venerdì 1 settembre 2017

1907 - HOERTH. Das Abendmahl des Leonardo da Vinci (recensione)

Hoerth Otto. Das Abendmahl des Leonardo da Vinci. Ein Beitrag zur Frage seiner Kunstlerischen Rekonstruktion. Mit 25 Abbildungen in Lichtdruck und 23 Tafeln. Leipzig, Hiersemann, 1908, 8° gr. pag. 250.

Il dipinto di Leonardo in S. Maria delle Grazie è per noi la rappresentazione tipica dell’ultima Cena di Cristo. Ma a questo alto significato contraddicono le rovinose condizioni attuali dell’originale; noi non abbiamo potuto fin ora figurarci la concezione leonardesca se non attraverso mediocri copie. Per apprezzarla nell’originaria bellezza, perché il rispetto al capolavoro vieta oggi di restaurarlo e completarlo, non v’ è altro mezzo che, mediante uno studio critico e sistematico del dipinto e di tutti gli elementi che possono facilitare l’impresa, riunire il materiale sufficiente per la creazione d’una copia tipica la quale renda la Cena nello stato in cui la lasciò Leonardo quando vi diè l’ultimo tocco di pennello. Buona parte del volume è consacrata a confutare la teoria dello Strzygowski. (V. sotto questo nome). Fra gli elementi più importanti per questa ricostruzione critica sono le teste degli Apostoli costituenti la serie acquistata nel 1892 dal museo civico di Strasburgo, la qual serie l’Autore dimostra autentica. L’Hoerth vuole con questo libro sostituire alle solite descrizioni soggettive esame metodico e pone la conoscenza della genesi e del contenuto della famosa composizione sopra un fondamento nuovo. L’ opera meriterebbe un’analisi più ampia da parte di uno specialista. (Cfr. «Burlington Magazine» luglio 1908).
L’elegante volume è adorno di splendide tavole. Riproduce: il Cenacolo allo stato attuale, l’incisione di Morghen e quella del Frey, la copia di Cesare Magno alle Grazie e quella di Ponte Capriasca; disegni con studi per la Cena a Windsor, al Louvre, all’Accademia di Venezia e per l’Adorazione al Louvre, agli Uffici, a Parigi nella Collezione Walton; studi per il Bartolomeo e per il Giuda a Windsor, per Pietro e Giuda all’Ambrosiana, il pastello di Brera, il Cristo e le sei teste della serie di Strasburgo e quattro teste della collezione di Weimar.

Raccolta Vinciana, fascicolo IV, 1907-1908, p. 20




























martedì 29 agosto 2017

1906 - RICCI. La copia del «Cenacolo» fatta da Alessandro Araldi

Corrado Ricci. La copia del «Cenacolo» fatta da Alessandro Araldi [in] Raccolta Vinciana, presso l’Archivio Storico del Comune di Milano, Castello Sforzesco. Fascicolo II, Luglio 1905-Luglio 1906, pp. 72-73.


Non è una bella copia, ma è una delle più antiche, eseguita certo quando Leonardo viveva ancora. È perciò importante, anche senza considerare che è importante ogni vecchio documento grafico o archivistico che riguardi quel capolavoro, come ogni antico cenno che riguardi la Divina Commedia.
Nato in un tempo in cui fiorivano rigogliose diverse scuole, Alessandro Araldi, assimilatore senza forte ingegno, levò qualcosa da tutte. Nelle sue pitture troviamo infatti motivi tolti dal Pintoricchio, dal Mantegna, da Raffaello, dal Costa, dal Francia.
L’opera gloriosa di Leonardo non poteva quindi sfuggire alla sua «buona volontà» d’assimilarsi le forme nuove che l’arte andava conquistando: di tenersi, come oggi si dice, al corrente. E copiò il Cenacolo.
Nato intorno al 1460, l’Araldi non era più giovine di Leonardo che di sette od otto anni circa; correva quindi verso la quarantina quando questi compì la maravigliosa pittura del Refettorio delle Grazie.
La copia dell’Araldi, eseguita forse intorno al 1514, e rimasta sempre in Parma, fu dapprima di tal Filippo Porzioli, poi della Compagnia dei Ss. Cosma e Damiano e finalmente della R. Galleria dell’Accademia, cui detta Compagnia la vendette nel 1841. Ora si trova esposta in quella delle stanze di S. Paolo, che ha la volta decorata dall’Araldi stesso.
Nell’Archivio della Compagnia dei Ss. Cosma e Damiano è però rimasto il seguente ricordo: «A dì 8 aprile 1530, Messer Filippo Porzioli ha donato alla Compagnia il Cenacolo del nostro Signore, il quale fece M. Alessandro Araldi, e la Compagnia ordinò che si dicesse ogni anno in perpetuo un uffizio di messe».
Noto, infine, che questo dipinto del modesto pittore parmigiano, non è stato, prima d’ora, mai pubblicato; anzi, credo, nemmeno fotografato.

Corrado Ricci.






domenica 27 agosto 2017

1910 - BISCARO. La commissione della "Vergine delle roccie"a Leonardo da Vinci


Archivio Storico Lombardo
Giornale della Società Storica Lombarda
Serie quarta
Milano, Libreria Fratelli Bocca
Corso Vitt. Eman. 21
Fasc. XXV - 31 Marzo 1910 - Anno XXXVII
pp. 125-156


Gerolamo Biscaro 
La commissione della
“Vergine delle roccie” a Leonardo da Vinci
secondo i documenti originali ([1])
(25 Aprile 1483)

Volendo rintracciare il testo della convenzione, con cui la confraternita della Concezione della Vergine presso la chiesa di S. Francesco di Milano diede a Leonardo da Vinci la commissione per il tanto celebrato dipinto conosciuto sotto il nome della «Vergine delle roccie», siamo andati alla ricerca dei notai che avevano rogato nei due ultimi decenni del secolo XV gli atti relativi agli interessi della confraternita. Le pergamene del monastero di S. Francesco ci indicarono il nome di Antonio de Capitani fu Cristoforo, della vicina parrocchia di S. Maria alla porta, come il notaio ordinario di quel convento durante il predetto periodo ([2]).
Una carta del 1497, la più vecchia dello scarso fondo di atti provenienti dalla soppressa confraternita, che trovasi all’archivio di Stato, portante la nomina, per parte dei stridaci della Concezione, di im procuratore, appare stesa da un figlio (Battista) di quell’Antonio de Capitani, il quale figura invece intervenuto nell’atto come altro dei sindaci ([3]). Mentre i rogiti di Battista de Capitani sono andati smarriti, l’archivio notarile conserva la serie pressoché completa delle imbreviature dei rogiti d’Antonio, insieme ad una copiosa serie degli atti più importanti, sviluppati e trascritti in fascicoli chiamati «quaterni extensarum», e al volume delle rubriche, ove tutti gli atti sono registrati anno per anno, in ordine cronologico ([4]). Non ci eravamo ingannati. Antonio de Capitani fu il primo notaio della confraternita della Concezione, che, fondata nel 1475, spiegò la maggiore sua attività nei primi tre lustri, per provvedere alla costruzione e all’ornamento della propria sede. Egli stese anche l’atto che andavamo cercando. Ma alcun tempo dopo quest’atto, pare che insieme a lui altri notai siano stati, volta a volta, chiamati dai confratelli della Concezione per redigere le loro deliberazioni. Nel 1488 troviamo un cosidetto «sindacato» (nomina di procuratori), rogato dal notaio Giampietro Carcano ([5]), e nell’anno successivo la ricevuta di un pagamento fatto alla confraternita, nei rogiti del notaio Bertola dei Pecchi ([6]). Si è veduto che nell’atto del 1497 il notaio rogante era Battista de Capitani; ch’è probabile fosse succeduto al padre nell’ordinaria redazione degli atti della confraternita.
Diciamo brevemente dell’attività, dei confratelli della Concezione prima della convenzione con Leonardo.
Nella quaresima del 1475 il padre maestro Stefano da Oleggio, dell’ordine dei minori, predicando in S. Francesco con grande concorso di popolo, mise innanzi la proposta di costruire nella chiesa stessa una «pulcherrima capella» in onore della Vergine, sotto il titolo della Concezione, e di fondare a tale scopo una pia confraternita («Scola»), nella quale avrebbero potuto entrare tutti coloro che desideravano praticare la particolare divozione della Vergine della Concezione. Ciò si apprende dalle premesse di un atto del 1.° giugno 1478 ([7]), che regolò i rapporti fra la nuova confraternita ed il monastero; essendosi nell’atto medesimo confermata l’assegnazione, già fatta in precedenza, agli scolari della Concezione, di un’area chiamata l’orto di Filippo, dal secondo pilastro del volto della cappella «de Riziis» andando verso il piazzale di S. Valeria e verso S. Ambrogio, con facoltà di costruirvi un edificio destinato alle riunioni dei confratelli e per le loro divozioni, ma con divieto di aprirvi uscite prospicenti il predetto piazzale.
Da quest’atto si rileva che la sede della scuola, ossia la cappella, ove poi venne costruito l’altare con l’ancona della Concezione, si trovava all’estremità della chiesa presso la navata minore di destra. Costruita in forma di edicola sull’area dell’attigua corte od ortaglia che occupava lo spazio aderente al muro perimetrale della chiesa in angolo con la via di S. Valeria e col piazzale di S. Naborre dietro l’abside di S. Ambrogio, è probabile fosse stata l’ultima anche in ordine cronologico nella serie delle cappelle appartenenti a cospicue famiglie cittadine o a pie confraternite, erette in quell’area; comunicanti con l’interno della chiesa mediante grandi aperture ad arco praticate nel muro della navata di destra.
Appena regolati i suoi rapporti col monastero, la scuola provvide alla costruzione della cappella. Possiamo raffigurarcene la struttura considerando le cappelle coeve di altre chiese milanesi, in particolare l’edicola Brivio (1484) a S. Eustorgio. Nel maggio 1479 la fabbrica in muratura era terminata, perchè troviamo sotto la data del giorno 8 di quel mese i sindaci della scuola che danno ai pittori Francesco Zavattari ([8]) e Giorgio della Chiesa ([9]) la commissione di dipingere la «suphita», ossia la volta della cappella. L’atto che pubblichiamo in appendice ([10]), contiene la descrizione delle pitture che si dovevano eseguire: il Padre eterno nel mezzo col manto azzurro, intorno a lui una gloria di Serafini, quattro grandi riquadri con animali «in sua natura» (i simboli degli evangelisti?), ed altri ventiquattro riquadri minori, aventi ciascuno nel mezzo «rozoni» di varie «foxe». Il tutto doveva essere su fondo azzurro profilato ad oro. Il compimento dei lavori era stabilito per la prossima festa della Concezione (8 dicembre 1479). Per il prezzo si pattuiva che non sarebbe stato minore di lire quattrocento imperiali. Per il di più le parti si rimettevano al giudizio di frate Agostino dei Ferrari, guardiano del monastero di S. Francesco, eletto, quale «comune amico», per fare la stima. Terminati gli affreschi della volta, l’anno dopo si provvide alla costruzione di un’ancona di legno intagliato, da collocarsi sopra l’altare. In data 8 aprile 1480 ([11]) il priore e sei confratelli diedero, a nome della scuola, incarico a maestro Giacomo del Maino ([12]) di fabbricare l’ancona, sopra i disegni che gli sarebbero stati consegnati dallo stesso priore e da due scolari, Giacomo da Pietrasanta e Filippo dei Lanfranconi; delegati, nella qualità di «comuni amici» delle parti, a fungere da arbitri intorno alla bellezza e perfezione del lavoro, con facoltà d’imporre all’artista il rifacimento totale o parziale dell’ancona, se non l’avessero trovata di loro soddisfazione. Termine per la consegna la prossima festa di S. Michele (29 settembre 1480). Quanto al prezzo le parti si rimettevano al giudizio che avrebbero dato Giannantonio Amadeo, il noto scultore, perito nominato da maestro Giacomo, ed un secondo esperto che i committenti si riservavano di designare; salvo, nel caso di dissenso fra i due periti, il giudizio inappellabile dello stesso priore «pro tempore» della scuola, quale terzo perito, «periziore». In acconto venivano intanto versate a maestro Giacomo lire ottantasette e soldi dieci.
La determinazione del prezzo dell’ancona diede luogo a contestazioni che furono deferite, anziché ai periti nominati nell’istrumento, al nuovo priore, Giannantonio da Sant’Angelo, e ad altri tre personaggi, probabilmente fratelli della Concezione, eletti in qualità di arbitri. Con atto del 7 agosto 1482 costoro liquidarono il prezzo in lire settecentodieci, delle quali l’artista aveva già avuto in acconto lire qaattrocentonovanta, e gli fecero obbligo di collocare a sue spese una certa tavola («absides») davanti l’immagine della Vergine, «ad modum incastri» ([13]).
Compiuto il lavoro d’intaglio dell’ancona, si pensò ad adornarla sontuosamente con dorature e con la dipintura delle figure in rilievo e degli spazi lasciati «piani» e «vodi» per le pitture. Per queste dorature e pitture si fece capo a Leonardo da Vinci ed ai fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio Preda.
L’esistenza del documento ci era stata rivelata dal volume delle rubriche, che sotto l’anno 1483 reca la seguente registrazione: «Pacta inter dominos priorem et scollares conceptionis et magistrum Leonardum de Vintiis florentinum et Evangelistam et Johannem Ambrosium fratres de Prederiis .... die XXV aprillis».
L’imbreviatura originale trovasi nella «filza» delle imbreviature del periodo dal 3 agosto 1482 al 12 agosto 1485. Gli atti vi sono collocati in ordine cronologico. Pur troppo il prezioso documento, al pari di molti altri della stessa «filza» che lo precedono o gli stanno dietro, presenta la parte superiore gravemente avariata per antica bagnatura che rese illeggibili le prime linee dei fogli. Così sono scomparsi l’intestazione e parecchi brani tanto della prima minuta, la vera imbreviatura, come di un secondo originale più sviluppato, inserito nella minuta. Fortunatamente, alle lacune dei due testi, coevi alla stipulazione del contratto, supplisce un terzo esemplare dell’atto, trascritto per intero, di tutto pugno del notaio, in uno dei «quaterni extensarum», avente sulla copertina l’intestazione: «1488, Quaternus extensarum mey Antonii de Capitanis notarii pubblici M. signatus Iupiter». Ma, a differenza degli altri quaderni, ove quasi tutti gli atti appartengono all’annata segnata sulla copertina, il quaderno «Iupiter» contiene una miscellanea di atti che vanno dal 1480 al 1504. Quello del 25 aprile 1483, portante la convenzione della scuola della Concezione con Leonardo da Vinci, è preceduto da due contratti del 1502 e da uno del 1500. Inserto nelle due minute della «filza» havvi un foglio chiamato «lista», contenente la descrizione dei lavori commessi a Leonardo e ai due fratelli Preda, che, per la maggiore consistenza della carta e densità dell’inchiostro, è leggibile con qualche sforzo anche nella parte superiore avariata, grazie alla trascrizione fattane dal notaio nella seconda minuta e ripetuta più tardi, con leggere varianti nella grafia, nell’esemplare completo del quaderno «Iupiter».
L’attenzione maggiore è richiamata dalla «lista». Il raffronto della scrittura del testo con la firma autografa di Leonardo, e la forma dialettale prettamente lombarda, del testo medesimo escludono che sia di mano del grande artista ([14]). La differenza nell’inchiostro che nelle firme è più-sbiadito, come è sbiadito in una postilla del testo, induce nell’opinione che la lista fosse stata predisposta in base alle intelligenze precorse con Leonardo, coi fratelli Preda e con gli scolari della Concezione. Fu sottoscritta dal priore, dal sottopriore della confraternita, da Leonardo e dai due Preda all’atto della definitiva stipulazione del contratto, presenti il notaio, i due pronotai e i testimoni ([15]), nell’intento di eliminare il pericolo di future contestazioni sulle precise modalità delle opere convenute ([16]).
La descrizione che la «lista» ci dà dei particolari dei lavori, non si distingue per grande chiarezza. Egli è che le parti tacitamente si richiamavano, come ad uno stato di fatto certo ed immanente, alla configurazione dell’ancona già costrutta in tutti i suoi elementi, e non avevano bisogno di identificare ciascun elemento se non in quanto si rendeva necessario per determinare le modalità dei lavori ad essi affidati. Se ne ricava tuttavia abbastanza per comprendere che l’opera doveva consistere nella doratura e dipintura di un’ancona di legno divisa in più scomparti, scolpita nella parte superiore con figure e composizioni a rilievo, mentre la parte inferiore era stata lasciata in «piano», perché il pittore potesse dipingervi altre figure e composizioni. Lo scomparto di mezzo della parte superiore racchiudeva in alto (nella cimasa?) il Dio padre, con una gloria di serafini; nel mezzo la Vergine con altra gloria di angeli e al basso una prospettiva di montagne rocciose e, per quanto sembra, fra le roccie il presepio con Gesù bambino. È probabile che le figure fossero di mediocri dimensioni, in alto rilievo. Si dovevano mettere a broccato d’oro con azzurro d’oltremare il manto della Vergine e quello di Dio padre e, pure a broccato d’oro, ma con tinta verde, a olio, la fodera dei due manti. La sottoveste della Vergine andava posta a broccato d’oro, di lacca color eremisi. Altre prescrizioni riguardano i colori delle vesti dei serafini e degli angeli, le tinte delle montagne e dei sassi. Il presepio doveva essere tutto dorato. A destra e a sinistra di questa composizione l’ancona conteneva due serie di «capitoli», ossia tre o quattro campi per ciascun lato, di forma rettangolare, in ognuno dei quali era raffigurato un episodio della vita della Vergine con figure di piccolo formato, scolpite a rilievo. I pittori dovevano dorare e dipingere a colori questi «capitoli», seguendo le stesse norme dettate per la composizione di mezzo ([17]). Erano tenuti anche a «reconzare» gli intagli nelle parti eventualmente difettose. I volti, le mani e le gambe nelle parti scoperte, andavano colorite al naturale. Cornicioni, lesene e capitelli, formanti l’intelaiatura e la cornice dell’ancona, erano da mettere ad oro fino. Nella parte inferiore il campo centrale in piano si doveva dipingere ad olio con la rappresentazione della Vergine e del Bambino insieme ad un gruppo di angeli e a due profeti non meglio identificati. Uno dei profeti doveva essere certamente Isaia, la cui presenza è costante nelle antiche rappresentazioni della Concezione, come un simbolico richiamo alla testimonianza del profeta al mistero della Vergine immacolata. Quanto al secondo profeta è probabile fosse stato Leonardo a proporne l’intervento, in vista delle particolari esigenze della composizione pittorica, sulla quale aveva allora fermato il suo pensiero. I due spazi laterali erano stati lasciati pure in piano, senza intagli, per dipingervi quattro angeli per ciascun lato, in atto gli uni di suonare, gli altri di cantare ([18]).
Nell’istrumento, celebrato il giorno di venerdì 25 Aprile 1483, nell’orto della foresteria dei frati di S. Francesco, figurano intervenuti il priore della scuola della Concezione, Bartolomeo degli Scarlioni e con lui otto scolari in rapresentanza della confraternita, Leonardo da Vinci e i fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio Preda ([19]). Leonardo solo è detto maestro; il che concorre, insieme al patto speciale per il caso della sua partenza da Milano, prima che l’opera fosse compiuta, a far ritenere ch’egli doveva avere virtualmente una parte preponderante nella esecuzione dei lavori formanti oggetto della commissione; per quanto né la lista né il rogito facciano alcuna distinzione fra opere da eseguirsi dal maestro ed opere assegnate ai Preda. Le loro obbigazioni verso la scuola committente erano solidali ed indivisibili, come era solidale il loro credito per il corrispettivo pattuito; salvo il riparto nei rapporti interni fra Leonardo e i due fratelli, che ignoriamo in quali proporzioni dovesse effettuarsi. I tre artisti si obbligavano di dare l’opera compiuta per la prossima festa della Concezione (8 dicembre 1483). Il prezzo era stabilito in ottocento lire imperiali (200 ducati), oltre alla maggior somma che sarebbe stata «dichiarata» da frate Agostino dei Ferrari, guardiano del monastero di S. Francesco, e da due scolari della Concezione, da eleggersi dalle parti dopo terminati i lavori. Leonardo e i fratelli Preda garantivano che l’opera non sarebbe stata di valore inferiore alle lire ottocento, e si obbligavano di rispondere personalmente della bontà della esecuzione almeno per un decennio. Qualora Leonardo avesse lasciato Milano prima d’avere terminato i lavori dell’ancona, la confraternita sarebbe stata in diritto di assegnare la continuazione dell’opera a chi meglio avesse creduto. In questo caso Leonardo sarebbe stato compensato in proporzione dell’opera da lui personalmente eseguita. Questo patto, ove non si parla neppure dei Preda, sembra indicare che costoro, secondo le intelligenze passate fra le parti contraenti, fessero destinati ai lavori di carattere decorativo, quali la doratura del riquadro e la dipintura delle figure a rilievo; mentre si faceva assegnamento su Leonardo per la pittura della tavola di mezzo, nella quale si saranno concentrate le maggiori aspettative degli scolari della Concezione. Sapendosi che Giovanni Ambrogio Preda fu pittore, e valente, mentre del fratello Evangelista non si aveva fin qui alcuna notizia, si può credere che quest’ultimo dovesse più particolarmente occuparsi della doratura, lasciando a Giovanni Ambrogio la pittura dei volti, delle mani e delle gambe delle figure a rilievo e la pittura altresì degli angeli negli spazi «vodi» di sotto. Per evitare contestazioni sulla qualità e sulla quantità dell’oro che si sarebbe impiegato nella doratura, era fatto obbligo agli artisti di accettare l’oro che i committenti avrebbero loro fornito, a prezzo non superiore a lire tre e soldi dieci il «centenaro». La doratura per maggior garanzia doveva praticarsi nei locali dei monastero di S. Francesco; per gli altri lavori si lasciavano le parti in facoltà d’eseguirli nelle proprie case. Il prezzo di lire ottocento era da pagarsi per lire cento al 1° maggio 1483, e il resto in rate mensili di lire quaranta cadauna a partire dal mese di luglio successivo; salvo a scontare sulle ultime rate il valore dell’oro fornito dalla confraternita. In fine si stipulava una penale a carico della parte inadempiente, da applicarsi a piena discrezione di frate Agostino, all’uopo delegato, quale «amico comune» dalle parti contraenti.
Null’altro ci fu dato rinvenire nelle imbreviature del notaio Antonio de Capitani o di altri notai mììanesi, intorno ai rapporti di Leonardo e dei due fratelli Preda con la scuola della Concezione. È d’uopo quindi richiamarci all’esame della nota supplica-reclamo, presentata da Leonardo e da Giovanni Ambrogio Preda al duca di Milano contro la confraternita della Concezione ([20]). La supplica manca di data, ed il suo rinvenimento fuori della posizione della cancelleria duccale, alla quale doveva essere stata allegata, e che non è più possibile ricomporre, essendo stati dispersi i vari elementi che la costituivano, non permette alcuna induzione sicura intorno all’anno della sua presentazione. Senza data è pure la registrazione della supplica trovata dal Malaguzzi in un frammento di protocollo della cancelleria sforzesca ([21]). Il Malaguzzi argomentò che appartenesse al periodo fra il 1491 e il 1494, perché nei documenti registrati nel protocollo Lodovico il Moro è chiamato ancora duca di Bari (titolo che nel 1494 sostituì con quello di duca di Milano) e vi è ricordata la duchessa Beatrice, che andò sposa allo Sforza nel 1491. L’induzione non ci sembra così sicura come parve all’egregio scrittore. Nella cancelleria degli Sforza la tenuta dei registri lasciava spesso a desiderare. Molti volumi ducali contengono, trascritti alla rinfusa, atti sopra argomenti disparatissimi, senza ordine cronologico. Pur troppo le ricerche più premurose dei valenti funzionari dell’archivio di stato per identificare il frammento di protocollo, del quale il Malaguzzi ha omesso di farci sapere la collocazione, sono fin qui riuscite vane, e noi quindi non siamo in grado di controllare l’esattezza delle sue induzioni con la verifica delle date degli altri documenti ivi registrati.
Raffrontando il testo della «lista» e le stipulazioni dell’istrumento col contenuto della supplica, si riscontra tosto la sostanziale corrispondenza delle opere commesse dai confratelli della Concezione a Leonardo e ai fratelli Preda, con quanto formava oggetto del reclamo di Leonardo e di Giovanni Ambrogio. Nella supplica si dice ch’era stato convenuto «di farli una ancona de figure de relevo misa tuta de oro fino», di «uno quadro de una nostra dona depenta a olio» e di «dui quadri con dui angeli grandi depinti similiter a olio». L’equivoco, in cui poteva indurre la frase «de farli una ancona», nel senso che i tre artisti si fossero assunta anche la costruzione dell’ancona con «le figure de rilevo», viene eliminato dal testo della lista e dello stesso istrumento, ove a chiarissime note si esprime il concetto che la commissione consisteva nelle decorazioni e nelle pitture da eseguire sopra un’ancona di proprietà dei committenti; più ancora dalla circostanza che, come si è veduto più sopra, l’ancona era già stata costruita appositamente, uno o due anni prima, da uno dei più valenti intagliatori della città. Avvertono i ricorrenti essere stato convenuto che, se i lavori importavano un valore superiore alle lire ottocento, gli scolari della Concezione avrebbero dovuto pagare il di più secondo quanto sarebbe stato «declarato» da frate Agostino e da due dei propri confratelli a ciò deputati. Aggiungono che, sebbene le lire ottocento fossero andate consunte per intero nelle spese per i lavori dell’ancona in rilievo, i tre commissari si rifiatavano di procedere ad una regolare perizia, previa prestazione di giuramento, ma pretendevano di dare un giudizio «de equitate»; e mentre il valore de’ quadri dei due angeli grandi e della «tavola della nostra dona», senza contare la decorazione dell’ancona, ascendeva a ducati trecento (lire milleduecento), i commissari volevano stimare solo venticinque ducati (lire cento) la tavola «facta a olio per lo dicto fiorentino», per la quale i medesimi ricorrenti avevano già avuto offerta di ducati cento da persone desiderose di farne l’acquisto. Contestando la competenza tecnica degli scolari, «quod cechus non indicat de colore», supplicano si provveda a che i tre commissari procedano con giuramento alla stima del quadro «di nostra dona» e dei due quadri con angeli, ovvero siano nominati due periti dell’arte, uno per parte, al cui giudizio i contraenti debbano attenersi, e con obbligo negli scolari di effettuare l’immediato pagamento dell’importo che sarebbe dichiarato dagli esperti. Un secondo partito propongono i ricorrenti per il caso non si credesse di accedere alla prima loro domanda alternativa; e cioè che si consenta loro di ritirare «la nostra dona fatta a olio», risolvendo in questo modo la vertenza.
Da questo documento si rileva che notevoli modificazioni erano state portate, durante l’esecuzione, al programma dei lavori locati a Leonardo e ai fratelli Preda, in luogo degli otto angeli, quattro per lato, «differentiati del’uno quadro e l’altro» che si dovevano raffigurare nei due scomparti di fianco alla tavola «de’ nostra dona», erano stati dipinti due soli angeli «grandi», uno per parte, occupanti tutto il piano dello scomparto ([22]). Poiché non vi ha dubbio che la tavola di mezzo «facta a olio per lo fiorentino», è la Vergine delle roccie, a parte la questione se la tavola di cui si discuteva nella supplica, sia da identificar nella pala del Louvre o in quella della National Gallery, ovvero in un primo esemplare del quale si ignora il destino, è certo intanto che il soggetto della composizione venne trasformato nei suoi elementi principali, essendosi alla rappresentazione della Concezione della Vergine che, secondo le antiche tradizioni iconografiche, richiedeva la presenta del profeta Isaia, sostituito quel più intimo e più spirituale convegno che tutti ammiriamo sotto il nome della «Vergine delle roccie».
Quale la data, più probabile del compimento dell’opera e della disputa fra la confraternita da un lato coi tre conmissari, Leonardo e il secondo fratello Preda, dall’altro? Si è veduto che l’istrumento stabiliva doversi il pagamento delle lire ottocento effettuare quanto a lire cento il 1° maggio (1483) e quanto alle altre lire settecento in rate mensili di lire quaranta cadauna, a partire dal luglio successivo. La scadenza dell’ultima rata si sarebbe verificata fra il gennaio e il febbraio 1485. Dalla supplica si apprende che Leonardo e Giovanni Ambrogio Preda avevano riscossa l’intera somma delle lire ottocento. Evangelista Preda, che non vi è neppure nominato, si era forse nel frattempo reso defunto. Si può credere che Leonardo non sia stato puntuale nel compimento della parte dei lavori ch’egli si era riservato, entro il termine convenuto (8 dicembre 1483). Dal testo della supplica non appare ben chiaro se la «tavola de nostra dona» e i quadri dei due angeli fossero stati consegnati ovvero si trovasssero ancora presso i pittori in attesa della definizione della controversia. Leonardo avrebbe smentito sé stesso se si fosse affrettato a condurre a termine un’opera, la prima che a Milano gli era stata allogata, che dalle sostanziali modificazioni portate nella composizione e dai numerosi schizzi e disegni delle figure in essa rappresentate si dimostra, come tutte le cose sue, frutto di lenta e matura elaborazione.
Durante il 1485 Milano fu colta da un morbo pestilenziale che gettò lo scompiglio nell’attività di tutte le classi della popolazione. Anche questa triste novità avrà influito a ritardare il compimento del lavori dell’ancona. Non per questo Leonardo e suoi soci avranno acconsentito ad una dilazione nel pagamento delle rate del prezzo alle rispettive scadenze. Anche nel secolo XV erano pochi gli artisti di grido che fossero disposti a considerare alla stessa stregua le proprie obbligazioni e i propri diritti. Un tenue indizio intorno all’età della supplica potrebbe desumersi da un atto del 25 maggio 1486, con cui il priore, il sotto priore, il tesoriere e i sindaci della scuola della Concezione, convocatisi nella sala capitolare del monastero di S. Francesco, premesso che, come negli altri anni, così anche al primo gennaio dell’anno allora in corso la confraternita aveva proceduto verbalmente alla nomina dei propri officiali, dichiararono di ratificare e di confermare le nomine fatte nelle loro persone, e in pari tempo costituirono quattro procuratori «ad negotia» e alle liti ([23]). Solo la necessità di giustificare in giudizio, con la produzione dell’atto di nomina, la rappresentanza della confraternita nelle persone del priore e del sotto priore e dei sindaei chiamati a rilasciare la procura alle liti ad un causidico, può dare ragione di quest’atto. Una lite era iniziata o stava per iniziarsi. Era mestieri regolarizzare la posizione giuridica della confraternita attrice o rea-convenuta, per isfuggire alle eccezioni pregiudiziali che i causidici della contro-parte non avrebbero omesso di sollevare al fine di negare ingresso alle domande della confraternita, o respingere chi si fosse presentato in giudizio a nome di essa.
Se l’atto del maggio 1486 fu determinato dalla contestazione sollevata da Leonardo e dal Preda per la liquidazione del prezzo dell’ancona, si dovrebbe assegnare al marzo od aprile di quell’anno il definitivo compimento della Vergine delle roccie ([24]). Chiarita la base di fatto della controversia, conviene considerare più da vicino le pretese dei reclamanti e la presumibili; difesa degli scolari della Concezione, per argomentare intorno alla soluzione che probabilmente avrà avuto il litigio.
La questione riguardava il maggiore compenso che l’atto del 1483 riservava a Leonardo e ai suoi soci, qualora il giudizio che dei loro lavori avrebbero dato frate Agostino e i due scolari, fosse per importare una somma superiore alle lire ottocento, già pagate e consunte. Leonardo e Giovanni Ambrogio pretendevano un supplemento di almeno cento ducati, che avrebbe fatto ascendere il prezzo complessivo delle opere a lire mille duecento. Pare che Leonardo in particolare ci tenesse a far riconoscere che la sola «tavola di mezzo» della Vergine valeva cento ducati. Le otto cento lire erano, a suo dire, state erogate completamente nelle spese occorse per la decorazione dell’ancona ad iniagli. Provocato il giudizio dei tre commissari, costoro dichiararono di liquidare un supplemento di prezzo di venticinque ducati. Così pronunciando essi avevano adempiuto il mandato loro conferito nel contratto, di «declamare» il maggior compenso dovuto agli artisti. In linea di stretto diritto alle parti non rimaneva che accettare il responso dei commissari e uniformarvisi. La pretesa di Leonardo e dei Preda che i commissari dovessero rinvenire sul proprio giudizio, urtava contro la lettera del patto contrattuale, che era chiarissimo, e contro la presumibile intenzione dei contraenti. Non si trattava dell’applicazione di una clausola compromissoria, la quale attribuisse a frate Agostino e ai due scolari eligendi l’ufficio di arbitri o di periti per cui dovessero emettere mia sentenza od un atto regotorio di perizia, previa prestazione di giuramento; ma della esecuzione di un mandato ad esercitare le funzioni, assai più facili e piane, di amichevoli compositori. La qualità di religioso e di preposto di un monastero, in frate Agostino, male si sarebbe conciliata con l’esercizio di funzioni giudiziarie o col mandato di procedere ad una perizia tecnica sotto la coazione morale del giuramento. Era stato loro demandato un incarico fiduciario da esesguirsi senza alcuna formalità di rito, in base proprio a quel principio «de equitate», che dalla supplica di Leonardo e di Giovanni Ambrogio risulta essere stato dai medesimi commissari invocato per giustificare la tassazione fatta in venticinque ducati, del maggior compenso reclamato dagli artisti; principio «de equitate», che costoro pretendavano disconoscere, trasformando il mandato fiduciario conferito ai commissari in un formale compromesso, o quanto meno nell’incarico di una regolare perizia tecnica. Si noti inoltre che nella chiusa dell’istrumento era stato conferito al guardiano del monastero di S. Francesco l’ulteriore mandato di risolvere come «amico comune» delle parti tutte le questioni che fossero sorte intorno alla interpretazione ed esecuzione del contratto, anche rispetto alla penale da applicarsi alla parte inadempiente in favore dell’altra parte. La clausola in forza della quale nei contratti di locazione di opere d’arte si fissava un prezzo minimo e si mandava a «comuni amici», scelti quasi sempre all’infuori del ceto professionale, di dichiarare “ex aequo et bono”, ad opera compiuta, il maggiore compenso da corrispondersi agli artisti, era abbastanza frequente a Milano nell’ultimo quarto del secolo XV ([25]). Si voleva da un lato interessare l’artista a fare del suo meglio perché l’opera fosse per corrispondere alle esigenze del committente, dall’altro difendersi contro le pretese esorbitanti che l’artista non avrebbe mancato di avanzare se la determinazione del prezzo fosse stata rimessa al giudizio di uomini dell’arte, a lui facilmente legati dai vincoli dell’amicizia e della solidarietà professionale.
Evidentemente, con la supplica al duca, Leonardo e Giovanni Ambrogio si proponevano di provocare l’interessamento di Lodovico il Moro, il quale fino dal 1479 aveva nelle sue mani la somma del potere; affinché s’interponesse per procurare loro un trattamento migliore di quello risultante dalla dichiarazione dei tre commissari. Si calcolava sui rapporti che ambedue avevano con la corte ducale, in particolare con lo stesso Lodovico, del quale il Preda è designato «dipintore» in un atto del marzo 1482 ([26]). Le proposte di obbligare i commissari a prestare il giuramento o di nominare altri periti, ma dell’arte, ad altro in fondo non miravano che a premere in qualche modo sull’animo dei confratelli della Concezione per indurli ad allargare i cordoni della borsa in favore dei postulanti. L’ulteriore proposta di definire la controversia con l’autorizzazione a Leonardo di ritirare o di trattenersi la «dicta nostra dona facta a olio», non poteva essere presa sul serio, dopo che i due pittori avevano già riscosso la somma delle lire ottocento stabilita come prezzo complessivo per la decorazione dei lavori d’intaglio e per le pitture. Ha tutta l’aria di una di quelle conclusioni «ad pompam» che non di rado i causidici presentano, com’essi dicono «nella più disperata ipotesi», a guisa di razzo finale, per far fede della apparente discretezza e moderazione del cliente; pur con la certezza assoluta che sono destinate a cadere senza l’onore di una discussione qualsiasi. Come se un unico contratto, avente per oggetto la decorazione con dorature e colori e la pittura delle parti piane di un’unica ancona, potesse, ad esecuzione compiuta, scindersi, a causa di divergenze insorte nella determinazione del prezzo, obbligando i committenti a trattenersi l’ancona, mancante proprio di quel quadro di mezzo rispetto al quale, per la grande fama dell’artista, più viva doveva essere stata la loro attesa!
Non occorre di più di un semplice esame del testo della supplica per classificare come vane fantasticherie le argomentazioni avanzate da taluno intorno all’effetto immediato che la supplica dei due pittori avrebbe avuto di procurare a Leonardo la restituzione o la libera disponibilità della tavola originale della «nostra dona». Per accedere alla tesi dell’immediato rilascio converrebbe presumere che sulla fine del quattrocento il capriccio o il comodo disvolere di due artisti, anche se uno di essi rispondeva al nome di Leonardo da Vinci, potesse avere facilmente ragione contro i diritti, consacrati in un solenne strumento notarile, di una fiorente confraternita; la quale, da poco tempo fondata per l’esercizio di devozione che i frati minori di S. Francesco coltivavano come preziosa prerogativa del proprio ordine, contava nel suo seno un numero grandissimo di persone d’ogni ceto ed era presieduta ed amministrata da uomini appartenenti alle più cospicue famiglie della città ([27]).
Riteniamo assai probabile che la contesa sia stata risolta per i1 l’intromissione personale di Lodovico il Moro, a mezzo di qualcuno dei giurisperiti che facevano parte del consiglio ducale di giustizia, con la concessione che la confraternita si sarà indotta a fare a Leonardo e a Giovanni Ambrosio di un sensibile aumento sul sovraprezzo di venticinque ducati dichiarato dai cornmissari. Considerando la cosa all’infuori dei rapporti contrattuali delle parti, in relazione al merito intrinseco della tavola di Leonardo, di gran lunga superiore a tutto quello che sino a quel giorno Milano possedeva in fatto di pittura, non sarebbe stato il caso di rifiutargli recisamente un compenso alquanto maggiore di quello proposto dai commissari, se non a titolo di mercede, come un premio alla sua virtù ed insieme un incoraggiamento ad arricchire la città di altre opere di così meravigliosa bellezza. Non par dubbio che queste considerazioni pertate fuori del dibattito giudiziario, siano state apprezzate come si conveniva, da una numerosa accolta di persone, consociate non a scopo di lucro, ma per praticare una pia divozione; le quali dovevano sentirsi orgogliose di possedere un così splendido saggio della nuova arte che si veniva svolgendo e maturando sulle rive dell’Arno, sino a toccare la perfezione. Nell’alternativa, se pure a questo estremo si giunse, di dover lasciare la tavola a Leonardo o di aggiungere quaranta o cinquanta ducati ai venticinque liquidati dai commissari, la confraternita, la quale nel periodo di cinque o sei anni ne aveva già speso non meno di cento per i freschi della volta, quasi duecento per gli intagli dell’ancona, ed altri duecento per le dorature e la dipintura degli stessi intagli, non avrebbe esitato un momento a sobbarcarsi al maggiore esborso. Non mancavano certo fra i suoi preposti persone fornite di largo censo, che fossero disposte ad anticipare il denaro occorrente. Cuncludendo a noi pare indubbio che la tavola sia allora rimasta al suo posto, o vi sia stata appunto allora collocata.
Ma fino a quando? Questo è il problema più grave, I documenti non lo risolvono. La critica più autorevole ([28]) è venuta sempre più affermandosi nel senso di ritenere l’esemplare del Louvre come l’originale concezione del maestro, eseguita durante la sua prima dimora a Milano, nello stile che presentano le ultime sue opere fiorentine. L’esemplare di Londra, proveniente indubbiamente dalla chiesa di S. Francesco di Milano, sarebbe una copia condotta sull’originale in periodo più avanzato, forse sotto gli occhi di Leonardo, da quello stesso Giovanni Ambrogio Preda ([29]), che aveva dipinto i due angeli disposti ai lati della tavola. Il quadro del Louvre proviene dalla guardaroba dei re di Francia. Sebbene le prove non risalgano oltre il 1625, è comune opinione vi fosse entrato sino dai tempi di Francesco I, il quale, com’è noto, fu appassionato raccoglitore di opere di Leonardo. «Se questa supposizione è esatta (avvertiva recentemente il von Seidlitz) si dovrebbe ritenere che Francesco I (o forse il suo predecessore Luigi XlI), si fosse procurato l’originale del grande maestro. Se così è, conviene ammettere che il quadro sia stato dalla confraternita restituito a Leonardo e che lo si sia sostituito nella chiesa con una copia, la quale, naturalmente, passò di poi sotto il suo nome; come appare dagli scrittori locali, Lomazzo, Torre, Gerli e Bianconi, i quali lo ritennero originale». Ebbene; noi che respingiamo la ipotesi inverosimile della restituzione del quadro a Leonardo, determinata dal rifiuto della confraternita di sottostare ad una spesa maggiore di quella dichiarata dai commisari, nulla abbiamo invece da eccepire alla supposizione che il quadro sia stato portato in Francia per opera di Francesco I o di Luigi XII. Contro l’ipotesi che, restituito il quadro a Leonardo, come si credeva, fra il 1491 e il 1494, o peggio accora, in base alle nuove risultanze, sino dal 1486 o 1487, l’autore l’abbia tenuto presso di sé fin quando gli si presentò l’occasione di offrirlo a re Francesco, fu già affacciata l’obiezione che converrebbe ammettere che Leonardo si fosse trascinato dietro la tavola ingombrante, nelle lunghe sue peregrinazioni da Milano a Firenze e nelle Romagne, indi di nuovo a Milano ([30]). Si può aggiungere che, data l’ipotesi del ritiro del dipinto, non sarebbe concepibile perché Leonardo, anziché accettare la più vantaggiosa della varie offerte, delle quali è parola nella supplica, avesse preferito di fargli la guardia per tanti anni. D’altra parte la sicura derivazione delle altre copie milanesi che si hanno della Vergine delle roccie, risalenti con tutta probabilità al primo o al secondo decennio del cinquecento, dall’esemplare di Londra, denota che questo si trovava già sull’altare fra il 1505 e il 1515. Questi riflessi ci conducono ad accettare come più verosimile d’ogni altra la congettura che il quadro originale sia stato portato in Francia, in seguito a disposizioni impartite da Luigi XII, nell’occasione della sua prima venuta a Milano nell’ottobre e novembre 1499, subito dopo la fuga di Lodovico il Moro ([31]). Si tenga presente il racconto del Vasari intorno all’entusiasmo del sovrano alla vista del Cenacolo, e al suo rincrescimento per l’impossibilità di staccarlo dal muro ov’é dipinto. Si consideri pure che Luigi XII aveva ammirato anche il gesso del «cavallo». Quello che fra il 1486 e il 1488 non avrebbe forse osato il Moro, perchè la sua posizione precaria non gli consentiva di provocare con un atto di patente ingiustizia il risentimento dei vari ordini della popolazione largamente rappresentati nella confraternita della Concezione, bene avrebbe potuto permettersi il potente sovrano all’indomani della conquista della città. Se fu lo stesso re di Francia che, ordinando di levare dall’ancona il prezioso dipinto, dispose perché ne venisse tratta una copia fedele da un valente pittore, da collocarsi al posto dell’originale, si dovrebbe pur riconoscere in questo procedimento del cavalleresco monarca quella nobiltà e moderazione di costumi che tre secoli più tardi mancò al corso avventuriero, quando sguinzagliava i suoi segugi a scovare e fare incetta dei migliori tesori dell’arte italiana, per arricchire i nuovi musei della metropoli.
E l’ancona a figure di rilievo? Si congetturò da taluno che fosse andata distrutta nella rovina della chiesa di S. Francesco, dell’anno 1688. Altri pensò che sia stata sostituita nel 1576, quando l’altare della Concezione, dal luogo ove era stato in origine disposto all’estremità della chiesa, a destra della porta maggiore, venne trasferito entro la cappella già dell’Assunta, a destra del coro, «con altra più adatta all’uopo (?) e più duratura». Si giunse perfino a fantasticare che l’ancona fosse di gesso o di stucco e che rimasta dopo il 1576 «nell’umile (?) loco», ov’era stara collocata originariamente, sia perita con l’apertura della seconda porta, fatta eseguire lo stesso anno 1576 dai vescovo di Famagosta, visitatore apostolico ([32]). Ma anche qui si naviga nel mare sconfinato ed instabile delle ipotesi, senza il più debole punto di appoggio.
Già il Malaguzzi, avendo rilevato da un inventario degli arredi della cappella della Concezione dell’anno 1781 ([33]), che nell’altare eravi oltre al «quadro dell’Immacolata con cornice a piccola cimasa dorata», stimato quindici lire, «una ancona, baldacchino, il tutto di legno intagliato, dorato, con sei piccoli quadri incastrati nella medesima a cristalli per detta ancona», stimata lire trecento, aveva argomentato che si trattasse dell’ «ancona de rilevo misa a oro», indicata nella supplica. E ci sembra che abbia colto nel segno. La citazione pecca però di qualche inesattezza. Il documento, intitolato: «Stima del Perito Piccaluga, arredi sacri ed altri mobili della veneranda Capela del soppresso Luogo Pio dell’Immacolata Concezione in S. Francesco di M.», registra per primo «un altare con ancona, Baldachino il tutto di legno intagliato parte colore di Bronzo e parte dorato con sei piccoli quadri incassati nella medesima, e cristalli per la detta ancona - L. 300». Seguono: (2.°) «Statua della B. V. con Bambino, con manto a stelle, tessuto d’oro e seta bianca con veste ulteriore d’ormesino celeste antica, guarnita d’oro falsa ed altra di Gallassè d’argento con fondo di tela di color celeste guarnita d’oro con due manichette simili - L. 75», (3.°) «una corona d’argento, ecc. - L. 75», (4.°) «n.° 6 ovali in tela, ecc.», (5.°) «n.° 6 candelieri, ecc.», (7.°) «n.° 30 rami di fiori, ecc.», (8.°) «n.° otto quadri grandi diversi incassati nel muro - L. 80», (9.°) «n.° 8 tende per li suddetti e altre per le finestre - L. 45», e finalmente (10.°) «un quadro dell’Immacolata con cornice e piccola cimasa dorata - L. 15». L’ordine secondo il quale sono descritti e stimati gli arredi della cappella, dimostra che il quadro dell’Immacolata non si trovava sull’altare, ma era forse appeso ad una parete. Sull’altare non vi era che l’ancona di legno, parte dorata e parte colorita a bronzo. La supposizione affacciata da taluno ([34]) che l’ancona dell’inventario contenesse i quadri con espressi li Misteri primari della «Vita di M. V. dipinti da Camillo ed Ercole Procaccini», ricordati dal Latuada ([35]), non è accettabile, perché nella stima si dice che «il tutto (è) di legno intagliato, dorato, ecc.» e rinchiuso entro cristalli. D’altronde non si hanno esempi di ancone dorate con piccole storie sotto cristalli, dipinte dai due Procaccini. Ad essi è probabile che appartenessero gli otto quadri grandi diversi «incassati nel muro». La descrizione contenuta nella «lista» del 1483, dei «capitelli de intaglio con le figure excepto li volti posta a oro fino», in cui «la nostra dona» doveva essere «ornata come quella de mezo» e così «le altre figure», ci permette di riconoscere nell’ancona di legno intagliato del 1781 quella costrutta da maestro Giacomo Del Maino, decorata con dorature e pitture dai fratelli Preda sotto la direzione di Leonardo. La custodia in vetri sarà stata disposta quando si provvide a rinfrescare te dorature degli intagli, per evitare che sotto l’azione dell’umidità e della polvere si guastassero nuovamente. Nella stessa occasione invece di rinfrescare anche le tinte dei volti e delle parti scoperte dei corpi, in gran parte consumate, si pensò per maggior economia e fors’anche per la difficoltà della esecuzione, di dare alle figure una tinta uniforme bronzea. Il distacco della tavola dell’Immacolata dall’ancona denota che questa era stata scomposta e ridotta dalla sua forma e disposizione originaria. È probabile che la scomposizione sia avvenuta quando si provvide a rinnovare le dorature. L’ancona era forse profondamente deteriorata per vetustà e, dovendosi procedere ad un ristauro radicale, si trovò necessario di ridurne le dimensioni, eliminando la parte di mezzo superiore. Si conservò il presepio dorato col Bambino, che nella nuova composizione avrà formato la parte centrale dell’ancona, mentre le due serie di piccoli quadri ne avranno costituito le parti laterali. Dei due angeli grandi l’Inventario non fa parola. Erano già scomparsi dalla cappella della Concezione, precedendo di pochi anni l’esodo della tavola attribuita a Leonardo, che l’ottimo signor Piccaluga aveva stimato quindici miserabili lire milanesi!
Ma quest’ancona «di legno intagliato», così ridotta e conciata, dove andò a finire? domanderemo anche noi col Malaguzzi. Ora che il testo della lista del 1483 permette di ricostruire col pensiero gli elementi principali ond’era costituita, potranno gli studiosi e gli amatori dell’arte rivolgere la propria attenzione sopra opere di carattere frammentario, di legno intagliato, con figure a rilievo, disperse nelle maggiori e minori gallerie pubbliche e private d’Italia e fuori. Con la speranza che almeno uno dei sei quadretti venga identificato, documento degli inconsulti smembramenti compiuti dal nostri non lontani maggiori, di tesori inapprezzabili d’arte, chiudiamo questa breve illustrazione degli importanti documenti che fanno fede dell’attività pittorica di Leonardo nel primo anno del suo soggiorno a Milano, rintracciati in quella miniera, ancora inesplorata, di notizie e di dati relativi alla vita politica, artistica e sociale della metropoli lombarda dal secolo XIV in poi che è l’archivio Notarile di piazza Mercanti. La buona stella, alla quale dobbiamo altre scoperte utili per la risoluzione di gravi problemi di storia artistica e di archeologia, confidiamo continuerà ad assisterci ancora nelle ulteriori nostre ricerche ([36]).


Doc. I.

CAPITOLI SOTTOSCRITTI DA LEONARDO DA VINCI, DAI FRATELLI EVANGELISTA E GIOVANNI AMBROGIO PREDA E DAI RAPPRESENTANTI LA CONFRATERNITA DELLA CONCEZIONE. 

Jhesus.

1. Lista de li hornamenti se anno a fare a lancona dela conceptione dela glorioa Vergene
2. Maria posta nela ghexia de sancto francesco in Milano
3. Primo. Vollemo che tuta lanchona. Videlicet li capitolli deintaglie con li figure excepto li volti
4. ogni cossa sia posto aoro fino de pretio de libre III. s. X per cent.[enaro].
5. Item la nostra dona nel mezo. sia la vesta. de sopra. brocato doro azurlo tramarino.
6. Item la camora brocato doro de lacha fina in cremesi. aolio.
7. Item la fodra dela vesta brocato doro verdo aolio.
8. Item li zarafini posti de senaprio sgraffiati.
9. Item lo deo. padre. la vesta de sopra brocato doro azurlo tremarino.
10. Item li angolli sieno. hornati de sopraoro. li camesi internisati in la fogia grecha aolio.
11. Item le montagne. e sassi lavorati aoro divisati de più collori.
12. e laltro. videlicet. uno quadro che canteno et laltro che soneno.
14. Item. in tucto. li altri capitolli dove. sia la nostra dona. sia ornata.
15. come. quella. de mezo. et li altre. figure. grege. hornati de diversi colori.
16. ala foga. grega. o moderna. che sieno. in tucta perfectione cossi il
17. caxamenti. in montagne. sufiste. piani de dicti capitolli. et ognia cossa.
18. facta ad. olio. (et de reconzare lintagli che non stieno bene).
19. Item. le sibillie hornati. li campi. facte. ad una citha. in forma de.
20. caxamento. eli figure le veste. differentiate luna delaltra.
21. tucte facte ad. olio.
22. Item li cornixoni. pilastrati. capitelli et ognia intaglio. posto doro come.
23. edicto de sopra. senza alchuno collore. nel mezo.
24. Item. la tavolla de mezo facta. depenta in piano. la nostra dona. conlo suo fiollo.
25. eli angolli. facta olio in tucta. perfetione. con quelli duy. profecti vanno.
26. depenti piani. con li colori. fini come edicto de sopra.
27. Item. la bancheta. hornata come. li altri capitolli. de intorno.
28. Item tucti. li volti. elemane. gambe. che sono nude. sieno colorite. aolio.
29. in tucta perfetione.
30. Item elogo. dove. elo putino. sia messo doro lavorato. ha guisa de gradiza.
31. Ego Bartolomeus Scarlionius prior in testimonium ut supra subcripsi.
32. Johannes Antonius de santo Angello, subscripsi.
33. Io Leonardo da Vinci in testimonio ut supra subscripsi.
34. Io Evangelista preya subscripsi.
35. Johannes Ambrosius de predis subscripsi.


Doc. II.

CONVENZIONE STIPULATA IL GIORNO 25 APRILE 1483 PER I LAVORI DI DECORAZIONE E PITTURA DELL’ANCONA DELLA CONCEZIONE. 

In nomine domini anno a nativitate eiusdem millesimo quadrigentesimo octuagesimo tertio indictione prima, die veneris vigesimo quinto mensis aprilis.
Nobiles et egregii Virii Domini Bertholomeus de Scharlionibus fq. d. Viviani. porte ticinensis par. S. Petri in caminadella M. prior capelle conceptionis beate Virginis Marie constracte in Ecclesia Sancti Francisci M. ordinis minorum et una cum eo Nobiles domini Johannes Antonius de Sancto Angelo fq. d. Bertolamei p. Vercelline par. S. Johannis supra muram, d. Lanzarotus de Incrosate fq. d. Johannis p. tic. par S. Michaelis ad clusam, d. Johannes de coyris fq. d. Azonis p. Verc. par S. Nicolai intus, d. Beltramus de Piatis fq. d. Antonii p. tic. par. S. Viti q. fra de Mantegatis fq. d. Boschini p. tic. par. S. Ambrosio in solayrolo, d. Luchinus de Palferris f. d. Johannis p. Verc. par. S. Naboris et Felicis, d. Simon de Barziis fq. d. Aluisii p. tic. par. S. Laurentii maioris intus et d. Jacobus de Petrasancta fq. d. Pauli p. tic. par. S. Vincentii in prato.
omnes scolares et de consortio et universitate aliorum dominorum scolarium dicte scolle suis nominibus propriis ut scolares et item nomine et vice ac ad partem et utilitatem aliorum dominorum scolarium dicte scole pro quibus sub obligatione et ipotecha bonoram dicte scole promisserunt et promittunt de rato habendo et non contraveniendo, parte una seu pluribus, et dominus magister Leonardus de Vinciis florentinus filius domin. Petri pro una alia et Evangelista et Johannes Ambrosius fratres de Prederiis filii quondam domini Leonardi, porte ticinensis, parochie S. Vincentii in prato intus M. pro una alia parte seu aliis et pluribus diversis partibus et quilibet eorum in solidum ita quod quilibet eorum in solidum teneatur et cum effectu conveniri possint cum renunciatione novis constitutionibus ut infra.
Volontarie sponte et ex certa animi scientia et non per aliquem errorem iuris nec facti et alias omnibus modo, iure, via, causa, et forma quibus magis et melius suis et dictis modis et nominibus quibus potuerint et possint,
Fecerunt et faciunt inter sese presentes et stipulantes suis et dictis modis et nominibus quibus supra, infrascripta pacta, convenientiones et acordia inviolabiter attendenda et observanda inter dictas partes suis et dictis nominibus videlicet,
Primo, quod prefati domini prior et scolares dicte scole teneantur et debeant ac obligati sint dare et tradere anconam capelle suprascripte domine sancte Marie conceptionis constructe in dicta Ecclesia sancti Francisci M. dictis domino magistro Leonardo de Vinciis et Evangeliste et Johanni Ambrosio fratribrus de Prederiis et culibet eorum ad fabricandum per modum et formam inferius ut infra videlicet
Lista de li ornamenti se anno afare alancona dela conceptione dela gloriosa Vergene Maria posta nella ghesia de sancto francesco in Milano.
Primo volemo che tuta lanchona videlicet li capitolli intaglie con le figure excepto li volti ognia cossa sia posto doro fino nel precio de lire tre et soldi dece imp. per centenaro. Item la nostra dona nel mezo sia la vesta de sopra brocato doro azurlotremarino. Item la camora brocato doro delacha fina in cremesi a olio. Item la fodra dela vesta brocato doro verdo aolio. Item li zeraffini posti de senaprio sgraffiati. Item lo deo padre la veste de sopra brocato doro azurlotremarino. Item li angeli siano ornati sopra loro li camise internisati ala fogia grecha aolio. Item le montagnie e sassi lavorati a olio divisati de più colori. Item li quadri vodi siano angelli quatro per parte deferentiati de luno quadro e laltro, videlicet uno quadro che cantino et laltro che sonono. Item in tuti li altri capitoli dove sia lanostra dona sia ornata como quella de mezo et le altre figure grege hornate de diversi colori alla fogia grega o moderna che siano in tuta perfectione cossi li caxamenti, montagnie sañcte piani de dieci capitoli et ognia cossa facta aolio, et de reconzare intaghi che non stano bene. Item le sibille ornati li campi fatti ad una cita in forma de caxamenti et le figure le veste differentiate luna delaltra tutte fatte ad olio. Item li cornixoni pilastrate capitelli et ognia intaglio posto doro como ho dicto de sopra senza alcuno collore nel mezo. Item la tavola de mezo facta depenta in piano la nostra dona con lo suo fiolo e li angelli facta aolio in tuta perfectione con quelli doy profetti vanno depenti piani con li colori fini come dicto di sopra. Item la banchetta ornata come li altri capitoli de intorno. Item tuti li volti et le mani gambe che sono nude siano coloriti aolio in tuta perfectione. Item il locho dove elo putino sia messo doro lavorato in guisa de gradiza. Ego Bertolomeus scarlionus prior in testimonium ut supra subscripsi, Johannes Antonius de Sancto Angello subscripsi, Io Lionardo de Vinci in testimonio ut supra subscripsi, Io evangelista preya subscripsi, Johannes Ambrosius de predis subscripsi.

[segue la lunga convenzione, scritta in latino] 


Doc. III.

SUPPLICA DI LEONARDO DA VINCI E GIOVANNI AMBROGIO PREDA AL DUCA DI MILANO CONTRO LA CONFRATERNITA DELLA CONCEZIONE. 

Ill.mo et Ex.mo Signore. Alias li vostri fidelissimi servitori Johanne Ambrosio preda et leonardo de vinci florentino se conveneteno cum li scolari de la conceptione de sancto francesco de Milano, de farli una ancona de figure de relevo misa tuta de oro fino et uno quadro de una nostra dona depinta a olio et dui quadri cum dui angeli grandi depinti similiter a olio, cum hoc che doveseno eligere ala extimatione de dicte opere dai de dicti scolari et lo patre frate Augustino per lo tertio, et facta dicta extimatione, et montando dicte opere più de octocento libre de imperiali quali sono andate in spexe che dicti scolari fusseno obligati satisfare ali dicti supplicanti de suprapiù de dicte libre octocento supra secundo sarebbe declarato per dicti tri. Et non obstante che dicte due opere siano de valore de ducati CCC como apare per una lista de dicti supplicanti data a dicti scolari et che dicti supplicanti habiano instato cum li dicti commissari vogliano fare la dicta extimatione cum lo suo sacramento, attamen non la voleno fare nisi de equitate volendo loro extimare la dicta nostra dona facta a olio per lo dicto florentino solum ducati XXV licet sia de valore de ducati cento como apare per una lista de essi supplicanti et lo quale pretio de ducati cento hano trovato da persone quale hano voluto comprare dicta nostra dona: ex quo sono astrieti havere recorso da V.S.
Supplicando humelmente ala prelibata V. S. che premissis attentis, et che dicti scolari non sono in talibus experti, et quod cechus non iudicat de colore, se dignia provedere senza più dilatione de tempo aut che dicti tri commissarii fazano secundo lo suo sacramento la extimatione de dicte due opere, aut che siano electi dui extimatori in talibus experti, videlicet uno per parte, quali habiano ad extimare dicte due opere, et che secundo la dicta extimatione sia statim per dicti scolari satisfacto ali dicti supplicanti aut che essi scolari lasano ali dicti exponenti dicta nostra dona facta a olio, consciderato che solum la dicta ancona da relevo monta le dicte libre octocento imperiali quale hano hauto dicti supplicanti, le quali sono andate in spexa ut supra, como è iusto et conveniente et credono sia mente de V. Signoria alla quale se recomandano.

A tergo

Supplicatio Johannes Ambrosii de
predis et Leonardi de Vinciis florentini.






[1] Dobbiamo una parola di vivo ringraziamento agli egregi signori dottor Arganini, conservatore, Bonomini, archivista, e agli altri funzionari dell’archivio notarile di Milano, che con le loro cortesi premure agevolarono le nostre ricerche.
[2] ASM, Pergamene di S. Francesco di Milano, 1482, VII, 3; 1487, X, 30; 1496, XII, 10; 1499, I, ecc.
[3] ASM, Fondo di Religione, parte moderna, Confraternite, busta 1510.
[4] La loro collocazione è la seguente: C. 467, I.
[5] C. 459. 14, 1488, XI, 9.
[6] C. 308. 6. 7, 1489, VI, 9.
[7] Vedi append., doc. A. L’imbreviatura dell’atto è assai guasta. Un estratto di questa convenzione nella parte relativa all’assegnazione dell’area per costruirvi la cappella della Concezione trovasi inserto in una stampa del sec. XVII contenente un reclamo del monastero di S. Francesco contro la confraternita per la abusiva apertura di una porta nella sede della confraternita stessa, che metteva direttamente sul piazzale di S. Valeria (ASM, Fondo di Relig., parte mod., Confrat., busta cit.).
[8] Apparteneva a famiglia nella quale l’arte della pittura era tradizionale. Di lui ha dato qualche notizia il Morra in quest’Archivio, XXII, 1895, p. 415. Ebbe un figlio, maestro Ambrogio, pure pittore, che nel 1481 accoglieva nella sua bottega, come apprendista, tal Cristoforo «de Prevederiis» fu Giovanni della parrocchia di S. Tecla (Imbr. Boniforte Gira, 1481, VIII, 31).
[9] Di questo pittore non si halcuna notizia.
[10] Vedi doc. B.
[11] Vedi append., doc. C.
[12] Questo artefice è conosciuto come coautore degli stalli del coro di S. Ambrogio costruiti insieme a Lorenzo da Origgio e a Giacomo da Torre dopo il 1469 e quale coautore pure del coro dei frati conversi della Certosa di Pavia, che, già cominciato dal modenese Bartolomeo de Polli, il Del Maino si assunse nel 1502 di portare a termine (G. Biscaro, Note e documenti santambrosiani in quest’Archivio, XXXII, 1905, p. 92.
[13] Vedi append., doc. D.
[14] A noi sembra di ravvisare nella scrittura del testo la stessa mano della firma del sottopriore Giovann’Antonio da Sant’Angelo.
[15] Fra i testimoni è degno di nota «Augustinos de Fondutis»; la cui individualità, come di uno dei migliori scultori in plastica e terre cotte che lavorarono Milano e a Piacenza nell’ultimo quarto del sec. XV, ci riserviamo d’illustrare in altra occasione.
[16] Diamo in foglio a parte la riproduzione in fototipia della lista, con le firme autografe dei contraenti, e in appendice ne pubblichiamo il testo (doc. I), insieme all’istrumento completo desunto dal quaderno «Iupiter» (doc. II).
[17] È curioso trovare qui associato il nome di Leonardo ad un’opera, la quale corrispondeva all’uso da lui tanto acremente biasimato nel Libro di pittura di fare «i capitoli delle figure l’uno sopra l’altro» su una medesima parete.
[18] In altrettanti riparti quadrati essi pure, come i famosi «capitoli» delle «figure, l’uno sopra l’altro?».
[19] Da una serie di atti del giugno 1472 (ANM, Imbr. del not. Antonio dei Bombelli) si apprende che Giovanni Ambrogio era l’ultimo dei sei figli maschi che Leonardo Preda aveva avuto in tre successivi matrimoni. Del primo con Margherita Giussani erano superstiti Aloisio, Evangelista e Cristoforo, l’insigne miniatore, sul quale veggasi la breve nota nella rubrica «Appunti e Notizie» di questo fascicolo dell’Archivio, del secondo con Margherita «de Millio» Giovan Francesco, allora «decretorum scolaris», e del terzo con Caterina Corio fu Ambrogio, che sopravvisse al marito, Bernardino e Giovann’Ambrogio. Bernardino, che fu zecchiere e, come sembra, disegnatore (Motta, op. e loc. cit., p. 945), era allora tra i diciannove e i ventun anni, Giovann’Ambrogo sui diciotto. Si può così fissare la nascita di Giovann’Ambrogio Preda verso l’anno 1455. Nel 1483, quando conobbe Leonardo, aveva intorno a ventott’anni, tre di meno del grande maestro. Dai documenti che ci forniscono questi dati precisi sulla famiglia dei pittori Preda, si rileva che il padre, Leonardo Preda, aveva una cospicua proprietà immobiliare nel territorio di Sedriano, che però dopo il 1450 era venuta gradatamente assottigliandosi, forse in conseguenza dei carichi eccessivi della numerosa figliolanza.
Va rilevato che nell’istrumento del 25 aprile 1482 non si indicano in modo particolare la porta e la parrocchia ove abitava Leonardo. Avuto ruguardo alla pratica costantemente osservata dai notai milanesi di far dichiarare così dalle parte contraenti come dai testimoni il luogo di loro abitazione, anche se si trovavano a Milano di passaggio, alloggiati in un «hospitio», si può pensare che con l’indicazione della porta Ticinese e della parrocchia di S. Vincenzo in prato «inus», dopo i nomi dei fratelli Preda, ma anche di Leonardo, il quale, venuto da pochissimo tempo a Milano si era provvisoriamente accasato presso di essi, col proposito di procurarsi con suo maggiore agio una propria abitazione altrove, qualora il favore e i vantaggi peculiari ch’egli si riproponeva di conseguire alla corte del Moro, lo avessro persuaso di stabilirsi definitivamente in questa città.
[20] E. Motta, Ambrogio Preda e Leonardo da Vinci in quest’Archivio, XXI, 1894, p. 975. Crediamo opportuno per migliore intelligenza degli elementi di fatto della questione sollevata da Leonardo e Giovann’Ambrogio Preda contro i fratelli della Concezione, di pubblicare nuovamente la supplica (doc. III); che viene così ad integrare la prima serie di documenti originali relativi alla formazione dell’ancona della Vergine delle roccie. Confidiamo vivamente che ulteriori ricerche ci pongano in grado di rintracciare gli atti con cui fu definita la controversia fra i due pittori e la confraternita.
[21] Nuovo documento sulla «Vergine delle roccie» di Leonardo in Rassegna d’Arte, I, 1901, n. 7, p. 110.
[22] La ripugnanza di Leonardo per le rappresentazioni frazionate in una serie di scomparti aveva finito per imporsi contro i patti della convenzione. Il Preda, dal canto suo, si sarà rassegnato a fare la volontà del grande maestro; e i confratelli della Concezione avranno considerato che due angeli grandi potevano bene sostituirne otto di piccole dimensioni.
[23] ANM, Imbr. Antonio de Capitani.
[24] Nessuna indicazione è dato desumere dalla continua presenza nel monastero di S. Francesco, quando fu presentata la supplica, di frate Agostino dei Ferrari, eletto, nell’istrumento del 1483, primo commissario e «comune amico» delle parti; perché lo troviamo far parte del Capitolo di quel convento ancora nel 1496 (ASM, Perg. di S. Francesco, 10 dicembre 1496) e nel 1499 di nuovo in qualità di guardiano (ASM, Perg. di S. Francesco, 1° giugno 1499). Neppure dalla trascrizione dell’istrumento nel quaderno «1488 … Iupiter» si può trarre alcuna indicazione intorno alla data probabile della supplica. Come si è avvertito, quel quaderno contiene una miscellanea di atti che abbracciano il periodo dal 1480 al 1504. Probabilmente l’istrumento era uno di quegli atti le cui imbreviature il notaio aveva messo da molto tempo in disparte col proposito di trascriverle nel «quatern extensarum»; proposito che si ridusse a tradurre in effetto solo negli ultimi anni della sua vita. Il periodo dal 1486 al 1487, come quello in cui l’opera sarebbe stata compiuta, ci sembra più verosimile del periodo dal 1491 al 1494 supposto dal Malaguzzi. Si comprende un ritardo di due fino ad un massimo di quattro anni oltre la scadenza del termine, stabilito in poco più di sette mesi. Un ritardo maggiore non sarebbe stato tollerato dalla confraternita, la quale aveva già da lungo tempo sborsato l’intero prezzo convenuto. Quanto meno nella varie deliberazioni intorni agli interessi della stessa confraternita, prese dai suoi rappresentanti negli anni 1488 e 1489, quali risultano dalle imbreviature del notaio de Capitani, si avrebbe dovuto trovar traccia di reclami o di azioni giudiziarie spiegate per costringere gli artisti a fare onore una buona volta agli assunti impegni (ANM, Imbr. Antonio de Capitani, 30 novembre 1488, 22 e 28 febbraio, e 15 novembre 1489; Imbr. Gian Pietro da Carcano, 9 novembre 1488).
[25] Si è visto più sopra praticato questo sistema dalla confraternita della Concezione negli anni precedenti coi pittori dei freschi della vdella volta e con l’artefice dell’ancona. Tutta una serie di documenti delle stesso periodo, contenenti clausole analoghe, verrà da noi pubblicata in un prossimo studio sopra uno dei più insigni monumenti di Milano.
[26] Il Motta, op. e loc. cit., richiama un documento del 22 marzo di quell’anno relativo al dono fatto a «Zoane Ambrosio di predi de Milano depintore de lo Ill. Sig. Ludovico Sforza», dalla duchessa Eleonora di Mantova, di «braza .X. de razo alexandrino», per compensarlo forse del ritratto di Anna Sforza, fidanzata di Alfonso d’Este, da lui recato alla duchessa a Milano.
[27] In un atto del 28 febbraio 1489 (Imbr. Antonio de Capitani) si richiama una precedente convocazione della confraternita, nella quale era stato in «magna gentium multitudine» nominato priore il sacerdote Taddeo da Alzate. Nel periodo fra il 1479 e il 1490 troviamo fra i preposti della confraternita rappresentate le famiglie Terzago, Corio, Pietrasanta, Orrigoni, Pozzobonelli, Mantegazza, Casati, Scanzi, Legnani, ecc.
[28] Rimandiamo il lettore all’esame diligente e perspicuo della questione considerata sotto tutti gli ispetti dal von Seidlitz nella sua recente biografia di Leonardo: Leonardo da Vinci, der Wendepunkt der Renaissance, Berlin, 1909, I, pp. 157 e 407.
[29] L’ultima notizia di Giovanni Ambrogio Preda ci è data da un atto del 12 luglio 1509 (ANM, Imbr. Gio. Pietro dei Porri, n. 7212), relativo all’affitto di una sua possessione in quel di Sedriano (casa colonica con circa 350 pertiche di terreno a vigna). Dalle varianti del secondo esemplare in confronto dell’archetipo passato in Francia, si sarebbe indotti ad attribuire la riproduzione al Preda, il quale poteva averle desunte da originali cartoni e da disegni di Leonardo, rimasti nelle sue mani quale collaboratore con lui nei lavori dell’ancona.
[30] D. Sant’Ambrogio, Sull’ordinazione dei confratelli della Concezione di S. Francesco e sull’originale leonardesco della Vergine delle roccie in Bollettino della Società Pavese di storia patria, I, 1901, fasc. IV. Non ha avuto né poteva fortuna l’attribuzione data a Leonardo, con tanta asseveranza, da questo appassionato scrittore di cose d’arte, del quadro luinesco della chiesa parrocchiale di Affori presso Milano, presentato come l’archetipo della Vergine delle roccie; quasi che lo spazio dell’ancona destinato per la tavola originale potesse essere stato di poi occupato da una copia di dimensioni quasi doppi! La tavola di Affori misura m. 0.82 x 0.67. Le misure della pala di Londra, cui il catalogo assegna piedi 6 e ½ x 3,9 ½ corrispondenti a m. 1.98 x 1.15, sono state rettificate dal direttore signor Poyate: in una sua comunicazione al signor Gustavo Frizzoni in m. 1.89 x 1.195; quelle della pala del Louvre, indicate nel Catalogo in m. 1.99 x 1.11, sono state pure rettificate dal direttore signor Lafenestre in una sua comunicazione al signor Frizzoni in m. 1.975 x 1.3. Le differenze nelle dimensioni dei due quadri di Londra e di Parigi, che possono dipendere in parte dal diverso sistema seguito nella misurazione, secondo che si è tenuto conto o no del margine del quadro coperto dalla cornice, ed in parte dal trasporto del dipinto a Parigi dalla tavola sopra la tela, non sono tali da escludere che le due pitture fossero state in origine destinate ad occupare lo stesso spazio di mezzo dell’ancona.
[31] Starebbe forse la trascrizione dell’istrumento del 25 aprile 1483 nel quaderno «Iupiter» fra il 1502 e il 1503, dopo quasi un ventennio, in relazione coi nuovi accordi stipulati intorno a quel tempo fra la confraternita ed il pittore incaricato di sostituire una copia all’originale di Leonardo, che doveva passare le Alpi?
[32] Sant’Ambrogio, op. e loc. cit.
[33] ASM, Fondo di Relig., parte mod., Confrater. Cit., busta 1511.
[34] Sant’Ambrogio, op. e loc. cit.
[35] Descrizione di Milano, 1737, IV, p. 245.
[36] All’ultimo momento abbiamo rinvenuto il testamento di Evangelista Preda, che è del 27 dicembre 1490 (ANM, Imbr. del not. Gio. Pietro de Porri, n. 3072). Il testatore si dice «sanus mente, licet eger corporis». Riconosciamo francamente che la data di quest’atto fornisce un apprezzabile argomento per assegnare la presentazione della supplica, ove l’Evangelista Preda non è neppure nominato, ed al compimento della tavola di Leonardo a tempo posteriore al 1490. Una spiegazione potrebbe tuttavia recarsi innanzi della mancanza, nella supplica, del nome dell’Evangelista, anche senza ricorrere necessariamente alla ipotesi della sua morte; ed è che, secondo il testo della petizione, i reclamati non avevano nulla da ripetere per i lavori di doratura e di coloritura delle parti in rilievo dell’ancona, rispetto alle quali si consideravano sufficientemente ricompensati con le lire ottocento già incassate. La questione riguardava unicamente le pitture delle tavole in piano (gli angeli di Gio. Ambrogio e la «nostra dona» di Leonardo), per le quali pretendevano un sovrapprezzo. Evangelista, il quale aveva avuto parte soltanto nei lavori di doratura e di coloritura, poteva considerarsi estraneo alla controversia. Sarebbe stato questo un modo di argomentare contrario bensì al carattere di solidarietà e di indivisibilità dei diritti e delle obbligazioni che il contratto del 1483 attribuiva e rispettivamente imponeva a Leonardo e ai due Preda, ma pur rispondente al punto di vista artificioso, sotto il quale venivano nella supplica ad opportunità di causa prospettati i diritti e le obbligazioni medesime. - Pure all’ultimo momento il nob. Dott. Gerolamo Calvi, del cui lavoro sulla vita e sulle opere di Leonardo gli studiosi affrettano con vivo desiderio la pubblicazione, ha voluto cortesemente richiamare la nostra attenzione sopra l’annotazione che si legge nel già Ashburnham I, 1.3, ora nella biblioteca dell’Istituto di Francia, sotto la data del 10 luglio 1492, relativa ad una serie di esazioni per l’importo complessivo di lire imp. 811. Dalla corrispondenza approssimativa di questa somma con quella delle «lire ottocento imperiali», che nella supplica i due artisti dichiarano di aver ricevuto dalla confraternita, si potrebbe argomentare che l’annotazione riproduca il conto dei versamenti effettuati dalla confraternita per i lavori dell’ancona. Siccome i confratelli erano disposti a pagare in più di lire 800 le lire 100 (ducati 25) «declarate» dai tre commissari, non sarebbe a meravigliarsi che in pendenza della definizione della controversia si fossero pagate poche lire di più del prezzo minimo stabilito nel contratto. Rimangono però a superare le difficoltà derivanti dalla minore esposizione contenuta nella supplica e dal nessun cenno fatto in quel conto alla compensazione di una parte, sia pur modica, del prezzo dovuto dalla confraternita, con l’importo dell’oro impiegato nella doratura dell’ancona. Se queste difficoltà possono essere superate, si avrebbe nella data dell’annotazione un ulteriore argomento intorno all’epoca approssimativa del compimento della Vergine delle roccie. In luogo dei mesi sette e mezzo stabiliti nel contratto, la confraternita avrebbe pazientemente aspettato nove lunghi anni… per sentirsi all’ultimo fare la stupefacente proposta di lasciare il quadro tanto sospirato a disposizione del suo autore!