memorie storiche
di lionardo da vinci.
i. Se istruttiva e dilettevole riuscir deve a chi legge la storia
degli uomini, che estesero i confini del sapere, raffinarono il gusto, e
perfezionando le arti piacevoli come le utili, acerebbero i comodi della
società, certamente, per l’importanza dell’argomento almeno, piacerà il leggere
quì raccolte le Memorie Storiche
intorno a Lionardo da Vinci,
valente Musico, ingegnoso Meccanico, profondo Geometra e Matematico, egregio
Architetto, esimio Idraulico, eccellente Plasticatore e sommo Pittore.
In nessun luogo
aveansi avanti il maggio del 1796 tanti materiali per iscriver la vita di quel
gran genio quanto in questa nostra biblioteca, ove l’immortal fondatore card.
Federico Borromeo, e co’ proprj danari e per altrui generosi doni, raccolto
avea più scritti e disegni del Vinci,
che sparsi non n’erano in tutto il resto dell’Europa. Ma, dopo che que’ codici,
disegni, e quadri furono δοpύληποι,
per valermi d’un espressione d’Euripide,[1] non avrei mai osato d’incaricarmi
di scrivere di quel grand’uomo la vita, quantunque già da venti anni ne avessi
pubblicato un compendio,[2] se il mio predecessore Baldassare Oltrocchi, non avesse tutto
letto collo specchio, (giacchè il Vinci
scriver solea colla manca e all’orientale da destra a sinistra), copiato con
somma pazienza e fatica oltre ogni credere fastidiosa e grave, come dic’egli
medesimo, e lasciatoci quanto in que’ codici trovasi d’importante per la storia
di Lionardo; e raccolte non avesse
al tempo stesso le più accertate e peregrine notizie, che altri codici e i
libri gli somministrarono, e indicate le fonti ove altre cercarne.[3]
Devo pur dire, e con
riconoscenza il dico, che molto ancora mi giovai delle notizie intorno a Lionardo raccolte dal Consigliere
Venanzio De Pagave, uomo eruditissimo in fatto di Belle Arti: le quali notizie
insieme a quelle che risguardano Bramante, e altri celebri nostri Maestri nelle
Arti del Disegno, serbansi presso il suo degnissimo figlio, che cortesemente mi
permise non solo di leggerle, ma anche di trarne que’ lumi, che a migliorare il
mio lavoro servir poteano.
Con questa
suppellettile di cognizioni da altri preparatemi ho preso a scrivere queste Memorie, ben certo di non essere un
semplice ripetitore di ciò che gli altri, dal Lomazzo e dal Vasari sino a noi,
hanno scritto; anzi sicuro di dir cose nuove e importanti, specialmente
riguardo a questo paese, in cui egli passò gli anni suoi migliori, e fece
quelle opere che maggior nome gli acquistarono.
Meglio fors’anco, e
con più di precisione alcune cose direi, se i codici di Lionardo, che nostri erano, avessi ora liberamente sott’occhio,
onde di tutti agiatamente esaminare i disegni, e lo scritto; ma questi sono a
Parigi. Fortunatamente per me, oltrecchè varie notizie già in altro tempo da que’
codici io avea tratte, l’amico mio e collega professor Venturi, ora Ministro
della Repubblica Italiana presso l’Elvetica, con occhio di colto Fisico, e
valente Matematico qual egli è, potè colà esaminarli, e ’l fece, pubblicandone
poi un Saggio,[4]
di cui varrommi; giacchè riguardo alla parte scientifica poco si estesero le
ricerche del nostro Oltrocchi.
Non devo quì omettere
che raccolse Oltrocchi quelle note per secondare i desiderj del ch.
illustratore di Plinio sig. conte Anton-Giuseppe della Torre di Rezzonico, il
quale, avendo avuto uno scritto inedito del celebre suo concittadino Monsignor
Paolo Giovio contenente una compendiosa vita d’alcuni valenti artisti del
secolo xv, e fra questi del nostro
Lionardo da Vinci, volea
pubblicarlo corredato di quante notizie potea raccogliere a loro spettanti.
Egli non pubblicò mai nulla; ma intendo dal coltissimo Cigalini suo nipote ed
erede degli scritti suoi, come delle sue sostanze, esservi di fatti il manoscritto
di Giovio arricchito di copiose note dell’illustre suo avo, ch’egli pubblicherà
forse un giorno.[5]
Frattanto però ragion vuole, giacchè sì opportuna n’è l’occasione, che più non
resti sconosciuto il risultato delle fatiche dell’Oltrocchi; e veggasi quanto a
torto alcuni accusassero i Bibliotecarj dell’Ambrosiana di trascurare i
monumenti del Vinci che
possedevano.
Narrerò prima
succintamente, seguendo quanto sarà possibile l’ordin cronologico, ciò che egli
fece e che gli avvenne nel decorso de’ suoi giorni; e quindi, più diffusamente
esaminerò i suoi studj, e i lavori da lui diretti, specialmente relativi all’Idrostatica.
Delle sue teorie intorno all’arte del dipingere non parlerò che incidentemente
e poco dironne; essendo i suoi precetti tutti raccolti nell’unito Trattato della Pittura.
ii. Nacque Lionardo in
Vinci, piccol castello posto in Valdarno non lungi dal lago di Fucecchio,
presso ai confini del Pistoiese; e nacque, non già nell’anno 1445, come
generalmente leggesi presso gli Scrittori della sua Vita, ma nel 1452, come
rilevò da registri originali di quel tempo il sig. Dei, il quale ne scrisse la
genealogia, consultando non tanto le vecchie carte della famiglia Da Vinci, quanto i pubblici archivj.[6] Possiamo così annoverare Lionardo fra gl’illustri bastardi, dice
l’autore della sua vita inserita fra quelle degli illustri Toscani, e dopo di
lui Tiraboschi, Venturi ed altri. Ma, sebbene sull’illegittimità de’ natali di Lionardo sembri non potersi mover
dubbio, sarebbe stato desiderabile che il sig. Dei avesse trovato qualche
documento per dichiararlo almeno legittimato in appresso: la qual cosa è
verisimile per le ragioni che son per addurre. Se Lionardo avea 17 anni quando ser Piero n’avea 40, questi
dunque l’ebbe essendo giovinetto ancora, e probabilmente libero; il che poteva
e dovea facilitarne la legittimazione. Ebbe ser Piero tre mogli, come rilevasi
dalla geneaologia del Dei, cioè Giovanna di Zanobi Amadori, Francesca di ser
Giuliano Lanfredini, e Lucrezia di Guglielmo Cortigiani. Se Lionardo visse in famiglia colla seconda
moglie, come vedesi dal registro summentovato, ben è chiaro che v’era anche ai
tempi della prima, giacchè allora, come or or diremo, pensò ser Piero a farlo istruire.
Visse pur colla terza; e lo rilevo da un sonetto giocoso del Bellincioni[7] diretto a Madonna Lucrezia
(certamente avanti l’anno 1483 in cui già era in Milano), nel quale dice d’essere
A Fiesole con Piero e Lionardo.
Vedremo in seguito
che a Fiesole i Vinci avean casa, e che v’era Lionardo
anche nel 1505. È egli probabile che un fanciullo, tenuto come vile
bastardo, vivesse continuamente nella famiglia paterna nel tempo di tre
successive matrigne? Di più: nel codice atlantico in cui Pompeo Leoni[8] raccolse quanti scritti e
disegni aver potè di Lionardo, e
che sta ora a Parigi, havvi al fol. 128 la lettera d’una sua cognata in data de’
14 dicembre 1514, la quale così scrive al marito suo in Roma: Erami schordato el dirvi che voi mi
rechomandiate Lesandro in Firenze a vostro fratello Lionardo un omo
excellentissimo, e singolarissimo… Pregiavasi dunque questa della
fratellanza di Lionardo con suo
marito: nè lo avrebbe certamente cotanto distinto, se per la legittimazione
almeno non lo avesse riputato degno di questo titolo. Un argomento sicuro poi
della legittimazion sua, se non della legittimità, io lo traggo dal vederlo nel
1511 in Firenze occupato a piatire co’ suoi fratelli, che molti n’avea come
rileviamo dalla genealogia del Dei, per avere la sua parte dell’eredità d’un
comune loro zio ser Francesco da Vinci matricolato nell’arte della seta; e ciò
consta per più lettere sue scritte a Milano, esistenti nel mentovato codice
atlantico al fol. 310, delle quali un frammento di quella sola quì trascrivo
che diretta fu a monsig. Carlo d’Amboise luogotenente del re di Francia in
Milano: Io sono, scrive egli, quasi al fine del mio letigio che io ò con
mie’ fratelgli, e più sotto. Ancora
ricordo a V. Exc.ia la facenda che ò cum S.r Juliano mio
Fratello capi delli altri fratelli ricordandoli come se offerse di conciar le
cose nostre fra noi fratelli del comune della eredità de mio Zio, e quelli
costringa alla expeditione, quale conteneva la lettera che lui me mandò.
È egli verosimile che
volesse Lionardo avventurare una
lite per una sostanza alla quale non avrebbe potuto in nessun modo pretendere,
qualora non avesse avuto il titolo, se non della legittimità, almeno della
legittimazione? Aggiungasi che nel suo testamento medesimo rammemorava i
fratelli, e loro lascia una somma di danaro che impiegata aveva in Firenze, e
forse anche la sua parte del podere di Fiesole, come a suo luogo vedremo. E ciò
basti per levarli di fronte, come meglio si può, la macchia de’ natali, a lui
senza sua colpa improntata.
iii. Ne’ primi anni suoi Lionardo,
sortito avendo dalla natura e belle forme e robustezza non ordinaria, e agilità
somma con ingegno perspicacissimo ma inquieto, molti studj intraprese con
ardore, come l’aritmetica, scienza allora non comune, la musica per cui molto
piacque anche nella virilità, e la poesia in cui non solo ben riuscì scrivendo
versi, ma anche cantandoli all’improvviso, se il vero ci narrano Lomazzo,[9] e Vasari.[10] Convienci confessar però
che nel sonetto morale, sola composizione poetica di lui rimastaci, ha mostrato
d’esser più uomo sensato che immaginoso poeta.[11] Ma fra gli studj suoi,
quello per cui dimostrò una più costante inclinazione, e un’assiduità maggiore,
si fu il disegno, e le arti tutte che ne dipendono. Per gli sforzi di Cimabue e
di Masaccio, cominciava a risorgere allora in Italia, e specialmente in
Toscana, l’arte della Pittura; e i migliori ingegni che se ne occupavano,
richiamavanla alle belle forme de’ greci lavori, anzi della natura; e già
scorgeasi ch’essa condor poteva alle ricchezze, e alla gloria. Ser Piero, tanto
per secondare l’inclinazione del figliuolo quanto per istradarlo in un’arte
onorevole e lucrosa, dopo d’eesersi consigliato con messer Andrea da Verocchio,
valente pittore, scultore, e architetto a que’ dì, a lui stesso diello perchè
nell’arte del disegno lo istruisse. Seco il prese a discepolo messer Andrea, e
poichè ne vide i meravigliosi progressi, per viepiù animarlo allo studio e alla
diligenza, mentre stava dipingendo una tavola, in cui san Giovanni battezzava
il Salvatore, volle che Lionardo in
quel lavoro avesse parte; e questi vi dipinse un Angiolo che teneva alcune
vesti: » e benchè fosse giovanetto, dice Vasari,
lo condusse di tal maniera che molto meglio delle figure d’Andrea stava l’Angiolo
di Lionardo; il che fu cagione che Andrea mai più non voller toccar colori; sdegnatosi
che un fanciullo ne sapesse più di lui «. De’ suoi progressi nella pittura, e de’
più rinomati lavori del suo pennello, avrò in appresso occasione di ragionare;
ma prima d’ogni cosa mi convien dare un breve ragguaglio de’ principali
avvenimenti della sua vita.
iv. Pare che sino all’anno suo trentunesimo Lionardo vivesse in patria, o nella Toscana almeno, occupato
bensì principalmente della pittura come provanlo e la rotella di fico, in cui
pinse un sì strano mostro composto di quanto trovar seppe di più schifoso e
spaventevole fra i rettili e gl’insetti, che spaventò suo padre medesimo; e la
testa di Medusa, e ’l Nettuno fatto per Antonio Segni, e ’l cartone d’Adamo ed
Eva, di cui dice il Vasari essere stato disegnato con tanta diligenza e
naturalità, che al mondo divino ingegno far non può la simile. Nel tempo stesso
però impiegava quanto d’ozio restavagli nello studio variato sì, ma assiduo di
tutto ciò che poteva ornargli lo spirito o giovargli. Egli certamente molto
lavoro facea, poichè, non possedendo ricco censo paterno, sappiam da Vasari,
che con qualche lautezza vivea, cavalli e domestici avendo, e de’ avalli
volendo i più belli e vivaci; il che far non potea che c’ proprj guadagni. La
sua giovinezza, e la vivacità sua gli fecere nascere talora de’ pensieri, che
parer possono, e talor furono stravaganti, come il creare de’ pessimi odori,
che or noi diremmo gas, con misture
di cose inodore, e spignerli invisibilmente nelle stanze per cacciarne chi v’era:
il celare allo stesso fine lunghissime e ripiegate budella in modo che,
gonfiandole con mantice non veduto, tutto il luogo occupassero: il formare tal
congegno, per cui quasi spontanea una tavola del letto s’alzasse a destare e
spaventare chi dormìa, e altre simili celie parecchie. Meno inutile fu il suo
capriccio di copiare dal vero[12] le stravaganti fisionomie
che incontrava, per farne le famose sue caricature, nel che fu tanto superiore,
dice Sulzer, a quei che poscia vollero imitarlo quanto una buona commedia di
Moliere a un’insulsa farsa d’arlecchino. Egli studia vasi non solo di dipingere
ne’ volti e negli atteggiamenti il bello e ’l deforme, ma ben anche di
esprimervi le idee, gli affetti, l’anima stessa, per la qual cosa talora, dice
Lomazzo,[13]
chiamò i contadini a convito per farli ridere alla smascellata, raccontando
loro le più pazze cose del mondo, e sì ben disegnolli che senza riderne guardar
non poteansi quelle figure: e talor seguì i condannati al patibolo per
esaminare le traccie dell’angoscia e della disperazione sul loro viso. Utili
ritrovati pur sovente meditava, tentava, ed eseguiva. Vasari e Lomazzo ci
dicono che lasciò de’ disegni ora per iscaricar acque, ora per traforar monti,
ora per tirare gran pesi, ora per oriuoli, e mulini, per gualchiere, e cento
altri congegni d’arti, de’ quali parleremo. Due principalmente de’ suoi
progetti meritavano d’esser annoverati; quello cioè di sollevare,
sottoponendovi acconcia base, la basilica di s. Lorenzo senza che avesse a
risentirne l’edifizio; e l’altro d’incanalare il fiume Arno da Firenze a Pisa:
questo però, siccome a suo luogo diremo, deve probabilmente riferirsi all’età
sua più matura. Lavorò da giovanetto anche di scultura e di plastica, facendo
alcune teste di femmine ridenti e di putti che parevano uscite di mano d’un
maestro; e d’architettura pur occupandosi fe’ disegni di varj edifizj, delle
quali cose tutte abbiamo a testimonj il Lomazzo, e ’l Vasari, e i suoi disegni
medesimi.
Ciò che scrisse e che
fece in appresso ben ci prova quanti e quali studj facesse Lionardo ne’ suoi primi anni, attese le
cognizioni vaste e profonde che in diverse scienze ed arti mostrò d’avere. Per
formarcene un’idea basta leggere la lettera ch’egli indirizzò a Lodovico il
Moro reggente, e poco men che signore del ducato di Milano, allorchè quì chiamollo.
Ricoppiolla Oltrocchi dal summentovato atlantico codice vinciano. Eccola
scritta, quale ivi si legge al foglio 382,[14] se non che Lionardo scrissela colla manca, e perciò
da destra a sinistra alla maniera degli Orientali.
» Havendo S.or mio Ill.
visto et considerato oramai ad sufficientia le prove di tutti quelli che si reputono
maestri et compositori d’instrumenti bellici; et che le inventione et
operatione de dicti instrumenti non sono niente alieni dal comune uso: mi
exforserò, non derogando a nessuno altro, farmi intendere da Vostra
Excellentia: aprendo a quello li secreti miei: et appresso offerendoli ad ogni
suo piacimento in tempi opportuni sperarò cum effecto circha tutte quelle cose,
che sub brevità in presente saranno quì di sotto notate.
1. Ho modo de punti (ponti) leggerissimi
et acti ad portare facilissimamente et cum quelli seguire et alcuna volta
fuggire li inimici; et altri securi et inoffensibili da fuoco et battaglia:
facili et commodi da levare et ponere. Et modi de ardere et disfare quelli de
linimici.
2. So in la obsidione de una terra
toglier via laqua de’ fossi et fare infiniti pontighatti a scale et altri
instrumenti pertinenti ad dicta expeditione.
3. Item se per altezza de argine o per
fortezza di loco et di sito non si pottesse in la obsidione de una terra usare
lofficio delle bombarde: ho modo di ruinare ogni roccia o altra fortezza se già
non fusse fondata sul saxo.
4. Ho anchora modi de bombarde
commodissime et facili ad portare: et cum quelle buttare minuti di tempesta: et
cum el fumo de quella dando grande spavento al inimico cum grave suo danno et
confusione.
5. Item ho modi per cave et vie strette
e distorte facte senz’alcuno strepito per venire ad uno certo .… che bisognasse
passare sotto fossi o alcuno fiume.
6. Item fatio carri coperti sicuri ed
inoffensibili: e quali entrando intra ne linimici cum sue artiglierie: non è sì
grande multitudine di gente darme che non rompessimo: et dietro a questi
poteranno seguire fanterie assai inlesi e senza alchuno impedimento.
7. Item occorrendo di bisogno farò
bombarde mortari et passavolanti di bellissime e utile forme fora del comune
uso.
8. Dove mancassi la operazione delle
bombarde componerò briccole manghani trabuchi et altri instrumenti di mirabile
efficacia et fora del usato: et in somma secondo la varietà de’ casi componerò
varie et infinite cose da offendere.
9. Et quando accadesse essere in
mare ho modi de’ molti istrumenti actissimi da offendere et defendere: et
navili che faranno resistentia al trarre de omni grossissima bombarda: et
polveri o fumi.
10. In tempo di pace credo di satisfare
benissimo a paragoni de omni altro in architettura in composizione di edifici et
publici et privati: et in conducer aqua da uno loco ad uno altro.
Item conducerò in sculptura de marmore di
bronzo et di terra: similiter in pictura ciò che si possa fare ad paragone de
omni altro et sia chi vole.
Ancora si poterà dare opera al cavallo
di bronzo che sarà gloria immortale et eterno onore de la felice memoria del S.re
vostro Padre, et de la inclyta Casa Sforzesca.
Et se alchune de le sopra dicte cose ad
alchuno paressino impossibili, et infactibili me ne offero paratissimo ad farne
experimento in el vostro parco, o in qual loco piacerà a Vostra Excellenzia ad
la quale umilmente quanto più posso me raccomando etc.
Di molte fra le progettate macchine, congegni militari, e
stromenti bellici ci lasciò Lionardo
de’ disegni ne’ codici, che posseduti erano dalla nostra biblioteca; e basta
anche vedere le Tavole di Gerli, le notizie pubblicate da Venturi, e i pochi
cenni ch’io ho dati de’ disegni Vinciani non copiati da Gerli, per averne un’idea.
Fra i disegni di Gerli vedonsi i ponti (Tav. xlv),
la pioggia o tempesta d’accese sostanze (Tav. xxxviii);
i mangani o trabucchi (Tav. xv.*);
ogni maniera d’armi (Tav. xiv.*);
disegni d’architettura (Tav. xv.*,
e nella Tav. ii. quì unita fig.
7); e altre simili cose, delle quali avrò in seguito occasione di ragionare.
v. Cosa importante
nella storia del Vinci è il fissar
l’epoca di questo scritto, e quindi della sua venuta a Milano; intorno alla
quale, poichè vide tutti gli scrittori aver preso abbaglio, delle giudiziose
ricerche fece il nostro Oltrocchi. Vasari, e con lui tutti quasi i biografi
vogliono che Lionardo venisse a
Milano nel 1494; ma noi sappiamo da Vasari istesso[15] che Lorenzo de’ Medici
mandò a Lodovico il Moro l’architetto Giuliano da San Gallo; che questi quì
visse e conversò con Lionardo,
quindi tornò a Firenze, e di là portossi a Prato, ove, mentre attendeva all’edificazione
di quella cattedrale, intese con acerbo dolore la morte di Lorenzo. Or questo
Principe morì nel 1492: dunque assai prima di quest’anno Giuliano quì venne e
vi trovò Lionardo, a cui, dice il
Vasari, diè de’ buoni consigli intorno alla statua equestre, di cui era
occupato.
L’altrui trascuratezza ha fatto passare nelle mani di un mio colto
amico un libro di spese della fabbrica del nostro duomo, in cui non poche
notizie trovansi relative alle Belle Arti sul finire del secolo xv. Alla pag. 107 leggesi:
» 1491. M.er Leonardus | Debet
habere scri-
» florentinus debet dare | ptum
sibi in debito
» scriptum sibi in credi- | in
libro albo ma-
» to in Libro viridi ma- | stri
anni 1492, in
» stro anni praeteriti in | fo.
88. pro resto
» fo. 199. ll. xij. | isto ll. xij.
Ecco dunque Lionardo
che nel 1490 aveva un debito colla fabbrica del duomo, e pagollo, o scontollo
nel 1492. Ma non cerchiamo di ciò altri testimonj che Lionardo medesimo e gli amici, e contemporanei suoi.
Se veramente il consigl. De Pagave avesse letto nel codice
atlantico ambrosiano alla pag. 2 che Lionardo
disegnò in Milano un padiglione nel settembre del 1482, siccome scrive d’aver
rilevato dalle sue Memorie l’amico mio il chiar. P. Dellavalle;[16] e se Lionardo, come questi crede, fosse stato
l’architetto della casa del conte Giovanni Melzi edificata a Vaprio nello
stesso anno 1482, posseduta pur oggidì dal suo successore e ottimo
Vice-Presidente della Repubblica nostra Francesco Melzi, avremmo due argomenti
incontrastabili della venuta di Lionardo
a Milano in quest’anno, o prima. Ma sebbene, come vedremo, ciò non sia punto
improbabile, pure, ch’egli fosse l’architetto della casa Melzi di Vaprio, lo
congettura solo, e nol dimostra il Dellavalle; e che trovisi la nota riferita
dal De Pagave ne dubito, poichè non seppe vedervela l’Oltrocchi, diligentissimo
scrutatore e copiatore di quel codice, in cui cercava soprattutto argomenti per
anticipare quanto potea la venuta del Vinci
a Milano. Egli vide bensì il disegno del padiglione, ma disegnato il vide pel
bagno della duchessa quì venuta nel 1490, e nella vicina pagina trovò notato l’anno
1492.[17] Aggiungasi che nemmeno vi
vide quella nota Venturi, il quale nelle notizie sulle epoche di Lionardo[18] ne avrebbe fatta
menzione. Cerchiamo dunque più certe prove.
Lionardo col codice segnato
Q. A. alla pag. 31 così lasciò scritto: Vigne
di Vigevano (adì 20 Marzo 1492) alla vernata si sotterrano. Eccol dunque in
Milano nel 1492. A qual oggetto andasse ne’ contorni di Vigevano, lo vedremo
poi. Di più: abbiamo un altro codice suo, dice l’Oltrocchi, intitolato: Della luce, e delle ombre: in cui
leggonsi queste parole da lui scritte all’usata sua maniera: A di 23 d’Aprile 1490, chominciai questo
libro, e richominciai il cavallo. È chiaro alludersi quì al cavallo della
statua equestre, destinata a Francesco i
Sforza: è chiaro che, se nel 1490 ricomincionne
il gran modello in plastica, doveva averlo cominciato già qualche tempo prima,
e tempo pur si voleva a formare studj, disegni, abbozzi, e modelletti prima di
cominciarlo. Da ciò non potè Lionardo
molto occuparsi nello stesso anno 1490, poichè essendosi a quell’epoca
celebrate le nozze di Lodovico, che allora avea nome di reggente del ducato,
con Beatrice d’Este, a lui tutta fu addossata la direzione e l’apparecchio
degli spettacoli, che in quella occasione si diedero. Per un analogo motivo
egli dovè essere occupatissimo nel precedente anno 1489, in cui celebraronsi
colla massima pompa le nozze del duca Gian Galeazzo con Isabella d’Aragona; e
che dirette fossero col grande ingegno ed
arte di Maestro Lionardo cel dice chiaramente il poeta Bellincioni, il
quale scrisse i versi a quelle relativi.[19] E prima di queste feste
altre probabilmente aveane immaginate e dirette, come più sotto diremo.
Nei versi del sullodato Bellincioni un altro argomento abbiamo per
maggiormente anticipata la venuta di Lionardo
in Lombardia. Il Poeta nel primo suo componimento finge che in sogno gli
compaia l’ombra di Galeazzo Maria Sforza (trucidato da congiurati nel 1476), il
quale era anzioso pel figliuolo Gian Galeazzo, lasciato d’otto anni, e che
allora aveva = già d’anni presso a
quattro lustri = cioè da 18 a 19 anni. e poichè nato egli era nel 1468, è
chiaro che quei versi furono scritti nel 1486, o al più 1487. Ometto altri
versi ove dello stesso Gian-Galeazzo dicesi che all’età sua verde e acerba licite son le ciancie e fole; però non
pensiam tristo il grano in erba; il che certamente deve intendersi de’ tempi
anteriori al suo matrimonio progettato nel 1488. Or a quell’epoca, scrive il
Bellincioni che Lionardo già era
in Milano; poichè, volendo il poeta rassicurare Galeazzo Maria sulla buona
riuscita del figliuolo suo, gli dice che tutto dee sperare dalla conversazione
de’ grandi uomini da Lodovico chiamati alla sua corte, fra i quali, se non
nomina apertamente Lionardo,
perchè fosse il verso e la rima il ricusavano, sì ben lo accenna sotto il nome
d’Apelle fiorentino che l’editore
Tantio o Tanzi l’ha egli apertamente nominato in margine. Scritto aveva il
poeta:
» Quì
come l’ape al mel vienne ogni dotto
» Di
virtuosi ha la sua corte piena:
» Da
Fiorenza un Apelle ha quì condotto; »
ed a spiegazione di quest’ultimo verso l’editore ha posto in
margine: Magistro Leonardo da Vinci.
Pertanto il fissare prima del 1487 la venuta di Lionardo
in Milano non è certamente anticiparne l’epoca vera. Ma un’altra cosa abbiamo
più arredata ancora, e non meno sicura, sapendo noi dal cav. Fr. Sabbà da
Castiglione, che Lionardo, suo
contemporaneo, già era in Milano, e lavorava al modello della statua equestre
nel 1483: imperciocchè narrando egli come i Francesi lo distrussero quando
Lodovico xii s’impadronì di Milano
nel 1499, soggiugne che il Vinci
intorno a quella grand’opera sedici anni
continui avea consumati.[20] Non abbiamo è vero altro
argomento che quest’epoca confermi; ma nemmeno nessuno ve n’ha che la contraddica:
e altronde il dotto e savio scrittore milanese, che narra d’aver veduta una sì
nobile e ingegnosa opera fatta a bersaglio a balestrieri Guasconi, ben merita
tutta la fede.
vii. Un altro abbaglio
del Vasari, e generalmente de’ biografi del Vinci,
si è che Lodovico il Moro alla corte sua l’invitasse, perchè il divertisse col
suono della sua cetra. Vero è che eccellente musico, e sopra tutto esimio
suonator di lira riputato egli era, cosicchè, al dire del Lomazzo tutti in
quest’arte ci superava. Vedesi in una nota del suo codice (segnato Q. R. pag.
28) fatta menzion d’una viola con nuova tastatura: in un altro codice v’è d’una
lira il disegno da lui fatto; d’un’altra sua lira formata del teschio con
cavallo con molta parte d’argento parla il Vasari summentovato; e con una
chitarra in mano io vidi il suo ritratto fra gli ornati del frontispizio di un
bel codice triulziano in pergamena, ch’è un trattato di Musica di prete
Florentio dedicato al cardinale Ascanio Sforza. Con tutto ciò non è punto
credibile che il Vinci sia stato
quì chiamato per divertire suonando e cantando Lodovico, il quale gli uomini
più grandi de’ suoi dì in ogni scienza ed arte studiavasi di quì raunare; e che
conoscer dovea quanto Lionardo
valesse nelle belle arti, e specialmente nella pittura, avendo nella sua corte
la mentovata famosa rotella da lui giovanetto dipinta, e dal duca Galeazzo
Maria comperata per 300 scudi, siccome scrive lo stesso Vasari; e appunto in
vista di questa, al dire del Lomazzo, egli è stato quì ricercato.
E in vero, o si
considerino le idee grandiose e politiche di Lodovico il Moro, o le prove di
sapere e di abilità nelle arti offerte da Lionardo,
che di musica e di stromenti musicali mai non fa parola, o ciò che questi quì fece,
ben vedesi ch’egli vi fu chiamato non meno ad istruire che ad operare, e anche
ad istituire e dirigere un’accademia di scienze e d’arti. Sappiamo dagli
scrittori della vita di Lodovico, che questo accortissimo Principe, avendo,
dopo l’assassinio del fratello duca Galeazzo Maria, fatto il progetto di salire
sul trono paterno, nel tempo stesso che colla forza e più coll’arte, tolse il
comando alla vedova duchessa Bona di Savoia, e la vita a Cecco Simonetta di lei
sagace consigliere e ministro, cercò di trarre al suo partito gli nomini più
rinomati d’Italia per le scienze e per le lettere, e sopra tutto per le belle arti,
le quali avendo, per la protezione de’ Medici, cominciato a risorgere a Firenze
e quindi pe’ Visconti a Milano, tanta gloria aveano acquistata a quelle
famiglie.[21]
A ciò s’aggiunse il lodevol motivo, o pretesto almeno, di dare al piccol duca
nipote suo una educazione quale a gran sovrano conveniva; onde meglio colorir
così l’iniquo progetto di togliergli la Signoria. » Egli pertanto, non
contento, come dice il Tantio,[22] d’aver ornato Milano di pace,
dovizia, templi e magnifici edifizj, volle ancora arricchirlo di mirabili, e singolari
ingegni, i quali a lui, di loro vera calamita, concorreano ». Perciò chiamò quì
con onorevoli stipendj il lodato fiorentino Bellincioni, che teneasi allora pel
più arguto e faceto poeta italiano, acciocchè, dice il mentovato Tantio, » per l’ornato
parlare fiorentino e per le argute e terse sue rime venisse a limare e polire l’alquanto
rozzo parlare della nostra città; e sì gran frutto ei fece, che non solo la
Cantarana e ’l Nirone, ma tutti due i navigli sono diventati acqua di Parnasso
». Il Bellincioni[23] medesimo ha fra le sue
rime un » Sonetto in laude del signor Lodovico, il quale vuole che Milano in
scientia sia una nuova Athene. «
Io non istarò quì a
rammentare tutti i grandi uomini che a Milano invitò Lodovico a que’ dì. Molti
ne ricorda il Bellincioni, poeti e artisti celebri, lodando fra questi in
ispecial maniera Lionardo col dire:
Del Vinci e suoi pennelli, e suoi colori
I moderni e gli antichi hanno paura.
Molti più ne commenda
Frate Luca Paciolo,[24] di Lionardo l’amico e ’l compagno, e ’l ristoratore
degli studj matematici in Italia, il quale pur mette innanzi a tutti Lionardo, dicendo, che » il Vinci di scoltura getto e pittura con
ciascuno il nome verifica » cioè tutti vince. E chi vuol meglio sapere quanto
coltivate allor quì fossero colle arti le scienze e le lettere, legga l’Argelati
e ’l Sassi,[25]
e vedrà quali e quanti uomini illustri quì fossero allora. È egli credibile che
in mezzo a tanti dottissimi uomini chiamato fosse Lionardo, in ogni scienza ed arte versato, unicamente per
divertire colla cetra sua Lodovico?
Il fatto ben prova l’opposto.
Già osservai, e dallo scritto da lui presentato,[26] e dalle sue note
rilevarsi, che la prima occupazione di Lionardo
fu la formazione della statua equestre di Francesco i. Sforza; allo studio della quale ha dato, al riferire del
Castiglione, incominciamento nel 1483: e prima ancora, dice il poeta taccone, sarebbesi
messa mano all’erezione di quel monumento se Lionardo
fosse quì prima venuto.
E se più presto non s’è principiato,
La voglia del Signor fu sempre pronta:
Non s’era Lionardo ancor trovato,
Che di presente tanto ben l’impronta.[27]
Non avrà dunque questi
tardato ad occuparsene appena giunto in Milano; e Lodovico in lui non certo il
suonator di lira ma un eccellente statuario di cui abbisognava avea condotto.
Osservai già che direttore esser solea Lionardo
delle pubbliche feste, e rappresentazioni che davansi ora dal Sovrano, ora dai
gentiluomini, delle quali ci ha serbata memoria il Bellincioni, che versi a
quelle occasioni scrivea; e se il Tantio, che li raccolse e pubblicolli, tenne,
siccome pare aver tenuto, l’ordine cronologico con cui erano scritti,
certamente le due rappresentazioni, in lode della Pazienza e della Fatica, date
dai Sanseverini, siccome precederono le feste nuziali d’Isabella e di Beatrice,
così riportar si devono ai primi anni del suo soggiorno in Milano. A questi
tempi possiamo pur riferire i ritratti fatti da Lionardo
delle due belle damigelle amate da Lodovico, cioè Cecilia Gallerani,[28] e Lucrezia Crivelli,[29] pe’ quali più versi
scrissero i poeti di que’ di, i quali onta non ebbero di vendere la musa loro a
commendazione degli amori scandalosi di Lodovico, che nobili e rispettabili
donzelle a piaceri suoi sfacciatamente prostituiva. Tanto allora corrotti erano
i costumi de’ Grandi!
viii. Uno de’ più chiari argomenti del conto
in cui Lodovico il Moro tenne Lionardo,
non solo come gran meccanico, eccellente statuario, e pittore esimio, ma come
uomo in ogni maniera di scienze e d’arti versato, trarre lo possiamo dall’accademia,
che il Vinci ha quì stabilita, e
che da lui avendo preso il nome dovea certamente il fondator suo e direttore in
lui solo riconoscere. Che il Moro bramasse l’unione de’ dotti uomini e valenti
artisti, e chiedesse che reciprocamente i lumi loro comunicandosi estendessero
i confini del sapere, e migliorassero le arti, l’abbiamo dal mentovato Fra Luca
Paciolo.[30]
Che poi vi fosse quì stabilita un’accademia (la prima di cui siavi certa
memoria), a cui avea dato il nome Lionardo,
oltre il testimonio del Vasari,[31] non con lascia dubitare
la stampa di sei tavole incise in rame esistenti fra i nostri codici, nelle
quali in mezzo a un ingegnoso disegno di cifre, e d’andirivieni, variato in
ogni tavola, leggesi: academia leonardi
vinci. Dassi per fregio o vignetta alla prima pagina di queste memorie il
centro d’un di que’ disegni, i quali, comprese le quattro cifre degli angoli
fatte a complemento del quadrilatero, hanno pollici parigini 9, lin. 5 in
lunghezza, e pollici 7 lin. 3 in larghezza.
Ben è probabile che
ad uso di quell’accademia, per ragionare co’ suoi colleghi, e per istruzione de’
suoi scolari, tante cose abbia scritte il Vinci
quante sen’leggono non solo nel suo Trattato
della Pittura, ma anche ne’ molti suoi volumi manoscritti. Spiegasi così
perchè di tanti e sì variati argomenti ei prendesse a trattare; e perchè non
trovi usi generalmente ne’ suoi scritti se non idee staccate, opere abbozzate,
e materiali per far libri, anzichè trattati compiuti. In questo conto pur
tenere possiamo, e vel tennero i più colti uomini che lo esaminarono, il
presente Trattato della Pittura, quantunque
Fr. Luca Paciolo dica che » Lionardo con tutta diligentia al degno libro de
pictura et movimenti umani abbia posto fine »; e l’opera sia altronde in se
stessa sì pregevole che il conte Algarotti non esitò a dire che in una scuola
di disegno altro libro elementare di pittura fuor di questo trattato non v’avrebbe
voluto.[32] Il ch. Venturi, il quale
dai codici vinciani, che or sono in Parigi, ha estratto ciò che più onora l’ingegno
e ’l sapere di Lionardo,
pubblicandone il già mentovato Saggio, ci fa vedere che » la Pittura non fu che
una parte delle occupazioni di quest’uomo straordinario. I suoi manoscritti, dic’egli,
contengono delle specolazioni sui rami della scienza naturale che più rapportansi
alla Geometria: vi sono delle viste nuove, delle note fatte per le circostanze
del momento; e vedesi che l’autore aveva il progetto di trattare estesamente
quegli argomenti... È vero che trovansi talora ne’ suoi manoscritti delle
specolazioni inutili, e delle false deduzioni, che forse avrebbe omesse, ove
avesse ridotte le sue idee a trattati; pur v’è molt’oro fra mezzo a quella
arena ». Colla scorta di questo Scrittore di tutte quelle cose daremo un’idea
più sotto.
ix. Ciò premesso, possiamo ora con qualche miglior ordine cronologico
di Lionardo stabilitosi in Milano
e delle cose sue ragionare. Del 1483 ecco quì dunque per lavorare al modello
della colossale statua equestre. Fra quest’anno e ’l 1489 abbiamo di lui la
direzione d’alcune feste e rappresentazioni per giostre e per nozze; e i ritratti
delle due concubine di Lodovico. Abbiamo pure l’istituzione dell’accademia vinciana,
sebbene di questa non possiamo fissare l’epoca precisa; e per essa certamente
furon disegnate, in gran parte almeno, le cose vinciane relative alla pittura,
come alla meccanica, e alla geometria, e scritte molte delle note che trovansi
ne’ suoi codici. Nel 1789 molto occuparonlo le feste nuziali pel real
maritaggio del duca Gian Galeazzo e di Isabella d’Aragona, nelle quali rappresentò
i movimenti de’ pianeti, onde chiamò Paradiso
l’ingegnosissima macchina a tal oggetto costruita; e a misura che ognun di
loro, nell’aggirarsi del macchinismo, avvicinavasi agli augusti sposi, usciane
un Cantore, che la divinità figurava al pianeta attribuita, e i versi cantava
scritti dal Bellincioni.[33] Nell’anno stesso lo veggiamo
formare un congegno di carucole e di corde, con cui trasportare in più
venerabile e più sicuro luogo, cioè nell’ultima arcata della nave di mezzo
della metropolitana, la sacra reliquia del santo Chiodo, che ivi ancor si
venera. Al fol. 15 del codice segnato Q. R. in 16, egli ci ha lasciata di tal
congegno una doppia figura, cioè una di quattro carucole, e una di tre colle
rispettive corde, soggiugnendovi: in Domo
alla carucola del Chiodo della Croce.
L’anno 1490 abbiamo
la sua già indicata nota esistente nel codice = Della luce e delle ombre = che dimostra d’avere allora scritte
quelle sue osservazioni ottiche, e ricominciato un nuovo modello o disegno
della statua equestre.[34] Segue poi nello stesso luogo
a dar notizie, poco gloriose al certo, d’un suo scolare o servitore: Jachomo, scriv’egli, venne a star con meco d’età d’anni 10.
Ivi narra come questi rubò a lui e ad altri, fra i quali a Marco, e
Giannantonio suoi scolari, de’ quali il primo era probabilmente Marco d’Oggiono,
e ’l secondo Giannantonio Beltraffio. E per epilogarne i vizj vi pose in
margine: ladro, bugiardo, ostinato,
ghiotto. Da questo medesimo scritto abbiamo accidentalmente notizia d’una
figurata e mascherata giostra diretta da Lionardo
medesimo, che così narra uno de’ furti del suo Jachomo: Item a di 26 di Gennaro seguente 1491 essendo io in casa di Messer
Galeazzo da San Severino a ordinare la festa della sua giostra, e spogliandosi
certi staffieri per provarsi alcune vesti d’uomini salvatici, che a detta fetta
accadeano, Jachomo s’accostò alla scarsella d’uno di loro, la qual era in sul letto,
e tolse li danari. Sappiamo poi dal Bellincioni[35] che in questa giostra il
Sanseverino medesimo riportò la palma. Nel 1791 fu, come vedemmo, debitore alla
fabbrica del duomo, o per fitto di casa ciò avvenisse, o per marmi comperati.
x. Nel 1492 mirò Lodovico a trarre dalle acque del Ticino altro
partito per le campagne poste alla destra del fiume; e di Lionardo specialmente si valse; imperocchè
dalle sue note rileviamo ch’egli fu a Sesto-Calende, a Varal-pombio, e a
Vigevano ove ai 20 di Marzo del 1492
osservò che nella vernata le vigne si
sotterrano. (cod. Q. A. fol. 31). E poichè nel medesimo libro parlasi d’un
canale, Oltrocchi inclinò dapprima a credere, che il canal fosse quello
destinato ad irrigare e fertilizzare il latifondio che fu poi denominato la
Sforzesca, se non che la lunghezza di 30 miglia ivi indicata parvegli piuttosto
al canale della Martesana applicabile, che a quello della Sforzesca, che pur in
questi tempi scavossi.
A questa medesima
epoca si può riportare lo studio fatto da Lionardo
per rendere navigabile il testè mentovato canale della Martesana da Trezzo alla
città (giacchè più non lo era per le acque vendute) e navigabile anche nel
circuito della città medesima, alla qual cosa non erasi ancora ben provveduto.
Ne riparleremo a suo luogo, e basta per ora l’averlo accennato.
Nell’anno medesimo fu
molto occupato Lionardo a dirigere
gli ornati, e a dipingere egli stesso le sale della rocca ossia castello, in
cui Lodovico soggiornava; giacchè trovasi nel codice stesso (fol. 18) la seguente
nota che intera trascrivo, perchè ci dà un’idea degli ornati delle camere, de’ colori,
de’ prezzi loro, e delle giornate degli artefici. Eccola: La gronda stretta sopra le sale, lire 30 - la gronda sotto a questa
fanno ciascuno quadro per se lire 7; e di spesa fra azzurro, oro, biacca, gesso,
indaco, e colla lire 3 - di tempo giornate 3 - le storie sotto esse gronde co’
suoi pilastri lire 12 per ciascuna: stimo la spesa fra smalto e azzurro, e
altri colori lire 1 ½ - Le giornate stimo 5 tra la investigazione del
componimento, pilastrello, e altre cose - Item per ciascuna voltaiola lire 7 - Di
spesa tra azzurro e oro lire 3 ½ - Di tempo giorni 4 - Per le finestre lire 1 ½
- Il cornicione sotto le finestre soldi 6 il braccio - Item per 24 storie
romane lire 10 - Per un oncia d’azzurro soldi 10 - In oro soldi 15 - fumo lire
2 ½.
Si può anche argomentare
che circa questo tempo introducesse quì Lionardo
l’incisione in legno e in rame. Pensa Oltrocchi che de’ suoi dì possano
essere alcune vecchie incisioni in legno che trovansi in un antico codice di
stampe della nostra biblioteca non per altro pregevoli, che per l’antichità; e
ben è probabile, e poco men che certo essere suo disegno il ritratto del Bellincioni
(morto nel 1492 ovvero nel seguente) intagliato artistamente in rame, ove la
sveltezza della figura, la mossa, il panneggiamento, l’espressione dell’uomo
attento a leggere, la stessa architettura quasi rappresentante una camera, ben
mostrano l’abilità del disegnatore, secondato da valente bulino. Pur di Lionardo dobbiamo credere che siano que’
pochi tratti maestri che servirono a incidere in legno il ritratto medesimo che
vedesi alla prima pagina delle sue rime pubblicate nel 1493 dal Tanzi. Vuolsi
esser questo il primo ritratto d’un autore premesso al libro; a meno che non vogliamo,
come alcuni opinano sul rapporto di Plinio,[36] che i Romani amanuensi così
usassero, imprimendo con istampe in legno le figure degli autori. De’ disegni
relativi alla sua accademia intagliati in rame già parlammo.
Una sua opera da
riportarsi a quest’anno fu il Bagno fatto per la duchessa Beatrice nel parco o giardino
del Castello. Lionardo non solo ne
disegnò il piccolo edifizio a foggia di padiglione, nel cod. segnato Q. 3., dandone
anche separatamente la pianta; ma sotto vi scrisse: Padiglione del giardino della duchessa; e sotto la pianta: Fondamento del padiglione ch’è nel mezzo del
labirinto del duca di Milano. Nessuna data è presso il padiglione,
disegnato nella pagina 12, ma poco sopra fra molti circoli intrecciati vedesi: =
10 Luglio 1492; = e nella pagina 2
presso ad alcuni disegni di legumi qualcheduno ha letto Settembre 1482 in vece
di 1492, come dovea scrivervi, e probabilmente scrisse Lionardo. Disegnò pure le chiavi colle quali dare al bagno l’acqua
ora calda ora fredda, e così temprarla, nominando tal congegno: Sciavatura del bagnio della duchessa
(fol. 28.); e indicando eziandio le proporzioni dell’acqua bollente colla
fredda per averne il piacevol tepore conveniente al bagno, onde scrive alla
pag. 34: per iscaldare l’acqua della Stuffa
della duchessa torrai tre parti d’acqua calda, e quattro parti d’acqua fredda.
Il bel quadro
rappresentante la Beata Vergine col Bambino, San Giovanni, e San Michele, alto
br. tre milanesi su due e più di larghezza, che ammirasi nella casa de’ conti
Sanvitali di Parma, porta la data di quest’anno; e, quello ch’è senza esempio,
v’è scritto: Lionardo Vinci fece.
1492.
xi. Dal summentovato Tanzi rileviamo che quando egli scrivea la
dedicatoria a Lodovico premessa alle rime del Bellincioni, cioè nel 1498 il
Moro » onorava il proprio padre (Francesco i.)
con la magna e perpetua opera del gran Colosso ». Dunque di questo occupavasi
pur in quell’anno Lionardo.
Sappiamo di più. Già formato erane allora, e alla pubblica ammirazione esposto
il gran modello. Si celebrò in quest’anno la più illustre alleanza che gli
Sforza facesser mai, cioè il matrimonio di Bianca Maria Sforza sorella del
giovin duca e nipote di Lodovico coll’imperatore Massimiliano Austriaco.
Trattato avealo e conchiuso l’accorto reggente del ducato colla condizione che
l’imperatore, considerando questo paese come feudo imperiale, e lui come il
primo figliuolo nato da Francesco Sforza già duca (poichè Galeazzo Maria nato
era essendo il padre in privata fortuna) investitone lo avrebbe a preferenza
del vero crede Gian-Galeazzo, abbenchè questi cognato suo pur divenisse. A questo
titolo fu stipulata una dote di 400,000 fiorini d’oro (che altri dice essere
stati nel fatto soli 300,000) oltre 100,000 fiorini in gemme, oro, e fardello.
Due poeti, latino l’uno e l’altro italiano, cioè Pietro Lazzarone valtellinese,
e Baldassare Taccone alessandrino, quella pompa nuziale descrissero. Nessun dei
due, è vero, ci dice che quelle feste dirigesse Lionardo;
ma amendue parlano della statua equestre di lui opera. Scrive il Lazzaroni, che
sotto un arco trionfale nella piazza del castello stava a cavallo Francesco
Sforza a tutti noto;[37] e ’l Taccone parlando
degli esimu monumenti e lavori che in Milano a quell’occasione ammiravansi,
dice, di Lodovico parlando,
« Vedi che in corte fa far di metallo
« Per memoria del padre un gran Colosso. »
Le quali parole
pienamente confermano quanto in quest’anno scrivea Tanzi, come dicemmo; e
mostrano che, terminato essendo il modello, solo pensavasi a farne il getto. A
quest’epoca pertanto possiamo riportare il disegno copiato, e pubblicato dal Gerli[38] del cavallo intelarato,
cioè preparato a servire di forma alla fusione.
xii. Lodovico, sicuro pel precedente trattato di esser duca di Milano
di nome, come lo era di fatto, sempre più nell’abbiezione teneva il nipote; e Beatrice
sua vilipendeva Isabella d’Aragona, a cui per sangue come per diritto dovea
sudditanza e ossequio. Questa non mancò di scrivere al padre Alfonso d’Aragona,
figliuolo di Ferdinando re di Napoli, eloquentissime lettere, che il Corio ci
ha conservate,[39]
per dipingergli la trista situazione del marito e sua; e Ferdinando mandò quì
ambasciatori, perchè inducessero Lodovico a cedere al nipote lo scettro, e ’l minacciasser
di guerra, ove ricusasse di farlo. Ricusollo egli altamente; e le minacce non
servirono che ad accelerare a Gian-Galeazzo la morte. Ma prima d’ogni cosa
Lodovico meditò d’opporre a Ferdinando il re di Francia Carlo viii, che delle pretensioni avea sul regno
di Napoli conceduto un secol prima dal Papa in feudo alla casa d’Angiò, offerendo
a lui di seco confederarsi per conquistarlo, e spogliarne gli Aragonesi: il che
pur ottenne; ma a suo mal danno, come vedremo, l’ottenne. Venne di fatto Carlo viii in Italia nell’anno 1494, e giunse
a Pavia sul finir dell’autunno. Magnifiche feste ivi preparò Lodovico, essendo
vivente ancora, ma già di veleno infetto, il nipote. Che tutta la pompa di
quelle feste dirigesse Lionardo
ben è probabile; ma io scritto nol leggo. Vogliono alcuni che a questa
occasione formasse egli il lione pieno di gigli, che al re, squarciandosi il
seno, presentolli; ma vedremo doversi ciò riferire ai tempi del re Francesco i dopo la vittoria riportata a
Meregnano.
E poichè di Pavia ci
occorre di far menzione, non sarà fuor di luogo il rammentar quì il lungo e
diligente studio che Lionardo colà
fece della notomia, avendo a maestro il valente professore Marc’Antonio Della
Torre genovese, a cui coll’esattezza de’ disegni il Vinci grandemente giovava, mentre un’esatta cognizione egli
stesso traevano dell’umana struttura, e dell’uso delle parti. Che Lionardo necessario trovasse lo studio
di notomia ad un dipintore cel dice egli medesimo sovente nel Trattato della Pittura; ma più
energicamente anche il dimostra nella seguente nota, che trovasi nel Cod.
segnato Q. in 16. = Necessaria cosa è al
Pittore per essere buon Membrificatore nell’attitudine e gesti che far si possono
per li nudi di sapere la notomia de’ nervi, ossi, muscoli, e lacerti per sapere
nelli diversi movimenti e forze qual nervo o muscolo è di tal movimento causa,
e solo quelli fare evidenti e ingrossati; e non gli altri per tutto come molti
fanno, che per parere gran disegnatori fanno i loro nudi legnosi e senza
grazia, che paiono al vederli un sacco di noci più presto che superficie umana,
ovvero un fascio di ravanelli più presto che muscolosi nudi. Che insieme a
quel dotto Anatomico Lionardo disegnasse
con matita rossa, tratteggiandole di penna, le parti tutte del corpo umano,
mentre quello il dissecava, e talor anche scorticando le parti egli stesso, e n’avesse
poi formato un libro colle spiegazioni a caratteri rovesci, ce lo attesta il Vasari,
da cui altresì sappiamo » che gran parte di quella notomia era nelle mani di
Francesco Melzo gentiluomo Milanese, il quale nel tempo di Lionardo era un bellissimo
fanciullo[40]
così come oggi è bello e gentile vecchio, che ha care, e tiene come reliquie
tali carte »; e soggiunge che Lionardo allora fu il primo che cominciò a dar
vera luce alla notomia.
Vero è che il Parodi[41] nel catalogo de’ Professori
Pavesi colloca Marc’Antonio Della Torre all’anno 1511; ma è ben più probabile
ch’egli sia stato colà chiamato molto prima: non essendo in quell’epoca stato
in Lombardia Lionardo, se non per
brevissimo tempo, come vedremo. V’ha chi pretende, perchè Vasari dice che quell’opera
servir doveva ad illustrar la dottrina di Galeno, essere stato bensì scritto
dal Vinci il libro, ma sotto la
dettatura del professore; ma perchè mai, copiando le cose altrui, scritto
avrebbe Lionardo colla manca?
Trovasi ora il codice, o almeno parte di esso, co’ disegni nella biblioteca
regia a Londra; e ’l cel. Hunter[42] che’ l vide, ammirò la somma
diligenza e la squisita esattezza del Vinci,
specialmente nel disegnare le parti anche più minute de’ muscoli.
Forse un resto degli
studj anatomici, che allor fece Lionardo
sono alcuni disegni che da’ nostri codici, e dalla raccolta del fu consigl. de
Pagave copiò il Gerli,[43] de’ quali pur alcuno ne
riproduciamo (Tav. ii. Fig. 1.2.)
insieme ad un disegno, in cui egli indicò le proporzioni delle varie parti della
testa, accanto al quale ha scritto alla sua maniera,[44] ond’abbiasi un’idea dell’acuratezza
del suo lavoro, e al tempo stesso del suo singolar modo di scrivere colla mano
manca, e della forma de’ suoi caratteri; giacche più non abbiamo i suoi codici,
e rare le tavole del Gerli divennero, dispersi essendosene i rami intagliati. A
questo doppio oggetto diamo il disegno suo delle proporzioni della testa del cane
(fig. 6); e ben meriterebbe d’essere nuovamente inciso e pubblicato il
bellissimo e istruttivo disegno delle proporzioni del corpo umano, che vedesi
nella Tav. i.* del Gerli, collo
stesso scritto vinciano del disegno originale, che nella preziosa raccolta del
De Pagavo s’ammira. V’ha, è vero, qualche disegno analogo ad alcuni de’ summentovati
nel suo Trattato della Pittura; ma è noto essere quelli stati immaginati e
disegnati dal Poussin, e ombreggiati (anzi guastati secondo questo Pittore)
dall’Errard, onde chiara e istruttiva rendere l’opera di sì gran maestro. Altre
figure ci furono poi date come disegni del cel. intagliatore Stefano Della
Bella[45] perchè trovate in un codice
del Trattato della Pittura, che a lui
appartenuto aveva; ma io ho sott’occhio le stesse figure in un manoscritto del Trattato
medesimo di Lionardo fatto
copiare, anzi nelle prime linee copiato, dal coltissimo raccoglitore di codici
Vincenzo Pinello, che morto era già nel 1610 quando nacque Stefano Della Bella.
E poichè questi disegni meglio fatti e più istruttivi sono che i pubblicati
nell’edizione fiorentina, quì si danno (sebbene con poca esattezza copiati)
nella Tav. iii; essendosi però omessi
tutti quelli che non risguardano la figura.[46]
Della notomia del
cavallo, intorno alla quale pure Lionardo
ha scritta un’opera rammentata dal Vasari e dal Lomazzo[47] che la vide » presso
Francesco Melzi, disegnata divinamente di mano di Lionardo «, e che esigea pur
essa il sussidio di valente anatomico, ben è verosimile, che il Vinci siasi occupato in quella stessa
occasione. Alla notomia del cavallo dee riportarsi il disegno che sta nella
Tav. xxxv del Gerli.
Morì, sul chiudersi
dello stesso anno 1494, il giovane duca Gian-Galeazzo, e Lodovico allora dagli
avviliti e prezzolati cortigiani, e dal popolo che ei sapea divertire, si fe’ invitare
a salire sul trono paterno, escludendone i nipoti infelici. Da lungo tempo a
ciò mirando egli non obbliava nulla per coprire l’iniquo usurpamento, e ’l suo
crudele contegno colla vedova duchessa; e per acquistarsi la benevolenza de’ sudditi,
e buon nome presso gli stranieri, teneasi amici i letterati, e gli artisti (che
al dire del Corio, condotti aveva con grossi stipendi da tutte le parti d’Europa)
e la città quanto poteva adornava; cosicchè ebbe a dire il mentovato Lazzaroni
che d’una rugosa vecchia fatta aveane un’avvenente ed elegante donzella. Allor
fu che la moda s’introdusse d’abbellire l’esterno delle case or con pitture a
varj colori, or a chiaro-scuro, or a fregi incavati; del che molte reliquie
abbiamo.
Un quadro relativo
alla generosità di Lodovico, se non dipinse, almeno immaginò in quest’anno Lionardo. Egli così ne descrive il pensiero in una nota di sua mano
che leggesi nel codice segnato Q. 3. fol. 90 a tergo = Il Moro in figura di Ventura colli cappelli e panni e mani inanzi; e
Messer Gualtieri [48] con riverente atto io piglia per li panni da basso venendoli dalla
parte dinanzi ancora: la povertà in figura spaventevole corra dietro a un
giovinetto, el Moro lo copra col lembo del la veste, e colla verga dorata
minacci cotale mostro. E che la mentovala idea del quadro Lionardo scrivesse in quest’anno,
argomento da una nota che a questa precede nel codice medesimo, ove si fa
menzione di certo Galeazzo seco lui accordatosi a scolare. A di 24. marzo 1494 venne Galeazzo a stare meco con patto di dare 5 lire
al mese pagando ogni 14 dì de’ mesi. Datimi da suo padre fiorini due di Reno:
e più sotto: a di 14 di Luglio ebbi da
Galeazzo fiorini 2 di Reno. Veggiamo da questa, e altre annotazioni pur ce
lo confermano, ch’egli tenea gli scolari a pensione, onde ad ogni ora
istruirli, e di loro ad ogni uopo valersi.
xiii. Per l’anno 1495 poco o nulla di particolare
trovo registrato intorno a Lionardo
che in questo tempo di men lavoro avrà probabilmente scritto il Trattato
diretto al duca, in cui esaminava quale delle due arti Scoltura e Pittura debba
all’altra preferirsi; e compiuto avrà il Trattato della Pittura e de’ movimenti
umani, come scrive frate Luca. Non abbiamo il primo libro; ma che abbialo
scritto lo attesta chiaramente il Lomazzo.[49]
Non fu però in quest’anno
inoperoso il suo pennello, perchè, essendosi dipinto dal Montorfani il Calvario
nel refettorio del convento delle Grazie, volle il duca Lodovico che il Vinci vi dipingesse ai due lati, e
dipingesse a olio, il ritratto suo, quel della moglie, e de’ figliuoli; il che Lionardo fece contro voglia, se crediamo
al P. Gattico religioso domenicano che di quel convento lasciò una storia
manoscritta; e soggiugne che » quelle pitture si sono infracidite per essere
dipinte a olio, perchè l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e
pietre ».[50]
Fu impresso in Milano nel 1496 il libro di musica di Franchino Gaforio[51] con una tavola assai ben disegnata,
che opera di Lionardo amantissimo
di musica, come s’è detto, o di qualche suo scolare, può riputarsi.
Sappiamo altresì da
frate Paciolo più volte mentovato, che per la mediazione di Lionardo egli quì venne in quest’anno; e
poichè amico e concittadino gli era, e comuni aveano gli studj di matematica di
meccanica e d’architettura, insieme viveano, e l’uno l’altro ne’ rispettivi
lavori ajutava. Di Lionardo frate
Luca valeasi per disegnare le figure geometriche niun altro essendovi capace di
ciò fare al par di lui con esattezza. Ecco ciò che ne scrive al capo vi del suo Trattato d’architettura. »
Come a pien in le dispositioni de’ tutti i corpi regulari vedete quali sono
stati fatti dal degnissimo Pittore, Prospettivo, Architetto, Musico, e de tutte
virtù doctato Leonardo da Vinci fiorentino nella città de Milano quando alli
stipendu dello excellentissimo duca di quello Lodovico Maria Sforza Anglo ci
retrovavamo nelli anni de nostra salute 1496 ec. ».[52] Così al capo x scrive: » E le figure harete sopra in
questo insieme con tutti li altri per mano del prelibato nostro compatriota Leonardo
da Vinci fiorentino, alli cui disegni e figure mai con verità fu homo che li
potesse opponere. »
Le figure quì mentovate
fatte furono in origine, cioè in quest’anno 1496, dal Vinci in numero di 60, ben disegnate e colorite or d’una or
d’altra tinta pel trattato De divina
proportione, dello stesso frate Luca Paciolo, medicato allora manoscritto
al duca Lodovico; e quindi pubblicato nel 1509, e dedicato al confaloniere di
Firenze Pietro Soderini, a cui così egli scrive: Libellum.... Ludovico Sphortiae nuncupavi tanto ardore ut schemata
quoque sua Vincii nostri Leonardi manibus scalpta, quod opticen instructiorem
reddere possent, addiderim.[53] Fuvvi chi la voce scalpta interpretò per intagliate in legno o in rame; ma noi
sappiamo dallo stesso Paciolo che le delineò e dipinse; e ciò tre volte almeno,
pel duca cioè, pel sig. Galeazzo Sanseverino, e pel gonfaloniere Pietro
Soderino. Il secondo codice unitamente ad altri vinciani per dono del conte
Arconati alla biblioteca nostra pervenne. Quello del duca, involato nel 1499
all’occasione dell’ingresso de’ Francesi, fu dal Soderini medesimo ricuperato;[54] e, non so come, or
trovasi fra i manoscritti della pubblica biblioteca di Ginevra.[55]
A quest’anno
appartiene la pittura del già mentovato codice triulziano scritto pel piccolo
Massimiliano figliuolo di Lodovico, che fanciulletto ancora i rudimenti della
latina lingua studiava. In questo codice (scritto certamente prima del 1497,
poichè parlasi della duchessa come presente al pranzo del figliuolo) in 4.°
piccolo e in pergamena, ch’io potei per la gentilezza de’ proprietarj
agiatamente esaminare nel 1764, e rivedere anche negli scorsi giorni, oltre molti
ornati di stemmi e di fregi, v’ha parecchi quadretti che risguardano il
giovanetto principe, che titolo già avea di conte di Pavia. Fra questi, due ve
n’ha che giudicar si devono del pennello di Lionardo,
quali li giudicava il ch. march. ab. Triulzi uomo di moltissima erudizione e di
fino criterio specialmente in conto di belle arti. In uno rappresentasi il
giovanetto come in atto di complimentare l’imperatore Massimiliano suo cugino,
che in quest’anno venne, se non a Milano, almeno a Como e a Meda,[56] e quindi a Pavia; e v’è
in tedesco, e in latino il dialogo del complimento che far gli dovea. Nell’altro
rappresentasi lo stesso fanciullo, che sta giuocando, o piuttosto guardando il
volo degli uccelli, col suo aio conte Secco di Borella che gli comanda di porre
fine a’ giuochi: e son pur ivi de’ versi relativi alla pittura.
Allo stesso
imperatore in Pavia magnifiche feste e archi trionfali giusta l’uso romano
preparò il duca,[57]
dovendo come a suo signore prestargli omaggio: onde bea è da presumersi che Lionardo avrà avuta parte in tutti que’ lavori
di arti del disegno e di meccanica. Certo è, ch’egli non fu dimenticato, poichè
in tal occasione il duca ordinogli una tavola rappresentante la natività di
nostra Signora, ch’egli dipinse e fu all’imperatore mandata in dono.[58] Essa trovasi tuttavia nel
gabinetto imperiale a Vienna.
xiv. In quest’anno, e forse anche prima, il Vinci diede quì incominciamento alla più grande delle opere
sue, a quella che, al dire del ch. Lanzi, è il compendio di tutti i suoi studj
e degli scritti suoi, e che gli acquistò maggior celebrità, cioè al Cenacolo
nel refettorio del convento delle Grazie. Non ne abbiamo una prova diretta; ma
che già lo dipingesse nel 1497 lo rileviamo da una nota tratta dal fol. 17 d’un
libro di spese fatte dall’architetto, o capo-mastro, che per ordine del duca
lavorar faceva in quel convento, comunicata già dal P. Monti a monsig. Bottari,[59] e riletta poi e
ripubblicata dal lodato P. Pino[60] che in quel luogo
soggiornò finchè soggiacque al general fato delle soppressioni: nè allor
cominciava, giacchè pinta v’era la finestra. Ecco la nota: 1497. Item per lavori facti in lo refectorio dove
dipinge Leonardo gli Apostoli con una finestra lire 37. 16. 5. Ci dà lo
stesso Pino notizia d’un antico disegno di quella pittura intagliato in rame
senza data di tempo e di luogo in cui leggesi essere stata fatta quell’opera negli
anni 1496 e 1497. Sappiamo altresì da frate Luca Paciolo, che nel 1498 avea Lionardo » già di sua mano
pennelleggiato il leggiadro dell’ardente desiderio de nostra salute simulacro nel
degno e devoto luogo de spirituale e corporale refezione del sacro tempio delle
grazie, al quale oggidì quelle di Apelle Mirone e Policrete convien che cedano
». Chi vede la grand’opera, quanto le passate vicende veder la lasciano ancora,
ben comprende, che angusto spazio di tempo esser dovè un biennio e anche un
triennio di lavoro; e meglio ancor lo comprende chi sa che Lionardo, difficilissimo ad essere
soddisfatto delle cose sue, pria meditar ne dovè la composizione che i più gran
pittori trovan mirabile in ogni mossa e in ogni atteggiamento, come nel tutto
insieme; e formarne di corrispondente grandezza il cartone.[61] Disegnonne non solo in
piccoli schizzi ed abbozzi, de’ quali alcuni tuttavia si sono conservati,[62] ma pur in quadri di
giusta grandezza » tutte ad una ad una dipinse le figure de’ dodici Apostoli e
del Salvatore, i quali esemplari (scrive il mentovato P. Monti), serbavansi
nella casa de’ sigg. conti Arconati, che cederongli al Marchese Casnedi, da cui
passarono nella famiglia veneta Sagredo, all’estinzione della quale furono
dagli eredi venduti al sig. Odni console inglese. Io stesso (continua egli) col
sig. Odni parlai, quando quì venne a vedere il Cenacolo, e da lui intesi che gli
esemplari erano già passati in Inghilterra, e che erano interamente simili e
corrispondenti in ogni loro figura all’originale di questo nostro refettorio ».
Oltre le mentovate tavole asserisce il ch. Mussi, (già p. prof. di Belle Arti
nell’università di Pavia, ed ora mio collega in questa biblioteca), che anche
le sole teste degli Apostoli, e del Salvatore Lionardo
dipinse a pastello in separati quadretti; e fondasi, non tanto sull’autorità
del Lomazzo[63]
il quale chiaramente dice » che il colorare in carta a pastello fu molto usato
da Lionardo da Vinci che fece le teste di Cristo e degli Apostoli a questo modo
eccellenti e miracolose in carta »; ma più ancora su notizia avuta da autorevol
persona (la cel. Angelica Kauffmann), che le teste degli Apostoli (ma non
quella del Salvatore) fatte a pastello da Lionardo,
passate erano da Roma, ov’essa le vide, in Inghilterra, comperate sul finire
dello scorso secolo da due pittori inglesi. Sopra tutto però ha di ciò egli
stesso un’evidente prova in sua mano, essendogli riuscito per una fortunata
combinazione, di acquistare, molti anni addietro, il quadretto più importante d’ogni
altro, cioè la testa del Salvatore medesimo in grandezza naturale dipinta a
pastello dal Vinci per istudio del
Cenacolo, che veduta poi dalla medesima Kauffmann fu da questa eccellente
pittrice giudicata originale e dello stesso stile di quelle degli Apostoli
summentovate. « Oltre le forme della più scelta verità naturale, scrive egli[64] di vergine beltà maschile
nel maturo e compiuto fiore di giovinezza, ella è il sommo dell’espressione
degli affetti i più nobili e dilicati in un dolce e maestoso contegno di eroica
pietà che sente d’altrui nell’alto che dice ai commensali = uno di voi sta per
tradirmi = ... E tante cose vi si scorgono espresse, senza neppure accorgersi d’alterazione
veruna ne’ lineamenti delle bell fattezze: ultima cima di maestria nell’arte;
onde forse non abbiamo altro perfetto esempio che ne’ sublimi volti dell’Apollo
Pithio, e della Niobe ». Imberbe è questa testa, e in tal guisa, al dire di
Winkelmann, altre volte lo stesso Lionardo
dipinse il Salvatore, lasciandoci così un modello della più sublime beltà, che
nessuno ha saputo imitare.[65] Quella resta ritrasse fedelmente
il valente pittore Matteini per servirsene nel fino ed espressivo disegno, ch’ei
fece dello stesso originale Cenacolo, in cui il volto del Salvatore è guasto:
disegno ora moltiplicato, e renduto pubblico dal bulino del cel. Morghen, ove
gli è stato aggiunto un principio di barba quale gli si vede nel dipinto e in
tutte le copie anche più vicine ai tempi del Vinci.[66]
Di questi tempi
sarebbono, se veri fossero gli alterchi di Lionardo
col P. Bandelli priore del mentovato convento a que’ dì, pe’ quali vuolsi che il
pittore minacciasse d’effigiare in quell’apostolico consesso tal Giuda che a
lui somigliasse; e ’l consiglio datogli da Bernardo Zenale, che Lomazzo e
Vasari scrivono essere stato da lui abbracciato, di lasciare imperfetto il
volto del Salvatore, non potendo dargli quella bellezza divina, che superiore
agli Apostoli lo dimostrasse. Fatto sta che la grand’opera egli ha compiuta e
perfezionata, e finitissima, secondo l’Armenini, era la testa del Salvatore; e
che mai non pensò a trovare nel sereno e maestoso volto del P. Bandelli, giacchè
tale il descrive Leandro Alberti,[67] il ritratto odioso dello
Scariota, checchè abbia scritto Giraldo Cintio,[68] che gli altri copiarono.
Sì è disputato se ad
olio, a fresco, o a tempera sia stato dipinto il Cenacolo vinciano; ma che sia
fatta a olio quella dipintura, oltre il testimonio dell’antica carta incisa in
rame summentovata, ove leggesi che fu cavata
dal dipinto a olio di Lionardo da Vinci, abbiamo l’autorità dell’Armenini,
che lo stesso dice,[69] e più chiara ancora è l’asserzione
del Lomazzo, il quale scrive che » Lionardo, lasciato l’uso della tempera passò
all’olio che usava assottigliare con lambicchi », e ivi parla espressamente del
Cenacolo.[70]
E col giudizio degli antichi vanno d’accordo su questo punto anche i men
vecchi, e i moderni più intelligenti pittori ed amatori: se non che il ch. Requeno[71] vuol che Lionardo dipignesse a tempra sulla
parete bianca e liscia; e quindi desse sopra la pittura una vernice a olio da
lui con singolar cura preparata; ma il testimonio di scrittori coevi o vicini
al pittore ben sono preferibili alle conghietture di Requeno. Che però Lionardo dipingesse, e consigliasse di
pingere sul muro ben candido, cel dice egli medesimo;[72] avendo, tre secoli prima
di Delaval,[73]
conosciuto che i colori non vengono all’occhio se non perchè la luce riflettuta
dal fondo passa per la sostanza colorata e colorasi; e la riflessione tanto è maggiore
quanto più il fondo è candido.
Tanti elogi sono
stati fatti di questa gran dipintura per l’esattezza del disegno, pel colorito,
per l’arte di far riflettere i lumi anche dagli angoli, pe’ panneggiamenti, per
le fisionomie che non solo unite agli atteggiamenti di ognuno ne manifestano gl’interni
pensieri, ma ben anche i rapporti di parentela fra loro e col Salvatore; e con
tanta enfasi, ammirazione ed entusiasmo n’è stato scritto, che vano riputo ora
il rilevarne i pregi.[74]
xv. Solo pertanto mi resta a dire a quali danni quella pittura
soggiacque, non tanto pel tempo e pel loco, quanto per ignoranza trascuratezza
e malignità degli uomini. Dapprincipio fu la maraviglia di tutti, e la gloria
di Lionardo. Ai tempi di Francesco
i re di Francia, cioè dopo quattro
lustri all’incirca, era si bella ancora, che ei meditò di farla portare in Francia,
ma fortunatamente nol potè.[75] Alla metà del secolo xvi Armenini[76] la disse mezzo guasta. Se
crediamo al milanese Lomazzo, presto ne scomparvero tutti i colori, cosicchè i
soli contorni restarono a indicarne l’eccellente disegno.[77] Ai primi anni del secolo xvii il P. Gattico dominicano che lasciò
ms. la storia del convento delle Grazie ove abitava, dice, che quella pittura
era alterata; e ad un’epoca poco da questa lontana dobbiamo riportare quanto
scrive il summentovato card. Borromeo, cioè che del Cenacolo vedeansi solo le
reliquie, e che avendo egli osservato nascere ciò dalla parete, onde cadeane l’intonaco,
pensò a farne cavar copia da abil dipintore, che sulle prime disperò di ritrarne
cosa alcuna; ma, avendo cominciato dalle men guaste teste degli Apostoli,
riuscì a poco a poco e in quadri diversi a copiarne il tutto; e sì bene il fece
che avendo potuto le sue figure confrontare co’ disegni originali delle
medesime presso di noi esistenti allora, trovaronsi pienamente corrispondere.[78] Il certosino Bartolommeo
Sanese nel 1624, al vedere nella Certosa di Pavia la copia fattane da Marco Oggiono,
dice che più a’ Certosini che a’ Dominicani riconoscenza doveasi, perchè mentre
l’originale per l’età, pel luogo umido, e per l’infetta parete, era ridotto a
tale che poco si godea, la copia ben conservata ammiravasi e tramandavasi a
posteri.[79]
Andò verso la metà del secolo peggiorando il Cenacolo, cosicchè lo Scannelli[80] avendol veduto nel 1642
dice » non conservarsi che poche vestigia nelle figure; e le parti ignude, come
teste mani e piedi, essere quasi annichilate ». Forse perchè in sì cattivo stato
la videro nel 1652 i Dominicani trascuraronla a segno che difficoltà non ebbero
di tagliare i piedi al Salvatore, e ai vicini Apostoli, per ingrandire la porla
del refettorio. Nel 1674 il Torri disse che ’l Cenacolo, sì bello un tempo, era
in sì mal essere che dirsi poteva il sole all’occaso.[81] In questo stato, e probabilmente
peggiorando ancora, stette il Cenacolo vinciano sino al 1726, quando il pittore
Bellotti con un suo segreto metodo, premessi avendo opportuni sperimenti,
riuscì a ripulirlo e quasi a farlo rivivere. Pretesero alcuni che Bellotti
ridipinto avesse il Cenacolo sui contorni vinciani; ma testimonio contemporaneo,
riportato dal medesimo Pino, assicura ch’egli » fece col segreto suo rifiorire
la pittura, toccando a punta di pennello que’ soli luoghi ove i colori erano
affatto scaduti «. Poichè verso il 1770 tornò quella a smontare e patire
singolarmente in alcune parti, fuvvi un altro pittore che a ritoccarla s’offerì,
e per poco non terminò di guastarla; giacchè al dire di Lanzi,[82] in tutta quella gran
dipintura non vi sono più che tre teste, che dir si possano veramente di Lionardo. Essa tuttavia ben visibile serbossi
finchè, alla partenza de’ dominicani da quel luogo, (malgrado il divieto fatto,
presente il mentovato Pino, dal Generale in capo, ora Presidente della
Repubblica nostra, ed Imperatore de’ Francesi Napoleone Bonaparte), destinato
fu il refettorio, ad alloggiamento militare, anche di cavalleria; dal che sommo
danno quella pittura risentì.
Io andai a rivedere
il Cenacolo in questi ultimi giorni. Appena entrato nella sala che fu
refettorio voltaimi a guardarlo da vicino, e quasi nulla più non vidi: m’allontanai,
e meno maltrattato mi ricomparve. M’avvidi allora che una muffa, o piuttosto efflorescenza
nitrosa, sorgendo perpendicolare alla parete, a chi guarda di sotto in su tutta
d’un bianco velo lo copre. Ma ahi, che al tempo istesso, rodendone la crosta, lo
divora! tanto maggiormente che non essendovi ora più all’intorno il tavolato,
resta sotto le pareti della terra smossa e de’ rottami impregnati di ciò che
più che altro è atto a dar nitro.
Il testè mentovato P.
Gattico ci lasciò scritto che Lionardo
dipinse in tela l’assunzione della B. Vergine aggiugnendovi, oltre alcuni
angioletti, s. Domenico e ’l duca Lodovico da un lato, s. Pietro martire e la duchessa
Beatrice dall’altro. Questa tela in forma di semicircolo fu collocata sulla
porta della chiesa stessa delle Grazie; e solo nel 1726 fu di là tolta e
trasportata in sagristia per avviso del Bellotti, che in quel luogo copiò a
fresco il quadro vinciano. Alcuni negano, dice il P. Monti (dalla cui lettera
ms. traggo queste notizie) che opera sia di Lionardo,
perchè è in tela, e perchè il re Francesco i,
che volea trasportar la parete del Cenacolo, non avrebbe quì lasciato un quadro
di sì facil trasporto; ma risponde egli medesimo che i Francesi noi curarono
perchè non era opera celebre come il Cenacolo; e fors’anco non osarono allora
levarlo dalla porta della chiesa. Altronde non è questo il solo quadro in tela di
Lionardo rimastoci; e ne
riporteremo altri esempi ove daremo il catalogo delle sue pitture. Il ritratto
della duchessa mostra esser questo un lavoro non più tardo del 1497. Un’altra
pittura rammenta il P. Gattico fatta da Lionardo
sopra la porta per cui dalla chiesa vassi nel chiostro, e che distrutta fu a
suoi dì.
xvi. Il luttuoso avvenimento della morte di Beatrice d’Este consorte
a Lodovico carissima, per cui, al riferire del Corio, furono fatte stupendissime
esequie avrà dato pur esso occasione al Vinci d’esercitare l’ingegno, e la mano
nell’anno 1497; nel quale, come rilevo da una sua nota aveva a scolare e
familiare il Salai,[83] trovandosi nel codice
segnato Q. R. al fol. 94 il conto d’una cappa fattagli, che metto a piè di pagina,
perchè ci dà un’idea de’ fregi, de’ prezzi delle stofe, e della man d’opera di que’
dì.[84]
Ma ciò che piucchè
altro dovè in quest’anno occuparlo, fu la navigazione dell’Adda fra Brivio e
Trezzo. Difficilissima impresa ella era pel precipitare delle acque, e per gli
scogli che ne ingombravano l’alveo, e per la qualità del fondo in cui convenìa
scavar nuovo canale, e formare opportuni sostegni. Pensò Lionardo a superare tutte le difficoltà,
e pare che usar pensasse quegli stessi mezzi co’ quali navigabil si reudè l’Adda
nel 1775. Quali fossero su questo importantissimo oggetto i suoi pensamenti, i
calcoli, e i disegni, dirollo in appresso ove particolarmente de’ suoi studj e
lavori idrostatici prenderò a ragionare.
A questi tempi
possiamo credere da Lionardo
scritta la seguente nota de’ suoi lavori, che Oltrocchi copiò dal fol. 317 del cod.
atlantico, ove sta di sua mano, e a caratteri rovesci.
Una testa in faccia di giovane con bella capellatura.
Molti fiori ritratti dal naturale.
Una testa in faccia ricciuta.
Certi Sangirolami in su duna figura.
Disegni di fornegli.
Una testa del Duca.
Molti disegni di gruppi.
Quattro disegni della tavola di Santangelo.
Una Storietta di Girolamo da Feghine.
Una testa di Cristo fatta a penna.
Un San Bastiano.
Molti componimenti d’Angioli.
Un Chalcidonio.
Una testa in profilo con bella capellatura.
Certi coppi di prospettiva.
Certi strumenti per navilj.
Certi strumenti de acqua.
Una testa ritratta de Atalanta che alzava il volto.
La testa de Geronimo da Feghine.
La testa di Gianfrancesco Borro.
Molte gole di vecchie.
Molte teste di vecchi.
Molti nudi integri.
Molte braccia, gambe, e piedi, e attitudini.
Una Nostra Donna finita.
Un’altra quasi con profilo.
La testa di N. Donna che va in Cielo.
Una testa d’un vecchio col mento lungo.
Una testa di zingana.
Una testa chol chapello in chapo.
Una Storia di Passione fatta in forma.
Una testa di putta con trecce rannodate.
Una testa bruna a chonciatura.
Confrontando questa
nota co’ disegni di Lionardo che
sono ne’ nostri codici, nel triulziano, e presso De Pagave, de’ quali alcuni
pubblicaronsi dal Gerli, e dal Mantelli,[85] rilevasi che molti
esistono ancora fra noi, o almeno pochi anni prima v’esistevano. Certamente
dopo il Cenacolo, e prima delle sciagure del Moro dipinse Lionardo un’altra volta la bella Cecilia,
già in età matura, sulla tavola che ammirasi nella casa Pallavicini a San
Calocero, della quale parlerò trattando delle sue pitture.
xvii. Riuscì, come dicemmo, a Carlo viii re di Francia, cogli ajuti e più co’
raggiri di Lodovico il Moro, di spogliare del regno gli Aragonesi, e rendersi
ligia tutta l’Italia. Nel 1498 egli morì, e gli succedè il mentovato duca d’Orleans
col nome di Lodovico xii. Non
tardò il Moro ad avvedersi dell’error suo chiamando quì i Francesi, che sul
ducato, a norma d’antiche convenzioni, più di lui stesso avean diritto. Si
studiò di ripararlo; e peggio ancora, come vedremo, gliene avvenne. Aveva egli
intanto, fra gli altri mali, esausto talmente di danaro il suo erario, non tanto
pel mantenimento dell’armata francese, quanto per infinite altre spese
voluttuose, delle quali l’eloquente Arluno ci ha lasciato nella sua storia un
vivissimo quadro,[86] che, sebbene i sudditi di
grandissimi sussidj, e con sempre nuove gravezze sovraccaricasse, come dice Corio,
pur l’oro mancavagli, onde pagare gli stipendiati, a gli operai, e dar
compimento ai gran lavori incominciati. Il più importante di questi per Lionardo era il gitto della statua
equestre. Egli, ajutato probabilmente ne’ calcoli dall’amico frate Paciolo, come
dal modello vedeasene l’altezza,[87] e ogni altra dimensione,
così calcolato avea che il peso del bronzo ascendeva a libbre 220,000 di dodici
once ciascuna. Invano bramavasi l’eseguimento di sì bell’opera: invano il poeta
Lancino Curzio andava cantando al Moro: » Stassi aspettando il colosso; fa che
il bronzo scorra, e tutti esclameranno, ecco un Dio ».[88] Il duca non solo non
aveva il modo di ciò fare; ma da una lettera di Lionardo,
di cui solo ci è rimasto un frammento scritto a rovescio che si dà a piè di pagina,[89] rileviamo in quanta
miseria egli lasciasse gli artisti e gli operai. E che altro voglion dire quelle
espressioni che conosce i tempi; che gli restava ad avere il salario di due anni;
che delle provvisioni già avute non si trovava in mano che lire 15 dedotte le spese; che vuol mutare la sua arte ec. se non che il lavoro intorno alla
statua non procedeva, e che non potea più mantenere del suo gli operai?
Tuttavia il duca, in
mezzo ai maneggi politici, co’ quali l’Italia tutta studiavasi d’armare contro
la Francia, e ai militari apparecchi, le usate conversazioni letterarie nel suo
castello tenea, come veggiamo dalla già mentovata epistola dedicatoria di frate
Luca, che così comincia: » Essendo, excellentissimo duca, a dì 8 di Febbraio,
di nostra salute gli anni 1498 correndo... alla presenza vostra costituito in
lo laudabile e scientifico duello de’ molti celeberrimi e sapientissimi
accompagnata... del cui numero è Leonardo da Vinci ec. ». Di tutti i più
celebri uomini in ogni scienza ed arte che quì erano allora, fa in essa onorevol
menzione, e Lionardo suo sopra tutti
esalta, come altrove osservammo.
Così a quest’anno
dobbiamo principalmente riferire i suoi studj di Fisica, e di Meccanica, de’ quali
più sotto parlerassi; narrando lo stesso frate Luca, che Lionardo compiuta la gran dipintura del
Cenacolo » non di questo sazio, all’opera iuextimabile del moto locale, delle
percussioni e pesi e delle forze tutte cioè pesi accidentali (avendo già con
tutta diligentia al degno libro de pictura e movimenti humani posto fine)
quella con ogni studio al debito fine attende de condurre ». Ecco pertanto come
in quest’anno in cose matematiche, e insieme nel disegno e nella pittura,
malgrado la perversità de’ tempi, si occupò Lionardo.
xviii. O fosse per un giusto salario della
grand’opera del Cenacolo, o un compenso per ciò di che gli era debitore, e per sollevarne
l’esposta miseria, un generoso dono fece nel seguente anno 1499 il duca Lodovico
a Lionardo, dandogli sedici
pertiche d’una vigna che comperata dianzi aveva dal monistero di s. Vittore
pressa porta Vercellina con pieno diritto di proprietà. Registrata trovasi
questa donazione nel libro O all’ufficio Panigarola, che forma parte dell’archivio
pubblico al fol. 182.[90] Di questa vigna di fatto
egli dispose nel suo testamento, metà lasciandone al Salai, che di suo consenso
già fabbricata v’aveva una casa, e metà al suo servitore de Vilanis, che fe’ procura
a messer Gerolamo Melzo, perchè gliela vendesse, come più sotto vedremo. Di
questa già posseduta dagli eredi di Lionardo,
e quindi da loro venduta, trovasi frequente menzione come proveniente da un
dono del duca a Maestro Leonardo Pittore,
nelle carte dell’archivio de’ Gesuati, che pochi anni dopo fabbricarono nelle
vicinanze di quella vigna il convento di s. Gerolamo, posseduto poi da Gesuiti,
quindi da Somaschi, ed ora secolarizzato.
Fu questo senza
dubbio l’ultimo tratto di generosità che con Lionardo
usò il Moro, poichè essendogli venuto addosso con possente esercito il re di
Francia, a cui, mal consigliati, collegati s’erano i Veneziani e ’l Papa, fu
costretto a fuggire, e seco portò quanto di prezioso aveva, e ’l danaro tutto;
interamente esausto, al dir del Corio, lasciando l’erario. Nè certo i Francesi,
e molto meno i Milanesi loro collegatisi, diedersi cura de’ Letterati, e degli
Artisti, e de’ bei monumenti dell’arte: anzi sappiamo dal Corio che distrussero
la magnifica stalla di Galeazzo Sanseverino da Lionardo
disegnata; e, ciò che sommamente deve aver rattristato quest’artista fu il vedere
che, come narra il cav. Sabbà da Castiglione,[91] » la forma (cioè il
modello) del cavallo, intorno a cui Lionardo avea sedici anni continui
consumati, per ignorantia e trascuratezza d’alcuni, i quali, siccome non
conoscono la virtù, così nulla la estimano, si lasciò vituperosamente minare,
essendo stata una così nobile ed ingegnosa opera fatta bersaglio a balestrieri
guasconi. »
xix. Scrive il sovente mentovato amico di Lionardo fr. Paciolo nel capo vi del suo Trattato d’Architettura
che insieme trovaronsi agli stipendj del duca Lodovico Sforza dal 1496 al 1499
» donde poi, dic’egli, dassiemi per diversi successi in quelle parti ci
partemmo, e a Firenze pur insieme traemmo domicilio ». Sembra dunque che in
quest’anno Lionardo abbia abbandonato Milano; e andato siasene tosto a Firenze;
ma altronde abbiamo sul cartone del codice segnato Q. R. in 16 una nota di sua
mano tutta relativa a cose milanesi, e scritta certamente dopo che il Moro fu
condotto prigione in Francia, cioè nell’anno 1500. Eccola:
Edificii di Bramante.
Il Castellano fatto prigione.
Il Visconte strascinato e poi morto il figliuolo.
Gan della Rosa toltoli i danari.
Bergonzo principiò e nol volle; e poi fuggì la fortuna.
Il duca perso lo stato ella roba ella libertà, e nessuna sua opera
si finì per lui.
Non è facil cosa l’indovinare
la mente di Lionardo in questi
tronchi sensi; ma è chiaro che indicati vengono alcuni particolari disastri
degli amici suoi in conseguenza della prigionia del duca. Fra gli Edificii del Bramante rimasti imperfetti
deve annoverarsi la canonica di s. Ambrogio edificata da un solo lato, come
tuttor si vede, pel compimento della quale già preparate erano le colonne, che dopo
cento anni trovò ancora giacenti al suolo il card. Federico Borromeo. Il
castellano di cui quì parlasi era forse il castellano francese, che avendo nel 1500
ceduto senza necessità il castello a Lodovico, al ritorno de’ Francesi fu
tratto in prigione e punito al riferire del Daprato.[92] Chi fosse quel Visconte
noi sapremmo indovinare fra tanti di questo nome. Arluno narra che allora
atterrate furono le case de’ Visconti, de’ Castiglioni, de’ Sanseverini, e de’ Botta
e non è improbabile che ne fossero insultati e morti i padroni. Molti Visconti
annovera lo stesso Cronista[93] che per essersi
rallegrati del ritorno del duca in Milano furono da’ Francesi arrestati, e strascinati
in Francia come prigionieri di stato; e fra questi Messer Francesco Visconti, e
suo figliuolo Battista. Gian o
Giovanni della Rosa, forse Giovanni
de Rosate prof. a Pavia,[94] Medico ed astrologo del
duca. Borgonzio, o Brugonzio Botta fu
regolatore delle ducali entrate sotto il Moro,[95] alla cui fuga la casa sua
fu pur messa a sacco da’ partitanti francesi. Di lui narra Daprato[96] ch’ebbe bella moglie
chiamata madonna Daria, la quale piacque al re Francesco i. Nota è l’infelice catastrofe del
duca. Fuggito essendo, come dicemmo, nel 1499, dopo avere cercato invano in
Italia, e per sino dal Turco[97] ajuto conlro i Francesi,
ebbe dall’imperatore Massimiliano, e dagli Svizzeri tali forze, che unitesi ai
Milanesi, ai quali, i Francesi, dice il Porcacchi continuatore del Corio, eran
venuti a noja, scacciarono questi dalla Lombardia, e ’l Moro sul trono riposero.
Ma breve fu la sua gloria; poichè, nell’aprile del 1500, gli Svizzeri medesimi
lo venderono a suoi nimici, e dieronlo in mano al generale De la Trimouille,
che mandollo al re, per cui ordine fu condotto in Francia, ove chiuso stette
lungamente nel castello di Loches, e vi morì.
Sembra pertanto che
non nel 1499 ma nel 1500, dopo il ritorno e la prigionia del duca, sia da quì partito
Lionardo per andare a Firenze; ed
è quindi probabile, che i mesi di governo nuovo e incerto abbia passati coll’amico
suo Francesco Melzi a Vaprio, ove meglio che altrove studiar potea la natura, e
soprattutto le acque, e l’Adda specialmente, che già era stato l’oggetto delle
sue idrostatiche ricerche. Se il bel monumento di Lionardo, cioè l’effigie gigantesca della Vergine, che nella
casa de’ Melzi a Vaprio ancor s’ammira, sia di quest’anno, ovvero del 1507, non
oso determinarlo. Ne riparleremo più sotto.
Egli però non
trascurò il nuovo sovrano, a cui già era noto, per non perdere interamente il
frutto de’ lunghi servigj prestati a questo paese; onde sempre riputossi come
artista addetto alla corte del signor di Milano: e si lusingò forse un momento di
veder quì rifiorire le scienze e le arti; ma ben presto s’avvide che il re non
pensava che alle danze e ai piaceri, onde fermò nell’animo suo di portare altrove
i suoi talenti; e partissene col suo caro Salai e col valente matematico fra
Paciolo, e insieme a Firenze, come già s’è notato andarono a fissare il loro
domicilio.
xx. Certo è che in quel paese Lionardo
non fu trascurato, perchè il gonfaloniere perpetuo Pietro Sederini annoverollo tra
i suoi familiari come pittore, del che pur abbiamo a testimonio il collega suo
frate Luca;[98]
e conveniente provvisione aveagli assegnata. Narra a questo proposito il Vasari,
che avendolo una volta il cassiere del gonfaloniere voluto pagare con cartocci di
quattrini, egli non li volle pigliare, dicendo: io non sono pittore da
quattrini.
Nè fu già egli in
Toscana ozioso, ma de’ favoriti suoi studj, l’idrostatica cioè e la pittura, occupossi
costantemente. In quello, o nel seguente anno fece il celebre cartone di s.
Anna commendato dal Vasari, che minutamente ne descrive il pregio, e dice che fu
portato in Francia, daddove fu riportato in Italia, e trovavasi in mano d’Aurelio
Luino ai tempi di Lomazzo[99]. Tra le note del consiglier
De Pagave trovo essere opinion sua, che Bernardino Luino padre d’Aurelio su
questo cartone abbia dipinto sulla tela a tempra il bel quadro che sta ora
nella cappella domestica de’ sigg. Venini nella contrada di Chiaravalle, venduto
loro dalla famiglia Mauri, che tenealo per un’opera dello stesso Lionardo; e
due valenti pittori, co’ quali ultimamente lo esaminai, tengon per fermo pur
essi che lavoro sia del Luino, ed una delle buone sue opere. Scrisse il P.
Resta[100]
che tre simili cartoni fece Lionardo, de’ quali uno, dipinto dal Salai, trovasi
ancora nella sagristia di san Celso in Milano.
Fece il Vinci stando a Firenze, i ritratti di due
donne fiorentine rinomate per bellezza, cioè Lisa del Giocondo, e Ginevra d’Amerigo
Benci, de’ quali il Vasari parla come di cose divine.
Colà studiossi pur
egli di giovare alla sua patria calcolando il modo di render navigabile l’Arno
da Firenze a Pisa, come già osservammo, traendone argomento da una sua nota,
che probabilmente a questi tempi appartiene anzichè a quei che precederono la
sua venuta a Milano. Sta questa nota nel codice segnato Q R alla prima pagina
così scritta all’uso vinciano. Dal muro d’Arno
della Giustizia allargine dArno di Sardegna dove sono i mori alle mulina è br.
7400 et dilà dArno è br. 5500. Chi ben conosce quel paese potrà trovarvi i
luoghi indicati, l’esattezza della misura, e l’utilità del progetto
argomentarne. Se questo, come ve n’ha tutta la probabilità, ha rapporto al
progetto di cui parla Vasari, dobbiamo crederlo quello stesso che dopo due
secoli s’eseguì colla direzione del cel. Viviani. V’è alla pag. 45 del codice
medesimo il disegno d’un canale, che parte della Toscana attraversa, e che
probabilmente al mentovato progetto riportasi.
Al tergo della stessa
prima pagina altre cose parecchie ha notate Lionardo
per ajuto della memoria, fra le quali veggo esservi una baga da nuotare, che mi richiama alcuni ingegnosi suoi
ritrovati relativi allo stare, e moversi sull’acqua, e dentro l’acqua stessa, de’
quali ragioneremo in appresso.
xxi. Frattanto in quell’anno o nel seguente
percorse gran parte d’Italia, e la percorse da artista, da meccanico, da architetto,
da filosofo insomma quale egli era, tutto osservando, notando e disegnando quanto
d’istruttivo gli si presentava. Visitò così la Romagna, ossia l’Emilia, poichè
dalle note che trovansi nel codice segnato Q. R., veggiamo che ai 30 di luglio
del 1502 era in Urbino ove disegnò una colombaja e una scala a varie entrate, e
la fortezza (fol. 6): al primo d’agosto era a Pesaro ove fece d’alcune macchine
i disegni che veggonsi sul cartone ultimo del libro: agli 8 d’agosto era in
Rimino, ove lo colpì l’armonia risultante dal cader dell’acqua di quella
pubblica fonte: agli 11 era a Cesena, e ivi disegnò una casa, descrisse un carro
(fol. 83) e la maniera con cui i Cesenati portavano pendenti le uve (fol. 36). Ai
6 di settembre era al Cesenatico, e disegnonne il porto (fol. 65). Va notando poi
in altre pagine le distanze da Bertinoro ad Imola, a Faenza, a Forlì. Dall’Emilia,
per la via di Bologna, era egli tornato probabilmente alla patria, daddove un
altro viaggio per la parte meridionale della Toscana ha intrapreso; poichè nel
libro istesso (fol. 94) le note ha registrate delle distanze da Buonconvento
alla Casanuova, a Chiusi, a Perugia, a Foligno. Altrove poi (pag. 6) scrisse l’osservazione
fatta a Piombino su un’onda del mare che incalza l’altra e viene a spianarsi
sul lido. Descrive una singolar campana di Siena e la snodatura del suo
battocchio. Novera fra i paesi che vide Orvieto e Acquapendente; e fa la memoria
di chiedere l’Archimede del vescovo di Padova, e l’opera di fra Luca al Vitelloso.
Nè credasi già che
viaggiasse Lionardo per ozio o a cercar lavoro o per isfuggire ai mali della
guerra che accesa aveva per una parte d’Italia la smodata ambizione del duca
Valentino Borgia, e di suo padre Alessandro vi,
che tutti i minori principi italiani di privar tentò, e privò in parte de’ loro
stati per dare, se gli fosse stato possibile, il regno d’Italia a quello
scelerato suo figliuolo. Fu appunto la prepotenza del duca Valentino, che a Lionardo giovò in quel momento, poichè
dichiarollo suo architetto e ingegnere generale, e a visitare spedillo tutte le
fortezze degli stati, de’ quali aveasi già usurpato il dominio, sotto il titolo
di gonfaloniere, e capitano generale della Chiesa. Un documento autentico e
importante di ciò, in data appunto del 1502, sta nell’archivio Melzi, da cui il
consigl. De Pagavo per gentilezza del sig. cav. Giacomo Melzi (zio del
Vice-Presidente della nostra Italiana Repubblica) ch’egli a ragion commenda
come delle belle arti intelligente e amantissimo, potè trarre autentica copia. È
questo una patente in pergamena, che il mentovato duca Valentino diede a Lionardo, e che trascrivo a piè di
pagina.[101]
xxii. In questi anni, e, se crediamo al
Moreri, precisamente nel 1503 Lionardo
fu incaricato di dipingere nella sala del consiglio di Firenze un tratto
luminoso della storia fiorentina. Abbiamo in una lunga sua nota[102] l’idea di ciò che rappresentar
volea, cioè la battaglia in cui fu rotto Nicolò Picenino generale del duca
Filippo Maria Visconti l’anno 1440 presso Anghiari in Toscana: abbiamo molti
abbozzi di cavalli[103] in diverse positure, che
di quel gran lavoro sembrano studj; e sebbene siasi smarrito l’intero cartone,
pure si è serbato il disegno almeno d’una parte di esso, in cui veggonsi alcuni
cavalieri combattere per uno stendardo; il qual disegno fu pubblicato nell’Etruria Pittrice;[104] e la stessa zuffa incise
Edelinch, su disegno però che vuolsi essere stato ridotto e contraffatto da
Rubens. Dal ragguaglio della battaglia scritto dal Vinci, diffuso e minuto, e a gran quadro adattato più che
non cel danno gli storici,[105] scorgiamo come Lionardo ben s’informasse d’ogni
circostanza, talor anche immaginaria ma verosimile qual è l’apparizione di san
Pietro, prima d’effigiarsene in mente la composizione. Narrasi che la fama di
questo cartone abbia attirato a Firenze il gran Raffaello, che lavorava allora
nella libreria del duomo di Siena, ed abbia questi da Lionardo specialmente
appreso ad ingrandire la sua maniera, e a dare alle sue figure una maggiore
energia, applicandosi con diligenza ad imitarne la naturalezza, e la grazia.[106] Trae da questo cartone
del Vinci argomento il Lomazzo d’avvertire i pittori che » negli uomini, ne’ cavalli,
e in altri animali, non si dovrebbono del tutto esprimere i moti così estremi,
se non si è costretto più che da necessità di effetto sforzato e terribile,
siccome fece nella sala del consiglio di Firenze Lionardo, dov’egli espresse
con atti stupendi, e scorci maravigliosi, alla concorrenza de’ quali Bonarotti,
fece il suo maraviglioso cartone de’ nudi ».[107] Scrive il Vasari, che
avendo il Vinci data sul muro una vernice
per dipingervi a olio, questa mal riuscì, onde non eseguì la dipintura.
Nel tempo del suo
soggiorno in Toscana, siccome rilevasi dal Baldinucci[108] e dal Vasari, egli ajutò
coll’opera, formandogliene i modelli, e col consiglio il valente statuario, e gittatore
in bronzo Francesco Rustici per le tre statue, che ancor veggonsi sulla porta
boreale della basilica di s. Giovanni in Firenze.
xxiii. Nel 1504 egli perdè il padre suo ser
Piero ai 9 di luglio, avendo egli stesso fatta di ciò memoria nel cod.
atlantico al fol. 70; ma, ciò, comunque illegittimo ei fosse, non istaccollo
punto dalla sua famiglia; poichè abbiamo da una sua nota scritta nel fol. 2 del
cod. in 4 segnato S con questo titolo, Uccelli
ed altre cose = che essendo nel 1505 Lionardo a Barbiga presso Fiesole, ove,
come già vedemmo, i Vinci aveano una villa, v’osservò il volo d’un uccello di
rapina, e così ne descrisse i movimenti: Quando l’uciello ha gran larghezza d’alie
e pocha choda, e che esso si volglia inalzare, allora esso alzerà forte le alie,
e girando riceverà il vento sotto l’alie, il qual vento facendosegli intorno lo
spingerà molto con prestezza, come il cortone uccello di rapina chio vidi andando
a Fiesole sopra il locho di Barbiga nel 5
(1505) addi 14 di Marzo. Delle
osservazioni sue sul volo degli uccelli, e degli uomini, intorno al quale molti
disegni ci ha lasciati, parlaremo trattando de’ suoi ritrovati meccanici.
Leggesi nello stesso
codice. 1505. Martedi sera a dì 14 d’aprile.
Venne Lorenzo a stare con mecho: disse essere d’età d’anni 17.... a dì 15 del
detto aprile ebbi scudi 25 d’oro dal chamerlingo di santa Maria nuova. Vedremo
come nelle mani di questo camerlingo collocò poi Lionardo ad interesse una somma di danaro di cui dispose nel
testameuto; e poichè lo veggiamo ora riceverne 25 scudi d’oro, possiamo
argomentare ch’egli qualche considerabil lavoro fatto avesse in Firenze degno
di tanto premio. Cotesto Lorenzo, che poi gli fu sempre compagno, almeno sin
che stette in Italia, sarebb’egli Lorenzo Lotto bergamasco? Sappiamo essere
stato questo valente dipintore uno de’ bravi scolari del Vinci.
Trovandosi nel piccol
codice archintiano in 24.mo il disegno del giardino di Bles (Blois),
fatto dal Vinci, sospettar si può,
che nel 1506 egli, che tuttavia consideravasi al servigio del re di Francia
Lodovico xii, sia colà andato; e aceresce
forza a questa congettura il leggere nel codice vinciano in 16 segnato X a nel
primo foglio questa annotazione = Monbracco
sopra Saluzzo, sopra la Certosa ad un miglio appiè del Monviso ha una miniera
di pietre faldata, la quale è bianca come marmo di Carrara senza macule, che è
della durezza di porfido e più,[109]
delle quali il compare mio maestro Benedetto scultore hammi promesso mandarmene
una tavoletta per li colori. Vero è che in quel foglio leggesi pur la data a dì 6 Gennajo 1511; ma oltrecchè queste
ultime parole vi sono forse state scritte posteriormente; può ben anch’essere
ch’egli abbia notato dopo alcuni anni ciò ch’avea prima osservato: altronde
dalla minuta descrizione del luogo bea mostra d’esservi stato.
xxiv. Non è quindi improbabile che di Francia
sia quì tornato Lionardo a
richiesta de’ Milanesi, che forse non pienamente perfezionata dal Moro videro
la navigazione del canale della Martesana, e imperfetta pur vedeano, per la
soverchia acqua vegnentevi dal Ticino, quella del naviglio grande. Ma checchè
siane del luogo d’ond’è partito per quì venire, e della cagione che a venire l’ha
indotto, certo è che nel 1507 Lionardo
era nuovamente in Lombardia. Al fol. 130 del codice atlantico leggesi un
frammento dell’abbozzo d’una sua lettera da lui scritta alla sua maniera in
questi termini = Canonica[110] di Vavro (Vaprio) a di 5 luglio 1507. Cara mia diletta madre et mia sorella et mia cognata avvisovi chome
sono sano per la grazia di Dio ec.
Che non solo nella Casa
de’ Melzi alla Canonica, ma anche nel loro palazzo di Vaprio Lionardo facesse soggiorno, n’abbiamo un
argomento glorioso per lui, e pel suo ospite, cioè la già indicata immagine di
mezza figura d’una Vergine su una parete » di stile gigantesco il più sublime, (per
valermi dell’espressione del P. Dellavalle) e ’l più morbido che veder si
possa. Che bella treccia di capegli cade dal capo della Vergine! che bell’impasto
di carnagione, che morbidezza! che contorni! Oh quì sì che ognun vedrebbe
Correggio uscito dalla scuola del Vinci «.[111]
La testa della Madonna
è alta 6 palmi comuni, e quella del Bambino è alta 4. Alcuni la dissero di
Bramante, che certamente tanto non sapea fare. Gran danno ebbe tal pittura nel
1796, poichè i soldati accesero il fuoco presso quella parete, e parte ne
annerirono; ma i due volti si sono sufficientemente conservati.
In questo stesso anno
1507 fece il re Lodovico la conquista di Genova, e sì ne fu contento, e sì n’andò
glorioso, che venir volle in Lombardia a trionfarne. Descrive il Daprato la
regal pompa che in Milano si vide con archi e carri ad imitazione de’ romani
trionfi; e più ancora ad imitazione della descritta festa nuziale del duca Gian
Galeazzo e d’Isabella per la personificazione delle virtù, e pe’ versi che
recitavano: per le quali cose, abbenchè non veggalo nominato, ben congetturo
che non si sarà lasciato inoperoso il talento di Lionardo.
Sappiamo altresì che
qnesti allora in Lombardia era col suo fido Salai, al quale nell’ottobre fece
un imprestito di cui lasciò la seguente nota sul cartone interno dello stesso
codice: Addì 15 ottobre 1507. Ebbi sc. 30.
13 ne prestai a Salai per compiere la
dote alla sorella, e 17 ne restò a me.
Nè senza fondamento è
il pensiere che quì veramente Lionardo
tornasse per motivo de’ nostri canali. Vaprio, non dee soltanto considerarsi
come luogo ove godea dell’ospitalità generosa dell’amico suo, ma anche come
situazione opportunissima per esaminare il modo di migliorare il naviglio, e assicurarne
la navigazione senza danno de’ particolari. Trovasi sul primo foglio del codice
vinciano segnato X b = comprato in Milano a dì 12 ottobre 1508, e in questo codice alla
pag. 76 leggesi un capitolo intitolato =
Del canale della Martegana = cioè Martegiana, o Martesana, in cui espone il
suo parere sul minorare il danno che risulterebbe al Lodigiano per l’acqua
tolta all’irrigamento de’ prati a favore della navigazione, coll’introdurne nel
canale una maggiore quantità, e destinando all’irrigazione quelle delle
sorgenti (da noi volgarmente dette fontanili) che scaverebbonsi sulle sponde
del canal medesimo.
Nel mentovato piccolo
codice archintiano, scritto circa questi tempi, trovasi alla pag. 29 l’abbozzo d’uno
scaricatoio pel naviglio grande; e un disegno pulitissimo dello scaricatoio
medesimo progettato da Lionardo,
ed eseguito presso san Cristoforo, ove tuttora si vede, trovasi nel codice
atlantico con queste parole = Navilio di
san Cristoforo di Milano, fatto a dì 3 di
Marzo 1509; il qual lavoro meritogli il generoso premio, di cui parleremo
fra poco.
xxv. Dominava, siccome dicemmo, nel testè mentovato anno in Lombardia
il re di Francia Lodovico xii, e
vedendo egli di continuo minacciati questi paesi dai Veneziani, che gli stati
della chiesa, e d’altri principi cristiani invadevano o infestavano, entrò a
parte della famosa lega di Cambrai, e con poderoso esercito, diretto
specialmente dai consigli del suo maresciallo Giangiacomo Triulzi, quì venne. S’azzuffarono
le armate ad Agnadello presso l’Adda. Le truppe venete furono interamente
sbaragliate e rotte; e ’l re, riportata avendo una compiutissima vittoria,
volle trionfare in Milano. che Lionardo
fosse allora incaricato di quella trionfal pompa argomentasi dalla descrizione
che ce ne ha lasciata Arluno,[112] nella quale sebbene non lo
nomini, pur ne descrive le pitture, gli archi di trionfo e i fregi tutti, che
le strade e i pubblici edifizj adornavano, in modo da far vedere che dal nostro
valente pittore architetto e meccanico furono eseguite. Adopera fra le altre la
frase di pitture mollissime, cioè
mostranti morbidezza, che spiega poi come quasi viventi: frase da lui altrove
applicata alle sole pitture di Lionardo.
Essendo stato fatto tutto l’apparato della pompa in soli 46 giorni, ben
possiamo argomentare che tutti gli scolari suoi egli seco a quel lavoro
impiegasse, e molti n’avesse.
Probabilmente in
quest’anno egli fece il ritratto del mentovato Giangiacomo Triulzi del quale
trovo fatta menzione dal Lomazzo,[113] e che dicesi ora nella
elettorale galleria di Dresda.
In questo stesso anno
due singolari beneficenze ebbe il Vinci
dal re: una cioè di dodici once d’acqua da estraersi dal naviglio grande in
vicinanza di s. Cristoforo, ove immaginata e diretta avea la bell’opera degli
scaricatoi; e l’altra d’aver titolo e stipendio di pittore del re. Il titolo
gliel veggiamo dato in una nota al fol. 171 del codice atlantico, ov’è uno
scritto in vecchio francese colla direzione = A Monsieur Lyonard Peintre du Roy pour Amboyse =, e nello stesso
suo testamento Pittore del re si
chiama. Della sua pensione a questo titolo fa menzione egli stesso in una sua
lettera, che credesi diretta al governatore Carlo d’Amboise scritta da Firenze
nel 1511 (poco prima che questi morisse, o forse già morto essendo, e
ignorandolo Lionardo); e ivi pure
rammenta il summentovato dono delle dodici once d’acqua. Avrei caro di sapere gli scrive egli, se a-vendo io quì lavorato pel
cristianissimo re, la mia provisione è per correre a no. Scrivo anche al
presidente intorno a quell’acqua che mi donò il re ec. D’amendue le reali
summentovate beneficenze parla poi e dispone nel suo testamento rogato l’anno 1518,
in cui fra le altre cose leggesi che » il Testatore dona et concede al detto
Messer Francesco Melzo il resto della sua pensione ec. «.[114]
xxvi. La morte di Lodovico il Moro, dopo 10
anni di prigionia nel castello di Loches, avvenuta nel 1510, non senza sospetto
di veleno[115]
fu un terribile argomento della vanità delle umane grandezze e della
instabilità delle cose. Non essendo in questo tempo Lionardo in Milano in nessuna particolare opera occupato,
darsi avea determinato interamente allo studio delle scienze e della letteratura,
il che argomento dalla seguente sua nota scritta nel cod. X fol. 1, ove annovera i libri o prestatigli, o
rendutigli, che aver volle. = Da Messer
Ottaviano Pallavicino, il Vitruvio - Dal
Bertuccio, Marliano de Calculatione - Da
Fra Bernadigio, Alberto de cœlo et mundo - Da Alessandro Benedetto, l’Anatomia
- Da Nicolò della Croce, il Dante. La
qual nota a due riflessioni ci porta, cioè che parecchi studiosi uomini di chiare
famiglie quì v’erano, de’ libri e del sapere amatori; e che versato in ogni
dottrina era Lionardo; e tali
voleva gli scolari suoi: dal che ne nacque, come notò il ch. Lanzi, che la
scuola Lombarda fu sempre più d’ogni altra osservante del costume e dell’antichità.
Morì in questo stesso
anno o a principio del seguente il giù mentovato ser Francesco Vinci zio di Lionardo; e questi, avendo diritto a
dividerne l’eredità co’ fratelli, che gliela contrastavano, determinò d’andare a
Firenze; e chiese perciò lettere commendatizie al regio locotenente che gliele
promise. Recammo giù sul principio di queste Memorie (pag. 17) lo squarcio
della lettera scrittagli dal Vinci
per impetrare in quest’affare il suo patrocinio, provando noi con essa, che, se
legittimo ei pur non era, doveva almeno essere stato legittimato. Se abbia vinta la causa, l’ignoro. È certo che messer
Francesco Melzi, dando ai fratelli suoi nuova della morte di Lionardo, scrive loro aver questi
lasciato in Fiesole un podere, che vuol tra loro diviso. Vero è che di questo
podere non si fa menzione nel testamento; ma in esso Lionardo dispone » di quattrocento scudi del sole che avea messi
in deposito in mano del camerlingo di santa Maria nuova in favore de’ suoi fratelli
carnali «; e ben potrebbe questa somma essere una porzione datagli dell’eredità
per cui era colà andato: alla qual congettura aceresce probabilità il vedere
che questa sola somma (è forse il fondo di Fiesole) lasciò divisibile tra i
fratelli, che se la diviser di fatti nel 1520,[116] mentre degli altri beni
e danari per gli amici e domestici suoi dispose. Darò appiè di pagina le
lettere (non però colla sua ortografia) da lui scritte al luogotenente, al
presidente, e a messer Francesco Melzi,[117] sì perchè contendono de’
ragguagli nteressanti la vita di Lionardo
e la storia de’ nostri canali, e della pubblica amministrazione; sì perchè egli
vi fa menzione di due sue tavole di varia grandezza rappresentanti due nostre
donne, cioè due quadri della B. Vergine, cred’io, anzichè i ritratti della Lisa
del Giocondo, e della Ginevra Benci, come parve a taluno. Quali riscontri gli rendesse
Salai venuto a Milano apportator delle lettere nol trovo notato; ma che allora
o poi abbia ottenuto il pieno possesso dell’acqua donatagli dal re, lo rilevo
dal suo testamento in cui ne dispose.
Con Salai e con
Lorenzo il nostro Lionardo quì tornò
nel 1512, forse per ottenere l’acqua non avuta ancora, e che formar dovea senza
dubbio la maggiore delle sue rendite, e dalla quale egli pensava, come rileviamo
dalla prima delle sue lettere, trarne anche maggiore profitto costruendovi sopra
delle macchine e degli stromenti. Forse in questo tempo, acciò il miglioramento
de’ bocchelli si facesse, e venisse fatto col giusto risparmio d’acqua, egli
esaminò come calcolar si debba l’acqua uscente da una data luce secondo le
diverse circostanze, come vedremo più sotto.
xxvii. Essendosi formata da principi italiani,
secondati dall’imperatore, una lega per rimettere sul trono della Lombardia la discendenza
degli Sforza, ricominciò la guerra; e Massimiliano figliuolo di Lodovico il Moro
quì venne trionfante a pigliare il possesso del paterno retaggio condottovi da quegli
stessi Svizzeri, che tradito aveano suo padre. Fecersi allora delle feste,
delle quali a ordinar la pompa non oso dire che Lionardo
avesse parte, sebbene di Massimiliano, al tempo di sua fanciullezza, fosse probabilmente
stato maestro, e sicuramente avesse dipinto il suo abbecedario, e fattone il
ritratto, come dicemmo (pag. 63). Se veritiero è il Campi[118] Lionardo fece quì, anche a questi tempi, il ritratto del duca
Massimiliano; il che mostrerebbe che, sebbene avesse servito il nimico e l’usurpatore
de’ suoi stati, tuttavia questo sovrano apprezzavalo, e dell’opera sua si
valeva. Due ritratti del duca Massimiliano che voglionsi di mano del Vinci, abbiamo in Milano uno cioè nella
galleria nostra, e l’altro in quella de’ Melzi.
A quest’epoca, come
già avvertimmo, dovremmo riportare gli studj anatomici di Lionardo in Pavia se veramente
Marcantonio della Torre solo nel 1511 fu fatto professore in quello studio; ma
essendo stata in questo tempo brevissima la dimora del Vinci presso di noi, non pare verosimile che in quest’anno soltanto
della anatomia siasi occupato; ed è ben più probabile che il mentovato
professore, che pur vivea nel 1511, anno in cui ne fa menzione il Parodi, iusegnasse
la notomia anche molti anni prima.
Nell’anno seguente i
Francesi, disfatti alla battaglia di Novara, doverono abbandonar l’Italia; e Lionardo che si sarà veduto senza mezzi
di sussistenza, attesa la miseria in cui il mantenimento di prepotenti armate
aveano posto il duca, pensò bensì a ritirarsi dalla Lombardia, ove tutto era, dice
il Daprato, confusione, vendetta e indigenza; ma, anzichè abbandonar l’Italia,
s’avviò a Firenze in compagnia di mess. Francesco Melzo e de’ suoi scolari.
Lasciò di ciò memoria nel codice segnato B alla pag. 1. Partii da Melano per Roma addì 24 di settembre con Giovanni, Franciescho
Melzo, Salai, Lorenzo, el Fanjoia. Probabilmente quel Giovanni era il
Beltraffio, di cui abbiamo l’onorevole epitafio in s. Paolo in compito, ma chi
fosse il Fanfoia nol trovo. Forse è lo stesso che il Foiano.
Cammin facendo egli
passò forse da sant’Angelo appiè del solitario colle di san Colombano, e alla
riva del Po vide un luogo cupo e scosceso, detto da noi volgarmente un Orrido,
ch’egli disegnò nel codice segnato B, scrivendovi accanto = Sulla riva del Po vicino a sant’Angelo nel
1514 addì 27 di settembre.
xxviii. Dopo la morte di Giulio u era stato eletto a sommo pontefice
Giovanni de’ Medici, che prese il nome di Leon x,
nome sempre venerabile e caro alle scienze e alle belle arti. Giuliano fratello
del Pontefice e signor di Firenze, che ben sapea quanto Lionardo valesse, non contento di far conoscere in Patria (ove
Lionardo, benchè diretto avesse il
suo viaggio a Roma, fermato s’era) in qual conto lo tenesse egli, seco il
condusse a quella metropoli, mentre colà portavasi ad assistere alla
incoronazione del Pontefice. E quì certamente Lionardo
avrebbe potuto considerarsi nel campo delle sue glorie, se gl’intrighi d’una corte,
sempre superiori ai talenti semplici del valentuomo, non lo avessero indotto a sdegnosamente
partirne, come or ora dirassi.
Nella breve dimora
fatta in Roma, Lionardo, al
riferir di Vasari, due quadretti dipinse per messer Baldassare Turini da Pescia
datario di Leon x;[119] ma nè questo nè altro
scrittore ci parla d’altra più pregevol tavola colà dipinta probabilmente pel
Pontefice medesimo. Stava questa un tempo nel palazzo de’ duchi di Mantova: credesi
rubata nel saccheggio dato a quella città dagli imperiali; celata fu e ignorata
per molti anni, e acquistata nel 1775 dall’ab. Salvadori segretario di governo,
che fecela bensì vedere ed esaminare ad alcuni intelligenti amici, e fra questi
al De Pagave da’ cui scritti traggo questa notizia; ma un segreto faceane
principalmente al ministro conte di Firmian per tema che gliela chiedesse ad
arricchirne la propria galleria. Alla morte dell’ab. Salvadori, gli eredi suoi portaronsela
a Moris loro patria sul Trentino, e credesi che abbianla venduta per considerevol
prezzo alla imp. corte di Russia. Rappresenta questa tavola in legno la Sacra
Famiglia, cioè la Beata Vergine, il Bambioo, san Giuseppe e san Giovanni, e dietro
a queste figure v’è il ritratto di giovin donna in piedi di nobile aspetto, e di
singolare avvenenza. Il lodato De Pagave tre cose vi notò degne di speciale considerazione.
La prima è che quantunque vi si veda la maniera lionardesca, pure quel lavoro
supera tutte le altre opere sue in bellezza, scorgendovisi ad evidenza ch’egli s’è
studiato d’imitare, ed ha veramente emulato Raffaello, che già in grandissimo credito
era alla romana corte.[120] L’altra sì è che v’ha
apposto in una cifra il proprio nome; ed è questo (tranne quello de’ sigg.
conti Sanvitali a Parma) il solo quadro in cui siasi, direm così, sottoscritto.
La cifra sua, consistente in un monogramma formato dalle tre lettere L D V,
vedesi nella tav. u fig. 10. Crede
il De Pagave che appunto abbiavi apposta la cifra, perchè avendo egli in certo
modo cangiato lo stile, non s’attribuisse ad altri quel suo lavoro.[121] L’avvenente donna poi
certamente è quella per cui il quadro fu fatto; o alla famiglia del Pontefice
appartenesse, o a quella de’ Gonzaga, a cui destinata era la tavola. A me
sembra verosimile che rappresentar possa la cognata di Lion x moglie del duca Giuliano, giacchè
sappiamo da Lionardo medesimo, che
partissi il magnifico Giuliano de Medici
addì 9 di gennaio 1515 in sull’aurora da Roma per andare a sposare
la moglie in Savoia: e in tal dì vi fu la morte del re di Franeia.[122] Egli pertanto avrà une
fatto il ritratto in quella bellissima tavola a lei destinata; e forse in
premio di questo lavoro, comunque già vecchio ei fosse al confronto degli emuli
suoi Michelangelo e Raffaello, che nella mente del Pontefice erano in maggior credito,
gli sarà stato dato l’incarico di quel lavoro, che cagion fu poi de’ suoi dispiaceri,
e della sua partenza.
Narra infatti il Vasari
che » essendosegli allogata un’opera dal Papa, Lionardo subito cominciò a
stillar olj ed erbe per fare la vernice; e che il Papa ciò risapendo dicesse: oimè,
costui non è per far nulla dacchè comincia a pensare alla fine innanzi al
principio dell’opera: del che sdegnatosi Lionardo, tanto più che sapeva essere
stato chiamato a Roma il Bonarotti, che non gli era amico, se ne partì. «
Tra le sue carte
altra memoria non v’ha relativa a Roma, se non che egli immaginò per contare in
quella zecca le monete, e farle perfettamente tonde, un torchio migliore di
quello che dianzi adoperavasi: del che abbiamo la notizia sul cartone del
codice summentovato.
Probabilmente prima
di essere malcontento del pontefice avrà dipinta a s. Onofrio sul muro quella
B. Vergine di cui parlasi nel catalogo delle sue pitture; e forse altre tavole
tuttora esistenti in Roma, delle quali parleremo a suo luogo.
xxix. Successore di Lodovico xii fu Francesco i, di cui primo pensiere fu la riconquista del Milanese, la quale
pur gli riuscì in conseguenza de la vittoria riportata alla battaglia di Meregnano.
A questo tempo riferir deggiamo la figura del lione formato in Pavia da Lionardo con mirabile artifizio per cui
da sua posta videsi camminare in una sala, e fermarsi dinanzi al re, aprendogli
il petto tutto ripieno di gigli, come narra il Lomazzo:[123] e ove ciò sia, dibbiamo
pur argomentarne che il Vinci, appena udita la riconquista della Lombardia
fatta da’ Francesi, sia quì tornato, e ben accolto sia stato da Francesco i, che del suo merito esser dovea già
ben prevenuto: per la qual cosa seco a Bologna il condusse, quando il pontefice
per dare la pace all’Italia e alla Chiesa, propose un colloquio col re in
quella città, ove agli otto di dicembre si firmò il celebre concordato fra la
Francia e Roma. Che Lionardo colà
sia andato argomentasi dal vedere fra i suoi disegni il ritratto del sig. Artus,
sotto cui sta scritto (non però di mano di Lionardo) » Ritratto di M. Artus maestro
di camera del Re Francesco i nella
Giunta con Papa Leon x. «[124]
Considerandosi quindi
interamente addetto alla corte francese, Lionardo
non solo segui il re nel suo ritorno a Milano; ma sul finir di gennaio del 1516
seco lui andò in in Francia, qual suo pittore con un assegnamento di 700 scudi
annui; il che sappiamo dal Baldinucci a cui tal somma fu accordata per dargli
un trattamento uguale a quello del Vinci.[125]
Essendo poi a Milano
Francesco i, e fra le cose più
rare e belle ammirando la pittura bellissima del Cenacolo, sì portentosa
trovolla, che meditò di farla portare in Francia, e » tentò per ogni via,
dice il Vasari, se ci fosse stati architetti che con travate di legnami o di
ferri l’avessero potuto armare di maniera ch’ella si fosse condotta salva,
senza considerare a spesa che vi si fosse potuta fare, tanto la desiderava: ma
l’esser fatta nel muro fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, ed ella si rimase
ai Milanesi. «
Di quello che facesse
Lionardo in Francia, ove visse
ancora due anni ed alcuni mesi, ben poco possiamo dire. Dal surriferito
indirizzo = A Monsieur Lyonard Peintre
pour Amboise = vediamo ch’egli era colà, e più ancora lo sappiamo dal suo testamento
fatto in Amboise, in cui parla de’ mobili e utensili che avea nel loco du Cloux, villa reale, distante da
Amboise un sol miglio, ov’egli abitava. Non è credibile che alcuna cosa vi
dipignesse, giacchè sappiamo dal Vasari che il re invano desiderò d’avere il quadro
di s. Anna di cui avea seco portato in Francia il cartone, che dipinto poi fu
da’ suoi scolari.
Venturi[126] dice d’aver ricavato dal
codice vinciano atlantico ora segnato N. 329, nella biblioteca nazionale a
Parigi, che Lionardo era stato incaricato
di far il progetto e ’l piano d’un canale navigabile che passar dovea da
Romorentin, ov’gli di fatti andò colla corte nel gennaio del 1518; ma sebbene
molti canali siano stati fatti in appresso in quel paese, ora dipartimento di
Cher e Loira, non possiamo indovinare se egli abbia a questi contribuito, e
quanto.
xxx. Scrive il Vasari che credendosi vicino a morte Lionardo si volse diligentemente informare
delle cose cattoliche, quasi che per l’addietro egli avesse vissuto senza
religione. Con qual fondamento il Vasari ciò asserisca, nol so; ma, sebbene da
tutto l’insieme della vita di Lionardo non consti ch’egli fosse un uomo divoto,
non appar nemmeno che incredulo fosse o libertino; onde dobbiamo interpretare l’espressione
del Vasari d’una specie d’abdicazione a tutte le cose mondane, e d’una determinazione
d’occuparsi unicamente del grand’affare della morte e dell’avvenire. Se il Vinci fosse stato uom dedito a piaceri,
e al libertinaggio, per cui avrebbegli somministrata ogni opportunità e ogni mezzo
la sua vivacità, la sua figura, i suoi comodi (giacchè quasi sempre ebbe buone provigioni,
e molto guadagnò co’ suoi lavori) e soprattutto l’esempio d’una corte libertina,
egli ne avrebbe lasciato delle tracce ne’ suoi scritti, nei quali abbiamo non infrequenti
precetti d’ottima morale,[127] e più ancora ne’ suoi
disegni: ma non sappiamo di lui che altra nudità abbia dipinta fuor d’una Leda,
rammentata dal Lomazzo, che pur dipinse cogli occhi per vergogna abbassati;[128] e taluni hanno poi creduto
di scorgere un gruppo lascivo nel piccolo schizzo copiato dal Gerli nella
Tavola xxi.[129]
In Amboise, o
Ambrosia, come la chiama Francesco Melzo, ai 18 d’aprile del 1518, cioè un anno
prima della sua morte egli fece il suo testamento, che quì intero diamo qual copiollo
da esemplare autentico e contemporaneo (comunicatogli dal sig. Vinci pretore di
Barberino, che or possiede i beni e l’archivio della famiglia Vinci) il sig.
conte Bindo Nero Maria Peruzzi a richiesta del sovente lodato consigl. De Pagave.
Sia manifesto ad ciaschaduna persona presente et advenire, che
nella corte del Re Nostro signore in Amboysia avanti de noy personalmente
constituito Messer Leonardo de Vince pictore del Re, al presente comorante
nello locho dicto du Cloux appresso de Amboysia, el qual considerando la
certezza dela morte e lincertezza del hora di quella, ha cognosciuto et
confessato nela dicta corte nanzi de noy nela quale se somesso e somette circa
ciò havere facto et ordinato per tenore dela presente il suo testamento et
ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita. Primeramente el racomanda
lanima sua ad nostro Signore Messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a
Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati Angeli Santi e Sante del
Paradiso. Item el dicto Testatore vole essere seppelito drento la giesia de sancto
Fiorentino de Amboysia et suo corpo essere portato lì per li capellani di
quella. Item che il suo corpo sia accompagnato dal dicto locho fin nela dicta
giesia de sancto Fiorentino per il colegio de dicta giesia cioè dal Rectore et Priore,
o vero dali Vicarii soy el Capellani dela giesia di sancto Dionisio d’Amboysia,
etiam li Fratri Minori del dicto locho, et avante de essere portato il suo corpo
ne la dicta chiesia, esso Testatore, vole siano celebrate ne la dicta chiesia
di sancto Fiorentino tre grande messe con diacono et sottodiacono, et il di che
se diranno dicte tre grande messe che se dicano anchora trenta messe basse de
Sancto Gregorio. Item nela dicta chiesia de Sancto Dionisio simil servtio sia
celebrato como di sopra. Item nela chiesia de dicti Fratri et religiosi minori
simile servitio.
Item el prefato Testatore dona et concede ad Messer Francesco da
Melzo Gentilomo da Milano per remuneratione de’ servitii ad epso grati a lui
facti per il passato tutti, et ciaschaduno li libri, che il dicto Testatore ha
de presente et altri Instnunenti et Portracti circa larte sua et industria de
Pictori. Item epso Testatore dona et concede a sempre mai perpetuamente a
Battista de Vilanis suo servitore la metà zoè medietà de uno iardino, che ha
fora a le mura de Milano et laltra metà de epso iardino ad Salay suo servitore nel
qual iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa, la qual sarà
e resterà similmente a sempremai perpetudine al dicto Salai, soi heredi, et
successori, et ciò in remuneratione di boni et grati servitii, che dicti de Vilanis
et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de quì inanzi. Item epso testatore
dona a Maturina sua fantescha una vesta de bon pan negro foderata de pelle, una
socha de panno et doy ducati per una volta solamente pagati: et ciò in
remuneratione similmente de boni servitii ha lui facta epsa Maturina de quì inanzi.
Item vole che ale sue exequie siano sexanta torchie le quale seranno portate
per sexanta poveri ali quali seranno dati danari per portarle a discretione del
dicto Melzo le quali torzi seranno divise nelle quattro chiesie sopradicte. Item
el dicto Testatore dona ad ciascheduna de dicte chiesie sopradicte diece libre
cera in candele grosse che seranno messe nelle dicte chiesie per servire al dì che
se celebreranno dicti servitii. Item che sia dato ali poveri del ospedale di
Dio alli poveri de Sancto Lazaro de Amboysia, et per ciò fare sia dato et
pagato alli Tesorieri depsa confraternita la summa et quantità de soy sante
dece soldi tornesi. Item epso Testatore dona et concede al dicto Messer
Francesco Melce presente et acceptante il resto della sua pensione et summa de’
danari qual a lui sono debiti del passato fino al dì della sua morte per il
recevoir, overo Tesaurario general M. Johan Sapin, et tutte et ciaschaduna summe
de’ danari che ha receputo dal p.° Sapin de la dicta sua pensione, e in caxo
chel decede inanzi al prefato Melzo, e non
altrimente li quali danari sono al presente nella possessione del dicto
Testatore nel dicto loco de Cloux como el dice. Et similmente el dona et
concede al dicto de Melze tucti et ciaschaduni suoi vestimenti quali ha al
presente ne lo dicto loco de Cloux tam per remuneratione de boni et grati servitii,
a lui facti da quì inanzi, che per li suoi salarii vacationi et fatiche chel
potrà avere circa la executione del presente Testamento, il tutto però ale
spexe del dicta testatore.
Ordina et vole, che la sunnna de quattrocento scudi del sole che
ha in deposito in man del Camarlingo de Sancta Maria de Nove nela città de
Fiorenza siano dati ali soy fratelli carnali residenti in Fiorenza con el
profitto et emolumento che ne po essere debito fino al presente da prefati
Camarlinghi ed prefato Testatore per casone de dicti scudi quattrocento da poi
el dì che furono per el prefato Testatore dati et consigliati alli ditti Camarlinghi.
Item vale et ordina dicta Testatore che dicto Messer Francisco de Melzo sia et
remana sola et in sol per il tutto executore del Testamento del prefato Testatore,
et che questo dicto Testamenta sortisca suo pieno et integro effecto, et circa ciò
che è narrato et decto havere tenere guardare et observare epso Messer Leonardo
de Vince Testatore constituto ha obbligato et obbliga per le presente epsi soy heredi
et successori con ogni soy beni mobili et immobili presenti et advenire e ha renunciato
et renuncia per le presente expressamente ad tucte et ciaschaduna le cose ad
ciò contrarie. Datum ne lo dicto loco de Cloux ne le presencie de magistro Spirito
Fleri Vicario nela chiesia de Sancto Dionisio de Amboysia, M. Gulielmo Croysant
prete et capellani, Magistro Cipriane Fulchin, Fratre Francesco de Corton et
Francesco da M.lano religioso del convento de fratri minori de Amboysia, testinionii
ad ciò ciamati et vocati ad tenire per il uidicio de la dicta Corte, in presentia
del prefato M. Francesco de Melze acceptante et consentiente il quale ha
promesso per fede et sacramento del corpo suo per lui dati corporalmente ne le mane
nostre di non mai fare venire, dire, ne andare in contrario. Et sigillato a sua
requesta dal sigillo regale statuito a li contracti legali d’Amboysia, et in
segno de verità. Dat. a dì xxiii de
Aprile mdxviii avanti la Pasqua et
a dì xxiii depso mese de Aprile mdxviii ne la presentia di M. Gulielmo
Borian notario regio ne la corte de Baliagio d’Amboysia il prefato M. Leonardo de Vince ha donato et
concesso per il suo testamento et ordinanza de ultima voluntà supradicta al
dicto M. Baptista de Vilanis presente et acceptante il dritto de laqua[130] che qdam bone memorie Re
Ludovico xii ultimo defuncto ha
alias dato a epso de Vince suxo il fiume del naviglio di sancto Cristoforo ne lo
Ducato de Milano per gauderlo per epso De Vilanis a sempre mai in tal modo et
forma che el dicto Signore ne ha facto dono in presentia di M. Francesco da
Melzo Gentilhomo de Milano et io. Et a dì prefato nel dicto mese de Aprile ne
lo dicto anno mdxviii epso M.
Leonardo de Vinci per il suo testamento et ordinanza de ultima volunta
sopradecta ha donato al prefato M. Baptista de Vilanis presente et acceptante
tutti et ciaschaduni mobili et utensili de caxa soy de presente ne lo dicto
loco du Cloux. In caxo però che el dicto de Vilanis surviva al prefato M.
Leonardo de Vince, in presentia del prefato M. Francesco da Melzo et io Notario
etc. Borean.
In questo scritto Lionardo dimostra in primo luogo quanto
buon cattolico ei fosse; quanto riconoscente verso il summentovato Francesco
Melzo, lasciandogli un dono convenevole all’amico e benefattor suo, e al tempo
stesso pittore, e dell’arte pittorica amatore; quanto attaccamento avesse ai
suoi fratelli ai quali lasciò quello che possedeva in Toscana, giacchè in favor
loro, come non regnicoli, non a rebbe potuto testare di ciò che in Lombardia, o
in Francia aveva, come rileviamo dalla lettera del Melzo medesimo, che più
sotto riporteremo; e quanto grato ei fosse alla utile compagnia costantemente
fattagli dal suo scolare e domestico Salai, e ai servigj rendutigli dal suo
fedel servo de Vilanis.
xxxi. Leggesi su molti scrittori che Lionardo sia morto a Fontanablò, ed
abbia spirato l’ultimo fiato nelle braccia del re, il quale ito era a fargli
visita in tempo della sua infermità; ma ciò non esser vero argomentasi dall’esser
egli morto a Cloux; dal vedere data dalla vicina città d’Amboise la lettera di
Francesco Melzo (che diamo appiè di pagina) in cui ragguaglia della di lui
morte i fratelli; e dal silenzio del Melzo medesimo, che non avrebbe ommessa sì
onorevole circostanza.[131] Aggiungasi che Venturi,
avendo potuto leggere nella biblioteca nazionale di Parigi il giornale di
Francesco i trovò che la corte era
a s. Germano en Laie[132] ai primi di maggio, e
non v’è indicato nessun viaggio del re. Può anche in ciò esserci d’argomento il
silenzio del Lomazzo, che nulla omise di ciò che onorar poteva il Vinci, e
della morte sua fra le braccia reali non solo non parla; ma dice che il re la
morte ne seppe dal Melzi.[133]
Che il mentovato zio
di M. Francesco Melzo andasse ad Amboise, lo rilevo dall’estratto d’una procura
in lui fatta dal mentovato de Vilanis, che trovo fra le carte dell’Oltrocchi
senza nota donde l’abbia tratto.[134]
Fece il consigl. De
Pagave molte ricerche per sapere se in Amboise eravi di Lionardo e del sepolcro
suo qualche monumento o notizia; e n’ebbe in riscontro che non v’era nulla,
nemmeno ne’ registri della chiesa di S. Fiorentino, ove dev’essere stato
sepolto; il che attribuir si deve alle guerre distruttrici cagionate dagli
Ugonotti, che quel paese dopo pochi anni infestarono. Indicata però gli venne
come lavoro di Lionardo una tavola
alta sei piedi rappresentante Gesù Cristo inanti a Pilato: ma credesi da lui
disegnata soltanto, e dipinta da qualche suo scolare.
xxxii. Un esatto catalogo de’ suoi scritti, e
de’ suoi lavori non m’è possibile il darlo, e molto meno il tener dietro alla sorte
a cui soggiacquero, specialmente in questi ultimi tempi. Basterammi dare una notizia
delle cose nostre, e di quelle di cui trovo o da lui, o dagli scrittori della
sua vita, fatta certa menzione. Parlerò in primo luogo degli scritti suoi;
quindi de’ suoi lavori relativi alle arti del disegno, e delle pitture
singolarmente; e per ultimo di ciò che presso di noi riguardo alle acque
scrisse ed operò.
Egli medesimo nel Trattato della Pittura, ch’è il solo
libro suo sinora pubblicato colle stampe, molte sue opere annovera, altre come
già scritte, e che suppone fra le mani degli scolari o accademici, ai quali
esponeva i suoi precetti; e altre come già in sua mente ideate, delle quali preparati
avea, direm così, i materiali.
Il medesimo Trattato della Pittura che abbiamo, nel
codice Pinelliano di cui rendemmo conto,[135] vien così intitolato = Discorso sopra il disegno di Lionardo Vinci.
Parte saconda = sebbene contenga quanto hanno pubblicato Dufrèsne, e poscia
il sig. ab. Fontani valendosi del codice di Stefano Della Bella, a cui il
nostro è molto somiglievole, se non che ha i titoli de’ capi che a questo
mancano. Dunque il Trattato della Pittura
non è che una parte d’una grand’opera Sul
Disegno. La parte prima sarebb’ella il Trattato
della Prospettiva?
Questo già era
compiuto: egli sovente il cita nel Trattato
della Pittura, volendo che in esso cerchinsi le dimostrazioni di quanto
asserisce ne’ capi 81, 103, 110, 134, 315, 328. Vedesi ch’era diviso in capi, o
in libri, citandosene il secondo, il nono, e ’l decimo; e che questi comprendeano
molte proposizioni. Nel capo 134 colla proposizion
terza del decimo, prova che più o meno azzurre esser devono le ombre, a misura
che più o meno distante dall’orizzonte si dirige lo sguardo, e di questo colore
dell’ombre più volte ragiona, avendo così prevenute le osservazioni ingegnose
che sulle ombre azzurre de’ corpi fecer dopo due secoli Guericke, e poscia
Buffon, ed altri.[136] Di quest’opera parlò
senza dubbio Benvenuto Cellini nel suo Trattato sull’orificeria, e più
diffusamente ancora nel Discorso suo pubblicato dal ch. Morelli,[137] in cui dice » d’aver
comperato per 15 scudi d’oro un libro scritto a penna copiato da uno del gran
Lionardo da Vinci.... Infra le altre mirabili cose ch’erano in esso, si trova,
dic’egli, un Discorso della Prospettiva
il più bello che mai fosse trovato da altr’uomo al mondo. » Un esemplare di
questo libro esser potrebbe quel codice dell’Accademia Etrusca, che il Gori
trovò con questo titolo scritto in color rosso: Opinione di Leonardo da Vinci, e contiene: Modo di dipingere Prospettive, Ombre, Lontananze, Altezze, Bassezze, da
vicino e da lontano e altro, e Precetti
di Pittura. Pag. 291.[138] Vuolsi che del codice
vinciano siasi valso, senza indicarlo, il Serlio nell’opera sua di prospettiva.
Un altro libro suo, ch’ei
cita nel capo 196, come opportuno a vedervi la dimostrazione del rapporto
inverso fra l’alzamento delle spalle e de’ lati, e la velocità del moto, e il Trattato del moto locale, quello stesso
senza dubbio, che aveva in vista frate Luca Paciolo quando scrisse, che nel 1498
Lionardo lavorava » all’opera inextimabile
del moto, delle percussioni ec. «; e a quest’opera probabilmente riportansi
tanti suoi pensieri e postulati e teoremi e disegni, che ne’ suoi codici sparsi
si trovano, de’ quali alcuni pubbliconne il già lodato Venturi.
Al capo 234 prova per la nona De Ponderibus che l’uomo è
più potente nel tirare che nello spingere; dal che argomentasi che questo libro
già esistesse: e potrebbe anche dal titolo argomentarsi che l’avesse scritto in
latino.
Così al capo 278
scrive d’avere dimostrato nel libro de’ lumi e delle ombre, che lucidarsi non
possono le ombre per l’insensibilità de’ loro termini, Questo libro era uno de’
codici originali, che la biblioteca nostra possedeva.
Assai maggiore è il
numero di que’ libri che Lionardo nel Trattato
della Pittura, come opere non compiute ancora, ma già meditate, rammenta.
Oltre il Trattato del moto locale, egli al capo 212, annunzia un libro de’ movimenti, e nel 219 un libro de’ moti, ch’è forse lo stesso.
Importante per le descrizioni
e più pe’ disegni esser doveva il Trattato
d’Anatomia, che promette ne’ capi 171, e 231; e di cui a lungo già parlammo.[139] Così un Trattato particolare proponsi nel capo
204 Lionardo di scrivere de’ piegamenti, e voltamenti dell’uomo.
Un altro particolar libro promette nel capo 223
di comporre su alcuni muscoli, e nel
capo 227 propone di trattare de’ muscoli
tutti in generale.
Delle ponderazioni dell’uomo caricato con pesi
naturali, o accidentali, egli, nel capo 266, dice di voler fare un libro particolare.
Così nel capo 167 di
scrivere si prefigge dell’universal
misura dell’uomo; ma forse questo, anzichè essere un trattato, non era che
il disegno che or possiede il De Pagave, corredato d’opportuna spiegazione,[140] pubblicato già dal Gerli
nella Tav. 1.*
Per ultimo egli
annunzia nel capo 121 un’opera sulla mistione de’ colori, che lunga opera di grande utilità, e necessariissima
ei reputa, la quale comprender doveva la
teorica e la pratica.
Nacque sospetto a
Venturi, che d’alcune delle opere quì annunziate i materiali, non ordinati
ancora, fossero da qualche suo scolare inseriti poi nel Trattato della Pittura; e che a ciò attribuir si debba il
disordine, che in esso regna. Né, per alcuni almeno, senza fondamento è il
sospetto; e in me pur lo aceresce l’osservare che il codice pinelliano, in cui originariamente
i capi non erano numerizzati, è in certa maniera diviso in varj trattati, che
veggo indicati dal titolo che dassi in carattere maiuscolo ai capi
164 dei varii accidenti et movimenti,
242 dei moti,
322 della prospettiva lineale.
Oltre quest’opere da
Lionardo stesso nel Trattato di Pittura
mentovate, ch’egli abbia scritto un libro, o una dissertazione almeno, in cui
esaminava quale fra pittura e scoltura sia preferibile, ce lo dice Lomazzo,[141] che pur fa menzione del
libro suo Della Notomia del Cavallo,
smarritosi nel 1499 all’ingresso de’ Francesi in Milano.
Da ciò che raccontano
Vasari, Lomazzo, e Giraldi (e che superiormente già riferimmo) dell’uso che
avea Lionardo di copiare le fisionomie più significanti, cercando in esse non
solo le passaggere affezioni dell’animo, come la gioia e ’l dolore, ma anche i sentimenti
stabili, come la malvagità, la bontà, la grandezza de’ pensieri, possiamo
argomentarne ch’egli abbia formata nn’opera di Fisiognomica pe’ suoi scolari,
ai quali d’imitarlo su questo punto grandemente inculcava. Certo è almeno, ch’egli
ne ha disegnate le figure; molte delle quali erano in mano d’Aurelio Luino, ed
altre sparse ancor veggonsi fra i suoi disegni pubblicati e inediti, e sopra
tutto in que’ libricciuoli che portar soleva alla cintola. Non trovo però che
ai disegni abbia aggiunti gl’insegnamenti.
Molti libri scrisse,
dice il Vasari, » ne’ quali insegnò quanti moti ed effetti si possono
considerare nella matematica, e mostrò l’arte di tirare i pesi con facilità, de’
quali tutta l’Europa è piena, e sono tenuti in grandissima stima dagli intendenti
«.
Se nel Libro de’ disegni intorno al modo di
maneggiare ogni sorta d’armi sì per offesa che per difesa composto pel sig.
Alessandro Borro, e in quello de’ trenta
Mulini diversi, ch’era in mano di Mess. Ambrogio Figino, fossero uniti gl’insegnamenti,
Lomazzo, che di quelle opere vinciane fa menzione, nol dice; ma ben è probabile
che vi fossero almeno nel primo, per cui forse furon disegnate le armi
pubblicate dal Gerli,[142] giacche Lionardo pensava di darlo alla luce a
istruzione de’ combattenti.[143] Forse il secondo non
avea che brievi spiegazioni, quali veggonsi nel codice atlantico presso alcuni
mulini ed altri congegni, de’ quali parleremo. Quest’opera de’ mulini è forse
quello stesso libro d’Idrostatica, che dicesi venduto al sig. Smith inglese.
xxxiii. Che, oltre i libri di Lionardo fatti di pubblica ragione, o ad
altri da lui donati, e perciò mentovati dagli scrittori suoi coevi o vicini,
altri molti egli abbiane scritti, ben certi ne siamo noi, poichè tredici volumi
di varia forma e mole ne avevamo in questa biblioteca avanti l’anno 1796.
Alcuni erano in 16° e in 24° contenenti disegni e note; e questi erano que’ libretti
che il Vinci portar soleva
attaccati alla cintola per disegnarvi collo stilo d’argento, o scrivervi tutto
ciò che vedeva, o accadeagli, tlegno di serbarne memoria.
Che morendo ci
lasciasse molti libri e disegni suoi a Messer Francesco Melzi, già lo vedemmo
nel suo testamento. Narra il Dufrèsne,[144] cui tutti poi copiarono
i biografi del Vinci, come i
codici suoi siano stati rubati agli eredi di Melzi, restituiti, e quindi donati
a Mess. Giannambrogio Mazzenta; ma giova copiarne il medesimo ragguaglio che
questi ci lasciò scritto; e che il ch. Venturi, aveudol trovato in fine del
codice che servito aveva alla prima edizione del Trattato della Pittura, tradusse in francese. Io lo rendo alla
lingua originale. » Vennermi alle mani, scriv’egli, son’ornai 50 anni,[145] tredici volumi di Lionardo
da Vinci in folio e in 4.° scritti a rovescio; e ’l caso me li fe’ capitare nella
seguente maniera. Io studiava le leggi a Pisa in compagnia del giovane Aldo
Manuzio grand’amator di libri. Certo Lelio Gavardi d’Asola, preposto di san Zeno
a Pavia, e parente stretto di Aldo, venne in nostra casa. Egli era stato in Milano
maestro di belle Lettere in casa de’ Signori Melzi, che chiamansi di Vavero (Vaprio)
per distinguere questa da altre famiglie Melzi della stessa città. Egli avea veduti
nella lor casa di campagna a Vaprio molti disegni istromenti e libri di Lionardo.....
Francesco Melzo (suo scolare ed erede) erasi avvicinato piucchè altri alla
maniera del Vinci: lavorò poco perchè
era ricco; ma i suoi quadri sono ben finiti, e sovente confondonsi coi lavori
del maestro... Egli, morendo, lasciò le opere di Lionardo nella sua casa di Vavero
ai suoi figliuoli, che avendo differenti gusti e impieghi, negligentarono que’ tesori,
e ben presto li dispersero. Lelio Gavardi ne prese ciò che gli piacque. Ne portò
13 volumi a Firenze, sperando di ricavarne buon prezzo dal gran duca Francesco,
che volonteroso era d’acquistare simili opere; tanto più che Lionardo era molto
stimato nella sua patria. Ma all’arrivo del Gavardi a Firenze il principe morì,[146] ond’egli sen venne a
Pisa. Io non potei astenermi dal disapprovare la sua condotta: egli arrossinne;
e poichè io, avendo colà terminati gli studj, dovea tornare a Milano, mi
consegnò i volumi del Vinci, pregandomi di restituirli ai Melzi. Io feci
lealmente la sua commissione, e ’l tutto li portai al sig. Dott. Orazio capo
della famiglia Melzi, che fu ben sorpreso perchè io mi fossi preso tanto
incomodo; e regalommi que’ libri, dicendomi che molti altri disegni aveva dell’autor
medesimo, negligentati da lungo tempo in un angolo della sua casa di campagna.
Così que’ libri divennero miei, e poscia de’ miei fratelli.[147] Vantandosi questi di
tale acquisto fatto sì facilmente destarono l’invidia d’altri amatori, che
portaronsi al dottor Orazio, e n’ebbero de’ disegni, delle figure, delle
preparazioni anatomiche, ed altri preziosi avanzi dello studio di Lionardo. Un
di que’ che più n’ebbero fu Pompeo Aretino figliuolo del cav. Leoni scolare di Bonarotti,
ch’era al servigio del re di Spagna Filippo ii,
per cui avea fatti tutti i bronzi che sono all’Escuriale. Pompeo promise al
dottor Melzi un posto nel Senato di Milano, se riusciagli di riavere i tredici
volumi, volendo offerirgli al re Filippo che di tali curiosità era amatore.
Lusingato da questa speranza il dott. Orazio andò a mio fratello, pregandolo in
ginocchio di rendergli il fattogli regalo; e poichè gli era collega, amico, e
benefattore gliene rendè sette. Degli altri sei che restarono alla casa
Mazzenta uno ne fu donato al card. Federico Borromeo per la biblioteca ambrosiana[148].... Un altro ne diede
poi mio fratello ad Ambrogio Figini, che lasciollo al suo erede Ercole Bianchi
col resto del suo studio.[149] Per la premura fattami
dal duca di Savoia un terzo a lui pure ne procurai.[150] Essendo poi morto mio
fratello fuor di Milano[151] pervennero anche gli
altri tre volumi alle mani di Pompeo aretino, che altri disegni e scritti di
Lionardo v’unì, e separandone i fogli ne formò un grosso volume[152] che passò al suo erede
Polidoro Calchi, e fu poi venduto al sig. Galeazzo Arconati. Quest’uomo
generoso lo ha tuttavia nella sua ricca biblioteca, avendo ricusato di venderlo
al duca di Savoia, e ad altri principi che ’l ricercavano ». Fin quì il P.
Mazzenta, delle cui notizie si valse Dufrèsne senza dire donde le avesse
tratte. È probabile che i volumi chiesti dal Leoni pel re di Spagna siano quì rimasti,
e venduti pur essi all’Arconati, che di undici volumi vinciani oltre il codice
atlantico, come già s’è detto, ci ha fatto generoso dono. Alla biblioteca
nostra fu pur donato nel 1674 dal conte Orazio Archinto un volumetto di scritti
e disegni vinciani, del quale feci più volte menzione.
Quali notizie e
disegni contenesse ciascuno de’ volumi ora rammentati, io non so dirlo, non
trovandone da nessuno fatta una precisa nota, forse per la varietà e ’l disordine
delle cose in essi contenute. Nello stromento della donazione fattane dal conte
Galeazzo Arconati alla biblioteca ambrosiana nel 1687 ai 21 di Gennaio, trovo
bensì registrati i dodici volumi col numero delle pagine di ciascuno, e coll’indicazione
d’alcuno degli oggetti ivi in disegno o in iscritto contenuti; ma ciò è ben
lungi dal darci un’idea di tutto quello, che scritto aveva o disegnato Lionardo in que’ libri. Dalle note dell’Oltrocchi
sol rilevo che uno trattava Della luce e
delle Ombre, un altro Della Prospettiva,
uno Del Canale della Martesana, e uno
Del volo degli uccelli, e altre cose;
ma egli, non cercando allora, per servire alle viste del conte Rezzonico, se
non notizie storiche intorno alle epoche di Lionardo
e ad alcuni suoi particolari lavori, non pensò a darci di que’ codici un transunto.
xxxiv. Ma, poichè il ch. Venturi, dopo d’avere
esaminati a suo agio i codici vinciani trasportati in Parigi, proponsi di pubblicare
in tre compiuti Trattati tutto ciò che il Vinci
ha fatto e scritto sulla Meccanica, sull’Idrostatica, e sull’Ottica,[153] convien dire che, se non
i trattati medesimi ben ordinati, almeno tutti i materiali per iscriverli, ei v’abbia
trovati.
Egli osservò, come un
risultato della lettura di tutti que’ codici, che » lo spirito geometrico guidavalo
in tutti i suoi studj, o volesse analizzare un oggetto, o volesse concatenare
un ragionamento, o generalizzare le proprie idee. Egli sempre volea che l’esperienza
precedesse il ragionar sulle cose. Tratterò,
dic’egli stesso, tal argomento; ma dianzi
farò alcuni sperimenti, essendo mio
principio di citar prima l’esperienza, e poscia dimostrare perchè i corpi sono
costretti ad agire in tale o tal altra maniera. Questo è il metodo da
osservarsi nella ricerca de’ fenomeni della natura. Vero è che la natura
comincia col ragionamento, e termina colla sperienza; ma non importa: convienci
tenere la strada opposta: dobbiamo, come dissi, cominciare dall’esperienza, e
per mezzo di questa scoprirne la ragione. Così parlava Lionardo un secolo avanti Bacone. In
Meccanica egli conoscea fra le altre cose la teoria delle forze applicate obbliquamente
al braccio della leva: la resistenza rispettiva delle travi: le leggi dello
strofinamento dateci in seguito da Amontons: l’influenza del centro di gravità
sui corpi in riposo o in moto: l’applicazione del principio delle velocità
virtuali a molti casi che l’analisi sublime ha generalizzati a dì nostri. Nella
Ottica egli descrisse la così chiamata Camera ottica prima di Porta: spiegò
prima di Maurolico la figura dell’immagine del sole in un foro angolare: e
insegnò la prospettiva aerea, la natura delle ombre colorate, i moti della
iride, gli effetti della durata della impressione visibile; e molti altri
fenomeni dell’occhio che non trovansi in Vitellone. In somma il Vinci non solo
aveva osservato tutto ciò che Castelli ha scritto un secolo dopo di lui sul
moto delle acque; ma sembrami di più, che il primo abbia in questa parte
superato il secondo, che pur l’Italia ha sinora considerato come il fondatore
dell’Idraulica. Possiamo dunque collocar Lionardo,
conchiude Venturi, alla testa di quelli, che fra i moderni si sono occupati
delle scienze fisico-matematiche, e del vero metodo di studiare. »
xxxv. Ecco un brieve transunto de’ frammenti
che questo illustre Fisico, e savio Ministro, copiò da suoi codici, e rischiarò
dando al tempo stesso un saggio del suo ingegno e del suo sapere. Alcune poche
analoghe notizie aggiugnerovvi pur io.
1. Della discesa de’ gravi combinata colla
rotazione della Terra. S’attribuisce al Card. Cusano, nel principio del
secolo xvi, l’aver richiamata la
sentenza degli antichi Astronomi, che avveduti s’erano del girare del nostro
globo terracqueo intorno a se stesso e al sole; ma vedesi da quest’articolo, scritto
circa il 1510, che tale pur era l’opinione del Vinci:
e pare che ’l fosse in generale de’ migliori indegni di que’ di, quasi 40 anni
prima che Copernico la pubblicasse.
2. Della Terra fatta in pezzi. Osserva che
questi pezzi, cadendo dall’alto dell’atmosfera verso il centro, cadrebbono di
là, indi tornerebbono indietro oscillando per lungo tempo, come un peso
attaccato ad una corda, che non perde il moto se non lentamente. Vedesi da ciò
ch’egli ha conosciute le leggi della forza d’inerzia; ed ebbe sin d’allora
quell’idea di cui fanno uso oggidì gli Astronomi per ispiegare l’oscillazione de’
pianeti da un apside all’altra delle loro orbite.
3. Della Terra, e della Luna. Egli s’avvide
che la scintillazione delle stelle non è nelle stelle medesime, ma nel nostr’occhio:
verità, che non avea conosciuta nemmeno Keplero, quantunque grande fisico ed
astronomo, che visse un secolo dopo Lionardo.
Osserva quindi che la Terra, ricevendo la luce dal sole, serve di luna alla
luna medesima, e n’ha a un dipresso le fasi; e se ne’ primi dì della luna nuova
ne veggiam anche la parte oscura, ciò nasce, dic’egli, dal riflettere che fa la
terra i raggi solari: verità che credeasi scoperta da Moestlim un secolo dopo Lionardo.
4. Dell’azione del sole sull’Oceano. Pensa Lionardo che in conseguenza di questa
azione l’occano equinoziale s’inalzi, e l’acqua, cadendo dal due lati verso i
poli, ristabilisca l’equilibrio. Halley sul finire del secolo xvii ha applicato questo principio ai
movimenti dell’atmosfera, e ai venti etesii, o regolari.
5. Dello stato antico della Terra. Era Lionardo un buon osservatore orittologo.
Vide gli strati di conchìglie marine in mezzo alla terra-ferma, e sui monti, ne’
quali pur vide degli ammassi de’ ciottoli fluitati; e argomentonne (e il primo
fu fra i moderni filosofi che sì rettamente ragionasse su quest’oggetto) che il
mare siasi a poco a poco ritirato, mentre la terra, che le acque portavano giù
da monti formando nella loro discesa le vallate, andava in istato di fango a
coprire i corpi marini, il qual fango indurissi poi e cangiossi in sasso. Egli
pensa che il fondo del mare in cui stanno i corpi marini, che poi si petrificano,
possa sollevarsi, col precipitare de’ corpi più pesanti verso il centro della
terra. Se questa opinione non è ben certa, può stare almeno con molte altre
congetture che i filosofi formarono; e mostra che Lionardo ha considerata la cagion del fenomeno in una
maniera conforme al meccanismo della gravitazione.
6. Della fiamma e dell’aria. Lionardo dice d’una maniera chiara e
precisa, che la fiamma si nutre d’aria; che ardendo la consuma; che della nuova
aria sottentra, onde si produce intorno alla fiamma una continua corrente d’aria,
un vento; che se nuov’aria non v’è, la fiamma muore; che lo stesso succede se l’aria
è tale, che un animale non possa respirarla; che v’è del fumo nel centro della
fiamma, perchè l’aria non può penetrarvi ec. Or chi non vede in ciò, che Lionardo ha di quasi tre secoli
precedute le teorie de’ moderni Chimici e Fisici intorno alla combustione, e
all’identità dell’aria vitale coll’aria del fuoco come la chiama Schede? Magow
ed Hook appena aveano sospettato sul finire del secolo xvii, ciò che avea penetrato e chiaramente esposto il Vinci a principio del xvi; ed avea, diremo così, indicata la
teoria della lampa d’Argand.
7. Della Statica. Con figure opportune
determina Lionardo l’azione della
leva, e specialmente della leva obbliqua.
8. Della discesa de’ gravi per un piano inclinato.
Quì Lionardo prova che la discesa
de’ gravi si fa più presto per un arco di cerchio che per una retta; e sebbene
siasi poi dimostrato che la cicloide è la curva della discesa più veloce, pur Venturi,
nella nota ivi annessa, prova con un suo teorema, esservi nell’arco circolare
un minimo di tempo di discesa.
9. Dell’acqua che si deriva da un canale,
intorno alla quale osserva Lionardo,
che quattordici son le cagioni, le quali possono farne variare la quantità che esce
da una data luce, o apertura; cioè l’altezza dell’acqua nel canale; la velocità
con cui in esso corre, la convergenza delle pareti, e la loro grossezza
medesima; la forma dell’apertura, la sua obbliquità, l’inclinazione all’orizzonte
ec. Pare da quanto ci lasciò scritto, che non abbia dimenticata nessuna delle
cagioni che in ciò influiscono; ma, non avendo egli il soccorso dell’analisi
moderna, non potè calcolare la quantità dell’azione di queste cagioni; quantità
però che nemmeno hanno pienamente determinata i moderni Idrostatici. Forse,
siccome già osservammo, egli fu indotto a fare queste ricerche, perchè si
mettesse un freno alle usurpazioni dell’acqua de’ nostri due canali navigabili.
10. Dei vortici d’acqua. Cerca Lionardo come mai, ne’ vortici che forma
l’acqua, essa sostiensi, lasciando in mezzo un vuoto ? Osserva del fenomeno tutte
le particolarità, e conchiude ciò succedere, perchè l’acqua ha due gravità (cioè due forze) una prodotta dal moto circolare, e l’altra
dal proprio peso: per la prima sostiensi, perchè ogni corpo pesa, dic’egli,
nella direzione del proprio moto, e per
la seconda precipita.
11. Della Visione. Molto ed eccellentemente
ha trattato questo punto il Vinci
nelle mentovate sue opere Della Pittura,
della Prospettiva, della Luce e delle
Ombre; ma Veutari due importanti ritrovati d’ottica vide ne’ suoi scritti.
Benchè Lionardo non faccia
menzione della Camera ottica, pur sì bene ne descrive la costruzione e gli effetti,
che a lui anzichè ad altri è chiaro doversi di questa macchina l’invenzione.
Parlando poi d’oggetti lontani dice che può farsi in modo che la lontananza non
gli impiccolisca; il che ottiensi, dic’egli, tagliando le piramidi che vengono
dall’oggetto all’occhio prima che all’occhio
arrivino, cioè con
qualche cosa d’equivalente alle lenti del telescopio; onde sembra ch’egli, come
Roggero Bacone, abbia in qualche maniera traveduto questo stromento, eseguito
poi dal Galileo. Aggiungasi che al fol. 247 del cod. atlant. v’è un
cannocchiale disegnato.
12. Dell’Architettura militare. Osserva Lionardo che, essendo cresciuta di ¾ la
forza della artiglieria (pel ritrovato della polvere), così proporzionatamente
deve acerescersi la resistenza e quindi la grossezza delle muraglie: le quali
pur devono avere de’ contrafforti e dietro di questi molta terra per resistere
alle bombarde, cioè ai cannoni. Indica il luogo e ’l modo di fare i rivellini,
aggiugnendo ai precetti i disegni, dai quali pare ch’egli avesse in vista il
castello di Milano a un dipresso quale è ora dopo lo smantellamento delle esrene
fortificazioni che v’erano state fatte dagli Spanuoli. Insegna il modo di
fabbricare le fortezze sui monti; e quello che più interessa, di dar le mine
per far saltare in aria le fortificazioni. È certo, dice Venturi, che
paragonando ciò che scrisse Lionardo,
con quello che sull’arte della guerra scrissero dopo di lui, e disegnarono
Machiavelli,[154]
e Alberto Durero,[155] ben iscorgesi che assai
maggiori lumi, e più giuste idee sull’arte di offendere e di difendersi aveva
il primo: nè, dopo ciò, più ci farà maraviglia che a suo Architetto e Ingegnere
militare scelto l’avesse il duca Valentino.
Non vuolsi pretendere
che Lionardo l’inventor fosse
delle mine e de’ mortai da bombe, poichè di quelle, e di questi parlasi in un
codice della biblioteca nazionale di Parigi veduto ed esaminato da Venturi medesimo,[156] e scritto da Paolo
Santini lucchese circa l’anno 1449. Sembra che Lionardo
abbia aggiunto all’arte di minare una fortezza l’artifizio d’avvicinarvisi per
mezzo della strada coperta che ha delineata, e che veggo pur indicata al num. 5
della sua lettera a Lodovico Sforza;[157] e che alla bomba abbia
aggiunto il getto delle sostanze pungenti fiammeggianti fumose e puzzolenti,
che vedonsi indicate nel bel disegno da lui lasciatoci nel codice atlantico;[158] se pur ciò non aveva
anch’egli appreso da alcuni viaggiatori che narravano d’aver vedute simili
bombarde nelle Indie, ma non erano creduti.[159]
xxxvi. In un sol. capo parleremo de’ varj
stromenti, congegni, e macchine da Lionardo
immaginati. Solo alcuni pochi ne rammenta Venturi, e sono. Un compasso di proporzione
col centro mobile, che può anche servire a fare un’ovale avente una data
proporzione a un dato circolo; e di questo compasso egli dà un disegno,
interamente simile ai compassi a centro mobile usati oggidì - Uno stromento
atto ad indicare la costituzione e la densità dell’aria. Alla figura che ne dà
sembra essere una specie d’igrometro, in cui v’è un’asta in bilico con due
corpi alle estremità, de’ quali uno più suscettibile dell’umidità aerea
inclinavasi, scorrendo su una porzione di cerchio in cui segnati erano i gradi.
Un altro disegno vinciano di analogo igrometro copiò già il mio collega Mussi
dal codice atlantico. In questo l’asta sostenente le bilance serve di base a un
triangolo equilatero che al vertice è sostenuto su perno sottile, o su angolo
tagliente, da cui pende un filo a piombo, che segna sull’asta i gradi or a
destra or a sinistra, a misura che l’umidità fa pesare e quindi abbassare l’asta
da un lato, e la siccità dal lato opposto. Sotto una delle bilance v’è scritto:
banbagia, e sotto l’altra: cera; perchè la prima attrae l’umido
aereo e ’l perde, e la seconda il ricusa. Sotto lo stromento leggesi: modo di vedere quando si guasta il tempo.
Vedi la Tav. iii fig- 9. Non v’è,
che si sappia, chi prima di Lionardo
agli igrometri abbia pensato; e solo un secolo e mezzo dopo di lui, Santorio,
avvedutosi dell’azione dell’umidità sulla corda, pensò a fare un igrometro -
Una specie di maschera o d’elmo, con cui nel mare delle Indie l’uomo va in
fondo al mare a pescare le perle, il quale gli copre il capo interamente, e
guernito essendo di spine lo difende da grossi pesci. Ha de’ vetri agli occhi
per vedervi; e in bocca un tubo pieghevole sostenuto all’estremità fuor d’acqua
da un disco di sughero sormontato da un cannello comunicante col tubo, affine
di respirare. Più d’una volta egli disegnò sì fatte maschere, e due disegni n’ha
copiati, e incisi Gerli,[160] uno de’ quali pur quì si
dà nella Tav. ii. fig. 4, presso
cui veggonsi scritte a rovescio, come nell’originale, le parole dandar sottoacqua, sughero, channello. Nella
figura 5, copiata pure dai disegni di Lionardo,
vedesi l’uomo galleggiante dal petto in su, mediante un otre o budello gonfio, detto
baga da nuotare da Lionardo,[161] equivalente al moderno
scafandro, che l’uomo pel minore peso specifico sull’acqua sostiene. Un altro
nuovo e più strano modo di camminare sopra l’acqua immaginò Lionardo e disegnollo, qual vedesi nella
fig. 3 della Tav. ii., scrivendovi
a lato: modo de chaminar sopracqua.
Se sia questo eseguibile o no, altri sel vegga.
xxxvii. E non solo nell’elemento destinato a
pesci voleva il Vinci che l’uomo
vivesse e facesse cammino, ma ben anche per le vie degli uccelli e de’ venti.
Non conoscendosi ai tempi suoi il peso dell’aria, nè la maniera di grandemente
rarefarla, nè i gas più leggieri dell’aria stessa, non peusò a volare se non
imitando gli uccelli, col battere e remigar delle ale. Avendo quindi i varj
uccelli e’l volar loro esaminato,[162] trovò esser l’ala del pipistrello
più facilmente imitabil d’ogni altra, e più adattabile all’uomo. Quindi un’ala
di tal forma disegnò ingegnosissima, canne adoperando come più leggere delle
verghe, la quale per mezzo di cordicelle e di carucole facilmente s’allarga, e
si strigne;[163]
disegnò poi un macchinismo adattabile all’uomo, che di simili ale voglia
fornirsi, e valersi;[164] disegnò l’uomo di quel
congegno rivestito,[165] indicando colla
scrittura a rovescio il luogo ove dee posare il petto, il modo di torcer l’ala, di calarla, di girarla, di levarla, di tenere i piedi, l’uno alzando,
e abbassando l’altro alternamente, e
per ultimo di stugnere ossia calare
le ale inverso i piè dell’uomo.
Disegnò persino un batello a cui, in luogo di remi, delle larghe ali d’applicar
pensava.[166]
I due gran remi che il C. Zambeccari sul finire dell’anno scorso applicò alla
sua macchina aerostatica, dell’effetto delle ali vinciane, benchè non ne
avessero la forma, poteano dare un’idea.
Vasari e Lomazzo
fanno pur menzione di certi uccelli formati da Lionardo
di cera sì sottile e leggera, che con un soffio per lungo tratto d’aria li
facea volare, come se vivi fossero.
Secondo Venturi Lionardo conobbe la verga del bilanciere
negli orologi descrivendola come un bastone, che ingranando alternamente i
denti d’un lato d’una ruota e gli opposti, produce un moto non interrotto.[167]
xxxviii. Di molti congegni servibili alle arti
egli fu l’inventore, e ce ne ha lasciati i disegni, che dal cav. Leoni
collocati furono nel codice atlantico, e che quì brevemente accenneremo.
1. Una semplicissima
macchina idraulica, cioè un soffietto comune che alzandosi forma un vuoto, in
cui l’acqua, compressa dal peso dell’aria, sale a riempierlo pel foro munito di
valvola, e abbassandosi fa uscir l’acqua pel tubo del soffietto medesimo; e
questo in altro disegno ha raddoppiato per avere un getto continuo.[168] Vi veggiamo delle
fontane, e varie trombe[169] per sollevar acqua oltre
le accennate, or a sacco, e a lampione, or colle norie, cioè con secchie
attaccate a fune perpetua,[170] or co’ vapori.[171] Immaginò pur barche a
ruota che andassero contr’acqua.[172]
2. Il Gerli (Tav. xlii) ci ha dato, copiandolo dal gran
codice, il disegno del girarrosto mosso pel calore della fiamma e dal fumo, o
piuttosto dall’aria che il fuoco fa salire pel fumaiuelo: e questo è il vero modo (d’arrostire) imperocche secondo chel foco è temperato o forte va adagio o presto.
Così ha scritto accanto al disegno suo disegno Lionardo
istesso.
3. Così avesse il Gerli
copiato il disegno dello strettoio da olio costruito su buoni principi, onde,
mediante una vite, girata prima per man d’uomo, indi con un cavallo attaccato
alla leva maggiore talmente comprime
la pasta oleosa che promettoti, scrisse
presso al disegno Lionardo, chelle ulive si serreranno sì forte chelle
rimarranno quasi che asciutte; ma sappi chesto strettoio vol essere molto più
forte.[173]
4. Moltissime poi
sono le sue invenzioni per facilitare de’ lavori meccanici, cioè un telaio da
far nastri[174]
un congegno da torcer fili,[175] una gran cesoia,[176] una macchina da formar
lime,[177]
gualchiere, martelli, mazze per gettare corpi lontani mediante una leva ec. Una
macchina pur ha immaginata, che in qualche bottega ancor vedesi, di far il cervellato milanese, mescendone
agevolmente e compiutamente gl’ingredienti. Lomazzo fa menzione d’alcuni suoi
orivoli ad acqua, e collo svegliarino; e d’un torno col quale facea pur le
forme ovate.
5. Ci ha lasciato
scritto il seguente metodo per comporre le forme in cui gittare le medaglie: Polvere da medaglie. Stoppini inchonbustibili
di fungo ridotti a polvere. Stagno brusato e tutti i metalli. Alume schagliolo.
Fumo di fucina da ottone. E ciaschuna cosa inumidisci con agreste o malvagia o
acieto forte di bon vino bianco, o della prima acqua di trementina distillata,
o holio puro che poco sia inumidita, e gitta in telaroli.[178]
6. Per aver olio
puro, cosa per Lionardo
importantissima, due metodi ci lasciò nel codice atlantico. Uno è al fol. 4 = Le noci sono fasciate da una certa
bucciolina che tiene della natura del mallo: se tu non le spogli quando ne fai
l’olio, quel mallo si parte dall’olio, e viene in sulla superficie della
pittura, e questo è quello che la fa cambiare. L’altro metodo ancor più
ingegnoso e preciso ha copiato e tradotto Venturi dalla pag. 108 del cod.
medesimo, ed io quì lo ritorno in italiano. Scegli
le noci più belle, cavale dal guscio, mettile a molte nell’acqua limpida in
vaso di vetro, sinchè possi levarne la buccia: rimettile quindi in acqua pura,
e cangiala ogni volta che la vedi intorbidarsi, per sei e anche otto volte.
Dopo qualche tempo le noci, movendole, si disfanno e stempransi formando quasi
una lattata, Mettile in piatti all’aria aperta; e vedrai l’olio galleggiare
alla superficie. Per cavarlo purissimo e netto prendi stoppini di bambagia che
da un capo stiano nell’olio, e dall’altro pendano fuori del piatto, ed entrino
in una caraffa, due dita sotto la superficie dell’olio ch’è nel piatto. A poco
a poco l’olio filtrandosi per lo stoppino cadrà limpidissimo nella caraffa, e
la feccia resterà nel piatto. Tutti gli olj in se stessi son limpidi, ma gli
altera la maniera d’estimarli.
xxxix. Nel decorso della vita di Lionardo più d’una volta parlammo de’ suoi
disegni d’architettura. Non v’ha dubbio ch’egli già ben l’avesse studiata
avanti di venire a Milano, e che pur quì se n’occupasse alacremente, attesa l’amicizia
che strettissima aveva con frate Luca Paciolo, il quale, architettura quì insegnò,
specialmente per richiamare a veri principj vitruviani l’arte di fabbricare
guastata da tedeschi, come provanlo le opere sue. Se questi chiama Lionardo pittore e architetto, come pur
lo chiamano Vasari, e Lomazzo convienci ben dire che tale ei fosse. Che più ?
lo dice egli medesimo nella lettera scritta a Lodovico il Moro[179] in cui si offre di sodisfare a parogon d’ogni altro in architettura,
in composizione d’edificj pubblici e privati. Tale pur dimostranlo molti suoi
disegni rimastici. Già notai gli edfiicj ch’ei copiò, viaggio facendo nel 1502,
come architetto e ingegnere generale del duca Valentino.[180] Nel codice atlantico v’è
il disegno d’un anfiteatro del chiostro di S. M. in pertica di Pavia, e della
cupola della nostra metropolitana. Nel codice segnato S. in 4.° v’è disegnata
la doppia chiesa, cioè superiore e sotterranea di S. Sepolcro; e di un’altra
chiesa ha pubblicato il disegno suo il Gerli.[181] Il prospetto poi
veramente finito d’un bel tempio a foggia d’una rotonda a quattro facciate e
rispettivi atrii egli pur ci lasciò, e lo diamo quì inciso.[182] Parlammo già del suo
disegno d’una magnifica stalla o pel Sanseverino servisse o pel duca. Certo è
altresì che molto d’architettura dovè occuparsi nel disporre le molte feste per
nozze, per trionfi, per esequie, ch’egli immaginò e diresse: e ben è probabile
che disegno suo fosse quell’arco trionfale, che dietro al castello eretto s’era,
o ergersi dovea, per collocarvi sotto la statua equestre di Francesco i Sforza, del qual arco fa menzione
Lancino Curzio[183] in questi versi:
.
. . .
. . .
. .Arcus
Ipse triumphalis jam designatus equestris
Excepturus Heri fulgentia signa colossi.
xl. Di questo colosso già molto s’è detto, ond’argomentare quanto ei
fosse abile plasticatore e statuario. Ch’egli abbia scolpito in marmo nessun
cel dice; ma certo è che ottimi precetti egli dà anche per questa maniera di
lavoro nel capo cccli del Trattato della Pittura, e che anche per
lavorare in marmi si offerì a Lodovico il Moro.[184] Quale eccellente plasticatore
egli è commendato dal Paciolo, dal Vasari, e dal Lomazzo,[185] il quale gloriavasi d’avere
nel suo studio » una testicciuola di Cristo fanciullo fatta dal Vinci, nella
quale si vedeva la semplicità e purità accompagnata da sapienza intelletto e
maestà «. Il nostro card. Borromeo, nel ragguaglio delle pitture ond’era ricca
la sua galleria da lui unita alla biblioteca, parlando del quadro (che or è a
Parigi) dipinto dal Luino sul disegno del Vinci,
scrive che a giorni suoi vedeasi ancora formato in creta il Bambino che aveagli
servito di modello.[186]
Che del mentovato
colosso avesse il Vinci fatto
prima il modello in cera cel dice Vasari.[187]
E v’è pur chi vuole
che di due statue colossali di Francesco i
abbia Lionardo fatto il modello;
equestre l’una da porsi sotto l’arco di cui sopra parlammo, e giacente l’altra
da collocarsi sulla sua tomba. A questa vuole il Sassi che riportisi un
epitafio ch’egli copiò da un codice nostro, in cui fra gli altri versi leggesi:
Quisquis colosson Principis vides: asta.
. . .
. . . opus
Leonardi
Vinci. Vidisti? abi hospes et gaude.[188]
Già notammo che il
valente statuario Francesco Rustici fu ajutato co’ consigli, e coll’opera da Lionardo per alcune statue in bronzo da
lui gittate;[189]
e v’ha pur chi scrive che questi gliene facesse il modello. Recammo pure la
lettera in cui egli non solo tiensi per valente statuario in bronzo, ma dicesi
l’unico che allor fosse in Lombardia.[190]
Era altresì principio
suo che il buon pittore dovesse molto lavorare in gesso onde’ copiare dai
lavori di rilievo per dare giusti i lumi e le ombre alle figure; e di fatti
convengono tutti quelli che de’ progressi della pittura hanno scritto, essere stato
il primo Lionardo che per questo mezzo
seppe dare alle figure il giusto ribalto, e nessuno seppe poi superarlo.
xli. Più difficil cosa è l’annoverar le pitture di Lionardo; e più ancora i suoi disegni.
Egli dipinse sul muro, sulla tavola, sulla tela, e sulla carta. Comincerò dalle
prime.
Fra le pitture tutte
di Lionardo tiene il primo luogo il
Cenacolo delle Grazie, di cui abbastanza s’è ragionato;[191] come rammentaronsi i
ritratti dipinti sull’opposta parete di Lodovico e Beatrice, e de’ loro
figliuoli;[192]
e la figura del Salvatore che venne dopo pochi anni distrutta, perchè dipinta sopra
una porta che si volle dilatare.[193]
Alla Canonica di
Vaprio in casa de’ Melzi dipinse il proprio volto sul fianco d’una finestra;[194] e in Vaprio la
gigantesca immagine di Maria Vergine, che tuttora vi s’ammira, nella cospicua
casa de’ Melzi medesimi.[195] Le dipinture da lui fatte
nel Castello di Milano[196] furono, al riferire dell’Arluno,
tutte distrutte nel 1499.
Abbiamo pur notizia
che a Roma una pittura a olio sul muro abbiaci lasciata in S. Onofrio
rappresentante la B. Vergine col Bambino.[197] È gran danno che di
tutti questi dipinti vincieschi appena ci restino gli avanzi.
xlii. Lunghissimo e difficil catalogo converrebbe
formare se tutti volessersi qui ricordare i quadri in tavola che sono, o pretendesi
che siano stati dipinti dal Vinci.
Rammenterò quì i più noti, e specialmente
quelli, che diconsi essere in Milano. Il Lettore sarà ben persuaso non esser
possibile l’aver contezza delle tavole tutte del Vinci, e quindi il noverarle; onde ben sono scusevole se
parecchie, perchè da me ignorate, su questo catalogo s’ommettono; o s’indicano
ne’ luoghi ove più non sono, giacchè in questi ultimi tempi i monumenti dell’arte,
come le ricchezze e i regni, cangiaron signore. Egli sentirà ugualment, quanto
il sento io, che, ove un quadro per tradizione popolare o domestica dicesi di Lionardo, perigliosa cosa è raffermarlo come
il negarlo.
È noto altronde
presso gl’intelligenti di pittura, che molti quadri della scuola di Lionardo da chi li possiede a lui
vogliono attribuirsi; come sappiamo che scolari egli ebbe molti e valenti.
Eccone i nomi, tratti in parte dalle sue stesse note, e in parte dai Biografi.
Francesco Melzi - Andrea Salaino - Marco Oggiono - Giannantonio Beltraffio -
Cesare da Sesto - Pietro Ricci detto Gianpedrino - Lorenzo Lotto - Nicola
Appiano - Bernardino Faxolo - Bernazzano - Fanfoia (Forse Soviano rammentato
dal P. Resta) - Galeazzo - Jachomo. Bernardino Luino non fu propriamente suo
scolare, ma dipinse sui suoi principi, molto studiollo, e n’ebbe de’ disegni e
de’ cartoni che eccellentemente colorì, dando alle figure grazia e morbidezza
maggiore di quella che data non gli avrebbe Lionardo istesso. Ciò ben vide l’immortale
Fondator nostro che in una tavola del Luino da lui comperata a gran prezzo (quam satis magno auri pondere emimus)
osservò che il disegno veramente squisito era opera di Lionardo; ma il Luino ciò che dargli poteva di bellezza e di
pregio aggiunto v’aveva, cioè una certa soavità e pia tenerezza nell’espressione,
nelle movenze, e nelle arie di testa. È stata portata a Parigi. Ciò premesso,
ecco l’indicazione delle Tavole.
Nella galleria della
nostra biblioteca, ch’era il Museo
del card. Fondatore della medesima, non abbiamo più tutto quello che avevamo;
ma ci resta ancora il ritratto d’un dottore di cui s’ignora il nome; quello
della duchessa Beatrice, e forse quello pure del duca Massimiliano di cui parlossi
alla pag. 111; e di cui un altro ve n’ha nella galleria Melzi. Oltre questi
ritratti v’è un S. Giovambattista, mezza-figura.
V’ha di lui nella galleria
delll’arcivescovato una tavola colla B. Vergine e ’l Barnbino; opera non fiita.
Un’altra bella e
finita tavola, rappresentante lo stesso soggetto, la quale era dianzi alla
Madonna di campagna di Piacenza, ammirasi ora nel palazzo Belgioioso.
Rappresenta la stessa
Vergine una tavola ch’è nella galleria del palazzo Litta, Visconti, Arese,
della prima maniera di Lionardo, a
cui pur viene attribuito un san Giovambattista della stessa galleria, il quale
però da alcuni vuolsi dipinto da Cesare da Sesto sul cartone del Vinci.
Così sul cartone del
suo maestro dipinse Salaino il quadro di S. Anna ch’è nella sagristia di S.
Celso.
Una bella Madonna pur
riputata di Lionardo quì portata ha
da Roma la sig. march. Vittoria Lepri.
Un’altra bella
immagine di M. Vergine ha il sig. can. Foglia.
Parlossi già di simil
quadro fatto per l’amica del duca Lodovico Cecilia Gallarani; ma esso, malgrado
il giudizio di qualche valente pittore, potrebbe, secondo altri, ben essere
lavoro d’uno scolare.
Per opera indubitata
di Lionardo tiensi la bella tavola
de’ sigg. Pallavicini di san Calocero, rappresentante la testè mentovata Cecilia.
Al solo mirarla ben vedesi che è fatta dal Vinci
dopo il Cenacolo, quando egli ebbe perfezionata la sua maniera di dipingere,
perdendo quella secchezza ch’è ne’ suoi primi lavori. Questa rinomata donna è
quì dipinta come nel primo ritratto fattole dal Vinci
medesimo ne’ tempi della fiorente sua giovinezza; ma in vece della cetra essa
sembra tenere colla mano una piega della veste; la stessa è la fisonomia, se
non che quì mostra un’età fra i 30 e 40 anni, che aver doveva al finir del
secolo xv. Già osservammo che
Lodovico seguitò ad esserle amico anche dopo il matrimonio; onde non è
maraviglia che Lionardo abbiale fatto un altro ritratto.
Di questa bella amica
del Moro un bel ritratto (di cui poi fecesi una santa Cecilia) o di mano di Lionardo, o di valente suo scolare, vedesi
presso il cel. Prof. Franchi.
Una tavola veramente
bella, rappresentante S. Catterina con due angioletti possiede l’eccellente
nostro pittore e mio collega Appiani, la quale già da oltre un secolo come
pittura di Lionardo sta nella sua famiglia.
oltre il vedersi in essa tutta quella esattezza di disegno ch’è propria del Vinci, c’è pure quella morbidezza, e
quella grazia, che di rado nelle sue tavole s’incontra.
Il C. Giacomo
Sannazzari, che raccoglie quanto può di più pregevole dei bei monumenti dell’arte,
ha del Vinci due belle teste, ed
una bella Venere ignuda in piccol quadretto.
Un Angiolo dipinto da
Lionardo in atto d’annunziare il
gran mistero a Maria Vergine, vedesi in casa Anguissola.
Un bellissimo
ritratto dello stesso pennello è in casa Scotti in abito d’alta dignità. Osservasi
però che le memorie presso questa illustre famiglia, diconlo ritratto del Cancellier
Moroni, che tal carica sol ebbe alcuni anni dopo la partenza di Lionardo: onde dee credersi ritratto d’altro
personaggio; o deve dirsi che quell’abito non era de’ soli cancellieri dello
stato.
Così dicesi del re
Francesco i un ritratto del Vinci, ch’è in casa Piantanida erede dei
Sitoni; ma è più probabile che sia ritratto di Gaston de Foix.
V’ha de’ bei puttini
lionardeschi nella casa Greppi alla Cavalchina; e sappiamo di fatti che il Vinci parecchi ne dipinse.
Una di lui Madonna
non finita mostrasi in casa Vedani, ove pure gli si attribuisce un quadro di
contadini ridenti. Leggiamo nel Lomazzo ch’egli tal quadro fece ritraendolo dal
vero.
Or delle tavole
vinciane che sono fuor di Milano. Hanno i Borromei all’Isola Bella una tavola
del Vinci rappresentante un
giovane: mezza figura.
In Piacenza mostransi
quadri di Lionardo nelle gallerie
degli Scotti, e de’ Landi.
Parlammo già del
quadro de’ sigg. conti Sanvitali a Parma.[198]
Ivi pur trovasi nella
collezione de’ quadri dell’ex-ministro della nostra repubblica Ceretti un
ritratto che credesi del Cancellier Morone,.e vien riputato di Lionardo. Appartenne alla estense
galleria di Modena. Colà pur erano due altre tavole di S. Catterina l’una, e l’altra
di giovane armato, riputate del Vinci.
Mostrasi in Bologna
la figura d’un Bambino di Lionardo
nella stanza chiamata del Confaloniere.
A Firenze vedesì
nella r. galleria la Medusa di Lionardo
dipinta ne’ suoi primi anni, il ritratto suo proprio, e quel di Raffaele da lui
fatti; l’Epifania, tavola non finita. V’è nel palazzo Pitti una Maddalena. In
casa Nicolini un ritratto; forse la testa che un cognato di Lionardo mandò nel 1536 in dono al card.
Salviati, come rilevo da una memoria dell’archivio de’ Vinci, che trevo fra le
note dell’Oltrocchi.
Molte tavole di Lionardo contansi in Roma. Una delle più
belle è certamente quella del palazzo Borghesi, ove alle figure della B.
Vergine e del Bambino è aggiunta una caraffa di fiori ammirabile per la verità;
e credesi perciò la stessa tavola, di cui parla Vasari, posseduta già da
Clemente vii. Nel palazzo
Aldobrandini v’era la disputa di G. C. co’ dottori; che però da valente pittore
vien riputata del Luino sul disegno vinciano, come altre molte. Nel palazzo Barberini,
un’Erodiade e un quadro con due altre figure, simboli della vanità l’una, e l’altra
della modestia. Nella galleria Giustiniani una Sacra Famiglia. Un bel ritratto
di donna ha il sig. principe Albani; e la sig. Kauffmann ha un San Gerolamo,
del quale un disegno è quello che ha pubblicato Gerli (Tav. xxxi). Nel palazzo Strozzi v’è la figura
d’una bella fanciulla.
Parigi è il luogo in
cui maggior numero che altrove di tavole vinciane ammirasi, secondo la nota
datacene nello scorso anno dal cit. Gault S. Germain,[199] della cui inesattezza
però, ove parla delle cose vinciane esistenti in altri paesi, tosto accorgesi chi
getta lo sguardo sul suo catalogo.
Ecco quelle che annovera,
rappresentanti i seguenti soggetti:
M. Vergine col
Bambino, S. Elisabetta e San Giovanni.
La stessa col
Bambino, San Michele e un uomo in ginocchio sul dinanzi.
La stessa col
Bambino, San Giovanni, ed un Angiolo. Questo quadro, dipinto originariamente
sul legno, fu trasportato sulla tela.
La Sacra Famiglia con
San Michele. La stessa sui ginocchi di S. Anna. Sappiamo che il Vinci non ne fece che il cartone, e
probibilmente dipinsero la tavola i suoi scolari Melzi o Salaino. Lo stesso
dicasi d’una consimil tavola ch’era della nostra galleria, dipinta da
Bernardino Luino, e assai ben descritta dal cardinale Borromeo.
San Giovambattista:
mezza figura.
La figlia d’Erodiade
colla testa di San Giovanni presentatate dal carnefice.
S. Catterina con due
angioli. Questa però credesi copia del quadro di cui parlammo.
Il famoso ritratto
della Lisa del Giocondo.[200]
Quello di Anna Bolena
conosciuto sotto il nome della Bella Ferraia.
Altro di bella donna (mezza
figura) creduto di Lucrezia Crivelli.[201]
La Pomona, e la Leda
di cui parlano Vasari, e Lomazzo, dicendo di quest’ultima, che a suoi dì stava
a Fontanablò. Io però trovo notato ne’ mss. del De Pagave, che la Leda di Lionardo stava a suoi dì presso il sig.
conte di Firmian, daddove passò in Germania; che, dalle ricerche fatte a sua
istanza in Parigi dal cel. Goldoni amico suo, risultò che mai non vi fu, non trovandosi
su nessun registro; e che Lomazzo ha preso abbaiglio fra la Leda di Lionardo e quella di Michelangiolo.
Taluno scrisse che la Leda di Lionardo
era nel palazzo Mattei in Roma. La Pomona è lodata dagli scrittori pe’ tre
trasparenti veli che la ricoprono.
La Flora, la quale fu
disegnata da Lionardo, è dipinta
da Francesco Melzo, a cui acquistò fama di valente pittore.
Soggiugne il c.
Gault, che il sig. di Chamois aveva una bella tavola vinciana rappresentante
Giuseppe colla moglie di Putifare; e che un quadro con otto figure di contadini
stava nella galleria del re, ma che or più non v’è.
Più breve è la nota
delle tavole di Lionardo esistenti
nel resto dell’Europa.
In Ispagna G. G.
avanti Pilato. Due quadri rappresentanti la B. Vergine. Una testa di S.
Giovanni. Due fanciullini che scherzano con un agnellino. Un San Gerolamo nella
grotta.
A Dresda il ritratto
d’un vecchio guerriere che credesi di Gian Giacomo Triulzi.[202]
A Dusseldorff. Una
delle due tavole della B. V. che Lionardo dipinse in Roma pel datario di Leon x.[203]
A Pietroburgo. La
tavola ch’era dell’ab. Salvatori.[204]
In Inghilterra. Il
quadro della Concezione cotanto commendato dal Lomazzo, che stava dianzi nella
chiesa di san Francesco in Milano; e quì pur era presso il can. Chiesa una
bella tavola della B. Vergine, ad un Inglese venduta non ha molto.
Un altro Inglese ha
pur comperata la tavola della disputa di G. C. ch’era in casa Aldobrandini.
All’Aia v’è la figura
di bella matrona.
In Germania v’ha
nella galleria imperiale di Vienna la tavola della Natività di Nostro Signore[205] e una Erodiade.
Presso il principe di
Kaunitz la mentovata Leda.
Nella galleria del
principe di Lichtestein la bellissima testa del Salvatore commendata da
Winkelmann, come un modello di perfetta bellezza virile.[206]
xliii. Veggonsi alcune pitture attribuite a Lionardo, che di lui non sono indegne, e
ne mostrano la maniera; ma da taluno negasi loro questa gloria, perché sono
sulla tela anzichè sulla tavola, e a tempra anzichè ad olio. Dell’insussistenza
di questa ragione però ognuno dee persuadersi che legga il capo cccliii del suo Trattato di Pittura, in cui insegna il modo di dipingere in tela e
a tempera, e nol disapprova nè move difficoltà sulla esecuzione; o legga il
Vasari il quale chiaramente dice che Lionardo
» studiò in ritrarre dal naturale o da modelli sopra a certe tele sottilissime
di renzo o di pannilini adoperati ec. «; e legga poi il Lomazzo che, ragionando
del Cenacolo vinciano, scrive che diedesi a dipingerlo a olio, laddove dianzi
dipingeva a tempra.
De’ quadri in tela
uno ne dipinse egli che collocato fu nel semicircolo sopra la porta della
chiesa delle Grazie.[207] Uno ve n’ha in casa
Venini, cui, le memorie della famiglia Mauri da cui l’ebbe, dicono di Lionardo, sebbene valenti pittori
sospettino che sia stato eseguito su cartone vinciesco da Bernardino Luiuo. Un
altro ne acquistò non ha guari il mio già lodato collega Mussi, che potendo più
agevolmente essere esaminato, benchè sia, com’egli dice, una superba ruina d’antico
edificio, ben mostra d’esser lavoro se non di Lionardo
medesimo, almeno di qualche abile e intelligente scolare, che ne ha adottati,
ed eseguiti gl’insegnamenti tutti. Esso è dipinto su tela di renzo sottile, e probabilmente anche usato, qual la
descrive Vasari; e dipinto come appunto vuol Lionardo
che in tela si dipinga, cioè colla sola imprimitura di colla debole, cosicchè in più luoghi anche per la vecchiezza
veggonsi della tela i fili; coi dintorni con gran nettezza disegnati, quali
egli far li soleva. L’incarnazione
pare appunto di biacca lacca (di
quella che tira al carmino quale usar la solea Lionardo)
e giallolino: nell’ombra ch’è benissimo sfumata si scorge nero, e un po’ di lacca:
nelle ombre più oscure e in un contorno che restò nudo, si scopre chiaro l’inchiostro con lacca; e più chiaro
ancora vedesi il cinabro della veste ombrato di lacca semplice,
principalmente nelle maniche oscure. Il fondo è una tappezzeria all’uso
vinciesco, con intreccio di gruppi di corde o cifre simile a quelle della
vignetta che fregia il principio di queste Memorie, e più vi somigliano ancora
i fregi messi ad oro degli orli del manto, quali pur veggonsi nel mentovato ritratto
lionardesco di Beatrice d’Este. L’artifizio del passaggio dal chiaro all’oscuro
per ombre e mezzetinte impercettibili e sfumose; il grandissimo rilievo che ne
risulta, sebbene appena velato di colore sia il fondo; l’esatta osservanza de’ lumi
riflessi, e anche i colori verde e rosso degli abiti, che Lionardo insegna di prescegliere, e usò
egli quasi costantemente, mostrano che sia opera sua o degna d’esserla; come il
mostrano la nobiltà, e l’espressione de’ volti e degli atteggiamenti sì della Madre
che del Bambino.
D’altri quadri vinciani
in tela ho inteso farsi menzione, e nominatamente d’un ritratto della regina
Giovanna ch’era in casa Barberini, ma non avendone una notizia precisa stimo
più opportuno il tacerne.
Fra le pitture
vinciesche convien pur commemorare quello che Lionardo
fece a pastello, poichè sappiamo dal Lomazzo che così egli talora dipingeva, e
dipinse di fatto le teste de’ dodici Apostoli, e del Salvatore.[208] Così da lui pinti a
pastello ha due bellissimi piedi il mentovato Appiani; e un’immagine della
Vergine di figura quasi al naturale abbiamo ancora nella galleria nostra, che
opera sua vien riputata.
xliii. Più numerosi senza dubbio, anzi
innumerevoli, possiamo dire che sono i disegni di Lionardo. Fra questi i più ragguardevoli sono i cartoni; e
certamente tanti deve averne fatti quanti furono le sue grandi tavole o pitture
sul muro. Perdemmo quello d’Adamo ed Eva ch’ei fece in Firenze, essendo ancor
giovane. Perirono tra le fiamme i bei cartoni degli ignudi del Questor Melzo.
Non sappiamo ove siano i cartoni che servirono a Salaino, e a Luino il seniore
per le mentovate loro tavole.
Nei mss. del consigl.
De Pagave trovo fatto menzione de’ cartoni di sei duchi di Milano. Sono in
Inghilterra quelli ch’erano pria del conte Arconati, rappresentanti le figure
del Cenacolo. Del cartone per la battaglia d’Anghiari non ci rimane che una copia
in piccolo d’una parte del gran disegno. Il lodato mio collega Mussi possiede il
cartone originale vinciano fatto per la testa di Nostra Donna nel celebrato
quadro della Concezione della stessa grandezza della pittura, ch’è un po’ meno
del naturale. Il lavoro è di lapis carboncino in carta con tratti finissimi con
acquarella di fuligine e inchiostro nelle ombre e nelle mezzetinte, con lumi a
pennello soavemente sfumati. In casa Monti, ov’erano già i disegni che or
possiede il De Pagave, v’erano pure i disegni di tre teste degli Apostoli, che
al Cenacolo servirono; ma dove sian’ora s’ignora.
De’ semplici disegni
il solo codice atlantico, sulla cui coperta leggesi = Disegni di Macchine, e delle Arti segrete di Leonardo Vinci raccolti da
Pompeo Leoni = ne contiene 1750. Tutti gli altri suoi codici ne son pieni.
Già avvisai che disegnate egli pur ha tutte le figure appartenenti al Trattato della Pittura, delle quali
probabilmente son copia quelle del nostro codice pinelliano. (Vedi la pag. 56).
Pubblicò cento suoi
disegni, esistenti nella collezione Arundeliana, Hollar. Caylus ne pubblicò 59,
e tutti questi quasi di sole caricature. Altri ne iucise Cooper in nove tavole,
per lo più relativi ai movimenti del corpo umano. Il sig. card. Silvio Valenti
comperonne poi gli originali, almeno in parte. Son noti presso di noi i disegni
vinciani pubblicati dal Gerli, e dal Mantelli, oltre quello della Cena intatagliato
dal prof. Aspari.
Dal Vasari e dal
Lomazzo troviamo fatta menzione d’altri disegni che si sono perduti, come i due
fanciulli mostruosi nati presso Milano; i disegni d’armati e d’armi fatti pel
Borri; di mulini che aveva il Figino, di contadini ridenti in numero di 250
posseduti da Avrelio Luino; quei della notomia dell’uomo veduti dal Vasari presso
messer Francesco Melzo, e quei della notomia del cavallo, che perderonsi al partire
di Lodovico il Moro.
Alcuni ve n’ha ancora
nella galleria dell’Arcivescovato, molti presso il De Pagave e nel mentovato
codice triulzano, e qualcheduno presso i colti nostri raccoglitori. N’è pur
rimasto alcuno presso di noi, che avevamo anche il suo ritratto fatto da lui
stesso con matita rossa. Fu questo preso per trasportarlo a Parigi, ma non vi
giunse; e ’l cit. Gault Saint-Germain, dice che fu rubato a Coni.[209]
A Parigi alcuni ve n’erano,
ed al altri ven furono portati in questi ultimi anni. Il mentovato Gault fa
menzione di un San Giovanni; di cinque figure di vecchie; d’un uomo con uno
specchio ustorio per far perire insetti; d’un giovane in profilo; d’un vecchio.
Scrive inoltre che più di cinquanta disegni vincieschi ha saputo raccogliere in
Italia l’architetto Legrand, e che pensa di pnbblicarli.
In Inghilterra ve n’ha
pure gran numero.
xlv. Fra gli studj matematici e fisici, che
facea Lionardo, quello del moto
delle acque come il più vantaggioso alla società, quello fu che lo occupò
maggiormente. Già vedemmo, come esaminò le cagioni che alterar possono la
quantità dell’acqua che esce da una data apertura; come un semplicissimo
macchinismo formando un vuoto possa sollevarla; come entro d’essa e sovr’essa
muoversi possa l’uomo. Non gli sfuggia nulla di ciò che l’acqua risguardava. Essendo
a Piombino esaminò il moto delle onde che inseguianisi e veniano a spianarsi sul
lido; a Rimino fece attenzione alla melodia, che certe acque cadendo faceano; giuochi
d’acque firmò nel giardino del castello, acciò servissero al bagno della
duchessa di cui ci lasciò il disegno; e varj ordigni movibili dall’acqua
proponeasi di costruire, ove avesse ottenute le 12 once d’acqua assegnategli la
compenso de’ suoi lavori dal Re Lodovico xii.
Leggiamo nel Lomazzo[210] ch’egli disegnò trenta
diverse maniere di mulini, movibili parte dall’acqua e parte da altri agenti, e
que’ disegni uniti in un libro stavano presso M. Ambrogio Figino. Parecchi
disegni di mulini sono pure nel codice atlantico; e fra questi ricordomi di due
che molto rapporto hanno con alcuni congegni presentati tre secoli dopo come un
nuovo ritrovato, alla Società Patriotica d’agricoltura e d’arti, quando avea l’onore
d’esserne il Segretario. Uno mostra come una sola ruota mossa dall’acqua, col
movere una ruota dentata, fa girar due e anche tre mole, ed è rimarchevole che
la mola superiore di legnio gira sopra quella de sasso: il che può far
pensare che s’adoperasse non a macinare il grano; ma a sgusciare il miglio, e
fors’anco il riso, operazione che or noi diciamo pilare. L’altra mostra le pale della ruota percossa dall’acqua
snodate, cosicchè nel salire, piegandosi, restano pendenti, e gran parte
perdono del loro peso, e quindi della loro resistenza ad essere sollevate.
Ometto le molte maniere di sifoni da lui disegnati nello stesso libro.
Ma questi erano
giuochi per lui, e ben più alto miravano le sue specolazioni, cioè alla
navigazione de’ nostri canali, intorno alla quale mi conviene prima di tutto
esaminare in quale stato ella fosse allorchè qui venne Lionardo. I Milanesi,
appena riebbersi dai danni immensi fatti loro da Federico Enobardo, pensarono
nell’anno 1179 a scavare un canale che una considerevol copia d’acque derivasse
dal Ticino. Allor solo si mirò alla irrigazione, onde il canale non giunse
oltre Gagiano; ma nel seguente secolo, all’anno 1227, veggendo essi il
vantaggio sommo che alla città sarebbene derivato ove l’acqua servisse al tempo
stesso alla navigazione, sino alla città il canale prolongarono, e poscia alle
acque del Ticino, quì giunte sotto nome di Tesinello, mischiarono quelle che la
città attraversavano o circondavano sotto i nomi di Cantarana, Vedra, Nirone,
Vettabbia, Redefosso ec.; e queste acque poi uscir fecero in varj canali divise
verso la parte australe per l’inaffiamento delle campagne. In tanta copia erano
già esse allora, che nel 1296 si progettò d’unirle in un sol canale navigabile,
che al Lambro portassele e con esso al Po e al Mare.
Quel progetto restò
ineseguito. Ma quando Gian-Galeazzo Visconti Signor di Milano nel 1333 pensò a
far edificare l’immenso e interminabil duomo, ultimo sforzo della gotica
architettura; ed ebbe a quella fabbrica destinata l’inesauribil carriera de’ marmi
della Candoglia alla sponda del fiume Tosa, o Atosa, ove imbarcati, tragittando
il Verbano, pel Ticino e pel nuovo canale sino alla città veniano, trovossi che
grande ancora era la difficoltà a trasportare gli enormi massi marmorei sino al
luogo dell’edifizio. Allora fu che col consiglio, e coll’opera di valenti
Ingegneri, si riunirono entro la fossa circoudante la città (quella stessa in cui
ora scorre il naviglio della Marlesana) molte delle acque destinate dianzi ad
altri usi, perchè alla navigazione bastassero; e allor fu che le chiuse, sin d’allora
chiamate conche, quì s’introdussero
per sostenere le acque, alzarle e abbassarle a piacimento, onde le barche cariche
dalla bassa sponda del Tesinello fosser sollevate al livello del mentovato fossato,
su di cui erano tratte sino al Laghetto
già esistente presso S. Stefano, e non lungi dal duomo.
xlvi. Non v’ha, ch’io sappia, storico
contemporaneo o vicino a que’ tempi, che di questa util opera ci abbia lasciato
un ragguaglio, mentre gli scrittori di que’ dì impiegarono volumi a descrivere
le guerre, le stragi, e i devastamenti di questo paese. Agli storici supplì la
diligenza dell’eruditissimo mio amico e collega Fumagalli,[211] (che con sommo dispiacer
mio e di tutti i buoni nello scorso marzo perdemmo), e del nostro Oltrocchi, i
quali hanno tutte raccolte le vecchie carte nelle quali parlasi della navigazione
del fossato, e delle conche in esso costruite per ottenerla coll’alzamento e
abbassamento alterno del livello delle acque. E ciò forse non sapremmo se gli archivj
pubblici e i monastici, e le carte della nostra biblioteca non ci avessero
conservate le memorie delle spese, e i ricorsi dati a chi reggea questo stato,
e ai magistrati che giudicar doveano de’ rispettivi diritti. In un libro
esistente nell’archivio pubblico, detto del Castello perchè in esso custodiasi,
intitolato = Dati et accepti = havvi
un capo = Delle spese de’ lavorerii
ducali fatte da Delfino de Giorgi tesoriere pe’ medesimi nell’anno 1438 =
In questo, non solo continuamente parlasi del naviglio nuovamente cominciato, detto ducale, a differenza del Tesinello detto grande (navigium magnum);
ma trattasi de’ sostegni che per far crescere e decrescer l’acqua serviano (pro faciendo crescere et decrescere aquam);
e convien dire che nuovo fosse il modo di quel sostegno, perchè, prima d’eseguirlo
nel naviglio, provaronlo in piccolo nel Redefossino,
canale che costeggiava il giardino del castello. I medesimi sostegni adoperar
voleansi nel canale allor nuovo di Bereguardo;[212] e questi vengono
chiamati conche, delle quali
parecchie sen rammentano, come or or vedremo.
Ne’ ricorsi poi leggesi,
che ove si fosse voluto mantener navigabile il nuovo naviglio, che così chiamavasi l’interno canale, più non avrebbono
potuto correre le acque della Vettabbia ad inafffiare i prati di Chiaravalle, ne’
quali il primo esempio erasi dato dai monaci circestiensi di quella
irrigazione, che da cinque secoli fa la ricchezza della Lombardia.
Espressamente ivi si parla delle conche; e più d’una sen nomina nell’interno
della città in un ricorso di Giorgio Rolandi figliuolo di Giacobino di porta
Vercellina che nel 1445 avea l’impresa della gabella che pagavasi per la
navigazione, la quale, medianti le conche, faceasi pel naviglio recentemente costruito,
specialmente verso porta vercellina, e porta giovia (che stava ov’ora è il
castello); e vuol essere indennizzato pel danno avuto, ora perchè certe banche
poste avanti le prime conche verso
porta Vercellina erano state fatte in pezzi per la caduta dell’acqua, ora
perchè le acque vi portavano sul fondo tanta ghiaia dalle sponde che le barche
più non vi poteano galleggiare.
Ecco dunque e
naviglio nuovo e conche o chiuse formate circa un secolo prima di Lionardo: le quali cose ho dovuto
osservare, sì per rettificare l’error di coloro che trovar vogliono in lui l’inventor
delle chiuse presso di noi, che per determinare quale e quanta parte abbia egli
avuta nel miglioramento di questo ritrovato.
xlvii. Qual forma e quali congegni avessero
le antiche nostre conche noi ben nol sappiamo. Da ciò che leggiamo in una carta
del 1439[213]
sembra potersi argomentare che prima di quell’epoca a certa determinata ora del
giorno, cioè dalle 22 alle 24 italiane, si chiudessero tutte le bocche d’estrazione,
e con banche (planche) si tenesse
sollevata inferiormente l’acqua, sicchè ad ugual livello s’alzasse ne’ due
navigli o canali; onde le conche altro non fossero che un otturamento de’ fori
o rivi inservienti alla irrigazione. Ma altronde, poichè nel ricorso di Giorgio
Rolandi parlasi dì caduta d’acque (propter
undas aquae defluentis in conchis), e di tal caduta che spezzava le
sottoposte tavole, é chiaro che quelle conche aveano un doppio sostegno mobile,
perchè le barche a inegual livello salir potessero e discendere. Sappiamo
altresì che nel mentovato anno 1439 Filippo Maria, ultimo dei duchi Visconti,
per mezzo de’ due Ingegneri Filippo da Modena e Fioravante da Bologna fece
costruire la conca di Viarena, affinchè
navigabile si rendesse tutto il fossato che la città circondava; e poichè di
oltre quattro braccia era la differenza di livello nelle acque, è chiaro che
quella conca esser dovea di doppio sostegno
fornita; ma in qual guisa fosse eostruita nol trovo negli scrittori.
Leggiamo che la
chiusa immaginata nel 1198 da maestro Alberto Pitentino per sostenere il Mincio
a Governolo[214]
consisteva in varie travi cacciate nelle scanalature de’ due pilastri della porta
e del ponte, le quali travi l’una dopo l’altra si sollevavano nell’aprire, e
ricacciavansi giù per chiudere. In seguito vi si formarono porte, che, a foggia
delle saracinesche de’ castelli o delle città, dall’alto al basso entro
scanalature, come tavole scorsoie, salir faceansi e discendere. Forse di una di
queste maniere erano le prime conche anche fra noi; e a queste ben possono
applicarsi le osservazioni fatte dal nostro Lionardo,
e da lui scritte nel piccol codice segnato Q.3 pag. 39, intorno al moto che l’acqua ha nell’aprire le catteratte di sopra, in mezzo, o di sotto; le
differenze nel calare o movere in superficie, le cadute, i ritrosi, gl’incurvamenti
delle onde, come si vede nelle conche di Milano.
Si cangiarono in appresso,
come rilevasi dal disegno, fatto di mano di Lionardo medesimo, d’una conca o
chiusa, quanto diversa dalle testè mentovate, tanto analoga a quelle che oggidì
veggiamo. Questa però, siccome in appresso dimostrerassi, non fu da lui
immaginata.
Se però riguardo alle
conche per la navigazione del canal grande tratto dal Ticino nulla o ben poco
operò Lionardo, ben fece in esso
un miglioramento quanto necessario alla città altrettanto utile alla
irrigazione, cioè gli scaricatoi presso San Cristoforo, de’ quali, e del premio
avutone già parlammo,[215] come pur facemmo
menzione del canale dal Ticino derivato per l’irrigazione della Sforzesca.[216]
xlviii. I ricorsi incessanti di quelli che aveano
diritto alle acque colle quali formato s’era il naviglio nuovo, come dicemmo, indussero il duca Francesco i Sforza a derivare dall’Adda un canale,
che molta copia d’acqua alla città conducesse, e alla irrigazione non meno che
alla navigazione servisse. Il francese biografo Dufrêsne, copiato quasi da
tutti gli oltramontani, e da alcuni italiani che di Lionardo scrissero, ben mostrò non solo d’ignorare le nostre
storie, ma di non avere nessuna idea della topografa dei nostro paese, quando
scrisse che Lionardo fu impiegato
da Lodovico il Moro » a condurre le acque dell’Adda sino a Milano e formare
quel canale navigabile volgarmente detto il Naviglio di Martesana con l’aggiunta
di più di 200 miglia di fiume navigabile, sino alle valli di Chiavenna e
Valtellina; e soggiugne che Lionardo,
superando ogni difficoltà con moltiplicate cataratte, o vogliam dire sostegni, fece
camminar le navi per monti e valli ». Così Dufrèsne a cui crederono anche il
Milizia[217]
e ’l cel. Bettinelli,[218] sebbene a poche verità
siano misti molti errori.
Di fatti sappiamo
dagli Storici contemporanei, e dallo stesso decreto ducale riportatoci dal Benaglia,[219] che quel canale fu ordinato
dal duca Francesco i Sforza nel 1457,
tempo in cui Lionardo aveva un lustro
appena; e ’l Settala[220] ci ha conservato altro
decreto della sua vedova duchessa Bianca Maria che nel 1465 prescrive il modo
con cui venderne e condurne le acque, che già scorreano per l’irrigazione. Argomentò
da ciò il ch. Fumagalli,[221] che sia stato scavalo il
canale fra ’l 1457 e ’l 1460 dirigendo l’opera l’ingegnere Bertola da Novate.
Ecco pertanto il
canale o naviglio della Martesana, derivato dal fiume Adda sotto il forte di
Trezzo, e, dopo d’avere percorso quasi 30 miglia di paese, giunto sin presso
Milano, certamente senza l’opera del nostro Lionardo.
Francesco i, nell’ordinarlo, alla
navigazione sino alle porte della città certamente mirava; e, la mente del padre
eseguendo, ve la condusse, o a condurvela era vicino il duca Galeazzo Maria, poichè
una conca avea già fatta costruire presso
san Marco: della qual cosa abbiamo autentico documento in un decreto dell’arcivescovo
Stefano, che ai 28 di settembre del 1496 » dichiara non più sacra ma profana
quella parte del cimitero di san Marco, di cui si servì il duca per fare la conca del naviglio della Martesana ec.
».[222]
È incerto se ne’ primi
anni quel canale alla navigazione effettivamente abbia servito; ma certa cosa è
che poco atto esser poteva a portar barche, dopo il mentovato editto di Bianca
Maria che una quantità grandissima d’acqua vendè per l’irrigazione; e a questa
pur mancò nel 1480, quando sfiancatesi le mura e ’l suolo, che il canale
sosteneano, nel fiume ricadde, onde 200 braccia di canale fu d’uopo di nuovamente
scavare nel sasso. Quando Lodovico, richiamato dall’esilio, a cui accortamente
aveanlo condannato la vedova duchessa Bona, e ’l sagace di lei ministro
Simonetta, per vendicarsi di loro e dominare, fece sì che il figlio
Gian-Galeazzo togliesse alla madre le redini del Governo, come dicemmo,
suggerigli pure il pensiere di rendere navigabile il canale della Martesana, e
in di lui nome emanò in data de’ 16 maggio 1483 il decreto di ciò eseguire. » E
benchè per esso naviglio (ivi leggesi) ne segua molti beni per il macinar delli
mulini e per adacquar li prati, non di meno il più principale e singolar beneficio
che ne seguita si è per il navigare, per il quale si ha da render copiosa ed
abbondante di vettovaglie, e di mercantie essa nostra città ec. « Dalle quali
parole apertamente rilevasi, che allora l’acqua dell’Adda bensì pel canale
della Martesana a Milano venia, ma non serviva alla navigazione voluta da Gian
Galeazzo o piuttosto da Lodovico; il quale per averla ottenuta venne poi da
Lancino Curzio largamente commendato.[223]
xlix. A chi il Moro la direzione di quest’opera
sul principio affidasse non bene il sappiamo. Vedemmo che una conca v’era bensì presso san Marco,
molto prima della venuta di Lionardo
a Milano (che fu appunto in quest’anno 1483) immaginata ed eseguita; ma che
altronde egli l’architetto fosse, e ’l direttor primario di questa grande
impresa di Lodovico non ce ne lasciano dubitare le memorie, ch’egli medesimo ci
ha lasciate. Egli fe’ in primo luogo i calcoli del lavoro e della spesa: egli
pensò a far sì che l’acqua alla navigazion necessaria non mancasse al canale:
egli rilevò il difetto delle conche o sostegni esistenti, per proporne i
ripari. Nella pagina 43 del codice segnato Q. a. lasciò scritto: Il naviglio, che sia largo in fondo br. 16,
e in bocca 20. Si potrà in somma calcolare tutto largo br. 18; e se sarà
profondo 4 - 8, a 4 danari il quadretto, costerà il miglio, cavatura sola,
ducati 900, essendo i quadretti di comune braccio. Ma se le braccia saranno a
uso di misura di terra, ogni 4 son 4 ½. Ma se il miglio s’intende di 3000
braccia, tornano manco ¼, che restano br. 2250, che a 4 dan. il braccio monta
il miglio 675. A tre danari il quadretto, monta il miglio ducati 506 ¼; così
che la cavatura di 30 miglia di naviglio monterà 15187 ½. Quì veramente non
s’indica nè il tempo nè il luogo di questo progettato naviglio; ma poichè sul
foglio 38 dello stesso codice leggonsi le giù riportate parole relative al
sotterramento delle viti a Vigevano a 20 marzo 1492, risultane l’epoca del
progetto vinciano circa quest’anno.
Poiché questo rifar
si doveva, Lionardo ne computò
prima tutta la lunghezza da Trezzo a Milano, aggiugnendovi pure il fossato
della città, a 30 miglia: indi ne calcolò lo scavo in ragione di larghezza
conguagliata di braccia 18 colla profondità di braccia 4. Veggo altresì, dice Oltrocchi
esaminando il codice atlantico, il disegno delle porte inferiori e superiori
delle cataratte, ossiano conche;
veggo che ne livellò precisamente l’altezza ne’ luoghi opportuni, provedendo prima
all’evasione del Lambro che attraversava il canale; e trovando sino a Gorla un dolce
scorrimento d’acqua, ivi ne fissò la prima conca, che poi da Francesco ii Sforza fu portata alla Cassina de’ Pomi;
e progettò che si formasse il canale in linea retta verso la città quanto era
possibile. Così, mediante altre due conche, portò l’Adda sul piano del fossato;
a cui non erano ancora portate le acque per la soverchia loro altezza; e con
due altre conche loro diede sfogo nel vecchio fossato navigabile di cui sopra parlammo,
onde circondare tutta la città, dopo d’averne assicurato il perpetuo uguale livello
con adattato scaricatoio, che tuttora sussiste, prima che in esso entrasse. Fin
quì Oltrocchi; e giova ben credere ch’egli, che tutti avea sotto gli occhi i
codici del Vinci, veduti v’abbia i
disegni, e le note di quanto quì asserisce.
Per circondare con
canale navigabile la città necessario era sottrarre dai canale istesso prima
del suo ingresso, o da altri rivi tal quantità derivarne, che, dopo d’aver servito
al castello presso porta Vercellina scorrendo, tendesse al meriggio: e abbiamo di
Lionardo un disegno (Cod. Q. pag. 32)
del Redefosso, o Rifosso com’egli lo
chiama, da cui traggesi un canale largo due braccia, non certamente per se navigabile,
ma tale da somministrare acqua che sostenuta con chiuse occupasse costantemente
un più largo canale, siccome di fatto avvenir veggiamo anche oggidì fra ’l castello
e la conca di Viarena.
Conveniva in secondo
luogo ristringere l’interno canale, e dalle 40 braccia fu ridotto alle 18; e
perchè la già introdotta irrigazione avesse meno a sentire la diminuzione delle
acque, allor fu ch’egli propose di scavare a lato del naviglio le vene d’acqua
da noi dette fontanili, che comuni
ora sono fra noi, e mirabilmente servono alla irrigazione.
I sostegni che v’erano
o troppo facilmente scomponeansi, o non abbastanza bene a ritenere, e a
rilasciar l’acqua serviano; e Lionardo
diessi in primo luogo ad osservare in essi tutti i diversi movimenti dell’acqua.[224] Non v’ha dubbio che Lionardo disegnata abbia la conca di san
Marco; e ben lo mostra la sua maniera e ancor più lo scritto suo da destra a
sinistra. Ivi s’indica il luogo: Conca di
san Marco, e leggesi che quella conca
è di muro costruito su pali: che al fondo della conca fu gittata ghiaia e
calcina, e mentre questa era fresca ancora vi furon messi dentro de’ travicelli
verdi di 3 a 4 once in traverso; che sino alla lor sommità tutto fu riempiuto
di ghiaia e calcina, e sopra la testa
de’ travicelli furon collocate delle tavole; e avverte che i travicelli furon essi medesimi prima inchiodati e assicurati sopra i pali,
siccome vedesi nel disegno, ove pur s’indica il luogo in cui si pose la ghiaia e
la calcina, e su di essa i mattoni e le tavole. Parlasi della costruzione dello
sportello, aggirantesi su un perno,
il quale non ista nel centro, ma più
presso l’estremità della porta, la quale trovasi nel mezzo del canale; e ivi
osserva che a motivo di tale costruzione, l’acqua
che dallo sportello esce va a battere la sponda, e dee facilmente romperla.
Questa osservazione, ossia critica fatta alla costruzione del sostegno; il
leggere da lui descritta la conca di S. Marco, come edifizio di già esistente,
e non come costruzione da farsi; il vedervi un solo sportello, e questo chiuso
con una catena, laddove oggidì due e non uno veggiamo essere gli sportelli, in
cui s’alza il saliscendolo con una
pertica armata d’uncino, e si aprono e chiudonsi per la sola azione dell’acqua:
tutto ciò m’induce a credere, che Lionardo,
come dicemmo, non abbia immaginata quella costruzione di conche, ma bensì
queste abbia all’attuale perfezione ridotte. Quindi conchiudiamo che anche nel
correggere e migliorare le altrui invenzioni diede Lionardo una riprova della sua intelligenza ne’ lavori
meccanici, e pel regolamento delle acque.
Possiamo forse a
quest’epoca riferire il suo pensiere di formare un canale a zig-zag mezzo
aperto, e mezzo chiuso or da un lato or dall’altro, per rimontarlo senza sostegni,
del qual pensiere ci ha lasciato un disegno. E certamente alla grand’opera della
navigazione intorno alla città si rapporta la topografia di Milano da lui
disegnala, che vedesi al fol. 72 del codice atlantico.
l. I vantaggi che dalla navigazione di questo canale traeva il governo,
fece pensare ad estenderla; e come il canale tratto dal Ticino portava a Milano
i prodotti del Verbano, così un uguale comunicazione aprirsi sarebbe voluta da
Lodovico il Moro col Lario; ma un grandissim’ostacolo a ciò opponeva non tanto
la rapidità della discesa, quanto gli scogli che l’Adda attraversano a mezzo
viaggio fra Lecco e Trezzo. L’osservatore che que’ luoghi percorre vede che il fiume
s’è ivi tagliata una strada nella breccia detta da noi ceppo, la quale, un composto essendo di ghiaia legata da natural
cemento di sciolta calce depostavi, e non avendo perciò la durezza dello
scoglio, sostener non si potè a formare sponde perpendicolari ed elevate, e in mezzo
al fiume precipitò in enormi massi. Il toglierli di mezzo non era eseguibil
progetto; e altronde sempre vi rimanea tal rapidità da superare che, se non
impossibile, costosissimo avrebbe quì renduto il rimontare delle barche.
Lodovico della grand’opera
incaricò senza dubbio Lionardo,
che sul luogo prese le opportune misure e fece le necessarie livellazioni. Ciò
abbiamo da una relazione del Pagnani, che manoscritta sta nella nostra
biblioteca. In essa leggesi, che quando nel 1518 mandati furono dal governo
francese gl’Ingegneri per esaminare come render navigabile l’Adda fra Brivio e
Trezzo, seppero dai contadini del paese, che molto prima, per comando di
Lodovico Sforza, eransi fatte le medesime illustrazioni, e livellazioni, alle
quali essi erano intervenuti, Vero è che ivi si nomina Giuliano Vascono fra gli
architetti e non Lionardo; ma ben
è probabile che l’opera sua vi prestasse pur egli, cui sempre, ove d’acque
trattavasi, vedemmo dal duca adoperato.
Che se pur è dubbio
che di tal navigazione s’occupasse il Vinci
allora, se n’occupò certamente dopo le convulsioni sofferte da questo paese nel
cangiamento di governo, nella qual epoca passando egli lungo tempo, come già
dicemmo, col suo protettore e amico Francesco Melzi, in Vaprio o alla Canonica,
luoghi presso al canale e sull’Adda, più volte senza dubbio era stato ad
esaminare il fiume, ed aveva osservata che la rapidità del suo corso, sebbene
ineguale, estendeasi da Brivio sin presso a Trezzo, pel tratto di circa 6
miglia. Quando pertanto fu chiesto de’ suoi lumi e dell’opera sua per rendere
navigabile l’Adda, egli pensò a fare un canale in luogo opportuno che, medianti
i necessarj sostegni, atte quelle acque rendesse a sostenere le barche. Delle
sue indagini locali sul modo di riuscirvi, delle misure da lui prese, e della
fattane livellazione, non ci lascia dubitare il disegno del corso dell’Adda che
di sua mano abbiamo, nel quale indiconne con semplici linee gli andamenti e i
giri, e la scogliera che sotto Paderno il dividea. A fianco del disegno ha
notate le misure del lavoro da farsi, su cui computarne le spese. Comincia il
disegno da Brivio e stendesi sino all’imboccatura del naviglio sotto Trezzo.
Ivi leggesi (riducendo il suo scritto sul diritto e alla nostra ortografia):
Il cavo del naviglio è miglia 6 e 2/5, dal mulin di Brivio al
porto di Trezzo. Da Brivio al mulin del Travaglia è miglia 3 2/3: e da esso mulino
al ponte di Trezzo è miglia 2 2/5 … Adunque il cavo sarà la metà di 8/10: spesa
della costa la qual costerà 3000 ducati: e con 13 mila si serrerà la valle, (cioè farassi un sostegno o briglia al fiume) a li tre corni (scogli che ancora così chiamansi) e di sotto si risparmia il cavo di due miglia.
Al Mulino del Tura profondo br. 7 dalla pelle (superficie) del naviglio alla pelle della data trabucchi
2794. Sotto il luogo corrispondente all’attuale naviglio di Paderno, v’è
scritto: uno ingegno (congegno) perpetuo brieve come una conca. Poco
sopra il luogo del castello di Trezzo, leggesi: Br. 10 più basso che il Travaglia, e dal mulin del Travaglia a quì son
trabucchi 4078. Rimpetto al luogo del castello di Trezzo: Tranne 3 2/3 di 6 ½ resta miglia 3. Più
sotto: Fanno once 6: 6 via 12 fa 72:
aggiugnivi 6 once fa 78, da cui tranne 36 e aggiungivi 8 once fa 44. Ora tranne
44 di 78 resta 34; e da questo tranne il miglio compartito in 12, e sarà 2
miglia e 10/12, cioè 5/6.
Tutto ciò copiò il laborioso Oltrocchi dal foglio
328 del codice atlantico, disegnando leggermente con matita l’andamento del fiume.
Ineseguito fu allora
il progetto di Lionardo, come lo
fu quello de’ due ingegneri milanesi Bartolommeo Della valle, e Benedetto
Massaglia; i quali, poco dopo Lionardo,
proposto aveano di fare in quel luogo una deviazione navigabile di circa due
miglia. Ne’ successivi cangiamenti delle cose pensarono sempre i Milanesi alla
navigazione dell’Adda; e dal re di Francia Francesco i ottennero nel 1516 per quest’oggetto 5000 scudi annui, co’
quali nel 1518, come notammo, si rifecero per la seconda volta le indagini; e
più ancora ottennero dalla Spagna, a cui la Francia ceduto avea di questo paese
il dominio, poichè nel 1591 l’architetto e pittor milanese Giuseppe Meda
disegnò e fece eseguire la gran conca di Paderno, che noi vedemmo distruggersi
per sostituirvene sei colle quali nel 1777, sotto il governo austriaco, si
ottenne la tanto desiderata navigazione dell’Adda. Di quell’antica conca
saggiamente ci ha conservata la descrizione e i disegno il valente nostro
idraulico, e architetto Bernardino Ferrari.[225]
Mi lusingo d’aver
così rammentato quel tutto che a mia notizia è pervenuto intorno alla vita,
agli studj, e alle opere di Lionardo da
vinci, le cose scrivendo da Storico anzichè da Encomiatore; e mi si
vorrà ben perdonare, io spero, se per la distanza de’ tempi, per la lontananza
de’ luoghi ove molte opere sue s’ammirano, e per la perdita degli originali
suoi scritti e disegni, alcune cose ho omesse o non ho con tutta la precisione
esposte.
[1] Nota qui introdotta da Giancarlo
Mauri: dory = ficcone, lungo legno appuntito usato per
uccidere; liptoi = ricevo. Termine
che ricorda il metodo utilizzato per uccidere un vampiro. In Eanda Euripide ne fa un uso metaforico, dando a doryliptoi (una pugnalata) il significato di ‘rapina’
operata da chi ha vinto la guerra (o ‘bottino’, con valenza spregiativa).
[2] Disegni di Leonardo
da Vinci incisi e pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli. Ragionamento premesso, e
Spiegazione delle Tavole. Ital. e Franc. Milano, Presso Galeazzi 1784. fol.
atl.
[3] Contemporaneamente a
queste Memorie del Vinci pubblicansi le notizie intorno alla vita, e agli
scritti di Baldassare Oltrocchi scritte dal suo successore ed amico Pietro
Cighera Prefetto della nostra biblioteca.
[4] Essai sur les ouvrages
physico-mathématiques de Léonard da Vinci avec des fragmens tires de ses Manuscrits
apportés de l’Italie etc. Par J. B. Venturi etc. A Paris, chez Duprat.
An. V. 1797. in 4. fig.
[5] Mi scrive il ch. C.
Giambattista Giovio, che da suo padre ebbe copia di quello scritto Gioviano il
Sig. Co. Rezzonico suo zio; e che egli poi ignorando la di lui intenzione di
pubblicarlo mandollo al cel. Tiraboschi, che divolgollo nel x. tomo (p. 290) della sua Storia
Letteraria.
[6] Nell’albero
genealogico della famiglia da Vinci, la quale tuttora conservasi, trovasi
Ser Piero notaio della Signoria nell’anno 1484.
[suoi figli:]
Domenico autore de’ viventi.
Ser Giuliano notaio della Signoria nel 1515.
Leonardo Pittore naturale, nato nel 1452.
Ciò rilevò il sig. Dei dal Catasto di
Decima di Firenze dell’anno 1469, quartiere Santo Spirito, Drago, nel qual
Catasto vengono nominati tutti quelli, che componeano la famiglia de’ Vinci in
quell’anno colla rispettiva loro età; e leggesi: Ser Piero d’Antonio d’anni 40. Francesca
Lanfredini (sua moglie) d’anni 20,
e per ultimo, Lionardo figliuolo di detto
Ser Piero non legittimo, d’anni 17. Vedi Serie di ritratti d’uomini illustri toscani, n. xxv., ove la prima parte di questa
genealogia si riferisce. Il resto l’ho trovato fra le carte del nostro
Oltrocchi, che avrà forse avute originalmente da Firenze quelle notizie, non
mai, per quanto io so, pubblicate.
[7] Rime del faceto et arguto poeta Messer Bernardo Belinzone fiorentino. Milano 1493. Per Filippo Maria
de’ Mantigazzi.
[8] Questo gran codice,
che chiamasi atlantico pel sesto e per la mole, contiene quanti disegni e
scritti di Lionardo il cav. Pompeo
Leoni potè raccogliere poco dopo la di lui morte, avendone avuta gran parte dal
Mazzenta, che l’ebbe dagli eredi di Messer Francesco Melzo. Contiene questo
codice 1750 disegni. Dopo varie vicende pervenne esso nelle mani del sig. conte
Galeazzo Arconati, a cui Giacomo i.
re d’Inghilterra fece offerire 3000 doppie di Spagna per averlo; ma egli, più
avido di gloria che d’oro, ricusò quel danaro; e ’l gran codice con altri
undici del medesimo Vinci donò
alla biblioteca ambrosiana, lusingandosi di lasciare un monumento illustre,
durevole ed istruttivo ai suoi concittadini; delle quali cose fa fede lo
stromento di donazione esistente nel nostro archivio, e la seguente iscrizione
tuttora rimasta sopra il vuoto serbatoio di quel tesoro.
leonardi . vincii
manv . et . ingenio . celeberrimi
lvevbrationvm . volvmina . xii
habes . o . civis
galeaz. arconatvs
inter . optimates . tuos
bonarvm . artivm . cvltor . optimvs
repvdiatis . regio . animo
qvos . angliae . rex . pro . vno . offerebat
avreis . ter . mille . hispanicis
ne . tibi . tanti . viri . deesset . obrnamentvm
bibliothecae . ambrosianae . consecravit
ne . tanti . largitoris . deesset . memoria
qvem . sanguis . qvem . mores
magno . federico . fvndatori .
adstringvnt
bibliothecae . conservatores
posvere . anno mdcxxxvii
[9] Idea del tempio della pittura, pag. 42.
[10] Vite de’ più eccellenti Pittori ec., Vita di Lionardo da Vinci; e questa intendesi sempre indicata,
qualunque volta nomino Vasari.
[11] Eccolo riportato dal
Dufresne e da altri.
Chi non puo quel che vuol, quel che puo
voglia;
Che quel che non si puo folle è il
volere.
Adunque saggio è l’uomo da tenere
Che da quel che non puo suo voler
toglia.
Però che ogni diletto nostro e doglia
Sta in sì e no, saper voler potere.
Adunque quel sol puo che è col dovere,
Nè trae la ragion fuor di sua soglia.
Nè sempre è da voler quel che l’uom
pote:
Spesso par dolce quel che torna amaro,
Piansi già quel ch’io volsi, poichè io
l’ebbi.
Adunque tu, Lettor di queste note,
Se a te vuoi esser buono, e ad altri
caro
Vogli sempre poter quel che tu debbi.
[12] Che Lionardo le copiasse dal vero lo rilevo
da suoi disegni, ove sovente accanto alla caricatura trovasi il nome o ‘l
soprannome della persona rappresentata. Così nella figura inferiore a sinistra
(di chi guarda) della Tav. xiv del
Gerli leggesi: ol bolgia che porta el
capelet in cima al co: alla prima figura a destra della Tav. xvii sta scritto: il S.or gio. Cirello; e alla sottoposta: S. Hieronimo de la Porta; alle due inferiori della Tav. xix leggesi a destra D. James, e a sinistra il S.r Bocal. Alla sinistra
inferiormente nella Tav. xxi Capatagn Nasotra; e così di molte altre.
Queste caricature, siccome appare da nomi scritti in dialetto milanese, furon
certamente disegnate da Lionardo
in Milano; ma da ciò pur rilevasi che uso egli era a copiarle dal vero.
[13] Trattato dell’Arte
della Pittura. Lib. i. cap. i.
[14] Oltrocchi ottenne
l’ortografia vinciana, e quì pur io la ritengo. Certo è non esser quella ch’è
adottata oggidì; ma v’ha alcuni casi, in cui la trovo ragionevole. Egli
generalmente non riconosce che la c e
la g quali le pronunziamo inanti all’e, e all’i, onde scrive ca, co, cu,
ga, go, gu ove noi scriviamo cia, cio,
ciu, gia, gio, giù; e aggiunge la h alla c e alla g ove vuole chi si pronunzino come noi
la pronunziamo avanti a, o, u.
Così ammette la sola s dolce,
raddoppiandola quando si pronunzia forte, ancorchè talora sia impura. Sovente
pur unisce l’articolo e la preposizione al nome, come faceano i primi scrittori
italiani. Di tutto ciò avremo frequenti esempi negli squarci che riporterò
tratti da suoi scritti; sebbene questi medesimi suoi principj egli non segua
costantemente.
[15] Vita di Giuliano da San Gallo.
[16] Supplemento alla Vita di Lionardo
da Vinci, nel Tomo v. delle
Vite de’ più eccellenti pittori ec.
del Vasari, ediz. di Siena 1792.
[17] Vedi sotto al numero
x.
[18] Essay etc. pag. 36.
[19] Rime, loc. cit.
[20] Ricordi di Monsig.
Sabbà da Castiglione. Vineia (sic)
presso Farri 1560. Vedi il num. xviii.
[21] Non
furon mai le arti del disegno interamente trascurate presso di noi. Veggasi
nella Storia Pittorica del ch. sig.
ab. Lanzi (Tom. ii. pag. 386) ove
tratta della Scuola Lombarda, come sempre in mezzo alla maggior barbarie che
oscurava l’Europa tutta, in Lombardia conservossi e l’uso, e un certo gusto
della pittura, della qual cosa parecchi monumenti presso di noi esistenti egli
indica, e altri avrebbe potuto indicarne, fra i quali la chiesa pievana, or
secolarizzata di Galliano a sei miglia al sud di Como, dipinta nel 1007. Quando
Giotto quì venne, certamente prima del 1334, e dipinse il palazzo de’ Visconti,
la pittura prese migliori norme, e formossi una scuola, che diede de’ grandi
nomini, le opere de’ quali in alcune chiese, e presso qualche famiglia
s’ammirano tuttavia. Del risorgimento della scoltura un monumento n’era in s.
Francesco, chiesa ora secolarizzata, lavoro del 1316 rappresentante scolpito in
marmo il Transito della B. Vergine; e due monumenti ancor ve n’ha, de’ quali
uno è il mausoleo di s. Pietro Martire in Sant’Eustorgio, e l’altro di
Lanfranco Settala in San Marco: amendue di Giovanni da Pisa, che il primo
terminò nel 1339, e poco dopo fe’ l’altro lavoro. Risorse pure l’Architettura
quando Gian Galeazzo Visconti invitò i più valenti maestri di quest’arte per la
fabbrica del duomo; ma non lasciò essa le così dette gotiche maniere. Come poi
sino a Lionardo s’andassero le tre arti migliorando, veder si può nella
mentovata opera del Lanzi; e più diffusamente ancora il leggo nelle inedite Memorie per servire alla Storia de’ Pittori
Scultori e Architetti milanesi, del fu ab. Antonio Albuzzi possedute ora
dal valente Raccoglitore degli Economisti italiani Pietro Custodi che
cortesemente me le ha comunicate.
[22]
Prefazione alle Rime del Bellincioni.
[23]
Pag. 30.
[24]
Prefaz. al Libro de divina proportione.
[25] Biblioth. scriptorum Mediolanens. Tom. i. Histor.
Literar. Typograf.
Mediol. Pag. 337.
[26]
Vedi sopra alla pag. 26.
[27]
Coronazione e sponsalizio de la ser. Regina M. Bianca Maria Sforza, di
Baldassare Taccone ec. Milano, presso Pachel. 1493.
[28] Pel
ritratto della prima scrisse il Bellincioni il seguente sonetto, che assai più
al pittore che al poeta fa onore.
Di che t’adiri a chi invidia
hai Natura !
Al Vinci che ha ritratto una tua stella !
Cecilia sì, bellissima, oggi
è quella
Che a suoi begli occhi il
sol par ombra oscura.
L’onor è tuo, sebben con sua
pittura
La fa che par che ascolti, e
non favella.
Pensa, quanto sarà più viva
e bella,
Più a te fia gloria nell’età
futura.
Ringraziar dunque Lodovico
or puoi
E l’ingegno e la man di Lionardo
Che a posteri di lei voglion
far parte.
Chi lei vedrà così, benchè
sia tardo
Vederla viva, dirà: basti a
noi
Comprender or quel ch’è
natura ed arte.
Trovo fra le note mss. del
De Pagave, che il ritratto della Gallerani, maritata poi al conte Lodovico
Pergamino, vedevasi ancora in Milano nel secolo ora scorso presso i marchesi
Bonesana, e una bella e antica copia n’abbiamo nella nostra galleria. Un
bellissimo quadro dello stesso Lionardo
dipinto per questa Cecilia esiste, e vidilo negli scorsi giorni, presso Giuseppe
Radici mercante di vino nella contrada di s. Vito al carrobbio in porta
ticinese ora marengo. Rappresenta questa tavola la B. Vergine col Bambino
sedente in atto di benedire una di quelle rose che dal volgo diconsi rose della
madonna, dipinta con una finitezza mirabile. Bella sopra tutto n’è la testa,
nella quale come ne’ collo e petto ammirasi un liscio e lucido sorprendente. Vi
si legge il nome di Cecilia ne’ seguenti versi scritti nello zoccolo della
cornice in forma d’ancona, che ben mostra l’architettura di que’ tempi:
Per
Cecilia qual te orna lauda e adora
El
tuo unico figliolo o beata vergine exora.
Potrebbe il Vinci aver fatto contemporaneamente il
quadro e ’l ritratto: non essendo raro allora che la divozione s’accoppiasse ad
illeciti amori, ma può ben anch’essere che questo dono abbiale fatto Lodovico
dopo il matrimonio, giacchè trovo nel mentovato libro di spese della fabbrica
del duomo., che il duca nell’anno 1493 doveva una somma pro pretio cent. 151. marmoris
fini dati mag. Johanni de busti ducali
inginiar. pro ponendo in opere in domo dñe Cecillie Pergamine etc. Argelati di lei parla come
di donna colta e poetessa.
[29] Nel
Cod. Atlant. pag. 164 v’ha tre eleganti epigrammi inediti sul ritratto di
Lucrezia Crivelli fatto da Lionardo,
che l’autore anonimo forse mandò al Pittor medesimo senza pubblicarli:
i.
Ut bene respondet Naturae Ars docta !
Dedisset
Vincius, ut tribuit cetera, sic animam.
Noluit ut similis magis haec foret: altera
sic est:
Possidet illius Maurus amans animam.
ii.
Huius quam cernis nomen Lucretia, Divi
Omnia cui larga contribuere manu.
Rara huic forma data est; pinxit Leonardus, amavit
Maurus, pictorum primus hic, ille ducum.
iii.
Naturam, ac superas hac laesit imagine Divas
Pictor: tantum hominis posse manum haec doluit,
Illae longa dari tam magnae tempora formae,
Quae spatio fuerat deperitura brevi.
Ma forse il Vinci fece quel ritratto dopo il 1497,
se è vero che Lodovico sol dopo la morte di Beatrice ebbe da Lucrezia quel Gio.
Paolo che fu lo stipite dei marchesi di Caravagio. Vedi Imhoff. Hist. Ital. et Hisp. genealog. Tom. i. pag. 245. Nel Museo di Parigi v’è ritratto di bella donna
alla finestra con veste rossa fregiata di ricamo e gallon d’oro, che credesi
esser quello di Lucrezia Crivelli fatto quì da Lionardo.
Gault de S. Germain pag. lxix.
[30]
Pref. al libro De divina proportione.
[31] Vita di Lionardo da
Vinci.
[32]
Saggio sopra la Pittura.
[33]
Ecco il titolo che il Tantio premette a’ que’ versi. » La seguente operetta
composta da Meser Bernardo Belinzon è una festa o vero ripresentazione chiamata
Paradiso, qual fece fare il signor Lodovico in laude della duchessa di Milano,
e chiamasi Paradiso perochè v’era fabbricato con il grande ingegno ed arte di
Maestro Leonardo Vinci fiorentino il Paradiso con tutti li sette Pianeti che
girava e li Pianeti era rapresentati da homini in forma e habito che se
descrivono dalli poeti; li quali Pianeti tutti parlano in laude della prefata
duchessa Isabella, come vedrai leggendola. «
[34]
Vedi sopra, pag. 29.
[35] Rime pag. 27.
[36]
Hist. Nat. lib. 35. cap. 2.
[37] Fronte stabat prima, quem totus noverat
orbis
Sfortia
Franciscus Ligurum dominator et altae
Insubriae,
portatus equo etc. De Nuptus
Impeatoriae Majestatis etc. anno 1493. Mediolani, apud Zarotum
1494.
[38]
Tav. lx.
[39]
Delle Histor. Milanesi, all’ann. 1492.
[40] In
un codice triulziano in cut ammiransi molti disegni di Lionardo e della sua Scuola, uno ve n’ha di bel giovanetto
che credesi essere Francesco Melzi; e credea pur Gerli che un ritratto del
giovanetto Melzi fosse quello della sua Tavola iv.
Che giovanetto ei fosse allora l’abbiamo da lui medesimo, poichè sopra la testa
da lui disegnata, e pubblicata dal Gerli (Tav. xlv)
e dal Mantelli (Tav. 17.) egli scrisse: 1510
a di 14 Augusto. P.a cavata de relevo da Francescho da Melzo de anni 16. E
dietro alla spalla ha scritto; anni 19
Fr. Melzo.
[41] Elencchus
Privilegior, Ticin. studii. Pag. 154.
[42] Due
Lezioni prelimin. del D. Guglielmo Hunter premesse al suo Corso di Lezioni
anatomiche. Londra 1784.
[43]
Nelle Tavole xxx. xxxi. xxxii. xxxiii,
xxxiv. i.* ii.* iii.* vii.* x.* xi.*
[44]
Ecco le parole che scritte sono presso la testa dell’uomo (Tav. i.)
h. l. 1/6 del volto | f.
c. 1/3 del volto
g. r. 1/4 del capo | k.
l. 1/2 del volto
g. t. 3/4 del volto | h.
f. 1/4 del volto
f. t. 1/4 del volto |
Fa che il chapo cioè dalla somità dell omo al di sotto del mento
sia l’ottava parte di tucto lomo ilquale chapo dividerai in 5 ed una delle
parti fa che sia dal nascimento de chapelli insino al pari della soma alteza
del capo. un altra, parte metti dal taglio della bocca al fine di sotto del mento
e laltre di mezo ressterano infral taglio della boccha a al fine del naso co
chapeglj.
Presso la testa del cane
leggesi:
g o sono eguali o,
sono simili
s e sono eguali f f
sono simili
Le quali spiegazioni
trovansi oscure perchè mancano al disegno le lettere corrispondenti, o almeno
non veggonsi nella copia che n’ha fata il Gerli; nè più veder le posso
nell’originale.
[45]
Firenze presso Pagani e Grazioli 1792. in- 4.
[46] Chi
questi vuol confrontare con quelli del Poussin, vegga nella seguente nota il
capo, a cui ognuno corrisponde.
Num. 1 Cap. lxxxix. |
Num. 14 Cap. cc.
Num. 2 Cap. clxxiv.
| Num. 15 Cap. cciv.
Num. 3 Cap. clxxvii. | Num. 16 Cap.
ccv.
Num. 4 | Num. 17
Cap. ccix.
Num. 5 | Num. 18
Cap. ccx.
Num. 6 Cap. clxxxix. | Num. 19 Cap.
ccxxxi.
Num. 7 | Num. 20.
Num. 8 | Num. 21
Cap. ccxxxiii.
Num. 9 Cap. clxxxii. | Num. 22
Cap. cclxi.
Num. 10
| Num. 23 Cap. cclxiii.
Num. 11 Cap. clxxxxvi.
| Num.
24 Cap. cclxviii.
Num. 12 Cap. clxxxxvii.
| Num.
25 Cap. ccxcv.
Num. 13 | Num. 26
Cap. ccci.
[47]
Idea del tempio della Pittura pag. 7. Tratt. Della Pittura lib. 2 cap. 19.
[48] A
questo M. Gualtieri come ad uomo generoso e benefico scrive il Bellincioni un
Sonetto (pag. 174) per chiedergli un piacere; e ’l Tantio rendendo ragione a
Lodovico il Moro, perchè pubblicasse le Rime del Bellincioni: ciò hammi
imposto, gli dice » l’humano fidele, prudente et sollicito executore delli tuoi
comandamenti Gualtero, che fa in tutte le cose ove tu possi far utile, ogni
studio vi metti. «
[49]
Trattato dell’Arte della Pittura. Pag. 158.
[50]
Storia genuina del Cenacolo insigne dipinto da Leonardo da Vinci ec. Del P.
Domenico Pino. Milano 1756. in 8.o Il P. Allegranza (Op. Eruditi
pag. 290), nega che di Lionardo
sian quelle figure, ma dell’opinion sua non adduce fondamento.
[51] Practica musice Franchini Gafori Laudensis,
Mediol. per Guilleim, Signer. 1496.
Fol.
[52] Id.
De Architectura, Cap. vi. in
fine.
[53]
Loc. cit. Lett. dedicat.
[54] Epistol.
dedicat.
[55] Catalogue
raisonné des Manuscrits conservés dans la biblioteque de la ville et repubbl.
de Geneve, par Jean Sénébier. Geneve
1779. Pag. ultima.
[56]
Corio. Delle historie milanesi. Parte vii.
[57]
Corio. Loc. cit.
[58]
Vasari. Vita di Leonardo da Vinci. Circa questi tempi dev’essere stata scritta
una lettera, di cui trovasi la minuta o la copia al fot. 316 del codice
atlantico, di mano di Lionardo e a
caratteri rovesci, ma contenente cose, ch’egli non avrebbe dovuto scrivere. Si
avvisano in questa i Fabbricieri,
d’una città, che dagli antecedenti può sospettarsi essere Piacenza; di passo e di concorso d’innumerevoli
forastieri, ove doveva allogarsi una
magna opera per onore di Dio, e degli uomini; e si dice che loro tornerebbe in grandissimo disonore, e
lunghissima infamia, se prestassino tede a qualcuno per le sue fruppe o per favore che di quà gli sia dato. Dicesi che
di quelli che pretendono far tal opera chi
e maestro di boccali, chi di corazze, chi campanaro, alcuno sonagliere, e
persino bombardiere; e fra questi un certo Delsignore s’è vantato d’esser compare
di Mess. Ambrogio Ferrere (appaltatore delle gabelle ducali) da cui ha buone promessioni; e ove ciò
non basti monterà a cavallo e impetrerà
tali lettere per cui l’opera a lui non sia denegata.... Aprite gli occhi, soggiunge: da cotesta terra non trarrete se non opere
di vili e grossi magisteri. Credetelo a me, conchiude, salvo Lionardo fiorentino che fa il cavallo del
duca Francesco di bronzo che non ne bisogna far conto perchè ha che fare il
tempo di vita sua, e dubito che per essere sì grand’opera non la finirà mai
ec. Potea Lionardo scrivere in
questi termini degli altri, e di se stesso? E poichè scritto è il foglio di sua
mano dobbiamo argomentare che copiasse una lettera altrui a se onorifica, se
non che non sembrano consentanee al suo pensamento le ultime parole.
[59]
Lett. lxxxiv fra le Pittoriche
stampate in Roma 1757.
[60]
Loc. cit.
[61] Al
cartone del Cenacolo apparteneano le figure degli Apostoli e della Cena, che
separatamente disegnò Lionardo; e
son questi le tavole di cui quì sotto si parla.
[62] Le
teste di s. Pietro e di Giuda tratte da nostri codici furono disegnate e
pubblicate dal Gerli (Tav. 11) e dal Mantelli (Tav. 12). Un intero disegno del
Cenacolo, che pure vuolsi di Lionardo,
posseduto già dal march. Questore Castiglioni, e quindi dal sig. Don Giuseppe
Casati, intagliò il valente prof. Aspari.
[63] Tratt. dell’Arte della Pittura, Lib. 3.
Cap. 5.
[64] Discorso sulle arti del Disegno recitato da
Antonio Mussi Prof. ec. Pavia 1798.
pag. 33.
[65] Stor. delle arti del Disegno. Tom. i pag. 235 della mia traduzione. Ediz.
di Milano.
[66] Una
lunga nota delle copie più celebri che fecersi del Cenacolo trovo negli scritti
del lodato consigl. De Pagave, e sono: in Milano
1. Nel convento de’
Francescani della Pace sul muro. Del Lomazzo nel 1561.
2. In S. Barnaba, ed è
l’ottava parte dell’originale. Credesi di Marco d’Oggiono fatta per ricopiarla
poi nella grandezza dell’originale, siccome ha fatto.
3. In S. Pietro in Gessate.
D’Agostino Santagostini.
4. Nel Monastero maggiore,
sul muro. Del Lomazzo.
5. Una fedele e non
ispregevol copia ne fe’ fare per la sala de’ quadri della nostra biblioteca il
card. Federico Borromeo, di cui alla pag. 74.
6. A due miglia da Milano,
nel monastero de’ Gerolimini di Castellazzo. Di Marco Oggiono summentovato.
7. Nella gran Certosa di
Pavia. Dello stesso. Fu di colà portata a Milano ove venne in questi ultimi
tempi delineata ed incisa dal valente sig. Frey.
8. In San Benedetto di
Mantova. Di Monsignori.
9. In Lugano. Nel refettorio
de’ PP. Osservanti. Di Bernardino Luino.
10. In Ispagna all’Escurial.
11. In Francia, a S. Germano
d’Auxerres per ordine di Francesco i.
Dello stesso Luino.
12. A Escovens, pel co. di
Monmorenci.
[67] De
Viris illustr. Ord. Praedic., p. 47.
[68] Nel
Discorso sopra i Romanzi così scrive
questo elegante autore. » Giova al poeta far quello che soleva fare Leonardo
Vinci eccellentissimo dipintore. Questi, qualora voleva dipingere qualche
figura, considerava prima la sua qualità, e la sua natura, cioè se doveva esser
nobile o plebea, giocosa o severa, vecchia o giovane, buona o malvagia... e poi
se n’andava ove sapeva che si ragunassero persone di tal qualità, e osservava
diligentemente il loro viso, le loro maniere, gli abiti, i movimenti del corpo;
e trovata la cosa che gli paresse atta a quello che far voleva, la riponeva
collo stilo al suo libricino, che sempre teneva a cintola. « Narra poi come per
trovare una faccia atta a rappresentar Giuda pel Cenacolo andava ogni giorno
mattina e sera in Borghetto, ove abitano tutte le vili e ignobili persone, e
per la maggior parte malvage e scelerate «, e che minacciò infine di dare a
Giuda il viso del P. Priore, che ’l molestava: cosa non verosimile, anzi non
possibile, come dimostralo il mentovato P. Monti. Veggasi il lodato P. Pino,
pag. 66 e seg.
[69]
Veri Precetti della Pittura, 1587. p. 172.
[70]
Tempio della Pittura, pag. 49.
[71]
Saggi sul ristabilimento dell’antica arte de’ greci, e romani pittori. Parma
1787. T. i. pag. 167.
[72]
Tratt. della Pitt. Cap. 100; 123 ec.
[73]
Vedi Opusc. scelti di Milano. Tom. ix,
pag. 306.
[74] Fra
i moltissimi scrittori che il Cenacolo vinciano descrissero, nessuno, a parer
mio, meglio comprese ed espresse in parole i sentimenti che Lionardo esprimere volle e seppe nelle
figure del Redentore e degli Apostoli, quanto l’immortale fondatore di questa
nostra biblioteca il card. Federico Borromeo nella descrizione dell’unitovi
Museo (Federici Card. Borromaei. Musaeum.
Mediolani 1625. in fol.) » Il
pittore, dic’egli, così bene negli atteggiamenti e ne’ volti mostrò i moti
interni degli animi, che al guardar la pittura ti par d’udire ciò che gli
Apostoli ebbero a dir fra loro, quando Gesù Cristo pronunciò: Colui che mette
con meco la mano nel piatto questi mi tradirà. Il volto del Salvatore indica la
profonda mestizia, ch’ei mostra al tempo stesso di volere per moderazione
occultare. Ti par d’udire taluno degli Apostoli minacciare il traditore;
un’altro promettere al Divin Maestro ajuto e difesa; questo vedi rimanere
stupido all’annunzio del gran misfatto; quello vivamente affliggersene; chi
cerca d’allontanare da sé il sospetto; chi l’orditura del delitto e ’l
delinquente d’indagar s’ingegna: chi sta attonito, chi si mostra sdegnato, chi
parla, chi interroga, e chi gli altri ascolta. Il volto di S. Pietro spira
sopra ogni altro ira e vendetta, robustezza mostrando egli e vigore negli atti;
e a S. Giovanni rivolto gli chiede de’ divini detti il rischiaramento. Presso a
lui per contrapposto collocò l’artefice il traditor Giuda, onde meglio veggasi
l’opposizione de’ sentimenti ne’ due diversi volti. Torva ispida e vile è la
deformità del traditore, mentre il volto di s. Pietro è aperto, onoratezza
mostrando e dignità. Vedasi Giuda ansioso e pel timore d’essere scoperto
ascoltare i discorsi di Pietro e Giovanni. E ben mostrò Lionardo nel volto di Giuda quanto versato fosse nella
fisiognomica, poichè nero il pinse, irto il crine e la barba, con occhi
incavati, naso simo, squallido e magro; indizj tutti d’animo maligno; laddove
all’Apostolo diè pallide le labbra per lo sdegno, dilatate le narici, il naso
diritto, e franco il guardo.
[75]
Vedi al num. xxix.
[76]
Loc. cit.
[77]
Tempio della Pittura, pag. 49. Trattato della Pittura, p. 50.
[78] Feder. Card. Borromaei Musaeum, pag. 26.
[79] Barthol. Senensis. De
Vita et Morib. B.
Stephani. Senis 1726.
[80] Microcosmo della pittura, Cesena 1657.
[81] Ritratto di Milano, pag. 164.
[82]
Loc. cit. pag. 412.
[83] È
questi Andrea Salaino; ma Lionardo
non iscrive mai il suo nome altramente che Salai,
o Salay.
[84] La Cappa di Salai addi 4 Aprile 1497.
Br. 4 di panno argentino ll. 15 4
Velluto verde per ornare ll. 9
Bindelli ll. - 9
Magliette ll. - 12
Manifattura ll. 1 5
Bindello per dinanzi ll. - 5
Punta ll. 1
Ecci del suo grossoni 13.
[85] Raccolta di Disegni incisi da Girolamo
Mantelli di Canobio sugli Originali
esistenti nella biblioteca ambrosiana di mano di Leonardo da Vinci, e de’
suoi scolari Lombardi. Milano 1785. fol. atl.
[86] Pompas nuptiales, lugubres naenias,
sibariticas mensas, atellanas fabulas, jonicos choros, ludicraque denique
omnia, publicis praesertim oculis obnoxia, tanto semper apparatu, tamque
exquisito voluptatum deliciarumque omnium genere spectantibus semper exhibuit,
ut quae nobis ab inde spectacula edita sunt, ea velut abortivo foetu
degeneraverint. Praeterea mathematicos, sophistas, philosophos, medicos...
benevolentia viaticoque prosequebatur. Oinne praeterea literatorum genus...
lyristas, symphoniacos, fidicines, pyrrhicos, histrionicique gestus
ludicrorumque doctores eximios amavit: praeclara opificum ingenia, peregrinas
artes adsciscebat. Leonardum pictorum
mollissimum etc. Arlunus de Bello Veneto. Cod. ms. pag. 97.
[87]
Frate Luca Paciolo nella prefazione al libro = De divina proportione = Scritto pel duca Lodovico parla della »
admiranda e stupenda equestre statua, la cui altezza, dalla cervice a piana
terra, sono braccia 12, cioè 37 4/5 tanti della quì presente linea A. B.
(Vedasi nella Tav. ii, fig. 8). Or
questa linea misurata nel codice ms. in pergamena colle figure del Vinci medesimo, è di once milanesi 4,
punti 0, atomi 11, e di poll. 7 lin. 5 6/5 del piede parigino, che sono uguali
a millimetri 202 1/10 dell’odierno metro francese. Quindi l’altezza del colosso
era di braccia milanesi 12, on. 10, p. 1 a 3/5; piedi parag. 23, poll. 6, lin.
2 1/2; metri 7, decimetri 6, centimetri 3, millimstri 9 2/5. Poichè il Paciolo,
collega ed amico del Vinci, parla
del peso della statua come delle reali sue dimensioni, io nello spiegare la
Tav. xl dei disegni vinciani del
Gerli, ne ho conghietturato, che ne fosse allora stato fatto il gitto; ma tanti
argomenti e testimonj dimostrano non essere stato fatto mai, che presto dovei
ricredermi, intendendo le parole del Paciolo come d’un calcolo fatto sulle
dimensioni, e non d’un peso realizzato.
[88] . . . Expectant animi, molemque futuram
Suspiciunt: fluat aes; vox erit: ecce
Deus.
Epigr. Lib. 4.
[89] Essermi data piu alcuna commessione
d’alcuna... del premio del mio servitio perchè non son da esserle da... cose
assegnationi perchè loro hanno entrate di p... li è che bene possono aspettare
più di me... non la mia arte la quale voglio mutare, e,... dato qualche
vestimento ----- Signiore, conosciendo io la mente di vostra excellentia essere
ochupata... il ricordare a vosstra signioria le mie pichole cose. Ella mi messe
in silenzio.... che ’l mio taciere fosse causa di fare isdegniare vostra
Signioria... la mia vita ai vostri servitii... mi trovo continuamente parato a
ubidire... del cavallo non dirò niente perche cogniosco i tempi... a V. Sig,
chom’io restai avere il salario di due anni del.... con due maestri i quali
continuo stettono a mio solario e spese.... che alfine mi trovai avanzato di
detta opera circha lire 15 mi... opere di fama per le quali io potessi mostrare
a quelli che io sono sta... da per tutto, ma io non so dove io potessi spendere
le mie opere... l’aver o atteso a guadagnarmi la vita.
[90]
Ecco le parole del Registro.
1499. 26. Aprilis. Ludovicus Maria Sfortia, dux
Mediolani dono dedit D. Leonardo Quintio (sic) fiorentino pictori celeberrimo pert. n. 16 soli seu fundi ejus vineae
quam ab Abate seu. Monasterio S. Victoris in Suburbano portae Vercellinae
proxime acquisierat, ut in eo spatio soli pro eius arbitrio aedificare, colere
hortos, et quidquid ei, vel posteris eius, vel quibus dederit ut supra,
libuerit, facere et disponere possit.
[91]
Ricordi, pag. 109.
[92]
Cron. MS. all’anno 1510.
[93]
Ivi.
[94]
Parodi. Elench. privilegiorum Ticin. Studii, pagg. 44, e 148.
[95]
Parodi. Loc. cit. ad ann. 1499.
[96]
Cron. mss. del Daprato.
[97]
Loc. cit.
[98]
Pref. all’Euclide illustrato.
[99]
Tratt. della Pitt. Lib. 2. cap. 17.
[100]
Lettere Pittoriche Tom. iii.
[101]
Eccola.
Caesar Borgia de Francia
Dei
gratia Dux Romandiolae Valentioeque, Princeps Hadriae, Domin. Plumbini etc. S.
R. E. Confalonerius et Capitaneus generalis. » Ad tutti nostri
locotenenti, castellari, capitanei, condottieri, officiali, soldati et subditi
ali quali de questa proverrà notizia commettemo et comandamo che al nostro
prestantissimo et dilectissimo familiare Architetto et Ingegnere Generale
Leonardo Vinci d’essa ostensore el quale de nostra commissione ha da
considerare li lochi et fortezze de li stati nostri ad ciò che secundo la loro
exigentia et suo judicio possiamo provederli, debbiano dare per tutto passo
libero di qualunque pubblico pagamento, per se et li soi amichevole recepto et
lassarli vedere, misurare, et bene extrimare quanto vorrà. Et a questo effecto
comandare homini ad sua requisizione, et prestarli qualunque aiuto, asistentia,
et favore ricercarà. Volendo che delle opere da farsi ne li nostri dominj qualunque
ingegnere sia astretto a conferire con lui, e con il parere suo conformarsi etc
Datum Papiae anno 1502, ducatus nostri Romandiolae etc. »!
[102] Sta
scritta da destra a sinistra nel fol. 73 del codice atlantico in questi
termini; coll’ortografia però e sintassi vinciana, che io cangio adoperando la
comune, perchè non sia nojoso il lungo racconto. = Capitani fiorentini: Niccolò da Pisa, Pietro Gianpaolo, Neri di Gino
Capponi, Conte Francesco Guelfo Orsino, Bernardetto de’ Medici, Micheletto, M. Rinaldo degli Albizzi
ed altri - Di poi si faccia come lui prima montò a cavallo armato; e tutto
l’esercito gli andò dietro - 40 squadre di cavalli, 2000 pedoni andavano con
lui - Il Patriarca (d’Aquileja Lodovico Scarampi Mezzarota) la mattina di buon ora montò su un monte per
iscoprire il paese, cioè colli, campi, e valle irrigata da un fiume, e vide dal
borgo a san Sepolcro venire Niccolò Picenino con le genti con gran polvere, e
scopertolo tornò al campo delle sue genti, e parlò loro - Parlato ch’ebbe pregò
Dio a mani giunte, con una nugola dalla quale usciva san Pietro che parlò al
Patriarca - 5oo cavalli furono mandati dal Patriarca per impedire o raffrenare
l’impeto nimico. Nella prima schiera Francesco figliuolo di Niccolò Picenino
venne il primo ad investire il ponte ch’era guardato dal Patriarca e fiorentini
- Dopo il ponte a mano sinistra mandò fanti per impedire i nostri i quali
ripugnavano, de’ quali era capo Micheletto, che quel dì per sorte aveva in
guardia lo esercito. A questo ponte si fa una gran pugna. Vi sono i nostri, e
l’inimico è scacciato. Quì Guido e Astorre suo fratello signore di Faenza con
molte genti si rifecciono, e ristorarono la guerra, e urtarono tanto forte le
genti fiorentine che ricuperarono il ponte, e vennero sino ai padiglioni, contro
i quali venne Simonetto con 600 cavalli ad urtare gli inimici, e li cacciò
un’altra volta dal luogo, e riacquistarono il ponte; e dietro a lui venne altra
gente con 2000 cavalli: e così lungo tempo si combattè variamente. Di poi il
Patriarca, per disordinare l’inimico, mandò Niccolò da Pisa innanzi e Napoleone
Orsino, giovane senza barba, e dietro a costoro gran moltitudine di gente, e
quì fu fatto un altro gran fatto d’armi. In questo tempo Niccolò Picenino
spinse innanzi il restante delle sue genti, le quali feciono un altra volta
inclinare i nostri, e se non fosse stato che il Patriarca si mise innanzi, e
con parole e fatti non avesse ritenuto que’ capitani sarebbono iti i nostri in
fuga. Fece il Patriarca piantare alcune artiglierie al colle, colle quali
sbaragliava le fanterie de’ nimici; e questo disordine fu tale che Niccolò
cominciò a rivocare il figliuolo, e le altre genti, e si misero in fuga verso
il borgo; e quì si fece una grande strage d’uomini, nè si salvarono se non i
primi che fuggirono o si nascosero. Durò il fatto d’arme fino al tramontar del
sole, e ’l Patriarca attese a ritirare le genti, e seppellire i morti, e ne
fece un trofeo.
[103]
Vedi le Tavole xxxv, xxxvi, xxxvii,
e xiii pubblicate dal Gerli.
[104]
Tom. i. Tav. xxix.
[105]
Vedi Macchiavelli Istor. Fior. Lib. v. Corio,
Istor. Milan. Parte v. Poggio. Vita di Niccolò Piccinino. Ven.
presso Ziletti 1571. Ivi leggasi che il Picinino medesimo attribuì la sua
disfatta a san Pietro.
[106] Dellavalle. Prefaz. alla Vita di
Raffaello, nel Tom. v. del Vasari.
Pag. 231. Ediz. Sanese.
[107]
Idea del Tempio della Pittura, pag. 299.
[108]
Decennal. viii, pag. 140.
[109]
Quella pietra probabilmente era quarzo bianco di cui trovansi non infrequenti
gran saldezze, e stratificazioni nelle alpi.
[110] La
Canonica di Vaprio è il luogo dell’antica chiesa pievana tuttora esistente
all’oriente dell’Edificiida, e rimpetto alla terra di Vaprio fabbricata sulla
costa occidentale. Alla Canonica i Melzi aveano una casa, che solevano abitare
in quel tempo, e quando la venderono vi si vedeva presso ad una finestra la
testa di Lionardo da lui stesso dipinta sul muro, MSS, di De-Pagave.
[111]
Supplem. alla Vita di Leonardo da Vinci. Vasari: Tom. v. p. 67.
[112] De
Bello Veneto. Cod. MS. in Bibl. Ambrosiana, fol. 119.
[113] Tratt. della Pittura
pag. 635.
[114]
Darannosi più sotto per esteso le Lettere e ’l Testamento medesimo.
[115] Il Da Prato Cron. MS. lo dice morto nel
1508. Così il Muratori. Annali
d’Italia, e amendue asseriscono mal fondato il sospetto dell’avvelenamento.
[116]
Trovo fra le carte del nostro Oltrocchi, il quale non notò dond’abbia tratta la
notizia, che nel libro dello spedale di s. Maria nuova di Firenze leggesi
registrato il debito, e ’l pagamento fattone a ser Giuliano fratello carnale di
Lionardo in nome anche degli altri
fratelli, tutti figliuoli di ser Piero, parte nel luglio, e parte nel dicembre
dell’anno 1520. Il credito di Lionardo,
di 300 e non di 400 scudi, vi è registrato nel 1514; ma può ben essere o che la
lite allor solo siasi decisa o composta, o solo dopo tre anni i fratelli
abbiano potuto dargli la convenuta somma.
[117] Io ho sospetto che la mia poca rimunerazione
de’ gran benefizj, che ho ricevuti da V. E. lo abbiano alquanto fatto isdegnar
meco, e che per questo sia che di tante lettere scritte a Vostra Signoria io
non ho mai avuto risposta. Ora mando costì Salai per far intendere a V.
Signoria come io sono quasi al fine del mio litigio, che ho co’ miei fratelli,
e come io credo trovarmi costì in questa pasqua, e portare con meco due quadri
di due Nostre Donne di varie grandezze, le quali san fatte pel cristianissimo
nostro re, o per chi a V. Signoria piacerà. Avrei ben caro di sapere alla mia
tornata costà dove avrei a stare per la stanza, perchè non vorrei dare più noja
a Vostra Signoria: e ancora avendo lavorato pel re cristianissimo, se la mia
provisione è per correre o no. Io scrivo al presidente di quest’acqua che mi
donò il re, della quale non fui messo in possessione perchè in quel tempo n’era
carestia nel naviglio per causa de’ gran secchi, e perchè i suoi bocchelli non
erano moderati; ma ben mi promise che fatta tal moderazione io ne sarei stato
messo in possessione. Sicchè io riprego Vostra Signoria che non le incresca ora
che tai bocchelli son moderati di far ricordare al Presidente la mia
expeditione, cioè di darmi la possessione di detta acqua, perchè alla venuta
mia ispero farvi su stromenti e cose, che saranno di gran piacere al nostro
Cristianissimo Re. Tratta dal cod. atlantico al fol. 310, e una consimil ve
n’ha al fol. 364, ove pur trovasi la seguente: Magnifico Presidente, Essendomi io più volte ricordato delle proferte
fattemi da V. Eccell., più volte ho presa sicurtà di scrivere e di ricordarle
la promessa fattami all’ultima partita, cioè la possessione di quelle 12 once
d’acqua donatemi dal cristianissimo Sire. Vostra Signoria sa che io non entrai
nel possesso di essa, perchè in quel tempo v’era caristia d’acqua nel naviglio,
sì pel gran secco, come per non esserne ancora moderati i bocchelli..., di poi
intendendo essere acconcio il naviglio, io scrissi più volte a Vostra Signoria
e a Messer Girolamo da Cusano, che ha presso di se la carta di tal donazione:
così scrissi al Cornigero (il Tanzi più volte mentovato), e mai non ebbi risposta. Ora io mando costì
Salai mio discepolo apportatore di questa... Io credo esser costì in questa
Pasqua per essere presso al fine di piateggiare, e porterò con meco due quadri
di Nostra Donna che io ho cominciati, ed holli ne’ tempi che mi sono avanzati
condotti in assai buon porto...
La terza lettera che trovasi nella medesima
pagina è diretta a messer Francesco Melzo intitolandola = Caro mio Messer Francesco. Io mando costì Salai per intendere....
ripetendo lo stesso dell’acqua, e de’ bocchelli, e finisce dicendogli. Non v’incresca per amor mio di sollecitarne
un poco il Presidente, e così Messer Gerolamo da Cusano, al quale mi
raccomanderete ec.
[118]
Cremona città fedelissima ec. sotto l’immagine di Massimiliano.
[119] Uno
di questi quadri credesi nella Galleria di Dusseldorf, inciso poi nella Tav. xiv. num. 67.
[120]
Osserva il ch. Lanzi che Lionardo
vicinissimo era a Raffaello nella maniera di dipingere, ed emulato l’avrebbe,
se scemando qualche grado alla finitezza, n’avesse aggiunto qualche altro alla
facilità ed amenità.
[121] Il
P. Allegranza (Opusc. Eruditi pag. 290) sospetta che cifra di Lionardo sia una
X frammezzata da una L, che vedesi presso a certe teste di Filosofi in casa
Borri; ma quelle figure non sono certo del Vinci.
[122]
Nota scritta da Lionardo nel fol. primo del cod. segnato X.
[123]
Tratt. dell’Arte della Pittura, Lib. ii.
Cap. 1.
[124]
Vedi la Tav. xii. della Collez.
del Gerli.
[125] Tiraboschi St. Lett. Tom. ix.
[126] Essay etc. pag. 40.
[127]
Vedi suo sonetto pag. 18.
[128]
Tratt. dell’Arte della Pittura Lib. ii.
c. 15.
[129]
Presso il C. Sannazzari v’è una piccola Venere ignuda a Lionardo attribuita, e trovo nelle note inedita del De
Pagave, che alcuni disegni in grande di donne e divinità ignude, come di
Proserpina rapita da Plutone, di Ninfa che medica un Satiro, di Giovinetta in
braccio ad un Vecchio, forse l’Aurora con Titone ec., possedeva il march.
questore Melzi, che per iscrupolo dielle al curato di S. Bartolomeo acciò le
abbruciasse, e questi n’esegui troppo scrupolosamente la volontà.
[130] Chi
diè le notizie al P. Dellavalle lesse de
lagna, e credè doversi leggere legna;
ma v’è scritto de laqua, cioè dell’acqua donatagli dal re Lodovico xii.
[131]
Ecco la lettera tratta dall’Archivio de’ Sigg. Da Vinci, e pabblicata nella sua
Vita fra gli uomini illustri Toscani (Serie de’ Ritratti ec. Tom. ii. Ser
Giuliano e fratelli suoi honorandi. Credo siate certificati della morte di
Maestro Lionardo fratello vostro, e mio quanto optimo padre, per la cui morte
sarebbe impossibile che io potesse esprimee il dolore che io ho preso, e in
mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possederò una perpetua
infelicità, e meritamente perchè sviscerato et ardentissimo amore mi portava
giornalmente. È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in
podestà della natura. Edificiiesso Iddio onnipotente gli conceda eterna quiete.
Essa passò dalla presente vita alli 2 di maggio con tutti li Ordini della Santa
Madre Chiesa, e ben disposto. E perchè esso aveva lettera del Cristianissimo
Re, che potesse testare, e lasciare il suo a chi li paresse; e sento quod
Eredes supplicantis sint regnicolae; senza
la qual lettera non potea testare che
valesse, che ogni cosa sarebbe stato perso, essendo così qua costume, cioè di
quanto s’appartiene di quà, detto Maestro Lionardo fece testamento il quale vi
avrei mandato se avessi avuta fidata persona. Io aspetto un mio zio quale
vienmi a vedere trasferendo se stesso di poi costì a Milano. Io glielo darò, ed
esso farà buono ricapito non trovando altro in questo mezzo. Di quanto si
contiene circa alle parti vostre in esso testamento (altro non v’è se non) che detto Maestro Lionardo ha in Santa Maria
nuova nelle mani del Camarlingo segnato, e numerato le carte, 400 scudi di sole
(Vedi sopra alla pag. 108.) li quali sono
a 5 per 100 e alli 16 d’ottobre prossimo, saranno 6 anni passati, e similmente
un podere a Fiesole, quali vuole sia distribuito infra voi. Altro non contiene
circa alle parti vostre, nec plura, se non che vi offero tutto quello vaglio e
posso, prontissimo e paratissimo alle voglie vostre, e di continuo
raccommandomi. Dato in Ambriosa che primo Junii 1519. Datemene risposta per i Pondi. Tamquam Fratri vestro Franciscus Mentius.
Tale è la sottoscrizione nel libro da cui ho tratta questa lettera; ma senza
dubbio noll’originale v’è Meltius,
trovandosi sempre nominato Melzo, o da Melzo nel testamento, e in ogni altra
occasione. Poichè del podere di Fiesole non troviamo fatta menzione nel
testamento, convien dire ch’egli abbia fatto poi un codicillo.
[132] Essay etc. pag. 39.
[133] »
Pianse mesto Francesco re di Franza
»
Quando il Melzi, che morto era gli disse
» Il
Vinci, che in Milan mentre che visse
» La
cena pinse che ogni alta opra avanza.
Nei Grotteschi, Pag. 109.
[134] »
Nel 1519 li 29 Agosto in Amboysa il predetto Batista de Vilanis, al presente
servitore del nobil huomo M. Francesco da Melzo gentilhomo di Milano
pensionario del Re nostro Signore nomena e constituisce etc. il nobil homo et
Magnifico M. Hieronymo de Melzo Gentilhomo residente in Milano suo certo nunzio
e gli dà piena autorità et mandamento di pigliare possessione de la suddetta
medietà del jardino lasciatogli da Leonardo de Vince e di poter dividere et
partire la detta medietà con M. Salay ratificando la divisione che sarà da lui
fatta ec., anzi gli dà autorità di poter venderla, alienare ec. a quel prezzo a
lui parerà ec., ratificando ec. e dando qualunque facoltà e pegno. « Nello
stesso foglio dell’Oltrocchi trovo la nota di cui si parlò dianzi de’ 300 scudi
del Sole depositati da Lionardo
nel 1514, e riscossi dai fratelli nel 1520. Fra le summentovate carte
dell’archivio de’ Gesuati una ve n’ha de’ 3o marzo 1534 in cui parlasi d’una
porzione di vigna venduta da Mess. Gerolamo Melzo, come procuratore di Giambattista
de Vilanis, parte a Gesuati medesimi, e parte a Lorenzo de’ Capirolis.
[135] Pag. 56.
[136]
Priestley. Storia delle ombre azzurre. Scelta d’Opuscoli. Milano. Tomo i. in 4.o pag. 270.
[137]
Catalogo de’ MSS. italiani della Biblioteca Nani.
[138] Florilegium noctium corythanarum. Symbolae literariae. Tom. viii. Florentiae 1751. pag. 66.
[139] Pag. 52.
[140]
Ragionamento, premesso ai disegni pubblicati dal Gerli, pag. 14.
[141]
Trattato dell’Arte della Pittura. Lib. 2. Cap. 14.
[142]
Tav. xiv.*
[143]
Tratt. dell’Arte della Pittura, pag. 384. Un valente pittore esaminando il Trattato di Scienzia d’arme di Camillo
Agrippa milanese (stampato in Roma nel 1553) ne trovò le figure sì ben
fatte, e tanto alla maniera Lionardesca, che sospettò essere le stesse
disegnate da Lionardo pel Borri.
[144]
Vita di Lionardo da Vinci premessa al Trattato della Pittura.
[145]
Giannambrogio Mazzenta morì vecchio nel 1635, V. Argelati Script. Mediol. Tom. 2.
[146] Nel
1587.
[147]
Gian Ambrogio Mazzenta si fe’ Bernabita nel 1590.
[148]
Egli vi fe’ stampare sulla coperta: Vidi
Mazentae patritii Mediol. liberalitate. Anno. mdciii.
[149]
Questo fu poi venduto al sig. Smith inglese; e probabilmente è il libro de’
mulini.
[150]
Tuttora serbasi nella pubblica biblioteca di Torino.
[151] Nel
1613.
[152] È
il codice atlantico di cui parlammo alla p. 15. Nota 2.
[153]
Essai etc. pag. 6.
[154]
Arte della guerra.
[155] De Urbibus, Arcibus, Castellis etc. Parisiis
1535, fol.
[156] Essay etc. pag. 54.
[157]
Vedi sopra pag. 25.
[158]
Vedi la Tav. xxxviii de’ disegni
pubblicati dal Gerli.
[159]
Morelli. Dissertaz. intorno ad alcuni Viaggiatori eruditi ec. Venezia 1803.
Pag. 22.
[160] Tav. xxvii.
[161] Pag. 92.
[162] Pag. 99.
[163]
Presso Gerli. Tav. xl.
[164] Ivi.
[165]Tav.
xlii.
[166]
Tav. xli. Nella descrizione delle
Tavole premessa ai disegni sen può leggere la spiegazione spesso colle parole
del Vinci istesso.
[167] Essay etc. pag.
[168] Cod. atlant. fol. 7. 58. 386.
[169] Fol. 146.
[170] Fol. 377.
[171] Fol. 300.
[172]Fol. 253.
[173] Fol. 225.
[174] Fol. 350.
[175] Fol. 369.
[176] Fol. 389.
[177] Fol. 247.
[178] Fol. 23.
[179] Fol. 25.
[180] Pag. 93.
[181] Tav. xv.*
[182] Tav. ii. fig. 7.
[183] Sylv. Lib. 1.
[184] Pag. 26.
[185] Tempio della
Pittura, pag. 42.
[186] Museum, pag. 22.
Edit. Mediol. 1625.
[187] Vita di Lionardo da
Vinci.
[188]
Script. Mediol. pag. 356.
[189]
Vedi sopra alla pag. 98.
[190]
Pag. 64.
[191] Ai
numm. xiv, e xv.
[192]
Num. xiii.
[193]
Ivi.
[194]
Pag. 101. n.
[195]
Num. xxiv.
[196]
Num. x.
[197] Titi. Descrizione delle pitture ec. in
Roma. Pag. 29.
[198] Pag. 49.
[199] Traité de la Peinture. Catalogue des
tableaux et dessins ec.
[200] Vedi sopra pag. 92.
[201] Vedi alla pag. 38.
[202] Vedi alla pag. 105.
[203] Pag. 113.
[204] Pag. 114.
[205] Pag. 64.
[206] Pag. 68.
[207] Pag. 77.
[208] Pag. 67.
[209] Vie de Léonard de Vinci. Pag.
lxxx. Quel disegno è stato inciso
da Gerli. Tav. i.
[210] Trattato della Pitt.
Lib. 7. Cap. 28.
[211] Antichità
Longobardiche Milanesi. Diss. xii.
[212] Pro experientia substineorum fiendorum in ducali navigio noviter
constructo ab Habiate Belriguardum.
[213] Fumagalli. Loc. cit.
[214] Discorso del sig.
Gabriele Bertazzolo sopra il nuovo sostegno
…. Presso la Chiusa di Governolo. Mantova, presso Osanna 1609. Fol. fig.
[215] Pag. 104.
[216] Pag. 45.
[217] Memor. degli
Architetti. Tom. i. Pag. 148.
[218] Risorgimento
d’Italia. Parte ii.
[219] Relazione Istorica
ec. C. 16. p. 251.
[220] Relazione ec. Pag.
30.
[221] Loc. cit.
[222] Copia di questa
Carta ebbe Oltrocchi dall’archivio di S. Marco.
[223] Sylvar. lib. i.
[224] Vedi sopra pag. 185.
[225] Sulla Conca di
Paderno. Scelta d’Opuscoli interessanti. Tom. iii
in 4.o pag. 401.
Milano.
Trascrizione dall'originale di Giancarlo Mauri
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