una finitezza mirabile. Bella sopra tutto n’è la testa, nella quale come ne’ collo e petto ammirasi un liscio e lucido sorprendente. Vi si legge il nome di Cecilia ne’ seguenti versi scritti nello zoccolo della cornice in forma d’ancona, che ben mostra l’architettura di que’ tempi:
Per Cecilia qual te orna lauda e adora
El tuo unico figliolo o beata vergine exora.
Potrebbe il Vinci aver fatto contemporaneamente il quadro e ’l ritratto: non essendo raro allora che la divozione s’accoppiasse ad illeciti amori, ma può ben anch’essere che questo dono abbiale fatto Lodovico dopo il matrimonio, giacchè trovo nel mentovato libro di spese della fabbrica del duomo., che il duca nell’anno 1493 doveva una somma pro pretio cent. 151. marmoris fini dati mag. Johanni de busti ducali inginiar. pro ponendo in opere in domo dñe Cecillie Pergamine etc. Argelati di lei parla come di donna colta e poetessa.
[29] Nel Cod. Atlant. pag. 164 v’ha tre eleganti epigrammi inediti sul ritratto di Lucrezia Crivelli fatto da Lionardo, che l’autore anonimo forse mandò al Pittor medesimo senza pubblicarli:
i.
Ut bene respondet Naturae Ars docta ! Dedisset
Vincius, ut tribuit cetera, sic animam.
Noluit ut similis magis haec foret: altera sic est:
Possidet illius Maurus amans animam.
ii.
Huius quam cernis nomen Lucretia, Divi
Omnia cui larga contribuere manu.
Rara huic forma data est; pinxit Leonardus, amavit
Maurus, pictorum primus hic, ille ducum.
iii.
Naturam, ac superas hac laesit imagine Divas
Pictor: tantum hominis posse manum haec doluit,
Illae longa dari tam magnae tempora formae,
Quae spatio fuerat deperitura brevi.

Ma forse il Vinci fece quel ritratto dopo il 1497, se è vero che Lodovico sol dopo la morte di Beatrice ebbe da Lucrezia quel Gio. Paolo che fu lo stipite dei marchesi di Caravagio. Vedi Imhoff. Hist. Ital. et Hisp. genealog. Tom. i. pag. 245. Nel Museo di Parigi v’è ritratto di bella donna alla finestra con veste rossa fregiata di ricamo e gallon d’oro, che credesi esser quello di Lucrezia Crivelli fatto quì da Lionardo. Gault de S. Germain pag. lxix.
[30] Pref. al libro De divina proportione.
[31] Vita di Lionardo da Vinci.
[32] Saggio sopra la Pittura.
[33] Ecco il titolo che il Tantio premette a’ que’ versi. » La seguente operetta composta da Meser Bernardo Belinzon è una festa o vero ripresentazione chiamata Paradiso, qual fece fare il signor Lodovico in laude della duchessa di Milano, e chiamasi Paradiso perochè v’era fabbricato con il grande ingegno ed arte di Maestro Leonardo Vinci fiorentino il Paradiso con tutti li sette Pianeti che girava e li Pianeti era rapresentati da homini in forma e habito che se descrivono dalli poeti; li quali Pianeti tutti parlano in laude della prefata duchessa Isabella, come vedrai leggendola. «
[34] Vedi sopra, pag. 29.
[35] Rime pag. 27.
[36] Hist. Nat. lib. 35. cap. 2.
[37] Fronte stabat prima, quem totus noverat orbis
Sfortia Franciscus Ligurum dominator et altae
Insubriae, portatus equo etc. De Nuptus Impeatoriae Majestatis etc. anno 1493. Mediolani, apud Zarotum 1494.
[38] Tav. lx.
[39] Delle Histor. Milanesi, all’ann. 1492.
[40] In un codice triulziano in cut ammiransi molti disegni di Lionardo e della sua Scuola, uno ve n’ha di bel giovanetto che credesi essere Francesco Melzi; e credea pur Gerli che un ritratto del giovanetto Melzi fosse quello della sua Tavola iv. Che giovanetto ei fosse allora l’abbiamo da lui medesimo, poichè sopra la testa da lui disegnata, e pubblicata dal Gerli (Tav. xlv) e dal Mantelli (Tav. 17.) egli scrisse: 1510 a di 14 Augusto. P.a cavata de relevo da Francescho da Melzo de anni 16. E dietro alla spalla ha scritto; anni 19 Fr. Melzo.
[41] Elencchus Privilegior, Ticin. studii. Pag. 154.
[42] Due Lezioni prelimin. del D. Guglielmo Hunter premesse al suo Corso di Lezioni anatomiche. Londra 1784.
[43] Nelle Tavole xxx. xxxi. xxxii. xxxiii, xxxiv. i.* ii.* iii.* vii.* x.* xi.*
[44] Ecco le parole che scritte sono presso la testa dell’uomo (Tav. i.)
h. l. 1/6 del volto    |          f. c. 1/3 del volto
g. r. 1/4 del capo     |          k. l. 1/2 del volto
g. t. 3/4 del volto    |          h. f. 1/4 del volto
f. t. 1/4 del volto     |
Fa che il chapo cioè dalla somità dell omo al di sotto del mento sia l’ottava parte di tucto lomo ilquale chapo dividerai in 5 ed una delle parti fa che sia dal nascimento de chapelli insino al pari della soma alteza del capo. un altra, parte metti dal taglio della bocca al fine di sotto del mento e laltre di mezo ressterano infral taglio della boccha a al fine del naso co chapeglj.
Presso la testa del cane leggesi:
g o sono eguali         o, sono simili
s e sono eguali         f f sono simili
Le quali spiegazioni trovansi oscure perchè mancano al disegno le lettere corrispondenti, o almeno non veggonsi nella copia che n’ha fata il Gerli; nè più veder le posso nell’originale.
[45] Firenze presso Pagani e Grazioli 1792. in- 4.
[46] Chi questi vuol confrontare con quelli del Poussin, vegga nella seguente nota il capo, a cui ognuno corrisponde.
Num.   1 Cap. lxxxix.                       |          Num. 14 Cap. cc.
Num.   2 Cap. clxxiv.                      |          Num. 15 Cap. cciv.
Num.   3 Cap. clxxvii.          |          Num. 16 Cap. ccv.
Num.   4                             |          Num. 17 Cap. ccix.
Num.   5                             |          Num. 18 Cap. ccx.
Num.   6 Cap. clxxxix.          |          Num. 19 Cap. ccxxxi.
Num.   7                             |          Num. 20.
Num.   8                             |          Num. 21 Cap. ccxxxiii.
Num.   9 Cap. clxxxii.           |          Num. 22 Cap. cclxi.
Num. 10                             |          Num. 23 Cap. cclxiii.
Num. 11 Cap. clxxxxvi.        |          Num. 24 Cap. cclxviii.
Num. 12 Cap. clxxxxvii.        |          Num. 25 Cap. ccxcv.
Num. 13                             |          Num. 26 Cap. ccci.
[47] Idea del tempio della Pittura pag. 7. Tratt. Della Pittura lib. 2 cap. 19.
[48] A questo M. Gualtieri come ad uomo generoso e benefico scrive il Bellincioni un Sonetto (pag. 174) per chiedergli un piacere; e ’l Tantio rendendo ragione a Lodovico il Moro, perchè pubblicasse le Rime del Bellincioni: ciò hammi imposto, gli dice » l’humano fidele, prudente et sollicito executore delli tuoi comandamenti Gualtero, che fa in tutte le cose ove tu possi far utile, ogni studio vi metti. «
[49] Trattato dell’Arte della Pittura. Pag. 158.
[50] Storia genuina del Cenacolo insigne dipinto da Leonardo da Vinci ec. Del P. Domenico Pino. Milano 1756. in 8.o Il P. Allegranza (Op. Eruditi pag. 290), nega che di Lionardo sian quelle figure, ma dell’opinion sua non adduce fondamento.
[51] Practica musice Franchini Gafori Laudensis, Mediol. per Guilleim, Signer. 1496. Fol.
[52] Id. De Architectura, Cap. vi. in fine.
[53] Loc. cit. Lett. dedicat.
[54] Epistol. dedicat.
[55] Catalogue raisonné des Manuscrits conservés dans la biblioteque de la ville et repubbl. de Geneve, par Jean Sénébier. Geneve 1779. Pag. ultima.
[56] Corio. Delle historie milanesi. Parte vii.
[57] Corio. Loc. cit.
[58] Vasari. Vita di Leonardo da Vinci. Circa questi tempi dev’essere stata scritta una lettera, di cui trovasi la minuta o la copia al fot. 316 del codice atlantico, di mano di Lionardo e a caratteri rovesci, ma contenente cose, ch’egli non avrebbe dovuto scrivere. Si avvisano in questa i Fabbricieri, d’una città, che dagli antecedenti può sospettarsi essere Piacenza; di passo e di concorso d’innumerevoli forastieri, ove doveva allogarsi una magna opera per onore di Dio, e degli uomini; e si dice che loro tornerebbe in grandissimo disonore, e lunghissima infamia, se prestassino tede a qualcuno per le sue fruppe o per favore che di quà gli sia dato. Dicesi che di quelli che pretendono far tal opera chi e maestro di boccali, chi di corazze, chi campanaro, alcuno sonagliere, e persino bombardiere; e fra questi un certo Delsignore s’è vantato d’esser compare di Mess. Ambrogio Ferrere (appaltatore delle gabelle ducali) da cui ha buone promessioni; e ove ciò non basti monterà a cavallo e impetrerà tali lettere per cui l’opera a lui non sia denegata.... Aprite gli occhi, soggiunge: da cotesta terra non trarrete se non opere di vili e grossi magisteri. Credetelo a me, conchiude, salvo Lionardo fiorentino che fa il cavallo del duca Francesco di bronzo che non ne bisogna far conto perchè ha che fare il tempo di vita sua, e dubito che per essere sì grand’opera non la finirà mai ec. Potea Lionardo scrivere in questi termini degli altri, e di se stesso? E poichè scritto è il foglio di sua mano dobbiamo argomentare che copiasse una lettera altrui a se onorifica, se non che non sembrano consentanee al suo pensamento le ultime parole.
[59] Lett. lxxxiv fra le Pittoriche stampate in Roma 1757.
[60] Loc. cit.
[61] Al cartone del Cenacolo apparteneano le figure degli Apostoli e della Cena, che separatamente disegnò Lionardo; e son questi le tavole di cui quì sotto si parla.
[62] Le teste di s. Pietro e di Giuda tratte da nostri codici furono disegnate e pubblicate dal Gerli (Tav. 11) e dal Mantelli (Tav. 12). Un intero disegno del Cenacolo, che pure vuolsi di Lionardo, posseduto già dal march. Questore Castiglioni, e quindi dal sig. Don Giuseppe Casati, intagliò il valente prof. Aspari.
[63] Tratt. dell’Arte della Pittura, Lib. 3. Cap. 5.
[64] Discorso sulle arti del Disegno recitato da Antonio Mussi Prof. ec. Pavia 1798. pag. 33.
[65] Stor. delle arti del Disegno. Tom. i pag. 235 della mia traduzione. Ediz. di Milano.
[66] Una lunga nota delle copie più celebri che fecersi del Cenacolo trovo negli scritti del lodato consigl. De Pagave, e sono: in Milano
1. Nel convento de’ Francescani della Pace sul muro. Del Lomazzo nel 1561.
2. In S. Barnaba, ed è l’ottava parte dell’originale. Credesi di Marco d’Oggiono fatta per ricopiarla poi nella grandezza dell’originale, siccome ha fatto.
3. In S. Pietro in Gessate. D’Agostino Santagostini.
4. Nel Monastero maggiore, sul muro. Del Lomazzo.
5. Una fedele e non ispregevol copia ne fe’ fare per la sala de’ quadri della nostra biblioteca il card. Federico Borromeo, di cui alla pag. 74.
6. A due miglia da Milano, nel monastero de’ Gerolimini di Castellazzo. Di Marco Oggiono summentovato.
7. Nella gran Certosa di Pavia. Dello stesso. Fu di colà portata a Milano ove venne in questi ultimi tempi delineata ed incisa dal valente sig. Frey.
8. In San Benedetto di Mantova. Di Monsignori.
9. In Lugano. Nel refettorio de’ PP. Osservanti. Di Bernardino Luino.
10. In Ispagna all’Escurial.
11. In Francia, a S. Germano d’Auxerres per ordine di Francesco i. Dello stesso Luino.
12. A Escovens, pel co. di Monmorenci.
[67] De Viris illustr. Ord. Praedic., p. 47.
[68] Nel Discorso sopra i Romanzi così scrive questo elegante autore. » Giova al poeta far quello che soleva fare Leonardo Vinci eccellentissimo dipintore. Questi, qualora voleva dipingere qualche figura, considerava prima la sua qualità, e la sua natura, cioè se doveva esser nobile o plebea, giocosa o severa, vecchia o giovane, buona o malvagia... e poi se n’andava ove sapeva che si ragunassero persone di tal qualità, e osservava diligentemente il loro viso, le loro maniere, gli abiti, i movimenti del corpo; e trovata la cosa che gli paresse atta a quello che far voleva, la riponeva collo stilo al suo libricino, che sempre teneva a cintola. « Narra poi come per trovare una faccia atta a rappresentar Giuda pel Cenacolo andava ogni giorno mattina e sera in Borghetto, ove abitano tutte le vili e ignobili persone, e per la maggior parte malvage e scelerate «, e che minacciò infine di dare a Giuda il viso del P. Priore, che ’l molestava: cosa non verosimile, anzi non possibile, come dimostralo il mentovato P. Monti. Veggasi il lodato P. Pino, pag. 66 e seg.
[69] Veri Precetti della Pittura, 1587. p. 172.
[70] Tempio della Pittura, pag. 49.
[71] Saggi sul ristabilimento dell’antica arte de’ greci, e romani pittori. Parma 1787. T. i. pag. 167.
[72] Tratt. della Pitt. Cap. 100; 123 ec.
[73] Vedi Opusc. scelti di Milano. Tom. ix, pag. 306.
[74] Fra i moltissimi scrittori che il Cenacolo vinciano descrissero, nessuno, a parer mio, meglio comprese ed espresse in parole i sentimenti che Lionardo esprimere volle e seppe nelle figure del Redentore e degli Apostoli, quanto l’immortale fondatore di questa nostra biblioteca il card. Federico Borromeo nella descrizione dell’unitovi Museo (Federici Card. Borromaei. Musaeum. Mediolani 1625. in fol.) » Il pittore, dic’egli, così bene negli atteggiamenti e ne’ volti mostrò i moti interni degli animi, che al guardar la pittura ti par d’udire ciò che gli Apostoli ebbero a dir fra loro, quando Gesù Cristo pronunciò: Colui che mette con meco la mano nel piatto questi mi tradirà. Il volto del Salvatore indica la profonda mestizia, ch’ei mostra al tempo stesso di volere per moderazione occultare. Ti par d’udire taluno degli Apostoli minacciare il traditore; un’altro promettere al Divin Maestro ajuto e difesa; questo vedi rimanere stupido all’annunzio del gran misfatto; quello vivamente affliggersene; chi cerca d’allontanare da sé il sospetto; chi l’orditura del delitto e ’l delinquente d’indagar s’ingegna: chi sta attonito, chi si mostra sdegnato, chi parla, chi interroga, e chi gli altri ascolta. Il volto di S. Pietro spira sopra ogni altro ira e vendetta, robustezza mostrando egli e vigore negli atti; e a S. Giovanni rivolto gli chiede de’ divini detti il rischiaramento. Presso a lui per contrapposto collocò l’artefice il traditor Giuda, onde meglio veggasi l’opposizione de’ sentimenti ne’ due diversi volti. Torva ispida e vile è la deformità del traditore, mentre il volto di s. Pietro è aperto, onoratezza mostrando e dignità. Vedasi Giuda ansioso e pel timore d’essere scoperto ascoltare i discorsi di Pietro e Giovanni. E ben mostrò Lionardo nel volto di Giuda quanto versato fosse nella fisiognomica, poichè nero il pinse, irto il crine e la barba, con occhi incavati, naso simo, squallido e magro; indizj tutti d’animo maligno; laddove all’Apostolo diè pallide le labbra per lo sdegno, dilatate le narici, il naso diritto, e franco il guardo.
[75] Vedi al num. xxix.
[76] Loc. cit.
[77] Tempio della Pittura, pag. 49. Trattato della Pittura, p. 50.
[78] Feder. Card. Borromaei Musaeum, pag. 26.
[79] Barthol. Senensis. De Vita et Morib. B. Stephani. Senis 1726.
[80] Microcosmo della pittura, Cesena 1657.
[81] Ritratto di Milano, pag. 164.
[82] Loc. cit. pag. 412.
[83] È questi Andrea Salaino; ma Lionardo non iscrive mai il suo nome altramente che Salai, o Salay.
[84] La Cappa di Salai addi 4 Aprile 1497.
Br. 4 di panno argentino       ll.         15        4
Velluto verde per ornare       ll.         9
Bindelli                    ll.         -           9
Magliette                 ll.         -           12
Manifattura             ll.         1          5
Bindello per dinanzi  ll.         -           5
Punta                                  ll.         1
Ecci del suo grossoni 13.
[85] Raccolta di Disegni incisi da Girolamo Mantelli di Canobio sugli Originali esistenti nella biblioteca ambrosiana di mano di Leonardo da Vinci, e de’ suoi scolari Lombardi. Milano 1785. fol. atl.
[86] Pompas nuptiales, lugubres naenias, sibariticas mensas, atellanas fabulas, jonicos choros, ludicraque denique omnia, publicis praesertim oculis obnoxia, tanto semper apparatu, tamque exquisito voluptatum deliciarumque omnium genere spectantibus semper exhibuit, ut quae nobis ab inde spectacula edita sunt, ea velut abortivo foetu degeneraverint. Praeterea mathematicos, sophistas, philosophos, medicos... benevolentia viaticoque prosequebatur. Oinne praeterea literatorum genus... lyristas, symphoniacos, fidicines, pyrrhicos, histrionicique gestus ludicrorumque doctores eximios amavit: praeclara opificum ingenia, peregrinas artes adsciscebat. Leonardum pictorum mollissimum etc. Arlunus de Bello Veneto. Cod. ms. pag. 97.
[87] Frate Luca Paciolo nella prefazione al libro = De divina proportione = Scritto pel duca Lodovico parla della » admiranda e stupenda equestre statua, la cui altezza, dalla cervice a piana terra, sono braccia 12, cioè 37 4/5 tanti della quì presente linea A. B. (Vedasi nella Tav. ii, fig. 8). Or questa linea misurata nel codice ms. in pergamena colle figure del Vinci medesimo, è di once milanesi 4, punti 0, atomi 11, e di poll. 7 lin. 5 6/5 del piede parigino, che sono uguali a millimetri 202 1/10 dell’odierno metro francese. Quindi l’altezza del colosso era di braccia milanesi 12, on. 10, p. 1 a 3/5; piedi parag. 23, poll. 6, lin. 2 1/2; metri 7, decimetri 6, centimetri 3, millimstri 9 2/5. Poichè il Paciolo, collega ed amico del Vinci, parla del peso della statua come delle reali sue dimensioni, io nello spiegare la Tav. xl dei disegni vinciani del Gerli, ne ho conghietturato, che ne fosse allora stato fatto il gitto; ma tanti argomenti e testimonj dimostrano non essere stato fatto mai, che presto dovei ricredermi, intendendo le parole del Paciolo come d’un calcolo fatto sulle dimensioni, e non d’un peso realizzato.
[88] . . . Expectant animi, molemque futuram
Suspiciunt: fluat aes; vox erit: ecce Deus.
Epigr. Lib. 4.
[89] Essermi data piu alcuna commessione d’alcuna... del premio del mio servitio perchè non son da esserle da... cose assegnationi perchè loro hanno entrate di p... li è che bene possono aspettare più di me... non la mia arte la quale voglio mutare, e,... dato qualche vestimento ----- Signiore, conosciendo io la mente di vostra excellentia essere ochupata... il ricordare a vosstra signioria le mie pichole cose. Ella mi messe in silenzio.... che ’l mio taciere fosse causa di fare isdegniare vostra Signioria... la mia vita ai vostri servitii... mi trovo continuamente parato a ubidire... del cavallo non dirò niente perche cogniosco i tempi... a V. Sig, chom’io restai avere il salario di due anni del.... con due maestri i quali continuo stettono a mio solario e spese.... che alfine mi trovai avanzato di detta opera circha lire 15 mi... opere di fama per le quali io potessi mostrare a quelli che io sono sta... da per tutto, ma io non so dove io potessi spendere le mie opere... l’aver o atteso a guadagnarmi la vita.
[90] Ecco le parole del Registro.
1499. 26. Aprilis. Ludovicus Maria Sfortia, dux Mediolani dono dedit D. Leonardo Quintio (sic) fiorentino pictori celeberrimo pert. n. 16 soli seu fundi ejus vineae quam ab Abate seu. Monasterio S. Victoris in Suburbano portae Vercellinae proxime acquisierat, ut in eo spatio soli pro eius arbitrio aedificare, colere hortos, et quidquid ei, vel posteris eius, vel quibus dederit ut supra, libuerit, facere et disponere possit.
[91] Ricordi, pag. 109.
[92] Cron. MS. all’anno 1510.
[93] Ivi.
[94] Parodi. Elench. privilegiorum Ticin. Studii, pagg. 44, e 148.
[95] Parodi. Loc. cit. ad ann. 1499.
[96] Cron. mss. del Daprato.
[97] Loc. cit.
[98] Pref. all’Euclide illustrato.
[99] Tratt. della Pitt. Lib. 2. cap. 17.
[100] Lettere Pittoriche Tom. iii.
[101] Eccola.
Caesar Borgia de Francia
Dei gratia Dux Romandiolae Valentioeque, Princeps Hadriae, Domin. Plumbini etc. S. R. E. Confalonerius et Capitaneus generalis. » Ad tutti nostri locotenenti, castellari, capitanei, condottieri, officiali, soldati et subditi ali quali de questa proverrà notizia commettemo et comandamo che al nostro prestantissimo et dilectissimo familiare Architetto et Ingegnere Generale Leonardo Vinci d’essa ostensore el quale de nostra commissione ha da considerare li lochi et fortezze de li stati nostri ad ciò che secundo la loro exigentia et suo judicio possiamo provederli, debbiano dare per tutto passo libero di qualunque pubblico pagamento, per se et li soi amichevole recepto et lassarli vedere, misurare, et bene extrimare quanto vorrà. Et a questo effecto comandare homini ad sua requisizione, et prestarli qualunque aiuto, asistentia, et favore ricercarà. Volendo che delle opere da farsi ne li nostri dominj qualunque ingegnere sia astretto a conferire con lui, e con il parere suo conformarsi etc Datum Papiae anno 1502, ducatus nostri Romandiolae etc. »!
[102] Sta scritta da destra a sinistra nel fol. 73 del codice atlantico in questi termini; coll’ortografia però e sintassi vinciana, che io cangio adoperando la comune, perchè non sia nojoso il lungo racconto. = Capitani fiorentini: Niccolò da Pisa, Pietro Gianpaolo, Neri di Gino Capponi, Conte Francesco Guelfo Orsino, Bernardetto deMedici, Micheletto, M. Rinaldo degli Albizzi ed altri - Di poi si faccia come lui prima montò a cavallo armato; e tutto l’esercito gli andò dietro - 40 squadre di cavalli, 2000 pedoni andavano con lui - Il Patriarca (d’Aquileja Lodovico Scarampi Mezzarota) la mattina di buon ora montò su un monte per iscoprire il paese, cioè colli, campi, e valle irrigata da un fiume, e vide dal borgo a san Sepolcro venire Niccolò Picenino con le genti con gran polvere, e scopertolo tornò al campo delle sue genti, e parlò loro - Parlato ch’ebbe pregò Dio a mani giunte, con una nugola dalla quale usciva san Pietro che parlò al Patriarca - 5oo cavalli furono mandati dal Patriarca per impedire o raffrenare l’impeto nimico. Nella prima schiera Francesco figliuolo di Niccolò Picenino venne il primo ad investire il ponte ch’era guardato dal Patriarca e fiorentini - Dopo il ponte a mano sinistra mandò fanti per impedire i nostri i quali ripugnavano, de’ quali era capo Micheletto, che quel dì per sorte aveva in guardia lo esercito. A questo ponte si fa una gran pugna. Vi sono i nostri, e l’inimico è scacciato. Quì Guido e Astorre suo fratello signore di Faenza con molte genti si rifecciono, e ristorarono la guerra, e urtarono tanto forte le genti fiorentine che ricuperarono il ponte, e vennero sino ai padiglioni, contro i quali venne Simonetto con 600 cavalli ad urtare gli inimici, e li cacciò un’altra volta dal luogo, e riacquistarono il ponte; e dietro a lui venne altra gente con 2000 cavalli: e così lungo tempo si combattè variamente. Di poi il Patriarca, per disordinare l’inimico, mandò Niccolò da Pisa innanzi e Napoleone Orsino, giovane senza barba, e dietro a costoro gran moltitudine di gente, e quì fu fatto un altro gran fatto d’armi. In questo tempo Niccolò Picenino spinse innanzi il restante delle sue genti, le quali feciono un altra volta inclinare i nostri, e se non fosse stato che il Patriarca si mise innanzi, e con parole e fatti non avesse ritenuto que’ capitani sarebbono iti i nostri in fuga. Fece il Patriarca piantare alcune artiglierie al colle, colle quali sbaragliava le fanterie de’ nimici; e questo disordine fu tale che Niccolò cominciò a rivocare il figliuolo, e le altre genti, e si misero in fuga verso il borgo; e quì si fece una grande strage d’uomini, nè si salvarono se non i primi che fuggirono o si nascosero. Durò il fatto d’arme fino al tramontar del sole, e ’l Patriarca attese a ritirare le genti, e seppellire i morti, e ne fece un trofeo.
[103] Vedi le Tavole xxxv, xxxvi, xxxvii, e xiii pubblicate dal Gerli.
[104] Tom. i. Tav. xxix.
[105] Vedi Macchiavelli Istor. Fior. Lib. v. Corio, Istor. Milan. Parte v. Poggio. Vita di Niccolò Piccinino. Ven. presso Ziletti 1571. Ivi leggasi che il Picinino medesimo attribuì la sua disfatta a san Pietro.
[106] Dellavalle. Prefaz. alla Vita di Raffaello, nel Tom. v. del Vasari. Pag. 231. Ediz. Sanese.
[107] Idea del Tempio della Pittura, pag. 299.
[108] Decennal. viii, pag. 140.
[109] Quella pietra probabilmente era quarzo bianco di cui trovansi non infrequenti gran saldezze, e stratificazioni nelle alpi.
[110] La Canonica di Vaprio è il luogo dell’antica chiesa pievana tuttora esistente all’oriente dell’Edificiida, e rimpetto alla terra di Vaprio fabbricata sulla costa occidentale. Alla Canonica i Melzi aveano una casa, che solevano abitare in quel tempo, e quando la venderono vi si vedeva presso ad una finestra la testa di Lionardo da lui stesso dipinta sul muro, MSS, di De-Pagave.
[111] Supplem. alla Vita di Leonardo da Vinci. Vasari: Tom. v. p. 67.
[112] De Bello Veneto. Cod. MS. in Bibl. Ambrosiana, fol. 119.
[113] Tratt. della Pittura pag. 635.
[114] Darannosi più sotto per esteso le Lettere e ’l Testamento medesimo.
[115] Il Da Prato Cron. MS. lo dice morto nel 1508. Così il Muratori. Annali d’Italia, e amendue asseriscono mal fondato il sospetto dell’avvelenamento.
[116] Trovo fra le carte del nostro Oltrocchi, il quale non notò dond’abbia tratta la notizia, che nel libro dello spedale di s. Maria nuova di Firenze leggesi registrato il debito, e ’l pagamento fattone a ser Giuliano fratello carnale di Lionardo in nome anche degli altri fratelli, tutti figliuoli di ser Piero, parte nel luglio, e parte nel dicembre dell’anno 1520. Il credito di Lionardo, di 300 e non di 400 scudi, vi è registrato nel 1514; ma può ben essere o che la lite allor solo siasi decisa o composta, o solo dopo tre anni i fratelli abbiano potuto dargli la convenuta somma.
[117] Io ho sospetto che la mia poca rimunerazione de’ gran benefizj, che ho ricevuti da V. E. lo abbiano alquanto fatto isdegnar meco, e che per questo sia che di tante lettere scritte a Vostra Signoria io non ho mai avuto risposta. Ora mando costì Salai per far intendere a V. Signoria come io sono quasi al fine del mio litigio, che ho co’ miei fratelli, e come io credo trovarmi costì in questa pasqua, e portare con meco due quadri di due Nostre Donne di varie grandezze, le quali san fatte pel cristianissimo nostro re, o per chi a V. Signoria piacerà. Avrei ben caro di sapere alla mia tornata costà dove avrei a stare per la stanza, perchè non vorrei dare più noja a Vostra Signoria: e ancora avendo lavorato pel re cristianissimo, se la mia provisione è per correre o no. Io scrivo al presidente di quest’acqua che mi donò il re, della quale non fui messo in possessione perchè in quel tempo n’era carestia nel naviglio per causa de’ gran secchi, e perchè i suoi bocchelli non erano moderati; ma ben mi promise che fatta tal moderazione io ne sarei stato messo in possessione. Sicchè io riprego Vostra Signoria che non le incresca ora che tai bocchelli son moderati di far ricordare al Presidente la mia expeditione, cioè di darmi la possessione di detta acqua, perchè alla venuta mia ispero farvi su stromenti e cose, che saranno di gran piacere al nostro Cristianissimo Re. Tratta dal cod. atlantico al fol. 310, e una consimil ve n’ha al fol. 364, ove pur trovasi la seguente: Magnifico Presidente, Essendomi io più volte ricordato delle proferte fattemi da V. Eccell., più volte ho presa sicurtà di scrivere e di ricordarle la promessa fattami all’ultima partita, cioè la possessione di quelle 12 once d’acqua donatemi dal cristianissimo Sire. Vostra Signoria sa che io non entrai nel possesso di essa, perchè in quel tempo v’era caristia d’acqua nel naviglio, sì pel gran secco, come per non esserne ancora moderati i bocchelli..., di poi intendendo essere acconcio il naviglio, io scrissi più volte a Vostra Signoria e a Messer Girolamo da Cusano, che ha presso di se la carta di tal donazione: così scrissi al Cornigero (il Tanzi più volte mentovato), e mai non ebbi risposta. Ora io mando costì Salai mio discepolo apportatore di questa... Io credo esser costì in questa Pasqua per essere presso al fine di piateggiare, e porterò con meco due quadri di Nostra Donna che io ho cominciati, ed holli ne’ tempi che mi sono avanzati condotti in assai buon porto...
 La terza lettera che trovasi nella medesima pagina è diretta a messer Francesco Melzo intitolandola = Caro mio Messer Francesco. Io mando costì Salai per intendere.... ripetendo lo stesso dell’acqua, e de’ bocchelli, e finisce dicendogli. Non v’incresca per amor mio di sollecitarne un poco il Presidente, e così Messer Gerolamo da Cusano, al quale mi raccomanderete ec.
[118] Cremona città fedelissima ec. sotto l’immagine di Massimiliano.
[119] Uno di questi quadri credesi nella Galleria di Dusseldorf, inciso poi nella Tav. xiv. num. 67.
[120] Osserva il ch. Lanzi che Lionardo vicinissimo era a Raffaello nella maniera di dipingere, ed emulato l’avrebbe, se scemando qualche grado alla finitezza, n’avesse aggiunto qualche altro alla facilità ed amenità.
[121] Il P. Allegranza (Opusc. Eruditi pag. 290) sospetta che cifra di Lionardo sia una X frammezzata da una L, che vedesi presso a certe teste di Filosofi in casa Borri; ma quelle figure non sono certo del Vinci.
[122] Nota scritta da Lionardo nel fol. primo del cod. segnato X.
[123] Tratt. dell’Arte della Pittura, Lib. ii. Cap. 1.
[124] Vedi la Tav. xii. della Collez. del Gerli.
[125] Tiraboschi St. Lett. Tom. ix.
[126] Essay etc. pag. 40.
[127] Vedi suo sonetto pag. 18.
[128] Tratt. dell’Arte della Pittura Lib. ii. c. 15.
[129] Presso il C. Sannazzari v’è una piccola Venere ignuda a Lionardo attribuita, e trovo nelle note inedita del De Pagave, che alcuni disegni in grande di donne e divinità ignude, come di Proserpina rapita da Plutone, di Ninfa che medica un Satiro, di Giovinetta in braccio ad un Vecchio, forse l’Aurora con Titone ec., possedeva il march. questore Melzi, che per iscrupolo dielle al curato di S. Bartolomeo acciò le abbruciasse, e questi n’esegui troppo scrupolosamente la volontà.
[130] Chi diè le notizie al P. Dellavalle lesse de lagna, e credè doversi leggere legna; ma v’è scritto de laqua, cioè dell’acqua donatagli dal re Lodovico xii.
[131] Ecco la lettera tratta dall’Archivio de’ Sigg. Da Vinci, e pabblicata nella sua Vita fra gli uomini illustri Toscani (Serie de’ Ritratti ec. Tom. ii. Ser Giuliano e fratelli suoi honorandi. Credo siate certificati della morte di Maestro Lionardo fratello vostro, e mio quanto optimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile che io potesse esprimee il dolore che io ho preso, e in mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possederò una perpetua infelicità, e meritamente perchè sviscerato et ardentissimo amore mi portava giornalmente. È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura. Edificiiesso Iddio onnipotente gli conceda eterna quiete. Essa passò dalla presente vita alli 2 di maggio con tutti li Ordini della Santa Madre Chiesa, e ben disposto. E perchè esso aveva lettera del Cristianissimo Re, che potesse testare, e lasciare il suo a chi li paresse; e sento quod Eredes supplicantis sint regnicolae; senza la qual lettera non potea testare che valesse, che ogni cosa sarebbe stato perso, essendo così qua costume, cioè di quanto s’appartiene di quà, detto Maestro Lionardo fece testamento il quale vi avrei mandato se avessi avuta fidata persona. Io aspetto un mio zio quale vienmi a vedere trasferendo se stesso di poi costì a Milano. Io glielo darò, ed esso farà buono ricapito non trovando altro in questo mezzo. Di quanto si contiene circa alle parti vostre in esso testamento (altro non v’è se non) che detto Maestro Lionardo ha in Santa Maria nuova nelle mani del Camarlingo segnato, e numerato le carte, 400 scudi di sole (Vedi sopra alla pag. 108.) li quali sono a 5 per 100 e alli 16 d’ottobre prossimo, saranno 6 anni passati, e similmente un podere a Fiesole, quali vuole sia distribuito infra voi. Altro non contiene circa alle parti vostre, nec plura, se non che vi offero tutto quello vaglio e posso, prontissimo e paratissimo alle voglie vostre, e di continuo raccommandomi. Dato in Ambriosa che primo Junii 1519. Datemene risposta per i Pondi. Tamquam Fratri vestro Franciscus Mentius. Tale è la sottoscrizione nel libro da cui ho tratta questa lettera; ma senza dubbio noll’originale v’è Meltius, trovandosi sempre nominato Melzo, o da Melzo nel testamento, e in ogni altra occasione. Poichè del podere di Fiesole non troviamo fatta menzione nel testamento, convien dire ch’egli abbia fatto poi un codicillo.
[132] Essay etc. pag. 39.
[133] » Pianse mesto Francesco re di Franza
» Quando il Melzi, che morto era gli disse
» Il Vinci, che in Milan mentre che visse
» La cena pinse che ogni alta opra avanza.
Nei Grotteschi, Pag. 109.
[134] » Nel 1519 li 29 Agosto in Amboysa il predetto Batista de Vilanis, al presente servitore del nobil huomo M. Francesco da Melzo gentilhomo di Milano pensionario del Re nostro Signore nomena e constituisce etc. il nobil homo et Magnifico M. Hieronymo de Melzo Gentilhomo residente in Milano suo certo nunzio e gli dà piena autorità et mandamento di pigliare possessione de la suddetta medietà del jardino lasciatogli da Leonardo de Vince e di poter dividere et partire la detta medietà con M. Salay ratificando la divisione che sarà da lui fatta ec., anzi gli dà autorità di poter venderla, alienare ec. a quel prezzo a lui parerà ec., ratificando ec. e dando qualunque facoltà e pegno. « Nello stesso foglio dell’Oltrocchi trovo la nota di cui si parlò dianzi de’ 300 scudi del Sole depositati da Lionardo nel 1514, e riscossi dai fratelli nel 1520. Fra le summentovate carte dell’archivio de’ Gesuati una ve n’ha de’ 3o marzo 1534 in cui parlasi d’una porzione di vigna venduta da Mess. Gerolamo Melzo, come procuratore di Giambattista de Vilanis, parte a Gesuati medesimi, e parte a Lorenzo de’ Capirolis.
[135] Pag. 56.
[136] Priestley. Storia delle ombre azzurre. Scelta d’Opuscoli. Milano. Tomo i. in 4.o pag. 270.
[137] Catalogo de’ MSS. italiani della Biblioteca Nani.
[138] Florilegium noctium corythanarum. Symbolae literariae. Tom. viii. Florentiae 1751. pag. 66.
[139] Pag. 52.
[140] Ragionamento, premesso ai disegni pubblicati dal Gerli, pag. 14.
[141] Trattato dell’Arte della Pittura. Lib. 2. Cap. 14.
[142] Tav. xiv.*
[143] Tratt. dell’Arte della Pittura, pag. 384. Un valente pittore esaminando il Trattato di Scienzia d’arme di Camillo Agrippa milanese (stampato in Roma nel 1553) ne trovò le figure sì ben fatte, e tanto alla maniera Lionardesca, che sospettò essere le stesse disegnate da Lionardo pel Borri.
[144] Vita di Lionardo da Vinci premessa al Trattato della Pittura.
[145] Giannambrogio Mazzenta morì vecchio nel 1635, V. Argelati Script. Mediol. Tom. 2.
[146] Nel 1587.
[147] Gian Ambrogio Mazzenta si fe’ Bernabita nel 1590.
[148] Egli vi fe’ stampare sulla coperta: Vidi Mazentae patritii Mediol. liberalitate. Anno. mdciii.
[149] Questo fu poi venduto al sig. Smith inglese; e probabilmente è il libro de’ mulini.
[150] Tuttora serbasi nella pubblica biblioteca di Torino.
[151] Nel 1613.
[152] È il codice atlantico di cui parlammo alla p. 15. Nota 2.
[153] Essai etc. pag. 6.
[154] Arte della guerra.
[155] De Urbibus, Arcibus, Castellis etc. Parisiis 1535, fol.
[156] Essay etc. pag. 54.
[157] Vedi sopra pag. 25.
[158] Vedi la Tav. xxxviii de’ disegni pubblicati dal Gerli.
[159] Morelli. Dissertaz. intorno ad alcuni Viaggiatori eruditi ec. Venezia 1803. Pag. 22.
[160] Tav. xxvii.
[161] Pag. 92.
[162] Pag. 99.
[163] Presso Gerli. Tav. xl.
[164] Ivi.
[165]Tav. xlii.
[166] Tav. xli. Nella descrizione delle Tavole premessa ai disegni sen può leggere la spiegazione spesso colle parole del Vinci istesso.
[167] Essay etc. pag.
[168] Cod. atlant. fol. 7. 58. 386.
[169] Fol. 146.
[170] Fol. 377.
[171] Fol. 300.
[172]Fol. 253.
[173] Fol. 225.
[174] Fol. 350.
[175] Fol. 369.
[176] Fol. 389.
[177] Fol. 247.
[178] Fol. 23.
[179] Fol. 25.
[180] Pag. 93.
[181] Tav. xv.*
[182] Tav. ii. fig. 7.
[183] Sylv. Lib. 1.
[184] Pag. 26.
[185] Tempio della Pittura, pag. 42.
[186] Museum, pag. 22. Edit. Mediol. 1625.
[187] Vita di Lionardo da Vinci.
[188] Script. Mediol. pag. 356.
[189] Vedi sopra alla pag. 98.
[190] Pag. 64.
[191] Ai numm. xiv, e xv.
[192] Num. xiii.
[193] Ivi.
[194] Pag. 101. n.
[195] Num. xxiv.
[196] Num. x.
[197] Titi. Descrizione delle pitture ec. in Roma. Pag. 29.
[198] Pag. 49.
[199] Traité de la Peinture. Catalogue des tableaux et dessins ec.
[200] Vedi sopra pag. 92.
[201] Vedi alla pag. 38.
[202] Vedi alla pag. 105.
[203] Pag. 113.
[204] Pag. 114.
[205] Pag. 64.
[206] Pag. 68.
[207] Pag. 77.
[208] Pag. 67.
[209] Vie de Léonard de Vinci. Pag. lxxx. Quel disegno è stato inciso da Gerli. Tav. i.
[210] Trattato della Pitt. Lib. 7. Cap. 28.
[211] Antichità Longobardiche Milanesi. Diss. xii.
[212] Pro experientia substineorum fiendorum in ducali navigio noviter constructo ab Habiate Belriguardum.
[213] Fumagalli. Loc. cit.
[214] Discorso del sig. Gabriele Bertazzolo sopra il nuovo sostegno  …. Presso la Chiusa di Governolo. Mantova, presso Osanna 1609. Fol. fig.
[215] Pag. 104.
[216] Pag. 45.
[217] Memor. degli Architetti. Tom. i. Pag. 148.
[218] Risorgimento d’Italia. Parte ii.
[219] Relazione Istorica ec. C. 16. p. 251.
[220] Relazione ec. Pag. 30.
[221] Loc. cit.
[222] Copia di questa Carta ebbe Oltrocchi dall’archivio di S. Marco.
[223] Sylvar. lib. i.
[224] Vedi sopra pag. 185.
[225] Sulla Conca di Paderno. Scelta d’Opuscoli interessanti. Tom. iii in 4.o pag. 401. Milano.

Trascrizione dall'originale di Giancarlo Mauri

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