domenica 14 maggio 2017

1938 - CARUSI, Manoscritti vinciani e tentativi di edizioni





estratto dal volume
LEONARDO
TRA GLI SPLENDORI DELLA SUA RACCOLTA
ALL'AMBROSIANA
31 MARZO 1938-XVI 
  
Parlare a Milano e nell’Ambrosiana di Leonardo da Vinci è cosa molto onorifica per me e non priva di emozione, giacchè tutto qui ricorda la laboriosa permanenza del grande fiorentino, nei periodi più belli e fecondi della sua vita; mentre questa ricca biblioteca è stata fin dai suoi inizi come il sacrario dove la parte più importante degli scritti del grande artista e scienziato affluì, quasi a degna sua sede, rimanendo per lunghi anni oggetto di studio e di ammirazione ([1]).
Non vi attenderete novità su questo argomento ([2]), potremo ricapitolare insieme i fatti più caratteristici che, per quanto noti alla maggior parte di voi, serviranno sempre a far ammirare la mole considerevole dell’opera di Leonardo, la fatica necessaria per raccoglierla nella sua possibile integrità, e ordinarla, poi convenientemente.

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Un capoverso del testamento di Leonardo dice precisamente: «Item el prefato testatore dona et concede ad Messer Francesco Melzo gentilomo de Milano, per remuneratione de’ servitii ad epso grati a lui per il passato, tutti et ciaschaduno li libri che el dicto testatore ha de presente, et altri instrumenti et portracti circa l’arte sua et industria de Pictori».
Il Melzi di nobile casata milanese, alunno prediletto di Leonardo, anche perchè il più giovane, quando il maestro invecchiava precocemente, lo aveva accompagnato nel volontario esilio che il monarca francese aveva addolcito con la magnifica dimora del castello di Cloux in Amboise; e al grande pittore di corte, morente, il re volle fare ancora un atto di favore, sospendendo la legge del paese, perchè con una sua lettera, come scrive il Melzi a Giuliano e fratelli di Leonardo, aveva concessa facoltà di «testare e lasciare il suo a chi li paresse... senza la qual lettera non poteva testare che valesse, che ogni cosa sarebbe stato perso».
Il Melzi che chiama Leonardo con tenere parole «mio optimo padre», che protesta di aver provato per la morte di lui un dolore ineffabile, più di ogni altro era atto a custodire l’eredità intellettuale del grande maestro; e la custodì di fatto gelosamente. Nessun vantaggio ne poteva allora avere; lontano dalla patria e solo, il giovane milanese doveva, piuttosto subire il peso e l’ingombro di tale eredità; ma questa rappresentava la parte migliore, e custodire e far poi valere quegli scritti, quegli studi, quelle esperienze (che anche il Vasari osò chiamare ghiribizzi, capricci), era per lui un debito di onore, una corrispondenza all’affetto del grande scomparso.
Il discepolo accettata l’eredità, la trasportò nel castello avito di Vaprio e ivi la custodì con somma cura. Il Vasari accenna alle carte di «notomia degli uomini», e deve averle viste, perchè testimonia che «n’è gran parte nelle mani di messer Francesco di Melzo gentiluomo milanese, che nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo e molto amato da lui, così come oggi è bello e gentile vecchio, che le ha care e tiene come per reliquie tal carte, insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo: e chi legge quegli scritti, par impossibile che quel divino spirito abbi così ben ragionato dell’arte e dei muscoli e nervi e vene, e con tanta diligenza d’ogni cosa. Come anche sono nelle mani di … (i puntolini sono nel testo, per l’incertezza del ricordo) pittor milanese alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e dei modi del disegno e colorire. «Costui non è molto che venne a Fiorenza a vedermi, desiderando stampar questa opera, e la condusse a Roma per dargli esito; nè so poi che di ciò sia seguìto».
Il Vasari dunque è il primo testimone prezioso della dispersione degli scritti di Leonardo, dopo la morte, e del desiderio che si aveva di stamparli già nel 1550-1568, quando ne scriveva la vita.
Anche il Cellini ricorda di aver comprato, nientemeno per 15 scudi d’oro, da un povero gentiluomo un manoscritto, copiato da uno del «grande Leonardo da Vinci» dove trovò tra l’altre «mirabili cose», un discorso della prospettiva. Così egli, pagando di tasca sua, soddisfaceva la smania che altri pittori nostrani e stranieri, dopo il Vasari e il Cellini, avranno sempre: di sorprendere tra i ricordi e i precetti di Leonardo il segreto di quell’arte che non solo riproduceva perfettamente cose e persone, ma a queste ultime infondeva una continuazione di vita, sopratutto nella verità della, espressione dei volti.
Chi non ha presento il ritratto di Monna Lisa? Il Vasari lo descrive con parole piene di ammirazione, e dopo di aver magnificato l’opera nei particolari, aggiunge: «et nel vero si può dire che questa fussi dipinta d’una maniera, da far tremare et temere ogni gagliardo artefice, et sia qual si vuole». Questo timore causato da giusta, comprensione e ammirazione per l’opera perfetta, eccitava la curiosità degli artisti principalmente, che si sforzavano di imitare la natura, ma cadevano «in disperazione... vedendo le loro pitture non avere quel rilievo e quella vivacità che hanno le cose vedute nello spechio..., accusando in questo caso la loro ignioranza e non la ragione, perchè non la conoscono». Così scrive giustamente Leonardo (Cod. A, f. 90, già Ashb., fol. 10), che subito spiega tal ragione e impone limiti e accorgimenti nella riproduzione dal naturale.
Prima di leggere stampati questi ed altri precetti di estetica bisognerà aspettare poco meno di un altro secolo.

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Quale fosse il patrimonio artistico e scientifico contenuto nei numerosi manoscritti di Leonardo, potremo in qualche modo saperlo, leggendo la curiosa relazione di viaggio che il segretario del cardinale Luigi d’Aragona ([3]) il molfettano Antonio de Beatis, faceva in un bel volume pubblicato dal Pastor. Il 10 ottobre 1517 la fastosa comitiva cardinalizia si trovava nei pressi di Amboise, e, avendo inteso parlare della presenza di un illustre italiano, si decise di fargli una visita. «In uno de li borghi el signore con noi altri andò ad vedere messer Lunardo Vinci firentino, vecchio de più di 70 anni (ne aveva allora 65) pictore in la età nostra excellentissimo». E dopo aver accennato ai quadri famosi, alla paralisi che aveva incolto alla mano destra l’artista che trovava aiuto in «un creato milanese chi lavora assai bene», ricorda con ammirazione gli studi e i disegni di anatomia, per cui aveva sezionato più di trenta cadaveri, cosa strana in quei tempi, «de modo non è stato mai facto da altra persona», e aggiunge: «ha composto la natura de l’acque, de diverse macchine et altre cose, secondo ha riferito lui, infinità di volumi et tucti in lingua volgare, quali, se vengono in luce, saranno proficui et molto dilettevoli».
Non è semplice apprezzamento personale dell’autore questa chiusa, che mi pare si possa piuttosto attribuire al commento dei principali personaggi del seguito, intenti ad ammirare quei volumi pieni di scritti e di disegni, intorno a’ quali Leonardo doveva aver date spiegazioni, per appagare la naturale curiosità del cardinale, manifestando anche la speranza che questa complessa opera scientifica potesse venire in luce. Un tentativo in tal senso forse lo aveva fatto egli stesso negli ultimi anni del soggiorno in Italia, e alla stampa fa pensare l’ordinamento dei trattati scientifici in due sezioni, l’una, dove sono raccolti i princìpi, l’altra riservata all’applicazione o «giovamenti».

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Prime edizioni di testi Vinciani. Ho accennato più su al desiderio che avevano i pittori, interessati a penetrare i segreti della loro arte coltivata in sì eccelso grado da Leonardo: se questi aveva dati precetti sulla pittura, chi altri poteva suggerire norme più sicure per gareggiare con lui e diventar maestri?
Sul così detto trattato della pittura molti hanno scritto e forse troppi, se si pensa al poco contributo che si è potuto dare alla soluzione del quesito intorno alla originalità di esso.
Le indicazioni bibliografiche del Verga soprattutto, le numerose edizioni in lingue straniere, e gli studi veramente preziosi del Jordan, del Ludwig e di altri hanno chiarito sempre più il problema: si tratta soltanto di intraprendere una edizione critica, facendo i debiti confronti con i testi autografi, da identificare.
Ho il convincimento (e lo ripeto qui senza ombra di offesa al giudizio di altri e meno ancora con l’intento di contraddire affermazioni di Leonardo) che vana sarebbe la ricerca di un compiuto trattato originale del Vinci sulla pittura, come può sembrare che l’abbiano visto il Pacioli e il Vasari (il Cellini ne vide copia): l’opera, tutta intera, divisa in libri e capitoli non fu mai scritta dalla mano stanca di Leonardo, il quale scrisse certamente i capitoli stessi, ma dispersi qua e là nelle sue opere.
Non parlo della redazione abbreviata del trattato, che deve essere derivata da altra più ampia, sia pure in un rifacimento di un manoscritto non giunto a noi. Questa redazione abbreviata, di cui l’esemplare più antico è quello del G. B. Pinelli (1535-1601), qui nell’Ambrosiana, sfronda ed omette argomenti astrusi o difficili a intendersi da’ più, come quelli che riguardano la luce e l’ombra, la prospettiva, le piante, l’aria, le nuvole: e appunto per la sua brevità e semplicità, comparve prima e si diffuse rapidamente dal 1651, in quel risveglio di studi vinciani promosso da un circolo di dotti e di artisti che aiutava il cardinale Barberini nella scelta e nella raccolta di cimeli artistici e letterarii per la sua galleria e la sua biblioteca. L’erudito Dal Pozzo e il pittore Poussin si trovano in corrispondenza con gli editori parigini; e lo stesso Dal Pozzo compare in quel vivo scambio di lettere con Galeazzo Arconati (1635-1644) in cui si danno precise notizie intorno allo spoglio di codici vinciani per il trattato della pittura, che appena qualche anno dopo uscì per le stampe, sotto forma diversa da quella elaborata a Milano ([4]).
Non era ancora venuta nella Vaticana la biblioteca Urbinate - vi entrò nel 1657 - e il Dal Pozzo, che morì appunto in quell’anno, difficilmente poteva conoscere il codice Urbinate del trattato della pittura: sembrò anzi appagato dall’edizione parigina il desiderio dei più che cercavano di leggere rapidamente i precetti Vinciani. Per far scoprire il testo più ampio del trattato della pittura dobbiamo aspettare Gaetano Marini, ricercatore infaticabile e infaticabile suggeritore di argomenti ai dotti del suo tempo.
Morto il Marini, il bibliotecario della Barberini, Guglielmo Manzi, nel 1817, pubblicò il testo più ampio del codice Urbinate e dimostrò così che i precetti dati da Leonardo sulla pittura abbracciavano i più disparati soggetti di arte e di scienza. Il Vinci, persuaso che «il pittore è signore d’ogni sorta di gente e di tutte le cose», lo pone al di sopra di tutti gli artisti, facendogli un solido piedistallo scientifico, e dandogli quel concetto di universalità che por il grande fiorentino doveva pur rappresentare il maggiore ostacolo nella sua attività produttiva. Troppo sarcastico fu Michelangelo, se è da credere all’aneddoto raccontato dall’anonimo Gaddiano, quando rimproverò a Leonardo che, avendo fatto il disegno di un cavallo per gittarlo in bronzo, «non potè gittarlo, e per vergogna lo lasciò stare»: se il sommo autore del giudizio universale avesse avuto agio e voglia di esaminare tutti gli studi di Leonardo sul cavallo, sulle proporzioni, sull’anatomia di esso, sugli espedienti ricercati per una più rapida e perfetta fonditura, di cui ha lasciate tracci e numerose nei fogli piccoli e grandi giunti fino a noi, avrebbe forse compresso il suo nobile sdegno.
Ora i precetti della pittura, come sono giunti a noi anche attraverso il codice Urbinate, si possono dire soltanto excerpta di tutto ciò che Leonardo scrisse e pensò con applicazioni alla sua arte prediletta: basta leggere qualche titolo dei capitoli delle otto parti in cui è distribuita l’opera, per convincersi che vi si tratta di cose molteplici e svariate: della scienza della pittura basata sulla conoscenza di elementi geometrici e di prospettiva, di fisica nella sapiente distribuzione delle luci e delle ombre, e poi dell’anatomia per la rappresentazione dei movimenti umani, come pure di altre discipline che avessero anche lontana attinenza con la pittura. Ma si tratta sempre di trasunti, di scelte di passi, e tale scelta non fu di Leonardo.
Il codice Urbinate infatti, della fine del sec. XVI, non è una copia di un testo Vinciano già così precedentemente disposto: esso è sì un apografo, perchè vi è dichiarato esplicitamente che è raccolto da 18 libri di Leonardo, 15 ordinari e 3 altri librettini: e anche ora parecchi codici autografi di Leonardo serbano segni diacritici posti accanto ai passi, che, raccolti, costituirono poi il codice Urbinate.
Per l’autore della compilazione viene fatto di pensare principalmente a Francesco Melzi, il nome del quale ricorre appunto in due fogli bianchi del manoscritto, quasi ad indicare che erano riserbati a lui per completarli; senza dire che egli solo poteva allora avere sottomano tanti manoscritti quanti non si ebbero più insieme, dopo la dispersione.
Il secondo trattato a stampa, che noi conosciamo, va sotto il titolo Del moto e misura dell’acqua libri nove ordinati da F. Luigi Maria Arconati; e per questo sappiamo anche la data - anno 1643 - dell’offerta del volume al cardinale Francesco Barberini, e dal carteggio dell’Arconati col Dal Pozzo, già ricordato, siamo informati dei particolari e dei motivi della redazione del codice, estratto quasi esclusivamente dai manoscritti che il padre del domenicano fr. Luigi Maria, Galeazzo Arconati offrirà graziosamente all’Ambrosiana nel 1637; vi manca quindi tutto l’immenso materiale di osservazioni e di appunti che sull’idraulica, sul moto e misura delle acque, sui fiumi e sui canali, sulla stessa distribuzione e azione delle acque nell’universo, Leonardo era andato accumulando, ed è conservato tra gli altri nel codice Leicester, già fin d’allora esulato fuori d’Italia: anche per l’idraulica quindi il tentativo di raccolta e di sistemazione di materiale non è di Leonardo, e poi è difettoso, insufficiente e qua e là malamente raffazzonato ([5]).

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Vicende e dispersioni dei manoscritti Vinciani. - Ho voluto subito ricordare questi due trattati che rappresentano i primi tentativi di classificazione degli scritti di Leonardo in materie distinte: la pittura e l’idraulica.
I due trattati di Leonardo furono dunque redatti a Milano, dalla fine del secolo XVI alla prima metà del XVII, e ciò si comprende facilmente, perchè a Milano era rimasto il tesoro più importante dei manoscritti Vinciani, e appunto Galeazzo Arconati aveva contribuito grandemente a trattenerlo in Italia.
Giacchè, raccolta a Vaprio dal Melzi, tutta la massa dei codici Vinciani e dei fogli sciolti, salvati anche durante le fortunose peregrinazioni del maestro, il fedele discepolo vi lavorò probabilmente per il trattato della pittura o li mise a disposizione del compilatore, ma custodì ogni cosa con grande attaccamento.
Il Melzi non riuscì ad educare il figliuolo all’amore di quegli scritti; solo così si può spiegare l’abbandono in cui rimasero i mirabili disegni e i preziosi codici, che divennero preda di speculatori quali Pompeo Leoni, figlio dello scultore cavalier Leoni, e Lelio Gavardi istitutore del giovane Melzi: entrambi illustri personaggi del resto, giacchè il Gavardi divenne rettore dell’Università di Pisa e il Leoni era consigliere ed amico del re di Spagna, a cui fornì libri in cambio di onorificenze.
La dispersione dei codici dopo la morte del Melzi ci è narrata in una maniera vivacissima dal barnabita milanese Ambrogio Mazzenta morto verso il 1635. La sua relazione, ripubblicata da monsignor Gramatica sull’autografo ambrosiano, ci fa vedere quale grande ammirazione persisteva per gli scritti e i disegni di Leonardo presso i dotti suoi contemporanei; il Mazzenta infatti riuscì a suscitare presso il Gavardi «scrupolo» per l’indebita appropriazione dei manoscritti vinciani, tanto che fu incaricato egli stesso della restituzione: ma il giovane dottor collegiato Horatio Melzi, figlio di Francesco, si maravigliò che avese preso tanto «fastidio», e, perchè aveva troppi disegni Leonardeschi, lasciò nelle mani del Mazzenta i codici asportati.
Si accresce così autorevolmente la dispersione dei manoscritti e dei disegni di Leonardo, che gli studiosi vinciani, quali il Govi e l’Uzielli sopratutti, hanno cercato faticosamente di perseguire nei loro scritti, e che altri ancora di recente si sforzano di rintracciare. Io non voglio costringervi a seguirmi nell’arido elenco di date e di nomi di possessori gelosi, di trafficanti interessati: ancora ai nostri giorni non poche pagine disperse di codici Vinciani sono comparse nelle aste e nei cataloghi di vendite; ed è naturale, giacchè ben presto, al disinteresse scientifico del raccoglitore, che ha sacrificato denaro e tempo nel mettere insieme non senza industria e astuzia, cimeli e codici preziosi, subentra o pentimento, per cui egli stesso cerca di trar vantaggio dall’opera già spesa per puro amore della scienza, o, più di frequente ancora, il tardo erede vuol tradurre in moneta sonante l’ingombrante ammasso di libri e di carte che egli non leggerà mai.
Per il caso nostro basti ricordare che nel secolo XVII, regnanti d’Inghilterra e di Spagna, ricchi personaggi quali Lord Arundel, fecero a gara nel procurarsi con ogni mezzo e lusinga le opere di Leonardo; queste esularono così un po’ dapertutto, vennero anche nelle mani d’italiani, il duca di Savoia, il cardinale Borromeo, il pittore Cleodoro Calchi, l’Archinti, per ricordare i principali; di tutti più abile e fortunato fu appunto Galeazzo Arconati, il quale, raccogliendo con non poco dispendio quanto potè di Leonardo; riparò le colpe di Orazio Melzi e per lungo tempo assicurò agli ammiratori del Vinci un cospicuo materiale di studio, donando alla biblioteca Ambrosiana, nel 1637, i 13 volumi, compreso fra essi il Codice Atlantico. Tesoro veramente considerevole, che formò ornamento precipuo dell’Ambrosiana, finchè Napoleone non lo rapinò, insieme con altre cospicue collezioni italiane.
Il Mazzenta parlando della permanenza di Leonardo in Francia al tempo di Francesco I chiama il Vinci, forse a torto, «la più ricca preda fatta nella conquista di Milano», ma le opere di Leonardo furono vera preda di guerra del governo napoleonico, che non potè essere ripresa nè per diritto, con la restaurazione del 1815, nè poi per le abili arti di Cesare Correnti, nè dopo la guerra mondiale, quando un gruppo di studiosi italiani, con a capo il prefetto dell’Ambrosiana, in un nobile appello al presidente dell’amica repubblica francese, cercò di recuperare questa collana di gemme sottratta alla nobile biblioteca Ambrosiana.
Ma un’altra tempesta piombò sui codici Vinciani proprio nel rifugio francese, che pareva sicuro, giacchè uno dei più valenti studiosi della storia delle scienze, nella metà del secolo XIX, l’italiano G. Libri, abusando della sua posizione privilegiata e fortunata compì nelle biblioteche di Francia uno scempio anche dei codici Vinciani, oltre che di altri manoscritti preziosi; risalgono al Libri mutuazioni dei due codici distinti con le lettere A e B; il codice B ebbe da lui asportato anche quel grazioso fascicolo che va sotto il nome di codice sul volo degli uccelli, sebbene di questa materia Leonardo, al solito, non parlò soltanto nelle poche pagine di quel volumetto. Contro questo fascicolo il Libri doveva avere un fatto personale, giacchè non solo lo avulse dal codice dove era legato, ma ne tolse cinque pagine, sicchè quando un mecenate russo, il Sabachnikoff, che lo ricomprò dalla collezione Manzoni, volle farne dono alla biblioteca di S. M. il re, a Torino, il codicetto era purtroppo mutilo, e solo di recente è stato restituito alla sua integrità, per l’offerta del ricco banchiere svizzero Fatio, che ricuperò i fogli mancanti e dispersi.

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Edizioni e lavori sui codici Vinciani. - Leonardo come artista fu stimato e apprezzato dai contemporanei e dai posteri; la sua vasta opera scientifica passò invece quasi inosservata per lungo tempo anche dopo la morte, se se ne toglie il tentativo di sistemazione dei passi d’idraulica e quel tanto di scientifico sparso nel trattato della pittura. Essa fu messa in vera luce soltanto verso la fine del secolo XVIII: d’allora ad oggi tutti fanno a gara nell’esaltazione anche dei meriti scientifici del sommo pittore.
Del resto il lavorio incessante, l’ammirazione continua intorno agli scritti di Leonardo dura per tutto il secolo XVII, e se ne hanno traccie, sia pure esterne, nei fogli che ci conservano segnature, appunti, note marginali anche in lingua spagnola: inverte libellum si legge con insistenza nei piccoli codici ora nel Museo Vittoria ed Alberto di Londra. Nel secolo XVIII si moltiplicarono principalmente le edizioni del trattato della pittura in varie lingue, ma cominciano ad apparire saggi cospicui di riproduzioni di disegni anatomici, delle caricature e di parecchi disegni di Windsor, si delineano i primi studi critici biografici del Rezzonico, aiutato dall’Oltrocchi, che come prefetto dell’Ambrosiana inizia la serie non interrotta dei dottori ambrosiani, valenti studiosi di Leonardo fino ai nostri giorni, come dimostrano i saggi cospicui dati da Sua Santità, da monsignor Gramatica, da monsignor Ritter, da monsignor Galbiati. Verso la fine del secolo XVIII, quando i codici Vinciani erano già collocati nell’Istituto di Francia, un grande scienziato italiano, G B. Venturi, mandato a rappresentare il suo signore, il duca di Modena, presso il nuovo governo repubblicano, fissa su di loro la sua attenzione e trova modo di occupare lodevolmente i ritagli di tempo che le cure diplomatiche gli concedono, con diligenti studi e pazienti trascrizioni di interi passi vinciani di carattere scientifico. Una gran parte di essi pubblicò nel prezioso volume di Essai, che rappresenta il frutto di comunicazioni fatte alla Accademia di Francia. Ma quello che ancora interessa a noi dell’opera del Venturi sono i grossi volumi di trascrizioni vinciane, materiale cospicuo che, se egli avesse avuto tempo, avrebbe rielaborato per la divulgazione degli scritti scientifici di Leonardo raggruppati per materie. Questi codici hanno fornito argomento al De Toni, che ha studiata l’opera del Venturi, di identificare interi fogli o frammenti di carte vinciane ora smarrite, perchè asportate.
Dopo il Venturi viene il Libri che si fa perdonare qualcuna delle sue colpe con i contributi importanti che diede agli studi scientifici vinciani nella sua Histoire des sciences mathématiques en Italie.
Qui bisogna fare un salto verso la fine del secolo XIX per assistere ad una vera rifioritura di studi vinciani; mentre infatti in Italia il Govi e l’Uzielli si occupavano intensamente di Leonardo, in Francia si sentì l’obbligo di rendere accessibili al pubblico i manoscritti vinciani: si ebbe così la pubblicazione di Ravaisson-Mollien, per tutti i codici di Leonardo conservati nell’Istituto, e quasi contemporaneamente in Inghilterra il Richter con i suoi due grossi volumi metteva in pratica il tentativo ardito di una disposizione sistematica, raggruppando per materia tutti gli scritti di Leonardo a lui noti.
Entrambi benemeriti questi autori, che pur diedero argomento a critiche e osservazioni. Una pubblicazione di simil fatta ha un peccato originale (scriveva il Favaro a proposito del Richter) che deriva da ciò che nessuno, per quanto grande abbia l’ingegno, può stimarsi da tanto da credere di poter vedere ed anzi divinare la connessione dei vari brani dei manoscritti di Leonardo in tutte le scienze delle quali egli si è occupato in modo così tumultuario: e, a meno che non si verifichi il prodigio ai nostri giorni tanto più difficile di una mente così ampiamente comprensiva come quella del Vinci, apparisce assai difficile, per non dire impossibile, che uno solo si faccia il coordinatore delle opere di Leonardo; tanto peggio poi se questa coordinazione si voglia fare per via di selezione, mutilando anche quello che è fino a noi pervenuto.
Maggiori consensi ottenne l’opera del Ravaisson-Mollien al quale fu fatto rilievo soltanto di errori di lettura e di interpretazione; errori da cui forse non andrà immune nessuno degli editori, nemmeno dei più sperimentati; si tratta tutto al più di ridurli al minimo.
In Italia si hanno le magnifiche edizioni del Beltrami per il codice Trivulzio, del Piumati per il codice Atlantico: questo veramente fu come lo spunto per il primo felice tentativo di edizione vinciana in Italia, e la rese quasi popolare quando nel 1872, dovendosi inaugurare in Milano il monumento a Leonardo, si sentì la necessità di far conoscere anche l’opera scientifica di lui. L’edizione del codice Atlantico, anche quella curata dal Piumati, è rimasta purtroppo incompiuta, perchè non vi sono riprodotte alcune carte dell’originale, ed è poi manchevole di un indice che guidi il lettore nel mare magnum di quel grosso volume, che alle volte pur non avendo scritture, ha rivelazioni importanti da fare con i numerosi disegni che vanno interpretati e identificati.
Allo stesso Piumati si devono le edizioni dei fogli di anatomia, prima ancora della superba edizione dei sei fascicoli di anatomia curata da valenti studiosi norvegesi; e la bellissima edizione del codicetto sul volo degli uccelli.
Mirabile ancora per la coscienziosità e la competenza è l’opera del Calvi che potè compiere il modello di edizione del codice Leicester.

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L’edizione nazionale. - Non volendo, per brevità, accennare ai vari tentativi di pubblicazioni di testi vinciani col titolo di antologie, raccolte di frammenti, fatti anche con un intento letterario e per rendere più accessibile agli studiosi l’opera di Leonardo, che molti deplorano come pubblicata in modo scomodissimo per la mole e il costo, darò una breve notizia dell’edizione nazionale. Anche questa non elimina tutti i difetti accennati, ma è giustificata, quando si pensa che dovrà costituire con gli indici un materiale sicuro da servire per successive possibili elaborazioni e classificazioni del pensiero di Leonardo. Nessuno si contenta di citazioni di seconda mano e tutti vorrebbero e dovrebbero esaminare i passi di Leonardo, così come si trovano negli originali.
Ho ricordato più sopra il saggio di scritti pubblicati per l’inaugurazione del monumento a Leonardo nel 1872: esso fu possibile per l’opera intelligente del ministro Cesare Correnti, aiutato soprattutto da Gilberto Govi che tendeva a dare soltanto una piccola prova della vastità della mente di Leonardo, mentre l’Uzielli insisteva per la riproduzione integrale di tutti i manoscritti. Dato lo scopo, il Saggio fu eccellente; ma il programma dell’Uzielli era di gran lunga più preferibile. Non si trattava di dare saggi, specie di fronte all’opera di dotti stranieri, ma di una riproduzione compiuta di tutti gli scritti di questo caratteristico rappresentante italiano del metodo sperimentale prima del Galilei e del Bacone: giacchè, scriveva l’Uzielli, i princìpi applicati da Leonardo all’estetica produssero mirabili opere d’arte non per una sintesi, quasi incosciente, come in Raffaello, ma per un’analisi profonda, tale da fermare avanti ai suoi quadri piuttosto uno psicologo che un artista; mentre gli stessi princìpi applicati alla scienza, gli rivelarono fatti nuovi e vere scoperte.
Dell’edizione degli scritti vinciani si tornò a parlare più tardi nel 1880, quando il Govi stesso, modificando un po’ le sue convinzioni, si persuase che pur tenendo conto dei possibili rifacimenti e delle correzioni apportate da Leonardo alla sua opera, era consigliabile raccoglierò dai manoscritti quel tanto che egli aveva segnato nei suoi libretti, come più certo e più corrispondente alla scienza moderna.
Il grande artista, che pure ha esposto molteplici progetti di opere, tracciandone il programma generale e poi i libri e i capitoli, non ha mai compiuto il trattato intero di alcuna materia, e spesso l’errore che si sorprende in un volume è corretto in un altro. Oltre a questo, non tenendo conto della peculiarità di Leonardo di scrivere a mancina e in senso retrogrado, egli ha capricciose ortografie, singolarità di aggruppamenti e separazioni di parole, grafie che possono spiegarsi solo pensando che volesse scrivere il linguaggio parlato, omettendo le interpunzioni o adoperandone una che, senza avere il pregio della coerente uniformità, non aiuta sempre il lettore nella comprensione del testo, schietto, trasparente nei piccoli capolavori delle favole e delle allegorie, ma oscuro, specie quando il ragionamento attorno ad un nuovo problema scientifico è costretto a seguire i dubbi dell’indagine, la quale si arresta ad un tratto incompiuta, e così si ferma anche il periodo, avvolto e tortuoso come la via percossa dal pensiero.
Che cosa dobbiamo del resto aspettarci da Leonardo per l’ordinamento dei suoi «centoventi libri» di anatomia, quando egli stesso confessava non averlo fatto, perchè ne era stato impedito dal tempo? ma oltre il tempo gli sarebbe mancata la forza, la pazienza e forse anche quel po’ di arte letteraria necessaria a trasformare in veri trattati i suoi numerosissimi appunti. Giacchè, tutti gli scritti di Leonardo rappresentano una serie di lunghe meditazioni e di studi concepiti ed espressi a mo’ di note dovunque, nei suoi libri e nei fogli sciolti sui quali tornava spesso con la mente, e come unica esposizione sintetica si contentava di raccoglierli di quando in quando in tavole di capitoli, di cui dava l’enunciato soltanto, mentre il testo disperso si proponeva di disporlo meglio in età matura con l’animo più riposato. Tentativi di riordinamenti e di trascrizioni aggiustate si sorprendono alle volte, ma sono tentativi senza successo, e tradiscono quasi un risentimento non so se contro se stesso o contro gli «avversari» che spesso introduce come suoi oppositori nelle esposizioni dei libri. Basta richiamare alla memoria il noto principio del codice Arundel, che, nelle prime carte almeno, ci dà un esempio di bella copia lasciata anche questa a metà. Mentre un vero trattato sulle trasformazioni dei solidi ha riconosciuto il professore Marcolongo nel primo dei codicetti Forster, pubblicato non è molto dalla Reale Commissione Vinciana, che ci è giunto per fortuna intatto.
Riconosciuto lo stato in cui sono arrivati a noi i manoscritti di Leonardo e nella loro concezione originale e per il disordine in cui li ridussero gli studiosi e gli amatori; ammessa come evidente dalla maggior parte dei dotti la impossibilità di sostituirsi a Leonardo in ciò che egli non fece o non potè fare, difficile era il compito della R. Commissione quando, costituita il 5 dicembre 1902, con pochi elementi e con mezzi finanziari insufficienti, doveva affrontare l’impresa di una edizione integrale dei manoscritti e dei vari fogli lasciati da Leonardo.
Le lunghe discussioni di metodo, le esposizioni di programmi fatti da vinciani quali il Baratta, il Favaro, esperti entrambi, l’uno per studi speciali su Leonardo, l’altro per la non lieve fatica della monumentale edizione Galileiana, accrebbero le incertezze dei membri della Commissione, paralizzandone le iniziative in polemiche a volte personali.
Finchè nel 1914, raccolte tutte le fotografie, si formulò un nuovo programma ugualmente vago, che poteva far supporre l’esistenza di un corpus vincianum precedente l’edizione; o piuttosto esauriva l’opera della Commissione in una pura e semplice riproduzione fotografica del materiale acquisito.
La storia della Commissione nei suoi minimi particolari, ci è narrata in modo veritiero da G. B. de Toni ([6]) che precedette di poco nella tomba uno dei più appassionati studiosi di Leonardo, l’onorevole Mario Cermenati; il De Toni si è acquistata speciale benemerenza, tessendone la vita e mettendone in rilievo la grande attività in vantaggio della edizione nazionale non solo, ma anche degli studi su Leonardo.
Quando il Cermenati fu eletto presidente della R. Commissione si era alla vigilia delle celebrazioni del IV centenario dalla morte di Leonardo, egli volle chiamarmi a collaborare in questa edizione, e accettai non senza titubanza. Una imponente accolta di studiosi vinciani scienziati, storici e letterati vi faceva parte; le commemorazioni di Leonardo furono molteplici, si discusse largamente sulle riviste la questione delle edizioni dei codici vinciani, interloquì fra gli altri autorevolmente il senatore Beltrami, nell’Emporium, (febbraio 1919) con la profonda conoscenza della materia che egli aveva da lunghi anni e con quello spirito ironico che era sua caratteristica; mentre con ampia esuberanza di particolari il professor Antonio Favaro esponeva anche «l’avvenire» delle edizioni vinciane, oltre che il passato e il presente. Il prof. Favaro che io imparai a conoscere ed ammirare negli ultimi anni della sua vita, aveva fretta di lasciare documenti della sua instancabile operosità anche nel campo vinciano, come le aveva impresse, e profonde, negli studi Galileiani, e nella bella esposizione programmatica dell’attività della Commissione, scriveva mestamente presago dell’improvvisa fine «a Galileo ho potuto dedicare gli anni migliori della mia virilità, per Leonardo l’invito è venuto troppo tardi e per attendere al gravissimo ufficio non mi rimangono più che gli ultimi e più incerti anni della vecchiezza». Tre anni dopo, nel settembre 1921, egli moriva sulla breccia: e a breve distanza moriva pure il Cermenati.
Il programma dei lavori della R. Commissione si era consolidato, e il primo volume non visto dal Favaro potè consolare in qualche modo, come premio della sua attività, Mario Cermenati.
In materia di programma sosteneva il Beltrami che nello stato in cui erano gli studi vinciani si doveva allora pensare solo alla riproduzione dell’inedito, abbandonando quanto, più o meno bene, era stato già pubblicato dei codici di Leonardo, e che era ormai di dominio pubblico.
Diversi dovevano essere i collaboratori riferendosi alle molteplici discipline coltivate da Leonardo, e spiegava il meccanismo di azione di questi collaboratori, lasciando ai competenti la revisione delle trascrizioni da farsi.
Più ampia è l’esposizione del programma difeso dal Favaro che parlava anche per informazioni dirette della Commissione di cui faceva parte. Si sarebbe certamente cominciato dai codici poco noti, ma il Favaro sosteneva la necessità della doppia trascrizione diplomatica e critica, facendo sua anche l’idea nuova della Commissione di dare del testo una trascrizione direi topografica, sicchè la stampa corrispondesse rigo per rigo, anche per le interlinee e le aggiunte marginali, all’originale che veniva imitato in alcuni segni caratteristici di abbreviazioni e di sigle riprodotte con punzoni appositamente fusi. E insistendo sull’ampliamento del programma, il Favaro suggeriva di fare spogli delle trascrizioni apografe di testi di Leonardo, per vedere se con questo sistema non si sarebbero potuti rintracciare fogli ormai perduti o dispersi, sostenendo la necessità della identificazione dei concetti originali di Leonardo e di quelli acquisiti da fonti che si sarebbero dovute accertare. Ma giustamente egli stesso conchiude con riserva questa trattazione.
L’edizione vinciani degli scritti di Leonardo secondo il concetto adombrato dal Favaro, doveva essere veramente il compito dell’Istituto di Studii vinciani. Questo infatti aveva promosso i lavori che sono contenuti in sette volumi di studi sulle varie attività di Leonardo come pittore, come naturalista, come geologo ecc., altri volumi riguardano la vita e le opere di illustri vinciani, quali G. B. Venturi, G. Govi, l’Oltrocchi, e un primo volume di testi è rappresentato dalla ristampa dei libri del moto e misura dell’acqua: essi indicano assai bene quanto contributo di accertamenti e di ricerche l’Istituto avrebbe seguitato ad apportare, se fosse rimasto in vita.
Sulla difficile questione della cronologia degli scritti vinciani è magistrale il lavoro del Calvi, I manoscritti di Leonardo da Vinci; le risultanze dei minuziosi studi del Calvi hanno molto aiutato a stabilire lo sviluppo cronologico degli studi di Leonardo sul volo degli uccelli e sulle applicazioni al volo meccanico, sicchè il professore Giacomelli ha potuto redigere con criterii proprii il bel lavoro che, come altri simili, si accosterà soltanto di lontano a qualcuno degli «ordinamenti» molteplici che Leonardo redasse anche per il volo, come per il moto e misura dell’acqua. L’opera del Giacomelli, a cui la Reale Commissione vinciana ha prestato gli aiuti che poteva, doveva far parte della collana di pubblicazioni dell’Istituto, al qual pure sarebbe dovuto appartenere il lavoro di identificazione di testi vinciani raccolti nel trattato della pittura, come vi appartenne quello dell’altro trattato del moto e misura dell’acqua, opere che vanno certamente riprese e ampliate.

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Ma l’Istituto di studi vinciani, fondato con tanto entusiasmo dal Cermenati, purtroppo fu lasciato sparire, e in un momento in cui forse meglio di ogni altro se ne potevano assicurare le sorti: ricca ne era la dotazione finanziaria, e importante la raccolta del materiale librario, che adesso confinato a Lecco, paese natio del fondatore, di poco o nessun vantaggio potrà riuscire agli studi leonardeschi.
Il programma quindi di coordinamento delle molteplici attività del pensiero di Leonardo o sarà lasciato all’iniziativa dei dotti, o sarà a suo tempo il compito della R. Commissione Vinciana. Questa, presieduta ora dall’onorevole senatore Giovanni Gentile (che già a molteplici altre iniziative di cultura ha saputo dare vigore di azione), sotto gli auspici del ministero dell’Educazione Nazionale, ha continuato per la sua via, affrettando la pubblicazione integrale dei testi vinciani, cioè l’edizione critica di tutto il materiale lasciato da Leonardo e giunto fino a noi.
Un vantaggio considerevole fu raggiunto nel 1934, superando la crisi editoriale e ottenendo che non più sull’impresa privata della benemerita Casa Danesi gravasse il peso della pubblicazione, ma questa fosse affidata saldamente all’Istituto poligrafico dello Stato.
L’attività meravigliosa, di Leonardo si è esplicata nei campi dell’arte e della scienza; due sono quindi le collezioni dei testi pubblicati.
Nella parte artistica, lasciati naturalmente da un canto i quadri, si è pensato alla riproduzione dei disegni che rappresentano la più ricca e sicura documentazione per comprendere la genesi dei capolavori di Leonardo e la loro cronologia. Il senatore Venturi, che nella sua operosa vecchiaia si è assunto tale compito, ha pubblicato già 4 dei 6 fascicoli promessi per illustrare il copioso materiale raggruppato in ordine cronologico, dal primo paesaggio con la data «il dì di S. Maria della Neve 5 agosto 1473», fino ai disegni per la statua di Francesco Sforza. Il V fascicolo è quasi integralmente allestito e non tarderà molto ad essere pubblicato, arrivando così al 1499. Io auguro che egli possa aver presto la soddisfazione di vedere coronata questa sua grande fatica, la quale sarà utilissima, malgrado di recente, nella gara internazionale degli studi vinciani, il Clark ha pubblicato un interessante catalogo ragionato della più ricca serie dei disegni vinciani che si conosca, quella della biblioteca reale di Windsor. I due bei volumi riccamente illustrati dal Clark si riferiscono infatti alla sola collezione di Windsor, e le riproduzioni ridotte di formato ed uniformi di colore, non danno un’idea esatta dei disegni, che negli eleganti fascicoli della R. Commissione Vinciana, sono invece riprodotti a colori e nel formato originale.
Per i manoscritti il programma massimo della R. Commissione è di raccogliere tutte le opere di Leonardo a noi giunte, pubblicazione quindi integrale: Leonardo stesso era contro gli «abbreviatori delle opere, che fanno ingiuria alla cognizione allo amore, con ciò sia che l’amore di qualunque cosa è figliuolo di essa cognizione».
Naturalmente si è cominciato dall’inedito e dal poco noto, per scendere via via alle edizioni di testi divenuti rari o pubblicati in modo inesatto. Se il quasi centenario Richter prima di morire sentì la necessità di aggiornare la sua pubblicazione, che è affidata ora alle figliuole, perchè trovare difficoltà di includere nella nuova edizione la stampa dei codici dell’Istituto di Francia, che, pur avendo avuto le cure lodevoli del Ravaisson-Mollien, così come sono pubblicati, diffondono ancora non pochi errori di lettura?
E circa il metodo della pubblicazione, si pensò, pur apprezzando le soluzioni messe in pratica da valenti studiosi, di introdurre qualche miglioria.
Il codice Arundel, il primo pubblicato in tre volumi con un fascicoletto di indici e prefazione, rappresentava per la sua costituzione un piccolo codice Atlantico: anche Lord Arundel, come il Leoni, aveva formato il suo codice, ponendo uno accanto all’altro fascicoli aggiustati e fogli di formato diverso; svariatissimo quindi ne è il contenuto che va dalla pittura all’idraulica, dal volo degli uccelli alla memoria personale, all’appunto giornaliero, direi insignificante, se insignificante si può dire qualunque atto di un grande personaggio. Tutto è stato esattamente riprodotto con pazienti espedienti tipografici.
Questo metodo costoso e anche penoso fu seguito per non interrompere la tradizione, trovata utile dai più, iniziata dal Ravaisson-Mollien, perfezionata dal Piumati, e accettata dagli editori Norvegesi, i quali hanno aggiunta anche una o più traduzioni in lingue straniere.
Un aspetto differente presentavano i tre codicetti di appunti conservati pure in Inghilterra nel Museo Vittoria e Alberto di Londra; essi avevano nella maggior parte delle pagine una lezione definitiva; tutta la seconda parte del volume secondo è giunta a noi intatta, e la calligrafia uniforme, elegante è un’opera d’arte per se stessa, con l’abbellimento delle figure geometriche disegnate con cura ed esattezza e inserite convenientemente al loro posto; mentre qualche figurina in sanguigna, come il profilo del padre generale dei conventuali Nani-Sanson e i molteplici schizzi del cavallo confermano le date biografiche e del contenuto delle trattazioni del volumetto, scritto dal 1487 al 1505.
Perchè non adoperare per questi volumi gli stessi criteri di edizione che si usano abitualmente in tutti i testi venerandi dei nostri autori classici?
E questo nuovo metodo fu seguito per i tre codicetti Forster che hanno tutte le riproduzioni fototipiche dei fogli mantenuti con la stessa numerazione apposta di recente dalla biblioteca, e di fronte ad essa la trascrizione critica dei passi, nella loro disposizione originale; questo particolare fu trovato già molto comodo nell’edizione del codice Arundel.
Tale sistema che ci è parso il migliore per i codici Forster è stato applicato per il codice A dell’Istituto di Francia con il complemento del codice Ashburnahm di provenienza Libri, e sarà tentato nella riproduzione dei numerosi e difficili fogli sciolti conservati nella biblioteca reale di Windsor. Alcuni di questi presentano le stesse caratteristiche dei fogli del codice Atlantico e del codice Arundel: accanto a piccoli fogli di poca importanza vi sono tavole meravigliose di carattere topografico e geografico ordinate già dal compianto amico professor Baratta, che raccolse e classificò tutti gli studi cartografici di Leonardo; mentre i numerosi disegni di anatomia, anche nelle aride forme scheletriche e nelle sezioni crude di un cranio, di un muscolo, si trasformano in una bellezza direi eterna al tocco magico di questo artista il quale più che nel colore diventa insuperabile nella linea sicura, messa mirabilmente in rilievo dal chiaroscuro, anche negli abbozzi di una struttura di una foglia o di un elemento architettonico adoperati a volta per illustrazione complementare delle sue osservazioni e divagazioni scientifiche.
Così in un avvenire non lontano potranno essere accessibili a tutti le opere di Leonardo tanto originali e profonde. Rimarrà il difficile compito del riordinamento.

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Cose nuove veramente non le ho dette, lieto se avrò suscitato in qualcuno più vivo interesse per ricercare, leggere e commentare i manoscritti di Leonardo, nei quali la sovrana possanza del pensiero si manifesta più sensibile che non nelle opere d’arte, data la vastità dei campi che in essi cerca di percorrere, per giovare agli uomini e trasformare il mondo con le nuove conquiste.
Il Berenson scrisse un giudizio apparso a lui stesso paradossale, che Leonardo cioè non guadagnò nulla nel suo soggiorno a Milano, nè Milano guadagnò dalla presenza di Leonardo. «S’immagini», egli scrive, «che cosa poteva nascere se invece d’un Ambrogio de Predis e un Boltraffio, Leonardo avesse avuto scolari o seguaci Michelangelo e Andrea del Sarto», o anche Raffaello io aggiungo, perchè questi fu veramente tra gli ammiratori più convinti del grande fiorentino. Ma a parte la inutile per quanto acuta indagine sulle probabilità nella storia, rimane accertato che mentre Leonardo nelle varie residenze milanesi, e alla corte del mondano Lodovico il Moro e nel periodo di supremazia dello straniero, passa quasi solitario e tutto raccolto nella sua faticosa speculazione, gli altri due a Roma suscitano entusiasmi di discepoli e di folle per i loro mirabili e numerosi capolavori. Nè è a dire che il Vinci non avesse sperimentato anche il soggiorno romano, rapido e senza traccie nella sua vita.
Egli è che questi tre geni, che si sono seguiti a breve distanza l’uno dall’altro, negli albori del meraviglioso secolo XVI, (nel 1498 la Cena di S. Maria delle Grazie era ammirata universalmente, e Michelangelo aveva allora 23 anni, mentre Raffaello usciva dall’infanzia), queste menti sovrane hanno caratteristiche irriducibili fra loro, che, come scrive con verità uno studioso, si trovano singolarmente riunite in Leonardo in pieno sviluppo nel campo della indagine scientifica soprattutto. E però la difficoltà di seguire nel volo possente quest’aquila che affissa gli occhi acuti al sole della verità; la sua testa pensosa, la bella capellaia inanellata che con la lunga barba fluente gli scendeva fino al mezzo il petto, i tratti ben marcati e sereni del volto, ne rivelano l’intelligenza elevata che si trasfondeva in quelle opere immortali, compiute in gran parte qui a Milano, dove mi piace di vederlo, con l’immaginazione, o nel fastigio delle sale ducali o in giro per le belle ubertose pianure lombarde, per le vallate e i monti solenni, sempre meditando; e poi nella quiete della Corte Vecchia, china l’ampia fronte sui numerosi fogli dei quaderni dove è tramandato tutto il tormento, il lavorio interno per trovare ed esprimere la ragione delle bellezze artistiche da lui fermate nei suoi capolavori, per dare consistenza ai numerosi fantasmi che gli fluttuavano dinanzi nelle continue meditazioni intorno a verità che si proponeva rii raggiungere o spiegare. Così la sua vita fu veramente utile agli altri e, bene usata, gli fece più lieto il morire.





[1] Questo studio dell’illustre Scrittore della Vaticana era stato primamente pensato come conferenza da tenersi nell’Ambrosiana stessa in preparazione alla solenne inaugurazione della Sala Leonardo. La conferenza fu infatti tenuta il 21 Febbraio con largo plauso e interesse del pubblico accorso. Lo scritto che qui pubblichiamo vuol riprodurre appunto la dotta lettura del Carusi ampliata e aggiornata e rappresenta senza dubbio un più che interessante e utile contributo agli studi Vinciani nella cerchia delle onoranze di quel Grande.
[2] L’opera del compianto dottor E. VERGA: Bibliografia Vinciana, 1493-1930, Bologna, Zanichelli, 1931, mi dispensa di aggiungere indicazioni precise delle opere degli autori, i nomi de’ quali ritornano in questa lettura. Ricorderò solo alcune trattazioni di cui mi sono più servito, anche perchè il lettore possa consultare quei lavori che si sono appassionatamente occupati dell’edizione degli scritti di Leonardo e della sua vita:
A. FAVARO: Passato, presente e avvenire delle edizioni Vinciane, in Raccolta Vinciana vol. X, maggio 1919, pp. 165 e segg. - M. CERMENATI: Premesse. L’Istituto di studi Vinciani, nel vol. Per il IV centenario della morte di Leonardo da Vinci - 11 maggio 1919, pp. XI-XX. - L. BELTRAMI: Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci in ordine cronologico. Milano, Treves, 1919. - G. CALVI: Vita di Leonardo. Brescia, 1936. - R. MARCOLONGO: Memorie sulla geometria e la meccanica di Leonardo da Vinci. Napoli. S.I.E.M., 1937.
[3] Preziose ancora sono le testimonianze di Fr. Luca Pacioli sull’attività artistica e scientifica di Leonardo, specie nella meccanica, e nella geometria, e per la redazione del trattato della pittura, che egli riteneva compiuto, «havendo già con tutta diligentia al degno libro de pictura e movimenti umani posto fine». I vari passi sono stati opportunamente messi insieme da R. MARCOLONGO, op. cit., p. 40-42, dove sono anche chiaramente illustrati i rapporti del Pacioli con Leonardo.
[4] Cfr. due mie comunicazioni in Accademie e biblioteche d’Italia, n. 4 (1928), e n. 6 (1930). 
[5] Cfr. F. ARREDI: Intorno al trattato «della misura delle acque correnti» di Benedetto Castelli est. dagli Annali dei lavori pubblici già Giornale del Genio civile, anno 1933, fasc. 2.
[6] Cfr. l’opuscolo del DE TONI: Mario Cermenati per Leonardo - Ricordi ed appunti, Roma 1920.