venerdì 26 agosto 2016

1861 - MONGERI. Sulla conservazione del Cenacolo di Leonardo da Vinci


SULLA
CONSERVAZIONE DEL CENACOLO
DI LEONARDO DA VINCI

(Estratto dal Giornale La Perseveranza).


Tanto fu detto e scritto intorno all’ultima Cena, che il Vinci dipingeva nel refettorio delle Grazie, da rendere ormai impossibile il tornarvi sopra senza cadere nelle ripetizioni. Fino dai primi tempi fu tale in tutti una gara per esaltarne i pregi, che da tre secoli e mezzo non vi fu mai voto così unanime e generale nella storia artistica, quanto quello che all’opera del Vinci concede la palma d’aver raggiunto l’apice della pittura religiosa. Ed in oggi l’ammirazione e l’ossequio son lungi da essere cessati. Quando si pensa infatti che questa pittura è una creazione del quattrocento, quando si pensa che Leonardo la immaginava, men- tre da un lato dell’Appennino, dond’egli discendeva, fioriva l’arte del Ghirlandajo e del Perugino, e dall’altro lato, dove egli veniva a prendere dimora, quella del Mantegna e del Borgognone; quando si pensa che, circondata com’era da questi esempii, la sua pittura costituisce colla Disputa del Sacramento, condotta sedici anni dopo, e col Giudizio finale, sorto dopo quarantacinqu’anni, la somma triade dell’arte, in cui l’eleganza ed il movimento delle figure, la sicurezza della mano, tutti gli avvedimenti dell’arte vanno a paro colla potenza creatrice della mente, quando si pensano, dico, tutte queste circostanze, si è condotti a conchiudere che anche nell’arte Lionardo ha preceduto di gran lunga il suo tempo ed ha inaugurato, oserei dire, come nella scienza, lo spirito dell’evo moderno. Arrestiamo solo uno sguardo su quella vasta pagina delle Grazie, e non dureremo fatica a persuadercene: nulla invero di quell’ascetismo peritoso, di quel composto, carattere proprio del proprio tempo; vi si notano nemmanco i sintomi di quelle pretese allo sfoggiare di pose, alla pantomima classica del secolo susseguente. Vi ha invece una verità così semplice e spontanea, una così dignitosa indipendenza, una ponderazione così profonda della parola evangelica che si direbbe compreso dall’idea cristiana, quale viene in oggi conformandosi nel libero esplicarsi del pensiero moderno. Certo è che l’artista contemporaneo non saprebbe levarsi tant’alto.
Ma mentre l’opera del Vinci ebbe a fare lo stupore fino da suoi tempi, una grave sciagura gli stava sopra; quella d’una precoce e precipitosa estinzione. Oggimai non havvi chi ignori questo fatto. Poco meno di mezzo secolo era trascorso dacchè la mano dell’artista venerando l’ebbe creata, che aveva perduto diggià la primitiva freschezza, e con essa era venuta meno quella venustà onde traeva tutto il suo valore. Tutte le relazioni e quelle specialmente degli uomini d’arte, sono concordi nel lamentare questo decadimento. Il Vasari, fra gli altri, verso la metà del XVI secolo, la stimatizza, con motto molto laconico, ma pittorico, una macchia abbagliata.
Fino dai primi momenti di cotali indizii dovette elevarsi, per un’opera così importante e celebrata, una grave quistione, la questione se era possibile e con quali modi arrestare quel dissolvimento o, in altre parole, che fare per la sua conservazione. Ma il più singolare si è che questa quistione intorno alla macchia abbagliata, dopo essersi protratta con vicende varie e per lo più disastrose, non sia per anco morta, anzi sia tuttora viva, vivissima: ce ne fa persuasi il fatto che, uscita non ha guari da una fase, di nuovo, in questi giorni, venne suscitata con qualche vivezza, non so se dimentichi del passato, o se con speranze nuove e con propositi che finora non ebbero l’onore della discussione.
La questione è, a non dubitarne puramente tecnica; ma non può tornare senza interesse per quanti amano l’arte ed il paese. Oltrecchè si lega alla grande controversia, agitata presentemente in tutta Europa, sul ristauro dei monumenti pittorici del risorgimento, va essa complicata colla natura e colla storia di questo, uno, certo, dei sommi tesori dell’arte italiana. Se così è, le considerazioni che ne possano scaturire nel trattarla, non dovrebbero riescire affatto superflue ed inopportune: fors’anche il pubblico criterio potrebbe meglio venire raddrizzato per questa via non poco cosparsa di pregiudizii e di fallacie.
La conservazione del Cenacolo implica più d’un quesito. Prima di stendervi la mano, chi non vorrà domandarsi: possediamo o non possediamo noi nella sua interezza l’opera del Vinci? se non è intera, quanto e quale il perduto o soltanto l’ecclissato? e per quest’ ultima parte come scongiurare la potenza infesta che ce ne vela l’aspetto? del perduto, come assicurarci i frammenti, le traccie, come riparare al vuoto? E così via, via, una filatessa di interrogazioni minori che da queste scaturiscono.
Per gli intelligenti porre schiettamente la questione, vale averla sciolta, o ben poco vi manca. Ma pei moltissimi, pel pubblico vicino e lontano non è così. Sorgono sempre di que’ cotali che oppongono ai fatti altri fatti, dissimulandone le disparità, che vincono le ragioni col meraviglioso, che sorprendono la pubblica credulità col segreto: vi sono poi coloro che hanno per massima che qualche cosa debba pur farsi, onde non sopportare la responsabilità di negligenza o di inettitudine.
Rispondere alla questione una volta per sempre, non può essere la pretesa d’alcuno, meno che mai la mia. Svolgerla però, renderla al livello delle comuni intelligenze, farla chiara per modo che contribuisca al criterio generale per questo e simili casi, ciò reputo già tanto da non desiderare dippiù. Non è una polemica adunque che imprendo, ma una semplice esposizione di fatti.
Il Bossi, anima e mente italiana, artista e letterato più grande di quanto comunemente oggi lo si estimi, serbava pel Vinci un culto speciale che lo mosse ad erigere di sua mano al Cenacolo un doppio monumento. L’uno consiste nella copia a olio che fece del dipinto, secondo le dimensioni dell’originale, rendendo norma dei dati più autentici noti al suo tempo; l’altro, che è indubbiamente il più valevole, sta nel libro dove, con amore paziente e con rara dottrina, ne raccolse le memorie e ne tessè la illustrazione. Il libro del Bossi, dato in luce coi primi anni del secolo, riassume tutto quanto sapevasi allora del Cenacolo, ed è impossibile far parola delle sue vicende senza mettere falce nella messe di lui. Egli è spigolandole adunque che io le riassumo e le completo.
Il Cenacolo era stato condotto a termine nel 1497. Gli scrittori che ne fanno cenno nel primo quarto dei secolo successivo non hanno che ammirazione ed aneddoti, come il Bandello, intorno alla grand’opera. Un’espressione singolare sfugge, verso il 1530, all’Aduno, scrittore e famigliare alla corte del Moro, donde parrebbe che un certo deperimento fosse già incominciato: costui chiama Leonardo, pittore delicatissimo, le cui pitture vivono ancora. In queste parole trapela il dubbio della loro successiva vitalità, comunque il Cenacolo dovesse tuttavia apparire senza minaccia d’offese. Un giudizio più autorevole e deciso è quello di tre artisti: l’Armenini, il Vasari ed il Lomazzo. Tutti e tre fanno invece parola del Cenacolo come d’un essere in istato di rovina: ma ad eccezione del Vasari, il quale fu a Milano nel 1556, non ben saprebbesi determinare a quale epoca precisa si riferiscano le loro relazioni sullo stato della pittura. Parrebbe che l’Armenini, dicendolo soltanto mezzo guasto, precedesse il Vasari di cui è uscita l’espressione più desolante e che inchiude l’opera intera, quella della macchia abbagliata; e per ultimo sia venuto il Lomazzo. Le parole di quest’ultimo, che io credo riferibili agli anni tra il 70° e l’80° di quel secolo sono notevoli tanto più che non escono da un visitatore passeggiero, come furono i due primi, ma da un artefice milanese, residente sul luogo, e raccoglitore, comunque sia, delle tradizioni della scuola leonardesca. Or ecco le sue istesse parole: Leonardo fu quello che, lasciato l’uso della tempera (intendi nelle pitture murali), passò all’olio, il quale usava di assottigliare con lambicchi, ond’è causato che quasi tutte le opere sue si sono spiccate dai muri; siccome fra le altre si cede nel Consiglio di Fiorenza la mirabile battaglia, ed in Milano la Cena di Cristo in Santa Maria delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura ch’egli gli diede sotto. Tre fatti risultano da questa preziosa testimonianza: che la pittura era condotta ad olio; che la si spiccava dal muro; che cagione del guasto era l’imprimitura sottostante. Ma proseguiamo a raccogliere le rivelazioni sintomatiche della sua distruzione. Sul 1600 un padre domenicano, Gerolamo Gattico, lo nota alterato, infracidito perchè dipinto all’olio. E l’infracidimento doveva essere riflessibile se il cardinal Federico Borromeo, per conservare almeno la memoria degli avanzi, ne fa trarre dal Vespino una copia (ora alla Biblioteca Ambrosiana), la quale si limita ad una lunga zona che comprende le figure all’insù del busto ed appena parte della tovaglia; locchè induce a credere, comunque quello fosse il secolo delle grandi e bastarde licenze, che perduta o pressochè perduta fosse la parte inferiore della Cena, dove si vedono le gambe degli Apostoli. Ne avremmo una conferma nelle parole dello Scanelli, medico forlivese, che nel 1642 scriveva come poche vestigia di figure si vedessero, ed in modo così confuso da potere a fatica distinguere la già stata istoria: poi nel Dufresne, altro più giudizioso testimonio oculare nel 1651, che ripete l’opera al suo tempo parere tutta guasta; finalmente nello stesso lavoro murale praticatovi nell’anno successivo o in quel torno, siccome fu quello d’allargare la porta sottostante alle pitture, in modo di elevarla fino alla tovaglia, anzi ben oltre, con compiuto sagrificio dei piedi del Salvatore e degli apostoli Giovanni e Giacomo il maggiore. La quale operazione, comunque altamente vandalica, e in tutto degna del secolo che iniziò allegramente le più impronte manemissioni sulle migliori opere d’arte dei secoli XIV e XV, pure concorre a farci credere che il tratto di muro rispondente alla pittura fosse spoglio affatto d’ogni traccia di pittura; imperocchè a giustificare un diverso supposto più che una ignoranza fratina converrebbe evocare la cecità e la forsennatezza d’un Totila. C’è dippiù che i viaggiatori sopravvegnenti, come lo Scoto nel 1564, il Richardson nel 1720, il Wright nel 1722 dicono cancellate per intero alcune figure, perduta l’antica maestà, il tutto una rovina: nessuno lamenta la perdita d’una parte del dipinto coll’elevazione della porta, cosa che per lo manco sarebbesi dovuta attendere dal milanese pittore Agostino Sant’Agostino, testimonio personale del fatto, come dal Carlo Torre, i quali nelle loro descrizioni dei monumenti artistici della città nostra, l’una del 1671, l’altra del 1674, fanno cenno dei danni sofferti, lo qualificano, colle metafore dell’epoca, sole sulle ultime ore del giorno, ma non avvertono nemmanco l’insulto recatogli dal martello del muratore. A questo punto la storia del Cenacolo muta d’aspetto: al marasma senile succede l’eccidio. Compianto ma rispettato, almanco nel suo essere, egli aveva attraversato l’infelice secolo XVII. Il suo destino non gli concedeva tanto nel seguente. L’epoca che aveva vituperato di ghirigori barocchi S. Eustorgio e S. Marco, che metteva in convulsione i marmi e le fabbriche non volle lasciar immune il capolavoro del Vinci. Si trovò nel 1726 un Michelangelo Bellotti, ripeto le parole del Bossi, pittore povero d’arte, quindi ricco al solito di presunzione, il quale vantava, come sogliono i ciurmatori, un suo singolare segreto, con cui avrebbe richiamato da morte a vita l’incadaverita pittura. Ne fece un piccolo esperimento, e chi sa come ingannò la facile ed inesperta credulità dei frati! indi, avuta l’opera in sua balia, la chiuse con un assito, e ridipintalo da capo a piedi, dopo molto tempo fece meravigliare i frati della potenza del suo segreto. In seguito di che, come non associarsi al Bossi, il quale esclama: intanto la pittura vera del Vinci era spenta del tutto! La meraviglia dei frati ebbe compagna quella dei coetanei e dei dotti stranieri che scendevano in Italia a visitarla, come furono il De-Brosse ed il De-la-Condamine. Tanto era perduto ogni senso d’arte! Ma il Bellotti doveva essere, più che un mediocrissimo pittore, ignaro affatto della scienza del ristauro: egli, profanando con una ridipintura le sovrane vestigia del Cenacolo, non comprendeva nemmanco che fabbricava sull’arena. Dirò in seguito il perchè. Fatto sta che quarant’anni in appresso, il Cenacolo non era in migliore aspetto di prima: come prima annebbiato, come prima sfaldavasi. Ogni verecondia vinta, dopo lo stupro del Bellotti, non poteva aversi ritegno: si mandò per un nuovo ristauratore, e finalmente se ne trovò uno nel pittore Mazza, il quale non valeva meglio del suo antecessore. Nel 1770 cominciò una nuova carnificina, forse peggiore della prima. Il Bossi, che ne aveva raccolto notizie da testimonii oculari, freme di sdegno narrando il vandalico suo operare: egli raschiava dapprima per crearvi una imprimitura a sua posta, su cui ridipingeva. Il sopravvenire di un nuovo priore, più che il rumore pubblico levatosene, interruppe il lavoro, ma appena allorquando restavano incolumi soltanto le ultime tre figure a destra del riguardante. Fin qui il Bossi.
Giova dirlo da lui, dal suo libro, stillante affetto e venerazione per la straziata pittura, comincia pel Cenacolo, insieme al secolo nuovo, una nuova éra, un’éra di rispetto, di ossequio. Sottratto il refettorio, dov’è la pittura, al dominio militare, che, al tempo dello invasioni delle armi repubblicane di Francia alla fine dello scorso secolo, ne aveva fatto fin’anche una stalla, esso fu posto sotto il patrocinio d’un nome caro, quello del vicerè Eugenio, e la responsabilità della sua conservazione data ad un corpo autorevole, quello dell’Accademia.
Sembra una fatalità, le cose, come gli uomini, fatte bersaglio delle avversità, non stanno dal soffrirne i colpi ripetutamente! Chi pensasse che il Cenacolo, sotto la tutela accademica, dovesse andar esente dalle aggressioni dei pretesi ristauratori, s’ingannerebbe fortemente. Il lavoro del Mazza non aveva avuto miglior effetto di quello del Bellotti. Perduta la freschezza dello stato superficiale, ritornava l’antico appannamento: era il lenzuolo funerario calato una volta per sempre sull’opera vinciana. La superficie appariva una crosta aspra, interrotta, anzi un reticolato di croste, di bozze qua e là più o meno sollevate, incartocciate, per ogni dove cosparse di macchie biancastre, come piaghe aperte che mettevano a nudo l’intonaco della muraglia, il quale, perduta ogni facoltà adesiva, si sfarinacciava. Si guardava quella muraglia tremando, e stringendosi nelle spalle, ma con ben diversa devozione che non la mirassero i reverendi che vi solevano banchettare davanti. Ma eravamo in un momento, in cui le grandi soppressioni delle chiese e dei chiostri, come pure la restituzione delle numerose spogliazioni d’arte fatta dalla repubblica francese, avevano reso generale e importantissimo l’artificio di trasportare i dipinti da tavola su altra tavola, o sopra tela, comecchè volevasi. Con metodi analoghi procedevasi per gli affreschi. In Milano avevasi per distinto in così fatti avvedimenti il ristauratore Stefano Barezzi di Busseto. E’ lui che sulla fine del 1819 si presentò all’Accademia, proferendosi di staccare il Cenacolo dalla parete, ed applicarlo su tavola o tela; la offerta era accompagnata dall’esibizione d’un esperimento parziale sopra due figure, colla condizione che non approvandosi l’esperimento egli avrebbe restituito sul muro le figure levate. Davanti allo stato ruinoso della pittura, all’incognito dell’imprimitura, la proposta parve un miracolo d’ardire, quando non fosse stato, com’era, una presunzione o fors’anche un tranello. Pure la Commissione accademica, cui era stato portato l’esame della esibizione del Barezzi, dibattevasi tra il fare ed il non fare; discuteva a lungo sull’esperimento, dubitando forte della capacità del Barezzi, e della possibilità d’un rimedio alla pittura; questi schermeggiavasi sulla parte del dipinto ove operare e sul modo di attuarlo; alla fine, oltre un anno dopo, nel marzo 182l, pur si decise. Fu dato al Barezzi, pel distacco di saggio, un pezzo quadrato di metri 1.20 all’estremità inferiore del dipinto, a sinistra dell’osservatore. Il Barezzi, come il Bellotti, di malaugurata memoria, vi si era chiuso dentro. Qual meraviglia per la Commissione vigilatrice il trovare, due mesi dopo, che il Barezzi invece di tentare il distacco assunto, aveva di suo arbitrio impreso a restaurare, cioè a dire, a rifare una parte centrale del dipinto con stucchi e paste colorate! L’immediata sospensione del lavoro fu la conseguenza di quella visita, e con essa il Cenacolo fu salvo dalla terza e più grave jattura che erasi riuscito ad iniziare.
Il Barezzi non desistette perciò da reclami e da istanze per giungere al suo proposito, ristaurare il Cenacolo. Lasciò trascorre l’onda grossa degli uomini e delle memorie, e trent’anni dopo, nel 1832, egli ritorna all’assalto per assicurare e rinverginare, come egli esprimevasi, l’opera vinciana. Ma le memorie sussistevano, e gli uomini eransi fatti più difficili, più riguardosi, più accorti che non fossero quelli del 1821 e di quanto egli sol credeva. Il Barezzi, come la prima volta, su di alte e poderose protezioni faceva assegnamento per pulire, raschiare, ritoccare, rifare fors’anche il Cenacolo, ma trovossi di contro l’opposizione compatta d’una Commissione accademica e non ottenne d’essere adoperato che per una sola operazione, il rassodamento generale della crosta, col sussidio d’una sua colla particolare, operazione che escludeva qualunque mezzo od esercizio artistico e che, condotta sotto la sorveglianza assidua della Commissione medesima ebbe compimento con esito commendevole nel 1855.
A questo punto si ferma la storia dei guasti che fino dai primi tempi mostrò il Cenacolo e di quanto, si in male che in bene, fuvvi adoperato per rimediare loro fino al dì d’oggi.
Ma qual conto fare di tutti questi artificii? Quale ne sarà l’esito per l’avvenire? È concessa speranza di migliori provvedimenti?
Dopo la premessa esposizione, la risposta dovrebbe essere facile anche ai meno periti. Partiamo dal nodo della questione. Non v’ha dubbio che il dipinto di Leonardo fosse all’olio. Il carattere lento, difficile, incontentabile dell’artista non gli permetteva la pittura a buon fresco: ce ne valgono a conferma le note sue pratiche di purificare, distillare gli olii, che allora dicevansi vernici, perchè a tal uopo pure servivano per assicurare le tempere, con chè li alleggeriva del glutine, loro principale mezzo alla solidificazione delle materie in essi diluite. Quand’anche ciò non sapessimo, lo farebbero supporre i ritardi, le interruzioni, i ritocchi improvvisi ed a larghe distanze di tempo, che gli aneddoti contemporanei novellano circa la sua fattura: e poi ancora hannovi gli scrittori d’arte, primo il Lomazzo, che la dice espressamente ad olio, e il Bossi non pone la cosa nemmanco in contestazione. Questo giova dire, perchè negli ultimi tempi alcuni dubbi furono elevati su questo punto. Se vi hanno dubbi ragionevoli, a mio credere, non possono circoscriversi che all’imprimitura. È naturale supporre che Leonardo mirasse a predisporre la faccia del muro, a cui affidare doveva il suo lavoro, come si preparavano le tavole al suo tempo, un imprimitura di gesso e di colla animale: ma Leonardo era pur l’uomo che non poteva non prevedere l’insufficienza di queste preparazioni al contatto della muraglia e sovratutto della calce. Il Bossi suppone la sostituzione a quest’ultimo mezzo, la colla, quello d’una mistura di pece e di mastice; egli vi crede eziandio la sovraposizione d’un altro strato di biacche e terre, amalgame disposte ad olio. Un esame, dieci anni or sono, portatoci dal Kramer vi ha confermato la presenza di resine; alcuni vogliono quella della cera. Sia come si voglia, è certo che la mente scrutatrice del grande artista tentava un problema; problema ben arduo quello di dipingere sul muro colle comodità che danno le tavole. Qual meraviglia che l’esito non abbia corrisposto alla aspettazione! Piuttosto adunque, che all’umido naturale del luogo, più che all’infelice esposizione verso tramontana, donde gli scende luce ed aria, più che ai vapori delle vivande, quand’era refettorio, od all’umida respirazione dei cavalli, allorchè fu stalla, perchè mai alla dissoluzione dell’imprimitura, come osserva giustamente il Lomazzo, non si dovrà accagionare tanta rovina! La macchia abbagliata del Vasari altro non era infine che lo screpolarsi generale della stratificazione colorata, sul fondo mal fermo, al che congiurava pure la condizione degli olii di troppo assottigliati, i quali avevano perduto ben presto la facoltà appiccaticcia e scemato il fulgore alle materie: quindi il loro incartocciarsi, il fendersi, lo sfaldarsi a scaglie, come vedemmo ripetersi fino agli ultimi tempi, anche dopo le deturpazioni del Bellotti e del Mazza.
Un cotale sfacelo erasi fatto spaventoso ad una cert’epoca, circa un vent’anni sono. Lo accresceva, non più l’umidità ambiente, ma quella immediata; non più sotto forma vaporosa, ma liquida, che la parete istessa assorbiva dal suolo e da una vicina stalla, ora rimossa. L’opera del Barezzi opportunamente circoscritta, consistendo, come dissi, di una colla di sua invenzione, e vantato suo segreto, ebbe la virtù, applicata, per vero, in modo acconcio ed ingegnoso, di conferire il glutine mancante e di concedere insieme l’assicurazione e la lisciatura delle croste e delle falde, onde la superficie della pittura andava scabra, col tristo aspetto d’un’annebbiatura che toglieva forma alle traccie tuttavia sussistenti. Non può revocarsi in dubbio che la pittura del Cenacolo, dopo l’operazione del Barezzi, senza immaginarsi la risurrezione impossibile, cui egli pretendeva, aveva guadagnato non poco: parve quasi una nuova apparizione: la crosta appianata, fu dato di meglio distinguere i tratti delle figure: la colla essendo trasparente e glutinosa, colla solidificazione acquistarono anche una certa lucentezza i colori. Ma questo stato sarà duraturo? È quanto mi permetto di dubitare. Malgrado il segreto della composizione, se è vero, come taluno suppone, che essa consista specialmente di colla animale, nelle variazioni termiche ed igrometriche dell’atmosfera stanno già le minaccie di un nuovo deterioramento. Che la dissoluzione non si faccia aspettare, trovasene già un argomento coll’avere quella pittura perduto ben tosto il lucido de’ primi mesi e quindi insieme la decomposizione della sostanza glutinosa ed adesiva. Anzi in questi istessi giorni, mentre io cui scrivo, riveduta la pittura, riconobbi più chiaramente, per quanto fummi possibile, essere ricominciato l’antico lavorio deleterio generatore delle croste e delle scaglie. Una forte screpolatura rigonfia si nota già nel braccio e nella veste dell’apostolo Filippo; in più minute ma numerose squamme sollevasi il colore nella testa dell’apostolo Taddeo e nella tunica del suo vicino Mattia. Ma a sicurarsi di tali deplorabili apparenze, vuolsi un esame, uno scandaglio minuto, il quale non può ottenersi che mediante il contatto della mano, cosa che ai visitatori ordinarii non è permessa di raggiungere in mancanza dell’apparato opportuno. Comunque sia non può porsi in dubbio che anche l’operazione del Barezzi, che pareva avere arrestato per un momento il discioglimento del capolavoro vinciano, si dimostra negli effetti incapace a tanta virtù, seppure, secondo il giudizio d’alcuni, non ha fors’anche accelerato in altra guisa la sua caduta.
Eccoci adunque ancora un’altra volta dinnanzi a questo colosso che più non si regge, e sempre colla eguale smania di salvarlo. Però se chi promosse di recente un’ulteriore suo ristauro, commosso dall’aspetto suo attuale, col solo fine di redimere l’oscurata e cadente pittura, se chi ne assunse il concetto e ne fece argomento di consultazione all’Accademia di Milano, se tutti coloro, in una parola, che ebbero parte nell’appoggiare tale questione, avessero conosciuto, non tutte, ma alcune soltanto delle cose predette, potrebbesi avere per certo che il quesito sarebbesi trattenuto per via, e non avrebbe trovato quella risposta che gli fu fatta, l’unica che giustamente poteva venir resa, da artisti edotti dei fatti e periti nella materia, cioè che nulla restava ad operare.
È facile immaginare che a molti tale sentenza potrà sembrare aspra, brutale, avventata, laddove, per essere giusti, dovrebbesi reputarla la più pietosa e caritatevole verso la già troppo straziata pittura. Ed invero, a che si mirerebbe col ristauro? Rivedere forse ancora una volta sulla parete istessa la potenza di quella mano altrettanto delicata e flessibile, quanto risoluta, ferma, poderosa! Ammirarvi il suo segno sapiente, il suo sottile e robusto modellare, la profonda espressione delle sue fisonomie, che tanto gli avevano costato di meditazioni e di indagini! Sono sogni d’infermo! Basta riflettere che cinquant’anni dopo, per testimonio di più scrittori, questa pittura era una macchia, una superficie in dissoluzione; che in questo stato trascorse due secoli, forse assalita da tentativi più o meno inavvertiti per ravvivarla; che venne il Bellotti a recarle l’oltraggio di una intera ridipintura ad olio; che costui ne lasciò il segreto ai frati, i quali non avranno mancato di metterlo alla prova prima di lasciarla cadere nelle mani del Mazza, il cui lavoro, non ben noto se all’olio o a tempera, offese tre quarti del campo. Non si dimentichi poi che il Bossi chiamava al suo tempo questa pittura un cadavere e che fino agli ultimi anni, prima dell’assicurazione del Barezzi, essa andava sfaldandosi per natura propria e non di rado per l’improvvido contatto dei visitatori, cui era esposta mediante un palco fisso, ora avvertitamente tolto, con che concedevasi loro di levarsi fino al livello delle figure: si metta in conto che il Barezzi, nel 1821, ne deturpò una parte, benchè ristretta con stucchi e cere: che nel 1834, assicurandone la crosta, volle far credere d’aver tolto col suo sistema, il ristauro del Mazza e parte di quello del Bellotti, mentre solo è certo che parte del colore superficiale staccavasi in quel suo rassodamento. Ora si sommino tutte queste circostanze, e chi mai potrà asseverare di vedere ancora l’opera originale del Vinci; chi dirsi sicuro di distinguere soltanto il solo pochissimo che gli potesse appartenere!
Suppongasi un caso, quello, per cui ad ogni costo vogliasi fare qualche cosa. Quale sarà il còmpito del ristauratore messo alla prova? A qual partito appiglierassi in contatto di quella parete? Due vie sembrano restargli: o ristaurare quello che vede, e sarebbe la consacrazione di tutte le turpitudini passate e forse la cancellazione delle ultime vestigia del Vinci: o cercarvi l’originale, tentando di levare gl’ imbratti estranei, operazione saviissima, anzi l’unica richiesta dal caso; ma questa a traverso di quante difficoltà, in mezzo a quanti pericoli! Un pensiero solo basterebbe a trattenere il più audace: se sotto alle rifatture dello scorso secolo altro non trovasse che la nuda e cadente imprimitura, il vuoto, che farà? rinnovare l’atto vandalico del Bellotti, o lasciarvi più ributtanti le nuove piaghe; strappare al cadavere fin anche il funebre lenzuolo che ne concede ancora di intravvedere l’antica membratura! E poi conviene averne considerato palmo a palmo l’aspetto incerto, annebbiato, avervi notate le lacune, per credere appena possibile che si faccia avanti un operatore, comunque versato nel ristauro e artista eccellente, il quale, senz’essere temerario o folle, osi, di proposito deliberato, assumere un’impegno di così grande momento. S’immagini l’ombra d’un corpo: i dintorni vi sono affatto perduti; del chiaroscuro non resta che la macchia, delle carni la larva, delle vesti la massa, delle figure l’insieme: e su tali orme, domandasi, dove l’artista fermerà la mano: come crearvi una forma viva e decisa: come e chi simularvi il fare originale; trarre una bocca dove non havvi che una bizzarra ombrosità, segnare un occhio sotto un’orbita cavernosa, se costui non è lo stesso Leonardo? I luminari dell’arte Rafaello, Coreggio, Michelangelo, posti a tale cimento, non potrebbero uscirne che rifacendosi loro medesimi sul motivo leonardesco, come è avvenuto al Rubens che trasse copia, in piccola dimensione, del Cenacolo, allorchè fu in Milano al principio del XVII secolo. Se non ci è dato di vederne il quadretto esistente a Madrid, si guardi almeno la incisione che ne trasse il Soutman; in essa non si riconosce più l’opera leonardesca; e poi basta un semplice studio della testa dell’apostolo Filippo, di mano dello stesso Rubens, posseduto dal pittore Bertini, dove tale è la licenza di disegno e di espressione da sorprendere l’artista più esercitato a rinvenirvi l’autore del dipinto delle Grazie. Chi avrebbe potuto appena tentarne il ristauro sarebbero stati i suoi scolari: il Salai, il Beltraffio, il Solari che ne avevano raccolto la tradizione immediata, e ben anche il Luini, tuttochè erede delle grazie, non della fierezza, del grandissimo Vinci. Maggiormente ci allontaniamo dal tempo e dalle tradizioni sue, più è difficile il trovare chi valga a venire in ajuto della rovina. Veggasi, ad esempio, la copia del Bossi, lombardo, studiosissimo della nostra scuola e del Cenacolo in particolare, e considerandola, in certo modo, la meno compromettente e la più libera delle restaurazioni, che vale essa mai? Quale idea insipida e fiacca ci trasfonda di quella tanto celebrata e solenne rappresentazione! - Ed ora che giudizio, qual presagio trarre, dopo tante prove infelici, disperate, per un ristauro in mezzo alle scuole presenti!
L’enumerazione di tanti ostacoli, la maggior parte dei quali insuperabili, potrebbe lasciar credere nascosta in fondo alle mie parole la rifiutazione assoluta d’ogni ristauro alle antiche opere d’arte. Importa che sia smentita questa idea, qualora vi si fosse intromessa. Altro è una pittura murale, come il Cenacolo, altro una pittura mobile, tavola o tela ch’essa sia. Queste permettono mille artifizi, moltissimi modi di riparazioni, di assicurazioni, di trasporti cui quelle si ribellano. Si è giunto, come fu pel nostro Raffaello, di togliere un pezzo di tavola fracida, rimettendovi un corrispondente pezzo integro senza scomporre lo strato colorato. Può essere ciò possibile in una muraglia? Pel Cenacolo poi, dove il fondo manca od ha perduto ogni qualità adesiva, come potrà essere rifatto, come sostituita o ricomposta l’imprimitura, quell’imprimitura appunto, che, al dire del Lomazzo, fu la causa del precipitato suo dissolvimento! E qui il nodo della questione. Pel Cenacolo c’è ancora un’altra impossibilità: l’ignoranza in cui siamo delle sostanze ond’era formato il mezzo diluente. Non puossi dubitare circa l’essere ad olio: ma di quali olii, e dopo quali manipolazioni? Tutto è mistero adunque circa la tecnica usata da Leonardo. Ma vi si aggiunge ancora la maggiore delle impossibilità, quella che varrebbe anche per un dipinto qualunque; voglio dire il guasto generale. Quand’anche si potesse dimostrare il Cenacolo vergine d’ogni manomissione, nello stato presente esso non presenta guida alcuna, non traccia cui possa il ristauratore coscienzioso conformare l’opera propria. Mi si perdoni il raffronto, ma il ristauro può, quanto alle lacune, ricordare i lavori di maglia: facile portar riparo o rifarne poche, qua e là sparse, ma se il dissesto si distende od invade tutto il lavoro, chi crederà prezzo dell’opera l’applicarvi l’ingegno! e con quale risultamento! Nella pittura le maglie sono altrettanti punti che si connettono col vicino, comunque originali per sè stessi. Ogni ristauro è adunque un controsenso, allorchè l’opera del riparatore debba superare gli avanzi dell’originale. Questo nei casi ordinarii: per la pittura del Vinci cresce fino all’abberrazione, alla profanaziane.
Quante volte negli ultimi tempi si è trattato della conservazione di questo capolavoro è venuto in campo una proposta che l’argomento non mi permette di passare inavvertita. Questa proposta consiste nell’asportazione del Cenacolo in altro luogo, cosi per una più onorevole collocazione, come per salvarlo dalla invadente umidità onde il luogo e la parete istessa sono infestati. Coloro che conoscono i modi usati a questo intento pel trasporto degli affreschi non hanno bisogno di spiegazioni per comprendere che sarebbe come infallibilmente compromettere quella onoranda rovina. Per gli altri basterà il notare che dove si ha, come qui, una superficie molle e friabile, dove l’intonaco del muro, corroso dal nitro, non si lascia mantenere nell’originario assetto, ogni cura sarebbe vana per procedere con felice risultamento a questa delicatissima osservazione. Era stato questo anzi il primo assunto del Barezzi nel 1819, cui mancò, protestando, senza argomenti e senza ragione di sorta, che vi aveva dovuto rinunziare perchè erasi fatto accorto che la pittura del Vinci non era all’olio. Si adduce per ultimo espediente, il trasporto dell’intera parete, opera meno impossibile all’arte meccanica, ma assai incerta negli effetti, considerata la diversa natura dei materiali che la compongono e gli screpoli che vi si notano, e quelle ben maggiori dislocazioni che possono ascondervisi. E poi concediamoci per un istante l’ipotesi del Cenacolo, come ora lo vediamo, collocato in più dignitoso e più ricco santuario, possiam credere che vi avrà fatto qualche riflessibile guadagno? Per mia parte, siami lecito dubitare. Chi potrà asserire che l’umidità mentre lo danneggia da un lato non contribuisca a mantenere nel glutine restante dell’operazione del Barezzi, una certa mollezza e potenza di adesione, che potrebbe ritirarsi d’un tratto in un luogo secco, con quale immediato danno è facile immaginare! Chi potrà assicurare, se non forse del contrario, che l’incompleta e vaporosa apparizione lontana dal raffronto di quelle muraglie spoglie, lacere, raschiate, dalla desolata vastità dell’aula, dalla pudica aria del chiostro, dalla luce placida e misurata, che gli piove dall’alto, dall’arcano tumulto delle memorie suscitato dal luogo stesso, chi potrà dire che essa giunga a fare di sè mostra più bella ed imponente, a meglio guadagnarsi quelle simpatie e quell’ammirazione che in oggi tutti le tributano? Per chi sente anima d’artista, non v’ha dubbio, il Cenacolo, pari ad un grande colosso, egli è sul campo della sua maestà e delle sue memorie, che vuole lasciate le sue rovine. Quello che resta a fare adunque, non esito a ripeterlo, egli è assistere pietosi al suo fine. Mantenere l’ultimo rassodamento, se ed in quanto è possibile, coi mezzi più innocui che l’arte suggerisce, impedire il maggiore assorbimento dell’umido che dal suolo ascende a ferire la pittura. Sventuratamente il Barezzi, da meno in ciò del Bellotti, portò seco il suo segreto, malgrado la promessa fatta di confidarlo ad un nostro distinto chimico, il P. Ottavio Ferrario dei Fate-bene-Fratelli. Quanto all’origine dell’umido saliente, già se ne sono rimosse le cause con operazioni felicemente ideate ed eseguite. Si è provveduto al più. Tratterebbesi ora di troncare il progresso all’azione assorbente della parete verticale: diversi progetti da cinque o sei anni stanno a fronte: ma è preferirsi che si rinunci alla vanagloria d’un’operazione che ove compromettesse menomamente la solidità della parete portante l’impareggiabile monumento, tale ne ricadrebbe la responsabilità sui loro autori da relegarli nel novero dei Bellotti e dei Mazza.
Chiniamo adunque il capo rassegnati davanti all’irreparabile rovina. Pensiamo piuttosto che questa infelice condizione non è senza compenso. Nel naturale disfacimento delle umane cose vi ha alcun che di indefinibile, d’ arcano; vi ha nel loro aspetto una latitudine più che alla immaginazione alla divinazione; vi ha quello che l’artista talvolta si affanna di mettere nell’opera propria, ma che il genio solo sa trasfondervi, la potenza di rendersi comprensibile con poche ombre. Il Cenacolo, così com’è, forse s’affaccia di certo meno lontano dalle intenzioni del suo autore di quello che se lisciato, compito, accarezzato finamente ed in ogni minima parte, da una mano estranea, per quanto valentissima.
Se noi, entrando nel vasto simposio dei Domenicani, sdegniamo il vicino e soperchio sottilizzare di indagini e di osservazioni, utili, anzi necessarie ai periti nell’arte, a chi ha il debito della sua conservazione; se, invece, coi profani ci scostiamo, indietreggiando ben oltre il mezzo dell’aula a meglio abbracciarne coll’occhio lo insieme; se ci può accadere di trovarsi colà raccolti nel silenzio e nella solitudine, uno spettacolo nuovo, meraviglioso, quasi una magica visione ci si disvela davanti. Si direbbero un’inganno i lamentati guasti. La parete si sfonda, il cielo su cui campeggia la testa del Cristo, sfavilla nell’oscurità come un nimbo luminoso; le figure si muovono, si agitano; la soave parola che annuncia il tradimento ed il traditore vicino, si ripercuote negli atti dei convitati e desta un moto, un palpito affannoso, un ricambiarsi di parole e di gesti, ingenuo, spontaneo in tutti, fuori che in quel solo, che come si lascia nascondere, vorrebbe nascondersi a sè stesso. Certo non è dato di analizzare i tratti dei personaggi, ma li sentite nell’anima inondarvi di un accoramento profondo: il velo di malinconia diffuso su tutta la scena è all’unisono col velo generale che allo sguardo sembra calare su quella parete quasi cancellata. L’illusione è completa; non cercate dippiù. Il più grande dei sacramenti, come la più grande delle pitture si confondono in un solo mistero.
G. MONGERI.


TIP. DEL DOTT. F. VALLARDI.


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lunedì 28 marzo 2016

1872 - Il testamento di Leonardo da Vinci e altri documenti a lui collegati



Gustavo Uzielli. Ricerche intorno a Leonardo da Vinci. Firenze, Stabilimento di G. Pellas, 1872, pp. 202-210.


XXV.
Testamento di Leonardo da Vinci.
[28 Aprile 1519].

Sia manifesto ad ciaschaduna persona presente et advenire, che nella corte del Re nostro signore in Amboysia avanti de noy personalmente constituito Messer Leonardo de Vince pictore del Re, al presente comorante nello locho dìcto du Cloux appresso de Amboysia, el qual considerando la certezza dela morte e l’incertezza del hora di quella, ha cognosciuto et confessato nela dicta corte nanzi de noy nela quale se somesso e somette circa ciò havere facto et ordinato per tenore dela presente il suo testamento et ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita. Primeramente el racomanda l’anima sua ad nostro Signore Messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati Angeli Santi e Sante del Paradiso.
Item el dicto Testatore vole essere seppelito drento la giesia de sancto Fiorentino de Amboysia et suo corpo essere portato lì per li capellani di quella.
Item che il suo corpo sia accompagnato dal dicto locho fin nela dicta giesia de sancto Fiorentino per il colegio de dicta giesia cioè dal Rectore et Priore, o vero dali Vicarii soy et Capellani della giesia di sancto Dionisio d’Amboysia, etiam li Fratri Minori del dicto locho, et avante de essere portato il suo corpo nela dicta chiesia, esso Testatore, vole siano celebrate ne la dicta chiesia di sancto Fiorentino tre grande messe con diacono et sottodiacono, et il di che se diranno dicte tre grande messe che se dicano anchora trenta messe basse de Sancto Gregorio.
Item nella dicta chiesia de Sancto Dionisio simil servitio sia celebrato como di sopra.
Item nella chiesia de dicti Fratri et religiosi minori simile servitio.
Item el prefato Testatore dona et concede ad Messer Francesco da Melzo Gentilomo da Milano, per remuneratione de’ servitù ad epso grati a lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li libri, che il dicto Testatore ha de presente et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte sua et industria de Pictori.
Item epso Testatore dona et concede a sempre mai perpetuamente a Battista de Vilanis suo servitore la metà zoè medietà de uno iardino, che ha fora a le mura de Milano et l’altra metà de epso iardino ad Salay suo servitore nel qual iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa, la qual sarà e resterà similmente a sempremai perpetudine al dicto Salai, soi heredi, et successori, et ciò in remuneratione di boni et grati servitii, che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de qui inanzi.
Item epso Testatore dona a Maturina sua fantescha una veste de bon pan negro foderata de pelle, una socha de panno et doy ducati per una volta solamente pagati: et ciò in remuneratone similmente de boni servitii ha lui facta epsa Maturina de qui inanzi.
Item vole che ale sue exequie siano sexanta torchie le quale seranno portate per sexanta poveri ali quali seranno dati danari per portarle a discretione del dicto Melzo le quali torzi seranno divise nelle quattro chiesie sopradicte.
Item el dicto Testatore dona ad ciascheduna de dicte chiesie sopradicte diece libre cera in candele grosse che seranno messe nelle diete chiesie per servire al dì che se celebreranno dicti servitii.
Item che sia dato ali poveri del ospedale di Dio alli poveri de Sancto Lazaro de Amboysia, et per ciò fare sia dato et pagato alli Tesorieri depsa confraternita la summa et quantità de soysante dece soldi tornesi.
Item epso Testatore dona et concede al dicto Messer Francesco Melce presente et acceptante il resto della sua pensione et summa de’ danari qual a lui sono debiti del passato fino al dì della sua morte per il recevoir, ovvero Tesaurario general M. Johan Sapin, et tutte et ciaschaduna summe de danari che ha receputo dal p.° Sapin de la dicta sua pensione, e in caxo chel decede inanzi al prefato Melzo, e non altramente li quali danari sono al presente nella possessione del dicto Testatore nel dicto loco de Cloux como el dice. Et similmente el dona et concede al dicto de Melze tucti et ciaschaduni suoi vestimenti quali ha al presente ne lo dicto loco de Cloux tam per remuneratione de boni et grati servitii, a lui facti da qui inanzi, che per li suoi salarii vacationi et fatiche chel potrà avere circa la executione del presente Testamento, il tutto però ale spese del dicto Testatore.
Ordina et vole, che ia summa de quattrocento scudi del sole che ha in deposito in man del Camarlingo de Sancta Maria de Nove nela città de Fiorenza siano dati ali soy fratelli carnali residenti in Fiorenza con el profitto et emolumento che ne po essere debito fino al presente da prefati Camarlinghi al prefato Testatore per casone de dicti scudi quattrocento da poi el dì che furono per el prefato Testatore dati et consignati alli dicti Camarlinghi.
Item vole et ordina dicto Testatore che dicto Messer Francisco de Melzo sia et remana solo et in sol per il tutto executore del Testamento del prefato Testatore, et che questo dicto Testamento sortisca suo pieno et integro eteffecto, et circa ciò che è narrato et decto havere tenere guardare et observare epso Messer Leonardo de Vince Testatore constituto ha obbligato et obbliga per le presente epsi soy heredi et successori con ogni soy beni mobili et immobili presenti et advenire et ha renunciato et renuncia per le presente expressamente ad tucte et ciaschaduna le cose ad ciò contrarie. Datum ne lo dicto loco de Cloux ne le presencie de magistro Spirito Fieri Vicario nela chiesia de Sancto Dionisio de Amboysia, M. Gulielmo Croysant prete et capellani, Magistro Cipriano Fulchin, Fratre Francesco de Corton et Francesco da Milano religioso del convento de fratri minori de Amboysia, testimonii ad ciò ciamati et vocati ad tenire per il iudicio de la dicta Corte, in presentia del prefato M. Francesco de Melze acceptante et consentiente il quale ha promesso per fede et sacramento del corpo suo per lui dati corporalmente ne le mane nostre di non mai fare venire, dire, ne andare in contrario. Et sigillato a sua requesta dal sigillo regale statuito a li contracti legali d’Amboysia, et in segno de verità. Dat. A dì XXIII de Aprile MDXVIII avanti la Pasqua.
Et a dì XXIII depso mese de Aprile MDXVIII ne la presentia di M. Gulielmo Borian notorio regio ne la corte de Baliagio d’Amboysia il prefato M. Leonardo de Vince ha donato et concesso per il suo testamento et ordinanza de ultima voluntà supradicta al dicto M. Baptista de Vilanis presente et acceptante il dritto de laqua che qdam bone memorie Re Ludovico XII ultimo defuncto ha alias dato a epso de Milano per gauderlo per epso De Vilanis a sempre mai in tal modo et orma che el dicto Signore ne ha facto dono in presentia di M. Francesco da Melzo Gentilhomo de Milano et io.
Et a dì prefato nel dicto mese de Aprile ne lo dicto anno MDXVIII epso M. Leonardo de Vinci per il suo testamento et ordinanza de ultima volunta sopradecta ha donato al prefato M. Baptista de Vilanis presente et acceptante tutti et ciaschaduni mobili et utensili de caxa soy de presente ne lo dicto loco du Cloux. In caxo però che el dicto de Vilanis surviva al prefato M. Leonardo de Vince, in presentia del prefato M. M. Francesco da Melzo et io Notario etc. Borean.


XXVI.
Lettera di Francesco Melzi
a Giuliano da Vinci ed ai suoi fratelli.
(1 Giugno 1510].

Ser Giuliano e fratelli suoi honorandi.
Credo siate certificati della morte di Maestro Lionardo fratello vostro, e mio quanto optimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile che io potesse esprimere il dolore che io ho preso; e in mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possederò una perpetua infelicità, e meritamente perchè sviscerato et ardentissimo amore mi portava giornalmente. È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura. Adesso Iddio onnipotente gli conceda eterna quiete. Esso passò dalla presente vita alli 2 di Maggio con tutti li Ordini della Santa Madre Chiesa, e ben disposto. E perchè esso aveva lettera del Cristianissimo Re, che potesse testare, e lasciare il suo a chi li paresse; e sento quod Eredes supplicante sint regnicolae: senza la qual lettera non potea testare che valesse, che ogni cosa sarebbe stato perso, essendo così quà costume, cioè di quanto s’appartiene di quà, detto Maestro Lionardo fece testamento il quale vi avrei mandato se avessi avuto fidata persona. Io aspetto un mio zio quale vienmi a vedere trasferendo se stesso di poi costì a Milano. Io glielo darò, ed esso farà buono ricapito non trovando altro in questo mezzo. Di quanto si contiene circa alle parti vostre in esso testamento [altro non v’ è se non] che detto Maestro Lionardo ha in Santa Maria nuova nelle mani del Camarlingo segnato, e numerate le carte, 400 scudi di sole, li quali sono a 5 per 100 e alli 16 d’ottobre prossimo, saranno 6 anni passati, e similmente un Podere a Fiesole, quali vuole sia distribuito infra voi. Altro non contiene circa alle parti vostre, nec plura, se non che vi offero tutto quello [che] vaglio o posso, prontissimo e partissimo alle voglie vostre, e di continuo raccomandandomi. Dato in Ambriosa die primo Junij 1519.
Datemene risposta per i Gondi.
Tanquam fratri vestro
FRANCISCUS MENTIUS.


XXVII.
Estratto di una procura fatta da Batista de Vilanis
a Girolamo Melzi.
[29 Agosto 1519].


« Nel 1519 li 29 Agosto in Amboysa il predetto Batista de Vilanis, al presente servitore del nobil huomo M. Francesco da Melzo gentilhomo di Milano pensionario del Re nostro Signore nomena e constituisce etc. il nobil homo et Magnifico M. Hieronymo de Melzo Gentilhomo residente in Milano suo certo nunzio e gli dà piena autorità et mandamento di pigliare possessione de la suddetta medietà del jardino lasciatogli da Leonardo de Vince e di poter dividere et partire la detta medietà con M. Salay ratificando la divisione che sarà da lui fatta ec., anzi gli dà autorità di poter venderla, alienare ec. a quel prezzo a lui parerà ec. ratificando ec. e dando qualunque facoltà e pegno. »

lunedì 8 febbraio 2016

Francesco de Marchi e le navi di Nemi


mario cianchi
Le macchine di Leonardo
Becocci Editore
Firenze 1984

le invenzioni

Il mito di Leonardo anticipatore geniale di tutte le scoperte e le invenzioni del nostro tempo nasce dalla sua stessa misteriosa figura e, comprensibilmente, dalla prima, spontanea considerazione di chiunque si trovi di fronte ai disegni tecnologici o ai modelli delle sue macchine. La propaganda del “genio italico”, avviata con l’esposizione leonardesca di Milano del 1939, vi ha poi contribuito in maniera determinante insieme al più recente confezionamento di un’immagine commerciale che ha avuto un indiscusso successo tra il grosso pubblico.
In realtà non si può dire però che tutte le macchine e le “invenzioni” di Leonardo sono il prodotto del suo genio originale e fecondo; e per convincersene basterà leggere quanto Ruggero Bacone scriveva in pieno xiii secolo nella lontana Inghilterra: «... si possono costruire mezzi per navigare senza rematori, sì che navi grandissime fluviali o marittime possano correre guidate da un solo nocchiero più velocemente che se fossero piene di uomini. Si possono poi costruire carri che si muovano senza cavalli, per una forza mirabile. E penso che di questo genere fossero quei carri falcati con i quali combattevano gli antichi. Si possono poi costruire macchine per volare, fabbricate in maniera che l’uomo, stando al centro della macchina, la manovri con qualche congegno che permetta alle ali costruite ad arte di battere l’aria come fanno gli uccelli quando volano. E così pure si può costruire un argano di piccole dimensioni che possa alzare ed abbassare pesi quasi infiniti... si possono anche costruire congegni per camminare sui mari e sui fiumi, e toccarne addirittura il fondo senza correre alcun pericolo. E di questi strumenti fece indubbiamente uso Alessandro Magno per esplorare il fondo marino, secondo quanto narra l’astronomo Etico. È infatti cosa indubitabile che tali strumenti furono già costruiti nell’antichità e vengono costruiti anche oggi, eccetto quel solo strumento per volare che né io né gli altri uomini che conosco hanno mai visto. Ma conosco però un sapiente che ha tentato di realizzare anche questo strumento. Di tali congegni, possiamo costruirne una quantità quasi infinita, come ad esempio ponti che vengono gettati sopra i fiumi senza bisogno di pilastri o sostegni di alcun genere, e macchine ed invenzioni finora sconosciute».
Tutte le macchine, tutte le “invenzioni” attribuite al genio di Leonardo vengono qui puntualmente descritte come appartenenti a una tradizione durata attraverso i secoli e, sulla scia della nuova tradizione brunelleschiana, certamente ancora viva e operante nella seconda metà del Quattrocento in esperti ingegneri come il Taccola, Buonaccorso Ghiberti e Francesco di Giorgio Martini. I trattati militari, gli “zibaldoni” di conoscenze tecniche e meccaniche, che questi redigevano con l’accompagnamento di illustrazioni spesso rozze ma efficaci, circolavano con grande fortuna, e in numero sicuramente assai superiore a quelli pervenutici, al tempo di Leonardo che li aveva copiati e studiati come dimostrano certi suoi appunti e memorie.

Insomma si dovrà prendere coscienza, una volta per tutte, che i disegni tecnologici di Leonardo dipendono spesso dalla lettura di libri e manoscritti altrui e, in particolare, dall’osservazione dell’attività che si svolgeva nelle botteghe o dallo scambio di idee con studiosi e tecnici del suo tempo. Per concludere che, sì, la sua opera di meccanico ed ingegnere è, per vastità e profondità d’esperienza, davvero unica e, talvolta, precorritrice ma non certo, come si vorrebbe, un frutto solitariamente maturato nel deserto.

L'intera monografia si legge
- e si può scaricare in formato pdf -
a questo indirizzo:

1891 - De Fabriczy. Il Libro di Antonio Billi e le sue copie

Cornelio De Fabriczy. Il Libro di Antonio Billi e le sue copie nella Biblioteca Nazionale di Firenze.  
[in] Archivio storico italiano fondato da G. P. Vieusseux e continuato a cura della R. deputazione di storia patria per le provincie della Toscana e dell’Umbria. Quinta serie. Tomo vii. Anno 1891. In Firenze, presso G. P. Vieusseux, coi tipi di M. Cellini e C., 1891.

Lo scritto integrale è scaricabile qui:








domenica 7 febbraio 2016

1872 - MILANESI, Documenti inediti risguardanti Leonardo da Vinci


Gaetano Milanesi
Documenti inediti risguasdanti Leonardo da Vinci

[in] Archivio storico italiano fondato da G. P. Vieusseux
e continuato a cura della R. deputazione di storia patria
per le provincie della Toscana e dell’Umbria.
Quinta serie. Tomo xvi. Anno 1872.
In Firenze, presso G. P. Vieusseux,
coi tipi di M. Cellini e C., 1872,
pp. 219-230

La
Breve vita di Lionardo da Vinci
scritta da anonimo del 1500
è scaricabile qui:
Documenti inediti