Archivio
Storico Lombardo
Giornale della
Società Storica Lombarda
Serie quarta
Milano, Libreria
Fratelli Bocca
Corso Vitt.
Eman. 21
Fasc. XXV - 31
Marzo 1910 - Anno XXXVII
pp. 125-156
Gerolamo Biscaro
La commissione
della
“Vergine delle
roccie” a Leonardo da Vinci
secondo i
documenti originali ([1])
(25 Aprile 1483)
Volendo rintracciare il testo della convenzione, con cui la
confraternita della Concezione della Vergine presso la chiesa di S. Francesco
di Milano diede a Leonardo da Vinci la commissione per il tanto celebrato
dipinto conosciuto sotto il nome della «Vergine delle roccie», siamo andati
alla ricerca dei notai che avevano rogato nei due ultimi decenni del secolo XV
gli atti relativi agli interessi della confraternita. Le pergamene del
monastero di S. Francesco ci indicarono il nome di Antonio de Capitani fu
Cristoforo, della vicina parrocchia di S. Maria alla porta, come il notaio
ordinario di quel convento durante il predetto periodo ([2]).
Una carta del 1497, la più vecchia dello scarso fondo di atti
provenienti dalla soppressa confraternita, che trovasi all’archivio di Stato,
portante la nomina, per parte dei stridaci della Concezione, di im procuratore,
appare stesa da un figlio (Battista) di quell’Antonio de Capitani, il quale figura
invece intervenuto nell’atto come altro dei sindaci ([3]).
Mentre i rogiti di Battista de Capitani sono andati smarriti, l’archivio
notarile conserva la serie pressoché completa delle imbreviature dei rogiti d’Antonio,
insieme ad una copiosa serie degli atti più importanti, sviluppati e trascritti
in fascicoli chiamati «quaterni extensarum», e al volume delle rubriche, ove
tutti gli atti sono registrati anno per anno, in ordine cronologico ([4]).
Non ci eravamo ingannati. Antonio de Capitani fu il primo notaio della
confraternita della Concezione, che, fondata nel 1475, spiegò la maggiore sua
attività nei primi tre lustri, per provvedere alla costruzione e all’ornamento della
propria sede. Egli stese anche l’atto che andavamo cercando. Ma alcun tempo
dopo quest’atto, pare che insieme a lui altri notai siano stati, volta a volta,
chiamati dai confratelli della Concezione per redigere le loro deliberazioni.
Nel 1488 troviamo un cosidetto «sindacato» (nomina di procuratori), rogato dal
notaio Giampietro Carcano ([5]),
e nell’anno successivo la ricevuta di un pagamento fatto alla confraternita,
nei rogiti del notaio Bertola dei Pecchi ([6]).
Si è veduto che nell’atto del 1497 il notaio rogante era Battista de Capitani;
ch’è probabile fosse succeduto al padre nell’ordinaria redazione degli atti
della confraternita.
Diciamo brevemente dell’attività, dei confratelli della Concezione
prima della convenzione con Leonardo.
Nella quaresima del 1475 il padre maestro Stefano da Oleggio, dell’ordine
dei minori, predicando in S. Francesco con grande concorso di popolo, mise
innanzi la proposta di costruire nella chiesa stessa una «pulcherrima capella»
in onore della Vergine, sotto il titolo della Concezione, e di fondare a tale scopo
una pia confraternita («Scola»), nella quale avrebbero potuto entrare tutti
coloro che desideravano praticare la particolare divozione della Vergine della
Concezione. Ciò si apprende dalle premesse di un atto del 1.° giugno 1478 ([7]),
che regolò i rapporti fra la nuova confraternita ed il monastero; essendosi
nell’atto medesimo confermata l’assegnazione, già fatta in precedenza, agli
scolari della Concezione, di un’area chiamata l’orto di Filippo, dal secondo
pilastro del volto della cappella «de Riziis» andando verso il piazzale di S. Valeria
e verso S. Ambrogio, con facoltà di costruirvi un edificio destinato alle
riunioni dei confratelli e per le loro divozioni, ma con divieto di aprirvi
uscite prospicenti il predetto piazzale.
Da quest’atto si rileva che la sede della scuola, ossia la
cappella, ove poi venne costruito l’altare con l’ancona della Concezione, si
trovava all’estremità della chiesa presso la navata minore di destra. Costruita
in forma di edicola sull’area dell’attigua corte od ortaglia che occupava lo
spazio aderente al muro perimetrale della chiesa in angolo con la via di S.
Valeria e col piazzale di S. Naborre dietro l’abside di S. Ambrogio, è
probabile fosse stata l’ultima anche in ordine cronologico nella serie delle
cappelle appartenenti a cospicue famiglie cittadine o a pie confraternite,
erette in quell’area; comunicanti con l’interno della chiesa mediante grandi
aperture ad arco praticate nel muro della navata di destra.
Appena regolati i suoi rapporti col monastero, la scuola provvide
alla costruzione della cappella. Possiamo raffigurarcene la struttura
considerando le cappelle coeve di altre chiese milanesi, in particolare l’edicola
Brivio (1484) a S. Eustorgio. Nel maggio 1479 la fabbrica in muratura era
terminata, perchè troviamo sotto la data del giorno 8 di quel mese i sindaci
della scuola che danno ai pittori Francesco Zavattari ([8])
e Giorgio della Chiesa ([9])
la commissione di dipingere la «suphita», ossia la volta della cappella. L’atto
che pubblichiamo in appendice ([10]),
contiene la descrizione delle pitture che si dovevano eseguire: il Padre eterno
nel mezzo col manto azzurro, intorno a lui una gloria di Serafini, quattro
grandi riquadri con animali «in sua natura» (i simboli degli evangelisti?), ed
altri ventiquattro riquadri minori, aventi ciascuno nel mezzo «rozoni» di varie
«foxe». Il tutto doveva essere su fondo azzurro profilato ad oro. Il compimento
dei lavori era stabilito per la prossima festa della Concezione (8 dicembre
1479). Per il prezzo si pattuiva che non sarebbe stato minore di lire
quattrocento imperiali. Per il di più le parti si rimettevano al giudizio di
frate Agostino dei Ferrari, guardiano del monastero di S. Francesco, eletto,
quale «comune amico», per fare la stima. Terminati gli affreschi della volta, l’anno
dopo si provvide alla costruzione di un’ancona di legno intagliato, da
collocarsi sopra l’altare. In data 8 aprile 1480 ([11])
il priore e sei confratelli diedero, a nome della scuola, incarico a maestro
Giacomo del Maino ([12])
di fabbricare l’ancona, sopra i disegni che gli sarebbero stati consegnati dallo
stesso priore e da due scolari, Giacomo da Pietrasanta e Filippo dei
Lanfranconi; delegati, nella qualità di «comuni amici» delle parti, a fungere
da arbitri intorno alla bellezza e perfezione del lavoro, con facoltà d’imporre
all’artista il rifacimento totale o parziale dell’ancona, se non l’avessero
trovata di loro soddisfazione. Termine per la consegna la prossima festa di S.
Michele (29 settembre 1480). Quanto al prezzo le parti si rimettevano al
giudizio che avrebbero dato Giannantonio Amadeo, il noto scultore, perito
nominato da maestro Giacomo, ed un secondo esperto che i committenti si
riservavano di designare; salvo, nel caso di dissenso fra i due periti, il
giudizio inappellabile dello stesso priore «pro tempore» della scuola, quale
terzo perito, «periziore». In acconto venivano intanto versate a maestro
Giacomo lire ottantasette e soldi dieci.
La determinazione del prezzo dell’ancona diede luogo a
contestazioni che furono deferite, anziché ai periti nominati nell’istrumento,
al nuovo priore, Giannantonio da Sant’Angelo, e ad altri tre personaggi,
probabilmente fratelli della Concezione, eletti in qualità di arbitri. Con atto
del 7 agosto 1482 costoro liquidarono il prezzo in lire settecentodieci, delle
quali l’artista aveva già avuto in acconto lire qaattrocentonovanta, e gli
fecero obbligo di collocare a sue spese una certa tavola («absides») davanti
l’immagine della Vergine, «ad modum incastri» ([13]).
Compiuto il lavoro d’intaglio dell’ancona, si pensò ad adornarla
sontuosamente con dorature e con la dipintura delle figure in rilievo e degli
spazi lasciati «piani» e «vodi» per le pitture. Per queste dorature e pitture
si fece capo a Leonardo da Vinci ed ai fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio
Preda.
L’esistenza del documento ci era stata rivelata dal volume delle
rubriche, che sotto l’anno 1483 reca la seguente registrazione: «Pacta inter
dominos priorem et scollares conceptionis et magistrum Leonardum de Vintiis
florentinum et Evangelistam et Johannem Ambrosium fratres de Prederiis .... die
XXV aprillis».
L’imbreviatura originale trovasi nella «filza» delle imbreviature
del periodo dal 3 agosto 1482 al 12 agosto 1485. Gli atti vi sono collocati in
ordine cronologico. Pur troppo il prezioso documento, al pari di molti altri
della stessa «filza» che lo precedono o gli stanno dietro, presenta la parte
superiore gravemente avariata per antica bagnatura che rese illeggibili le
prime linee dei fogli. Così sono scomparsi l’intestazione e parecchi brani
tanto della prima minuta, la vera imbreviatura, come di un secondo originale
più sviluppato, inserito nella minuta. Fortunatamente, alle lacune dei due
testi, coevi alla stipulazione del contratto, supplisce un terzo esemplare dell’atto,
trascritto per intero, di tutto pugno del notaio, in uno dei «quaterni extensarum»,
avente sulla copertina l’intestazione: «1488, Quaternus extensarum mey Antonii de
Capitanis notarii pubblici M. signatus Iupiter». Ma, a differenza degli altri
quaderni, ove quasi tutti gli atti appartengono all’annata segnata sulla
copertina, il quaderno «Iupiter» contiene una miscellanea di atti che vanno dal
1480 al 1504. Quello del 25 aprile 1483, portante la convenzione della scuola
della Concezione con Leonardo da Vinci, è preceduto da due contratti del 1502 e
da uno del 1500. Inserto nelle due minute della «filza» havvi un foglio
chiamato «lista», contenente la descrizione dei lavori commessi a Leonardo e ai
due fratelli Preda, che, per la maggiore consistenza della carta e densità dell’inchiostro,
è leggibile con qualche sforzo anche nella parte superiore avariata, grazie alla
trascrizione fattane dal notaio nella seconda minuta e ripetuta più tardi, con
leggere varianti nella grafia, nell’esemplare completo del quaderno «Iupiter».
L’attenzione maggiore è richiamata dalla «lista». Il raffronto
della scrittura del testo con la firma autografa di Leonardo, e la forma
dialettale prettamente lombarda, del testo medesimo escludono che sia di mano
del grande artista ([14]).
La differenza nell’inchiostro che nelle firme è più-sbiadito, come è sbiadito
in una postilla del testo, induce nell’opinione che la lista fosse stata predisposta
in base alle intelligenze precorse con Leonardo, coi fratelli Preda e con gli
scolari della Concezione. Fu sottoscritta dal priore, dal sottopriore della
confraternita, da Leonardo e dai due Preda all’atto della definitiva
stipulazione del contratto, presenti il notaio, i due pronotai e i testimoni ([15]),
nell’intento di eliminare il pericolo di future contestazioni sulle precise
modalità delle opere convenute ([16]).
La descrizione che la «lista» ci dà dei particolari dei lavori,
non si distingue per grande chiarezza. Egli è che le parti tacitamente si richiamavano,
come ad uno stato di fatto certo ed immanente, alla configurazione dell’ancona
già costrutta in tutti i suoi elementi, e non avevano bisogno di identificare
ciascun elemento se non in quanto si rendeva necessario per determinare le
modalità dei lavori ad essi affidati. Se ne ricava tuttavia abbastanza per
comprendere che l’opera doveva consistere nella doratura e dipintura di un’ancona
di legno divisa in più scomparti, scolpita nella parte superiore con figure e
composizioni a rilievo, mentre la parte inferiore era stata lasciata in «piano»,
perché il pittore potesse dipingervi altre figure e composizioni. Lo scomparto di
mezzo della parte superiore racchiudeva in alto (nella cimasa?) il Dio padre,
con una gloria di serafini; nel mezzo la Vergine con altra gloria di angeli e
al basso una prospettiva di montagne rocciose e, per quanto sembra, fra le roccie
il presepio con Gesù bambino. È probabile che le figure fossero di mediocri
dimensioni, in alto rilievo. Si dovevano mettere a broccato d’oro con azzurro d’oltremare
il manto della Vergine e quello di Dio padre e, pure a broccato d’oro, ma con
tinta verde, a olio, la fodera dei due manti. La sottoveste della Vergine andava
posta a broccato d’oro, di lacca color eremisi. Altre prescrizioni riguardano i
colori delle vesti dei serafini e degli angeli, le tinte delle montagne e dei
sassi. Il presepio doveva essere tutto dorato. A destra e a sinistra di questa
composizione l’ancona conteneva due serie di «capitoli», ossia tre o quattro
campi per ciascun lato, di forma rettangolare, in ognuno dei quali era raffigurato
un episodio della vita della Vergine con figure di piccolo formato, scolpite a rilievo.
I pittori dovevano dorare e dipingere a colori questi «capitoli», seguendo le
stesse norme dettate per la composizione di mezzo ([17]).
Erano tenuti anche a «reconzare» gli intagli nelle parti eventualmente difettose.
I volti, le mani e le gambe nelle parti scoperte, andavano colorite al
naturale. Cornicioni, lesene e capitelli, formanti l’intelaiatura e la cornice
dell’ancona, erano da mettere ad oro fino. Nella parte inferiore il campo
centrale in piano si doveva dipingere ad olio con la rappresentazione della Vergine
e del Bambino insieme ad un gruppo di angeli e a due profeti non meglio identificati.
Uno dei profeti doveva essere certamente Isaia, la cui presenza è costante
nelle antiche rappresentazioni della Concezione, come un simbolico richiamo
alla testimonianza del profeta al mistero della Vergine immacolata. Quanto al
secondo profeta è probabile fosse stato Leonardo a proporne l’intervento, in vista
delle particolari esigenze della composizione pittorica, sulla quale aveva
allora fermato il suo pensiero. I due spazi laterali erano stati lasciati pure
in piano, senza intagli, per dipingervi quattro angeli per ciascun lato, in
atto gli uni di suonare, gli altri di cantare ([18]).
Nell’istrumento, celebrato il giorno di venerdì 25 Aprile 1483,
nell’orto della foresteria dei frati di S. Francesco, figurano intervenuti il priore
della scuola della Concezione, Bartolomeo degli Scarlioni e con lui otto
scolari in rapresentanza della confraternita, Leonardo da Vinci e i fratelli Evangelista
e Giovanni Ambrogio Preda ([19]).
Leonardo solo è detto maestro; il che concorre, insieme al patto speciale per
il caso della sua partenza da Milano, prima che l’opera fosse compiuta, a far
ritenere ch’egli doveva avere virtualmente una parte preponderante nella
esecuzione dei lavori formanti oggetto della commissione; per quanto né la
lista né il rogito facciano alcuna distinzione fra opere da eseguirsi dal
maestro ed opere assegnate ai Preda. Le loro obbigazioni verso la scuola
committente erano solidali ed indivisibili, come era solidale il loro credito
per il corrispettivo pattuito; salvo il riparto nei rapporti interni fra
Leonardo e i due fratelli, che ignoriamo in quali proporzioni dovesse
effettuarsi. I tre artisti si obbligavano di dare l’opera compiuta per la
prossima festa della Concezione (8 dicembre 1483). Il prezzo era stabilito in
ottocento lire imperiali (200 ducati), oltre alla maggior somma che sarebbe
stata «dichiarata» da frate Agostino dei Ferrari, guardiano del monastero di S.
Francesco, e da due scolari della Concezione, da eleggersi dalle parti dopo
terminati i lavori. Leonardo e i fratelli Preda garantivano che l’opera non
sarebbe stata di valore inferiore alle lire ottocento, e si obbligavano di
rispondere personalmente della bontà della esecuzione almeno per un decennio.
Qualora Leonardo avesse lasciato Milano prima d’avere terminato i lavori dell’ancona,
la confraternita sarebbe stata in diritto di assegnare la continuazione dell’opera
a chi meglio avesse creduto. In questo caso Leonardo sarebbe stato compensato
in proporzione dell’opera da lui personalmente eseguita. Questo patto, ove non
si parla neppure dei Preda, sembra indicare che costoro, secondo le
intelligenze passate fra le parti contraenti, fessero destinati ai lavori di
carattere decorativo, quali la doratura del riquadro e la dipintura delle
figure a rilievo; mentre si faceva assegnamento su Leonardo per la pittura
della tavola di mezzo, nella quale si saranno concentrate le maggiori
aspettative degli scolari della Concezione. Sapendosi che Giovanni Ambrogio
Preda fu pittore, e valente, mentre del fratello Evangelista non si aveva fin
qui alcuna notizia, si può credere che quest’ultimo dovesse più particolarmente
occuparsi della doratura, lasciando a Giovanni Ambrogio la pittura dei volti,
delle mani e delle gambe delle figure a rilievo e la pittura altresì degli
angeli negli spazi «vodi» di sotto. Per evitare contestazioni sulla qualità e
sulla quantità dell’oro che si sarebbe impiegato nella doratura, era fatto
obbligo agli artisti di accettare l’oro che i committenti avrebbero loro fornito,
a prezzo non superiore a lire tre e soldi dieci il «centenaro». La doratura per
maggior garanzia doveva praticarsi nei locali dei monastero di S. Francesco;
per gli altri lavori si lasciavano le parti in facoltà d’eseguirli nelle proprie
case. Il prezzo di lire ottocento era da pagarsi per lire cento al 1° maggio
1483, e il resto in rate mensili di lire quaranta cadauna a partire dal mese di
luglio successivo; salvo a scontare sulle ultime rate il valore dell’oro fornito
dalla confraternita. In fine si stipulava una penale a carico della parte
inadempiente, da applicarsi a piena discrezione di frate Agostino, all’uopo delegato,
quale «amico comune» dalle parti contraenti.
Null’altro ci fu dato rinvenire nelle imbreviature del notaio
Antonio de Capitani o di altri notai mììanesi, intorno ai rapporti di Leonardo
e dei due fratelli Preda con la scuola della Concezione. È d’uopo quindi richiamarci
all’esame della nota supplica-reclamo, presentata da Leonardo e da Giovanni
Ambrogio Preda al duca di Milano contro la confraternita della Concezione ([20]).
La supplica manca di data, ed il suo rinvenimento fuori della posizione della
cancelleria duccale, alla quale doveva essere stata allegata, e che non è più
possibile ricomporre, essendo stati dispersi i vari elementi che la costituivano,
non permette alcuna induzione sicura intorno all’anno della sua presentazione.
Senza data è pure la registrazione della supplica trovata dal Malaguzzi in un
frammento di protocollo della cancelleria sforzesca ([21]).
Il Malaguzzi argomentò che appartenesse al periodo fra il 1491 e il 1494,
perché nei documenti registrati nel protocollo Lodovico il Moro è chiamato
ancora duca di Bari (titolo che nel 1494 sostituì con quello di duca di Milano)
e vi è ricordata la duchessa Beatrice, che andò sposa allo Sforza nel 1491. L’induzione
non ci sembra così sicura come parve all’egregio scrittore. Nella cancelleria
degli Sforza la tenuta dei registri lasciava spesso a desiderare. Molti volumi
ducali contengono, trascritti alla rinfusa, atti sopra argomenti disparatissimi,
senza ordine cronologico. Pur troppo le ricerche più premurose dei valenti funzionari
dell’archivio di stato per identificare il frammento di protocollo, del quale
il Malaguzzi ha omesso di farci sapere la collocazione, sono fin qui riuscite
vane, e noi quindi non siamo in grado di controllare l’esattezza delle sue
induzioni con la verifica delle date degli altri documenti ivi registrati.
Raffrontando il testo della «lista» e le stipulazioni dell’istrumento
col contenuto della supplica, si riscontra tosto la sostanziale corrispondenza
delle opere commesse dai confratelli della Concezione a Leonardo e ai fratelli
Preda, con quanto formava oggetto del reclamo di Leonardo e di Giovanni Ambrogio.
Nella supplica si dice ch’era stato convenuto «di farli una ancona de figure de
relevo misa tuta de oro fino», di «uno quadro de una nostra dona depenta a olio»
e di «dui quadri con dui angeli grandi depinti similiter a olio». L’equivoco,
in cui poteva indurre la frase «de farli una ancona», nel senso che i tre
artisti si fossero assunta anche la costruzione dell’ancona con «le figure de
rilevo», viene eliminato dal testo della lista e dello stesso istrumento, ove a
chiarissime note si esprime il concetto che la commissione consisteva nelle
decorazioni e nelle pitture da eseguire sopra un’ancona di proprietà dei committenti;
più ancora dalla circostanza che, come si è veduto più sopra, l’ancona era già
stata costruita appositamente, uno o due anni prima, da uno dei più valenti
intagliatori della città. Avvertono i ricorrenti essere stato convenuto che, se
i lavori importavano un valore superiore alle lire ottocento, gli scolari della
Concezione avrebbero dovuto pagare il di più secondo quanto sarebbe stato «declarato»
da frate Agostino e da due dei propri confratelli a ciò deputati. Aggiungono
che, sebbene le lire ottocento fossero andate consunte per intero nelle spese
per i lavori dell’ancona in rilievo, i tre commissari si rifiatavano di procedere
ad una regolare perizia, previa prestazione di giuramento, ma pretendevano di
dare un giudizio «de equitate»; e mentre il valore de’ quadri dei due angeli
grandi e della «tavola della nostra dona», senza contare la decorazione dell’ancona,
ascendeva a ducati trecento (lire milleduecento), i commissari volevano stimare
solo venticinque ducati (lire cento) la tavola «facta a olio per lo dicto
fiorentino», per la quale i medesimi ricorrenti avevano già avuto offerta di
ducati cento da persone desiderose di farne l’acquisto. Contestando la
competenza tecnica degli scolari, «quod cechus non indicat de colore»,
supplicano si provveda a che i tre commissari procedano con giuramento alla stima
del quadro «di nostra dona» e dei due quadri con angeli, ovvero siano nominati
due periti dell’arte, uno per parte, al cui giudizio i contraenti debbano
attenersi, e con obbligo negli scolari di effettuare l’immediato pagamento dell’importo
che sarebbe dichiarato dagli esperti. Un secondo partito propongono i
ricorrenti per il caso non si credesse di accedere alla prima loro domanda
alternativa; e cioè che si consenta loro di ritirare «la nostra dona fatta a
olio», risolvendo in questo modo la vertenza.
Da questo documento si rileva che notevoli modificazioni erano
state portate, durante l’esecuzione, al programma dei lavori locati a Leonardo
e ai fratelli Preda, in luogo degli otto angeli, quattro per lato, «differentiati
del’uno quadro e l’altro» che si dovevano raffigurare nei due scomparti di
fianco alla tavola «de’ nostra dona», erano stati dipinti due soli angeli «grandi»,
uno per parte, occupanti tutto il piano dello scomparto ([22]).
Poiché non vi ha dubbio che la tavola di mezzo «facta a olio per lo fiorentino»,
è la Vergine delle roccie, a parte la
questione se la tavola di cui si discuteva nella supplica, sia da identificar
nella pala del Louvre o in quella della National Gallery, ovvero in un primo
esemplare del quale si ignora il destino, è certo intanto che il soggetto della
composizione venne trasformato nei suoi elementi principali, essendosi alla
rappresentazione della Concezione della Vergine che, secondo le antiche
tradizioni iconografiche, richiedeva la presenta del profeta Isaia, sostituito
quel più intimo e più spirituale convegno che tutti ammiriamo sotto il nome
della «Vergine delle roccie».
Quale la data, più probabile del compimento dell’opera e della
disputa fra la confraternita da un lato coi tre conmissari, Leonardo e il
secondo fratello Preda, dall’altro? Si è veduto che l’istrumento stabiliva doversi
il pagamento delle lire ottocento effettuare quanto a lire cento il 1° maggio
(1483) e quanto alle altre lire settecento in rate mensili di lire quaranta
cadauna, a partire dal luglio successivo. La scadenza dell’ultima rata si
sarebbe verificata fra il gennaio e il febbraio 1485. Dalla supplica si
apprende che Leonardo e Giovanni Ambrogio Preda avevano riscossa l’intera somma
delle lire ottocento. Evangelista Preda, che non vi è neppure nominato, si era
forse nel frattempo reso defunto. Si può credere che Leonardo non sia stato
puntuale nel compimento della parte dei lavori ch’egli si era riservato, entro
il termine convenuto (8 dicembre 1483). Dal testo della supplica non appare ben
chiaro se la «tavola de nostra dona» e i quadri dei due angeli fossero stati
consegnati ovvero si trovasssero ancora presso i pittori in attesa della
definizione della controversia. Leonardo avrebbe smentito sé stesso se si fosse
affrettato a condurre a termine un’opera, la prima che a Milano gli era stata
allogata, che dalle sostanziali modificazioni portate nella composizione e dai
numerosi schizzi e disegni delle figure in essa rappresentate si dimostra, come
tutte le cose sue, frutto di lenta e matura elaborazione.
Durante il 1485 Milano fu colta da un morbo pestilenziale che
gettò lo scompiglio nell’attività di tutte le classi della popolazione. Anche
questa triste novità avrà influito a ritardare il compimento del lavori dell’ancona.
Non per questo Leonardo e suoi soci avranno acconsentito ad una dilazione nel
pagamento delle rate del prezzo alle rispettive scadenze. Anche nel secolo XV erano
pochi gli artisti di grido che fossero disposti a considerare alla stessa
stregua le proprie obbligazioni e i propri diritti. Un tenue indizio intorno
all’età della supplica potrebbe desumersi da un atto del 25 maggio 1486, con
cui il priore, il sotto priore, il tesoriere e i sindaci della scuola della
Concezione, convocatisi nella sala capitolare del monastero di S. Francesco,
premesso che, come negli altri anni, così anche al primo gennaio dell’anno
allora in corso la confraternita aveva proceduto verbalmente alla nomina dei
propri officiali, dichiararono di ratificare e di confermare le nomine fatte nelle
loro persone, e in pari tempo costituirono quattro procuratori «ad negotia» e
alle liti ([23]). Solo
la necessità di giustificare in giudizio, con la produzione dell’atto di
nomina, la rappresentanza della confraternita nelle persone del priore e del sotto
priore e dei sindaei chiamati a rilasciare la procura alle liti ad un
causidico, può dare ragione di quest’atto. Una lite era iniziata o stava per
iniziarsi. Era mestieri regolarizzare la posizione giuridica della
confraternita attrice o rea-convenuta, per isfuggire alle eccezioni
pregiudiziali che i causidici della contro-parte non avrebbero omesso di
sollevare al fine di negare ingresso alle domande della confraternita, o
respingere chi si fosse presentato in giudizio a nome di essa.
Se l’atto del maggio 1486 fu determinato dalla contestazione
sollevata da Leonardo e dal Preda per la liquidazione del prezzo dell’ancona, si
dovrebbe assegnare al marzo od aprile di quell’anno il definitivo compimento della
Vergine delle roccie ([24]).
Chiarita la base di fatto della controversia, conviene considerare più da
vicino le pretese dei reclamanti e la presumibili; difesa degli scolari della
Concezione, per argomentare intorno alla soluzione che probabilmente avrà avuto
il litigio.
La questione riguardava il maggiore compenso che l’atto del 1483
riservava a Leonardo e ai suoi soci, qualora il giudizio che dei loro lavori
avrebbero dato frate Agostino e i due scolari, fosse per importare una somma
superiore alle lire ottocento, già pagate e consunte. Leonardo e Giovanni Ambrogio
pretendevano un supplemento di almeno cento ducati, che avrebbe fatto ascendere
il prezzo complessivo delle opere a lire mille duecento. Pare che Leonardo in
particolare ci tenesse a far riconoscere che la sola «tavola di mezzo» della Vergine
valeva cento ducati. Le otto cento lire erano, a suo dire, state erogate
completamente nelle spese occorse per la decorazione dell’ancona ad iniagli.
Provocato il giudizio dei tre commissari, costoro dichiararono di liquidare un
supplemento di prezzo di venticinque ducati. Così pronunciando essi avevano
adempiuto il mandato loro conferito nel contratto, di «declamare» il maggior
compenso dovuto agli artisti. In linea di stretto diritto alle parti non
rimaneva che accettare il responso dei commissari e uniformarvisi. La pretesa di
Leonardo e dei Preda che i commissari dovessero rinvenire sul proprio giudizio,
urtava contro la lettera del patto contrattuale, che era chiarissimo, e contro
la presumibile intenzione dei contraenti. Non si trattava dell’applicazione di
una clausola compromissoria, la quale attribuisse a frate Agostino e ai due
scolari eligendi l’ufficio di arbitri o di periti per cui dovessero emettere
mia sentenza od un atto regotorio di perizia, previa prestazione di giuramento;
ma della esecuzione di un mandato ad esercitare le funzioni, assai più facili e
piane, di amichevoli compositori. La qualità di religioso e di preposto di un
monastero, in frate Agostino, male si sarebbe conciliata con l’esercizio di
funzioni giudiziarie o col mandato di procedere ad una perizia tecnica sotto la
coazione morale del giuramento. Era stato loro demandato un incarico fiduciario
da esesguirsi senza alcuna formalità di rito, in base proprio a quel principio
«de equitate», che dalla supplica di Leonardo e di Giovanni Ambrogio risulta
essere stato dai medesimi commissari invocato per giustificare la tassazione fatta
in venticinque ducati, del maggior compenso reclamato dagli artisti; principio
«de equitate», che costoro pretendavano disconoscere, trasformando il mandato
fiduciario conferito ai commissari in un formale compromesso, o quanto meno
nell’incarico di una regolare perizia tecnica. Si noti inoltre che nella chiusa
dell’istrumento era stato conferito al guardiano del monastero di S. Francesco l’ulteriore
mandato di risolvere come «amico comune» delle parti tutte le questioni che
fossero sorte intorno alla interpretazione ed esecuzione del contratto, anche
rispetto alla penale da applicarsi alla parte inadempiente in favore dell’altra
parte. La clausola in forza della quale nei contratti di locazione di opere d’arte
si fissava un prezzo minimo e si mandava a «comuni amici», scelti quasi sempre
all’infuori del ceto professionale, di dichiarare “ex aequo et bono”, ad opera
compiuta, il maggiore compenso da corrispondersi agli artisti, era abbastanza
frequente a Milano nell’ultimo quarto del secolo XV ([25]).
Si voleva da un lato interessare l’artista a fare del suo meglio perché l’opera
fosse per corrispondere alle esigenze del committente, dall’altro difendersi
contro le pretese esorbitanti che l’artista non avrebbe mancato di avanzare se
la determinazione del prezzo fosse stata rimessa al giudizio di uomini dell’arte,
a lui facilmente legati dai vincoli dell’amicizia e della solidarietà
professionale.
Evidentemente, con la supplica al duca, Leonardo e Giovanni Ambrogio
si proponevano di provocare l’interessamento di Lodovico il Moro, il quale fino
dal 1479 aveva nelle sue mani la somma del potere; affinché s’interponesse per
procurare loro un trattamento migliore di quello risultante dalla dichiarazione
dei tre commissari. Si calcolava sui rapporti che ambedue avevano con la corte
ducale, in particolare con lo stesso Lodovico, del quale il Preda è designato «dipintore»
in un atto del marzo 1482 ([26]).
Le proposte di obbligare i commissari a prestare il giuramento o di nominare
altri periti, ma dell’arte, ad altro in fondo non miravano che a premere in
qualche modo sull’animo dei confratelli della Concezione per indurli ad
allargare i cordoni della borsa in favore dei postulanti. L’ulteriore proposta
di definire la controversia con l’autorizzazione a Leonardo di ritirare o di
trattenersi la «dicta nostra dona facta a olio», non poteva essere presa sul
serio, dopo che i due pittori avevano già riscosso la somma delle lire
ottocento stabilita come prezzo complessivo per la decorazione dei lavori d’intaglio
e per le pitture. Ha tutta l’aria di una di quelle conclusioni «ad pompam» che
non di rado i causidici presentano, com’essi dicono «nella più disperata
ipotesi», a guisa di razzo finale, per far fede della apparente discretezza e
moderazione del cliente; pur con la certezza assoluta che sono destinate a
cadere senza l’onore di una discussione qualsiasi. Come se un unico contratto,
avente per oggetto la decorazione con dorature e colori e la pittura delle
parti piane di un’unica ancona, potesse, ad esecuzione compiuta, scindersi, a
causa di divergenze insorte nella determinazione del prezzo, obbligando i
committenti a trattenersi l’ancona, mancante proprio di quel quadro di mezzo
rispetto al quale, per la grande fama dell’artista, più viva doveva essere
stata la loro attesa!
Non occorre di più di un semplice esame del testo della supplica
per classificare come vane fantasticherie le argomentazioni avanzate da taluno
intorno all’effetto immediato che la supplica dei due pittori avrebbe avuto di
procurare a Leonardo la restituzione o la libera disponibilità della tavola originale
della «nostra dona». Per accedere alla tesi dell’immediato rilascio converrebbe
presumere che sulla fine del quattrocento il capriccio o il comodo disvolere di
due artisti, anche se uno di essi rispondeva al nome di Leonardo da Vinci,
potesse avere facilmente ragione contro i diritti, consacrati in un solenne
strumento notarile, di una fiorente confraternita; la quale, da poco tempo
fondata per l’esercizio di devozione che i frati minori di S. Francesco
coltivavano come preziosa prerogativa del proprio ordine, contava nel suo seno
un numero grandissimo di persone d’ogni ceto ed era presieduta ed amministrata
da uomini appartenenti alle più cospicue famiglie della città ([27]).
Riteniamo assai probabile che la contesa sia stata risolta per i1 l’intromissione
personale di Lodovico il Moro, a mezzo di qualcuno dei giurisperiti che facevano
parte del consiglio ducale di giustizia, con la concessione che la
confraternita si sarà indotta a fare a Leonardo e a Giovanni Ambrosio di un sensibile
aumento sul sovraprezzo di venticinque ducati dichiarato dai cornmissari.
Considerando la cosa all’infuori dei rapporti contrattuali delle parti, in
relazione al merito intrinseco della tavola di Leonardo, di gran lunga superiore
a tutto quello che sino a quel giorno Milano possedeva in fatto di pittura, non
sarebbe stato il caso di rifiutargli recisamente un compenso alquanto maggiore
di quello proposto dai commissari, se non a titolo di mercede, come un premio
alla sua virtù ed insieme un incoraggiamento ad arricchire la città di altre
opere di così meravigliosa bellezza. Non par dubbio che queste considerazioni pertate
fuori del dibattito giudiziario, siano state apprezzate come si conveniva, da
una numerosa accolta di persone, consociate non a scopo di lucro, ma per praticare
una pia divozione; le quali dovevano sentirsi orgogliose di possedere un così
splendido saggio della nuova arte che si veniva svolgendo e maturando sulle
rive dell’Arno, sino a toccare la perfezione. Nell’alternativa, se pure a
questo estremo si giunse, di dover lasciare la tavola a Leonardo o di
aggiungere quaranta o cinquanta ducati ai venticinque liquidati dai commissari,
la confraternita, la quale nel periodo di cinque o sei anni ne aveva già speso non
meno di cento per i freschi della volta, quasi duecento per gli intagli dell’ancona,
ed altri duecento per le dorature e la dipintura degli stessi intagli, non avrebbe
esitato un momento a sobbarcarsi al maggiore esborso. Non mancavano certo fra i
suoi preposti persone fornite di largo censo, che fossero disposte ad anticipare
il denaro occorrente. Cuncludendo a noi pare indubbio che la tavola sia allora rimasta
al suo posto, o vi sia stata appunto allora collocata.
Ma fino a quando? Questo è il problema più grave, I documenti non lo
risolvono. La critica più autorevole ([28])
è venuta sempre più affermandosi nel senso di ritenere l’esemplare del Louvre
come l’originale concezione del maestro, eseguita durante la sua prima dimora a
Milano, nello stile che presentano le ultime sue opere fiorentine. L’esemplare
di Londra, proveniente indubbiamente dalla chiesa di S. Francesco di Milano,
sarebbe una copia condotta sull’originale in periodo più avanzato, forse sotto
gli occhi di Leonardo, da quello stesso Giovanni Ambrogio Preda ([29]),
che aveva dipinto i due angeli disposti ai lati della tavola. Il quadro del
Louvre proviene dalla guardaroba dei re di Francia. Sebbene le prove non
risalgano oltre il 1625, è comune opinione vi fosse entrato sino dai tempi di
Francesco I, il quale, com’è noto, fu appassionato raccoglitore di opere di
Leonardo. «Se questa supposizione è esatta (avvertiva recentemente il von Seidlitz)
si dovrebbe ritenere che Francesco I (o forse il suo predecessore Luigi XlI),
si fosse procurato l’originale del grande maestro. Se così è, conviene ammettere
che il quadro sia stato dalla confraternita restituito a Leonardo e che lo si
sia sostituito nella chiesa con una copia, la quale, naturalmente, passò di poi
sotto il suo nome; come appare dagli scrittori locali, Lomazzo, Torre, Gerli e Bianconi,
i quali lo ritennero originale». Ebbene; noi che respingiamo la ipotesi inverosimile
della restituzione del quadro a Leonardo, determinata dal rifiuto della
confraternita di sottostare ad una spesa maggiore di quella dichiarata dai
commisari, nulla abbiamo invece da eccepire alla supposizione che il quadro sia
stato portato in Francia per opera di Francesco I o di Luigi XII. Contro l’ipotesi
che, restituito il quadro a Leonardo, come si credeva, fra il 1491 e il 1494, o
peggio accora, in base alle nuove risultanze, sino dal 1486 o 1487, l’autore l’abbia
tenuto presso di sé fin quando gli si presentò l’occasione di offrirlo a re
Francesco, fu già affacciata l’obiezione che converrebbe ammettere che Leonardo
si fosse trascinato dietro la tavola ingombrante, nelle lunghe sue peregrinazioni
da Milano a Firenze e nelle Romagne, indi di nuovo a Milano ([30]).
Si può aggiungere che, data l’ipotesi del ritiro del dipinto, non sarebbe
concepibile perché Leonardo, anziché accettare la più vantaggiosa della varie offerte,
delle quali è parola nella supplica, avesse preferito di fargli la guardia per tanti
anni. D’altra parte la sicura derivazione delle altre copie milanesi che si
hanno della Vergine delle roccie, risalenti con tutta probabilità al primo o al
secondo decennio del cinquecento, dall’esemplare di Londra, denota che questo
si trovava già sull’altare fra il 1505 e il 1515. Questi riflessi ci conducono
ad accettare come più verosimile d’ogni altra la congettura che il quadro
originale sia stato portato in Francia, in seguito a disposizioni impartite da
Luigi XII, nell’occasione della sua prima venuta a Milano nell’ottobre e
novembre 1499, subito dopo la fuga di Lodovico il Moro ([31]).
Si tenga presente il racconto del Vasari intorno all’entusiasmo del sovrano
alla vista del Cenacolo, e al suo rincrescimento per l’impossibilità di
staccarlo dal muro ov’é dipinto. Si consideri pure che Luigi XII aveva ammirato
anche il gesso del «cavallo». Quello che fra il 1486 e il 1488 non avrebbe
forse osato il Moro, perchè la sua posizione precaria non gli consentiva di
provocare con un atto di patente ingiustizia il risentimento dei vari ordini
della popolazione largamente rappresentati nella confraternita della
Concezione, bene avrebbe potuto permettersi il potente sovrano all’indomani
della conquista della città. Se fu lo stesso re di Francia che, ordinando di
levare dall’ancona il prezioso dipinto, dispose perché ne venisse tratta una
copia fedele da un valente pittore, da collocarsi al posto dell’originale, si
dovrebbe pur riconoscere in questo procedimento del cavalleresco monarca quella
nobiltà e moderazione di costumi che tre secoli più tardi mancò al corso
avventuriero, quando sguinzagliava i suoi segugi a scovare e fare incetta dei
migliori tesori dell’arte italiana, per arricchire i nuovi musei della metropoli.
E l’ancona a figure di rilievo? Si congetturò da taluno che fosse
andata distrutta nella rovina della chiesa di S. Francesco, dell’anno 1688.
Altri pensò che sia stata sostituita nel 1576, quando l’altare della Concezione,
dal luogo ove era stato in origine disposto all’estremità della chiesa, a
destra della porta maggiore, venne trasferito entro la cappella già dell’Assunta,
a destra del coro, «con altra più adatta all’uopo (?) e più duratura». Si
giunse perfino a fantasticare che l’ancona fosse di gesso o di stucco e che
rimasta dopo il 1576 «nell’umile (?) loco», ov’era stara collocata
originariamente, sia perita con l’apertura della seconda porta, fatta eseguire lo
stesso anno 1576 dai vescovo di Famagosta, visitatore apostolico ([32]).
Ma anche qui si naviga nel mare sconfinato ed instabile delle ipotesi, senza il
più debole punto di appoggio.
Già il Malaguzzi, avendo rilevato da un inventario degli arredi della
cappella della Concezione dell’anno 1781 ([33]),
che nell’altare eravi oltre al «quadro dell’Immacolata con cornice a piccola
cimasa dorata», stimato quindici lire, «una ancona, baldacchino, il tutto di legno
intagliato, dorato, con sei piccoli quadri incastrati nella medesima a
cristalli per detta ancona», stimata lire trecento, aveva argomentato che si
trattasse dell’ «ancona de rilevo misa a oro», indicata nella supplica. E ci
sembra che abbia colto nel segno. La citazione pecca però di qualche
inesattezza. Il documento, intitolato: «Stima del Perito Piccaluga, arredi
sacri ed altri mobili della veneranda Capela del soppresso Luogo Pio dell’Immacolata
Concezione in S. Francesco di M.», registra per primo «un altare con ancona, Baldachino
il tutto di legno intagliato parte colore di Bronzo e parte dorato con sei
piccoli quadri incassati nella medesima, e cristalli per la detta ancona - L.
300». Seguono: (2.°) «Statua della B. V. con Bambino, con manto a stelle,
tessuto d’oro e seta bianca con veste ulteriore d’ormesino celeste antica,
guarnita d’oro falsa ed altra di Gallassè d’argento con fondo di tela di color
celeste guarnita d’oro con due manichette simili - L. 75», (3.°) «una corona d’argento,
ecc. - L. 75», (4.°) «n.° 6 ovali in tela, ecc.», (5.°) «n.° 6 candelieri,
ecc.», (7.°) «n.° 30 rami di fiori, ecc.», (8.°) «n.° otto quadri grandi
diversi incassati nel muro - L. 80», (9.°) «n.° 8 tende per li suddetti e altre
per le finestre - L. 45», e finalmente (10.°) «un quadro dell’Immacolata con
cornice e piccola cimasa dorata - L. 15». L’ordine secondo il quale sono
descritti e stimati gli arredi della cappella, dimostra che il quadro dell’Immacolata
non si trovava sull’altare, ma era forse appeso ad una parete. Sull’altare non
vi era che l’ancona di legno, parte dorata e parte colorita a bronzo. La
supposizione affacciata da taluno ([34])
che l’ancona dell’inventario contenesse i quadri con espressi li Misteri
primari della «Vita di M. V. dipinti da Camillo ed Ercole Procaccini»,
ricordati dal Latuada ([35]),
non è accettabile, perché nella stima si dice che «il tutto (è) di legno
intagliato, dorato, ecc.» e rinchiuso entro cristalli. D’altronde non si hanno
esempi di ancone dorate con piccole storie sotto cristalli, dipinte dai due
Procaccini. Ad essi è probabile che appartenessero gli otto quadri grandi
diversi «incassati nel muro». La descrizione contenuta nella «lista» del 1483,
dei «capitelli de intaglio con le figure excepto li volti posta a oro fino», in
cui «la nostra dona» doveva essere «ornata come quella de mezo» e così «le altre
figure», ci permette di riconoscere nell’ancona di legno intagliato del 1781
quella costrutta da maestro Giacomo Del Maino, decorata con dorature e pitture
dai fratelli Preda sotto la direzione di Leonardo. La custodia in vetri sarà
stata disposta quando si provvide a rinfrescare te dorature degli intagli, per
evitare che sotto l’azione dell’umidità e della polvere si guastassero
nuovamente. Nella stessa occasione invece di rinfrescare anche le tinte dei
volti e delle parti scoperte dei corpi, in gran parte consumate, si pensò per maggior
economia e fors’anche per la difficoltà della esecuzione, di dare alle figure
una tinta uniforme bronzea. Il distacco della tavola dell’Immacolata dall’ancona
denota che questa era stata scomposta e ridotta dalla sua forma e disposizione
originaria. È probabile che la scomposizione sia avvenuta quando si provvide a
rinnovare le dorature. L’ancona era forse profondamente deteriorata per vetustà
e, dovendosi procedere ad un ristauro radicale, si trovò necessario di ridurne le
dimensioni, eliminando la parte di mezzo superiore. Si conservò il presepio
dorato col Bambino, che nella nuova composizione avrà formato la parte centrale
dell’ancona, mentre le due serie di piccoli quadri ne avranno costituito le
parti laterali. Dei due angeli grandi l’Inventario non fa parola. Erano già
scomparsi dalla cappella della Concezione, precedendo di pochi anni l’esodo
della tavola attribuita a Leonardo, che l’ottimo signor Piccaluga aveva stimato
quindici miserabili lire milanesi!
Ma quest’ancona «di legno intagliato», così ridotta e conciata,
dove andò a finire? domanderemo anche noi col Malaguzzi. Ora che il testo della
lista del 1483 permette di ricostruire col pensiero gli elementi principali ond’era
costituita, potranno gli studiosi e gli amatori dell’arte rivolgere la propria
attenzione sopra opere di carattere frammentario, di legno intagliato, con
figure a rilievo, disperse nelle maggiori e minori gallerie pubbliche e private
d’Italia e fuori. Con la speranza che almeno uno dei sei quadretti venga
identificato, documento degli inconsulti smembramenti compiuti dal nostri non lontani
maggiori, di tesori inapprezzabili d’arte, chiudiamo questa breve illustrazione
degli importanti documenti che fanno fede dell’attività pittorica di Leonardo
nel primo anno del suo soggiorno a Milano, rintracciati in quella miniera,
ancora inesplorata, di notizie e di dati relativi alla vita politica, artistica
e sociale della metropoli lombarda dal secolo XIV in poi che è l’archivio
Notarile di piazza Mercanti. La buona stella, alla quale dobbiamo altre
scoperte utili per la risoluzione di gravi problemi di storia artistica e di
archeologia, confidiamo continuerà ad assisterci ancora nelle ulteriori nostre
ricerche ([36]).
Doc. I.
CAPITOLI SOTTOSCRITTI DA LEONARDO DA VINCI,
DAI FRATELLI EVANGELISTA E GIOVANNI AMBROGIO PREDA E DAI RAPPRESENTANTI LA CONFRATERNITA
DELLA CONCEZIONE.
Jhesus.
1.
Lista de li hornamenti se anno a fare a lancona dela conceptione dela glorioa
Vergene
2.
Maria posta nela ghexia de sancto francesco in Milano
3.
Primo. Vollemo che tuta lanchona. Videlicet li capitolli deintaglie con li
figure excepto li volti
4.
ogni cossa sia posto aoro fino de pretio de libre III. s. X per cent.[enaro].
5.
Item la nostra dona nel mezo. sia la vesta. de sopra. brocato doro azurlo
tramarino.
6.
Item la camora brocato doro de lacha fina in cremesi. aolio.
7.
Item la fodra dela vesta brocato doro verdo aolio.
8.
Item li zarafini posti de senaprio sgraffiati.
9.
Item lo deo. padre. la vesta de sopra brocato doro azurlo tremarino.
10.
Item li angolli sieno. hornati de sopraoro. li camesi internisati in la fogia
grecha aolio.
11.
Item le montagne. e sassi lavorati aoro divisati de più collori.
12. e laltro. videlicet. uno quadro che canteno et laltro che
soneno.
14. Item. in tucto. li altri capitolli dove. sia la nostra dona.
sia ornata.
15. come. quella. de mezo. et li altre. figure. grege. hornati de
diversi colori.
16. ala foga. grega. o moderna. che sieno. in tucta perfectione
cossi il
17. caxamenti. in montagne. sufiste. piani de dicti capitolli. et
ognia cossa.
18. facta ad. olio. (et de reconzare lintagli che non stieno
bene).
19. Item. le sibillie hornati. li campi. facte. ad una citha. in
forma de.
20. caxamento. eli figure le veste. differentiate luna delaltra.
21. tucte facte ad. olio.
22. Item li cornixoni. pilastrati. capitelli et ognia intaglio.
posto doro come.
23. edicto de sopra. senza alchuno collore. nel mezo.
24. Item. la tavolla de mezo facta. depenta in piano. la nostra
dona. conlo suo fiollo.
25. eli angolli. facta olio in tucta. perfetione. con quelli duy.
profecti vanno.
26. depenti piani. con li colori. fini come edicto de sopra.
27. Item. la bancheta. hornata come. li altri capitolli. de
intorno.
28. Item tucti. li volti. elemane. gambe. che sono nude. sieno
colorite. aolio.
29. in tucta perfetione.
30. Item elogo. dove. elo putino. sia messo doro lavorato. ha
guisa de gradiza.
31. Ego Bartolomeus
Scarlionius prior in testimonium ut supra subcripsi.
32. Johannes Antonius
de santo Angello, subscripsi.
33. Io Leonardo da Vinci
in testimonio ut supra subscripsi.
34. Io Evangelista preya
subscripsi.
35. Johannes Ambrosius de
predis subscripsi.
Doc. II.
CONVENZIONE STIPULATA IL GIORNO
25 APRILE 1483 PER I LAVORI DI DECORAZIONE E PITTURA DELL’ANCONA DELLA
CONCEZIONE.
In nomine domini anno a nativitate eiusdem millesimo quadrigentesimo
octuagesimo tertio indictione prima, die veneris vigesimo quinto mensis
aprilis.
Nobiles et egregii Virii Domini Bertholomeus
de Scharlionibus fq. d. Viviani. porte ticinensis par. S. Petri in caminadella
M. prior capelle conceptionis beate Virginis Marie constracte in Ecclesia
Sancti Francisci M. ordinis minorum et una cum eo Nobiles domini Johannes
Antonius de Sancto Angelo fq. d. Bertolamei p. Vercelline par. S. Johannis
supra muram, d. Lanzarotus de Incrosate fq. d. Johannis p. tic. par S.
Michaelis ad clusam, d. Johannes de coyris fq. d. Azonis p. Verc. par S.
Nicolai intus, d. Beltramus de Piatis fq. d. Antonii p. tic. par. S. Viti q. fra de Mantegatis
fq. d. Boschini p. tic. par. S. Ambrosio in solayrolo, d. Luchinus de
Palferris f. d. Johannis p. Verc. par. S. Naboris et Felicis, d. Simon de
Barziis fq. d. Aluisii p. tic. par. S. Laurentii maioris intus et d. Jacobus de
Petrasancta fq. d. Pauli p. tic. par. S. Vincentii in prato.
omnes scolares et de consortio et
universitate aliorum dominorum scolarium dicte scolle suis nominibus propriis
ut scolares et item nomine et vice ac ad partem et utilitatem aliorum dominorum
scolarium dicte scole pro quibus sub obligatione et ipotecha bonoram dicte
scole promisserunt et promittunt de rato habendo et non contraveniendo, parte
una seu pluribus, et dominus magister Leonardus de Vinciis florentinus filius
domin. Petri pro una alia et Evangelista et Johannes Ambrosius fratres de
Prederiis filii quondam domini Leonardi, porte ticinensis, parochie S.
Vincentii in prato intus M. pro una alia parte seu aliis et pluribus diversis
partibus et quilibet eorum in solidum ita quod quilibet eorum in solidum
teneatur et cum effectu conveniri possint cum renunciatione novis
constitutionibus ut infra.
Volontarie sponte et ex certa animi scientia
et non per aliquem errorem iuris nec facti et alias omnibus modo, iure, via,
causa, et forma quibus magis et melius suis et dictis modis et nominibus quibus
potuerint et possint,
Fecerunt et faciunt inter sese presentes et
stipulantes suis et dictis modis et nominibus quibus supra, infrascripta pacta,
convenientiones et acordia inviolabiter attendenda et observanda inter dictas
partes suis et dictis nominibus videlicet,
Primo, quod prefati domini prior et scolares
dicte scole teneantur et debeant ac obligati sint dare et tradere anconam
capelle suprascripte domine sancte Marie conceptionis constructe in dicta
Ecclesia sancti Francisci M. dictis domino magistro Leonardo de Vinciis et
Evangeliste et Johanni Ambrosio fratribrus de Prederiis et culibet eorum ad
fabricandum per modum et formam inferius ut infra videlicet
Lista de li ornamenti se anno afare alancona dela conceptione dela
gloriosa Vergene Maria posta nella ghesia de sancto francesco in Milano.
Primo volemo che tuta lanchona videlicet li capitolli intaglie con
le figure excepto li volti ognia cossa sia posto doro fino nel precio de lire
tre et soldi dece imp. per centenaro. Item la nostra dona nel mezo sia la vesta
de sopra brocato doro azurlotremarino. Item la camora brocato doro delacha fina
in cremesi a olio. Item la fodra dela vesta brocato doro verdo aolio. Item li
zeraffini posti de senaprio sgraffiati. Item lo deo padre la veste de sopra
brocato doro azurlotremarino. Item li angeli siano ornati sopra loro li camise
internisati ala fogia grecha aolio. Item le montagnie e sassi lavorati a olio
divisati de più colori. Item li quadri vodi siano angelli quatro per parte
deferentiati de luno quadro e laltro, videlicet uno quadro che cantino et
laltro che sonono. Item in tuti li altri capitoli dove sia lanostra dona sia
ornata como quella de mezo et le altre figure grege hornate de diversi colori
alla fogia grega o moderna che siano in tuta perfectione cossi li caxamenti,
montagnie sañcte piani de dieci capitoli et ognia cossa facta aolio, et de reconzare
intaghi che non stano bene. Item le sibille ornati li campi fatti ad una cita
in forma de caxamenti et le figure le veste differentiate luna delaltra tutte
fatte ad olio. Item li cornixoni pilastrate capitelli et ognia intaglio posto
doro como ho dicto de sopra senza alcuno collore nel mezo. Item la tavola de
mezo facta depenta in piano la nostra dona con lo suo fiolo e li angelli facta
aolio in tuta perfectione con quelli doy profetti vanno depenti piani con li colori
fini come dicto di sopra. Item la banchetta ornata come li altri capitoli de
intorno. Item tuti li volti et le mani gambe che sono nude siano coloriti aolio
in tuta perfectione. Item il locho dove elo putino sia messo doro lavorato in
guisa de gradiza. Ego Bertolomeus scarlionus prior in testimonium ut supra
subscripsi, Johannes Antonius de Sancto Angello subscripsi, Io Lionardo de
Vinci in testimonio ut supra subscripsi, Io evangelista preya subscripsi,
Johannes Ambrosius de predis subscripsi.
[segue la lunga convenzione,
scritta in latino]
Doc. III.
SUPPLICA DI LEONARDO DA VINCI E
GIOVANNI AMBROGIO PREDA AL DUCA DI MILANO CONTRO LA CONFRATERNITA DELLA
CONCEZIONE.
Ill.mo et Ex.mo
Signore. Alias li
vostri fidelissimi servitori Johanne Ambrosio preda et leonardo de vinci
florentino se conveneteno cum li scolari de la conceptione de sancto francesco
de Milano, de farli una ancona de figure de relevo misa tuta de oro fino et uno
quadro de una nostra dona depinta a olio et dui quadri cum dui angeli grandi
depinti similiter a olio, cum hoc che doveseno eligere ala extimatione de dicte
opere dai de dicti scolari et lo patre frate Augustino per lo tertio, et facta
dicta extimatione, et montando dicte opere più de octocento libre de imperiali
quali sono andate in spexe che dicti scolari fusseno obligati satisfare ali
dicti supplicanti de suprapiù de dicte libre octocento supra secundo sarebbe
declarato per dicti tri. Et non obstante che dicte due opere siano de valore de
ducati CCC como apare per una lista de dicti supplicanti data a dicti scolari
et che dicti supplicanti habiano instato cum li dicti commissari vogliano fare
la dicta extimatione cum lo suo sacramento, attamen non la voleno fare nisi de
equitate volendo loro extimare la dicta nostra dona facta a olio per lo dicto florentino
solum ducati XXV licet sia de valore de ducati cento como apare per una lista
de essi supplicanti et lo quale pretio de ducati cento hano trovato da persone
quale hano voluto comprare dicta nostra dona: ex quo sono astrieti havere
recorso da V.S.
Supplicando humelmente ala prelibata V. S. che premissis attentis,
et che dicti scolari non sono in talibus experti, et quod cechus non iudicat de
colore, se dignia provedere senza più dilatione de tempo aut che dicti tri
commissarii fazano secundo lo suo sacramento la extimatione de dicte due opere,
aut che siano electi dui extimatori in talibus experti, videlicet uno per
parte, quali habiano ad extimare dicte due opere, et che secundo la dicta
extimatione sia statim per dicti scolari satisfacto ali dicti supplicanti aut
che essi scolari lasano ali dicti exponenti dicta nostra dona facta a olio,
consciderato che solum la dicta ancona da relevo monta le dicte libre octocento
imperiali quale hano hauto dicti supplicanti, le quali sono andate in spexa ut
supra, como è iusto et conveniente et credono sia mente de V. Signoria alla
quale se recomandano.
A
tergo
Supplicatio Johannes Ambrosii de
predis et Leonardi de Vinciis florentini.
[1] Dobbiamo una parola di vivo
ringraziamento agli egregi signori dottor Arganini, conservatore, Bonomini,
archivista, e agli altri funzionari dell’archivio notarile di Milano, che con
le loro cortesi premure agevolarono le nostre ricerche.
[2] ASM, Pergamene di S. Francesco di Milano, 1482, VII, 3; 1487, X, 30;
1496, XII, 10; 1499, I, ecc.
[3] ASM, Fondo di Religione, parte moderna, Confraternite, busta 1510.
[4] La loro collocazione è la
seguente: C. 467, I.
[5] C. 459. 14, 1488, XI, 9.
[6] C. 308. 6. 7, 1489, VI, 9.
[7] Vedi append., doc. A. L’imbreviatura dell’atto è assai
guasta. Un estratto di questa convenzione nella parte relativa all’assegnazione
dell’area per costruirvi la cappella della Concezione trovasi inserto in una
stampa del sec. XVII contenente un reclamo del monastero di S. Francesco contro
la confraternita per la abusiva apertura di una porta nella sede della
confraternita stessa, che metteva direttamente sul piazzale di S. Valeria (ASM,
Fondo di Relig., parte mod., Confrat.,
busta cit.).
[8] Apparteneva a famiglia nella
quale l’arte della pittura era tradizionale. Di lui ha dato qualche notizia il
Morra in quest’Archivio, XXII, 1895,
p. 415. Ebbe un figlio, maestro Ambrogio, pure pittore, che nel 1481 accoglieva
nella sua bottega, come apprendista, tal Cristoforo «de Prevederiis» fu
Giovanni della parrocchia di S. Tecla (Imbr.
Boniforte Gira, 1481, VIII, 31).
[9] Di questo pittore non si
halcuna notizia.
[10] Vedi doc. B.
[11] Vedi append., doc. C.
[12] Questo artefice è conosciuto
come coautore degli stalli del coro di S. Ambrogio costruiti insieme a Lorenzo
da Origgio e a Giacomo da Torre dopo il 1469 e quale coautore pure del coro dei
frati conversi della Certosa di Pavia, che, già cominciato dal modenese
Bartolomeo de Polli, il Del Maino si assunse nel 1502 di portare a termine (G. Biscaro,
Note e documenti santambrosiani in
quest’Archivio, XXXII, 1905, p. 92.
[13] Vedi append., doc. D.
[14] A noi sembra di ravvisare
nella scrittura del testo la stessa mano della firma del sottopriore
Giovann’Antonio da Sant’Angelo.
[15] Fra i testimoni è degno di
nota «Augustinos de Fondutis»; la cui individualità, come di uno dei migliori
scultori in plastica e terre cotte che lavorarono Milano e a Piacenza
nell’ultimo quarto del sec. XV, ci riserviamo d’illustrare in altra occasione.
[16] Diamo in foglio a parte la
riproduzione in fototipia della lista, con le firme autografe dei contraenti, e
in appendice ne pubblichiamo il testo (doc. I), insieme all’istrumento completo
desunto dal quaderno «Iupiter» (doc. II).
[17] È curioso trovare qui
associato il nome di Leonardo ad un’opera, la quale corrispondeva all’uso da
lui tanto acremente biasimato nel Libro
di pittura di fare «i capitoli delle figure l’uno sopra l’altro» su una
medesima parete.
[18] In altrettanti riparti
quadrati essi pure, come i famosi «capitoli» delle «figure, l’uno sopra
l’altro?».
[19] Da una serie di atti del
giugno 1472 (ANM, Imbr. del not. Antonio
dei Bombelli) si apprende che Giovanni Ambrogio era l’ultimo dei sei figli
maschi che Leonardo Preda aveva avuto in tre successivi matrimoni. Del primo
con Margherita Giussani erano superstiti Aloisio, Evangelista e Cristoforo,
l’insigne miniatore, sul quale veggasi la breve nota nella rubrica «Appunti e
Notizie» di questo fascicolo dell’Archivio,
del secondo con Margherita «de Millio» Giovan Francesco, allora «decretorum
scolaris», e del terzo con Caterina Corio fu Ambrogio, che sopravvisse al
marito, Bernardino e Giovann’Ambrogio. Bernardino, che fu zecchiere e, come
sembra, disegnatore (Motta, op. e
loc. cit., p. 945), era allora tra i diciannove e i ventun anni,
Giovann’Ambrogo sui diciotto. Si può così fissare la nascita di
Giovann’Ambrogio Preda verso l’anno 1455. Nel 1483, quando conobbe Leonardo,
aveva intorno a ventott’anni, tre di meno del grande maestro. Dai documenti che
ci forniscono questi dati precisi sulla famiglia dei pittori Preda, si rileva
che il padre, Leonardo Preda, aveva una cospicua proprietà immobiliare nel
territorio di Sedriano, che però dopo il 1450 era venuta gradatamente
assottigliandosi, forse in conseguenza dei carichi eccessivi della numerosa
figliolanza.
Va
rilevato che nell’istrumento del 25 aprile 1482 non si indicano in modo
particolare la porta e la parrocchia ove abitava Leonardo. Avuto ruguardo alla
pratica costantemente osservata dai notai milanesi di far dichiarare così dalle
parte contraenti come dai testimoni il luogo di loro abitazione, anche se si
trovavano a Milano di passaggio, alloggiati in un «hospitio», si può pensare
che con l’indicazione della porta Ticinese e della parrocchia di S. Vincenzo in
prato «inus», dopo i nomi dei fratelli Preda, ma anche di Leonardo, il quale,
venuto da pochissimo tempo a Milano si era provvisoriamente accasato presso di
essi, col proposito di procurarsi con suo maggiore agio una propria abitazione
altrove, qualora il favore e i vantaggi peculiari ch’egli si riproponeva di
conseguire alla corte del Moro, lo avessro persuaso di stabilirsi definitivamente
in questa città.
[20] E. Motta, Ambrogio
Preda e Leonardo da Vinci in quest’Archivio,
XXI, 1894, p. 975. Crediamo opportuno per migliore intelligenza degli elementi
di fatto della questione sollevata da Leonardo e Giovann’Ambrogio Preda contro
i fratelli della Concezione, di pubblicare nuovamente la supplica (doc. III);
che viene così ad integrare la prima serie di documenti originali relativi alla
formazione dell’ancona della Vergine delle roccie. Confidiamo vivamente che
ulteriori ricerche ci pongano in grado di rintracciare gli atti con cui fu
definita la controversia fra i due pittori e la confraternita.
[21] Nuovo documento sulla «Vergine delle roccie» di Leonardo in Rassegna d’Arte, I, 1901, n. 7, p. 110.
[22] La ripugnanza di Leonardo per
le rappresentazioni frazionate in una serie di scomparti aveva finito per
imporsi contro i patti della convenzione. Il Preda, dal canto suo, si sarà
rassegnato a fare la volontà del grande maestro; e i confratelli della Concezione
avranno considerato che due angeli grandi potevano bene sostituirne otto di
piccole dimensioni.
[23] ANM, Imbr. Antonio de Capitani.
[24] Nessuna indicazione è dato
desumere dalla continua presenza nel monastero di S. Francesco, quando fu
presentata la supplica, di frate Agostino dei Ferrari, eletto, nell’istrumento
del 1483, primo commissario e «comune amico» delle parti; perché lo troviamo
far parte del Capitolo di quel convento ancora nel 1496 (ASM, Perg. di S. Francesco, 10 dicembre 1496)
e nel 1499 di nuovo in qualità di guardiano (ASM, Perg. di S. Francesco, 1° giugno 1499). Neppure dalla trascrizione
dell’istrumento nel quaderno «1488 … Iupiter» si può trarre alcuna indicazione
intorno alla data probabile della supplica. Come si è avvertito, quel quaderno
contiene una miscellanea di atti che abbracciano il periodo dal 1480 al 1504.
Probabilmente l’istrumento era uno di quegli atti le cui imbreviature il notaio
aveva messo da molto tempo in disparte col proposito di trascriverle nel
«quatern extensarum»; proposito che si ridusse a tradurre in effetto solo negli
ultimi anni della sua vita. Il periodo dal 1486 al 1487, come quello in cui
l’opera sarebbe stata compiuta, ci sembra più verosimile del periodo dal 1491
al 1494 supposto dal Malaguzzi. Si comprende un ritardo di due fino ad un
massimo di quattro anni oltre la scadenza del termine, stabilito in poco più di
sette mesi. Un ritardo maggiore non sarebbe stato tollerato dalla
confraternita, la quale aveva già da lungo tempo sborsato l’intero prezzo convenuto.
Quanto meno nella varie deliberazioni intorni agli interessi della stessa
confraternita, prese dai suoi rappresentanti negli anni 1488 e 1489, quali
risultano dalle imbreviature del notaio de Capitani, si avrebbe dovuto trovar
traccia di reclami o di azioni giudiziarie spiegate per costringere gli artisti
a fare onore una buona volta agli assunti impegni (ANM, Imbr. Antonio de Capitani, 30 novembre 1488, 22 e 28 febbraio, e 15
novembre 1489; Imbr. Gian Pietro da
Carcano, 9 novembre 1488).
[25] Si è visto più sopra praticato
questo sistema dalla confraternita della Concezione negli anni precedenti coi
pittori dei freschi della vdella volta e con l’artefice dell’ancona. Tutta una
serie di documenti delle stesso periodo, contenenti clausole analoghe, verrà da
noi pubblicata in un prossimo studio sopra uno dei più insigni monumenti di
Milano.
[26] Il Motta, op. e loc. cit., richiama un documento del 22 marzo
di quell’anno relativo al dono fatto a «Zoane Ambrosio di predi de Milano
depintore de lo Ill. Sig. Ludovico Sforza», dalla duchessa Eleonora di Mantova,
di «braza .X. de razo alexandrino», per compensarlo forse del ritratto di Anna
Sforza, fidanzata di Alfonso d’Este, da lui recato alla duchessa a Milano.
[27] In un atto del 28 febbraio
1489 (Imbr. Antonio de Capitani) si
richiama una precedente convocazione della confraternita, nella quale era stato
in «magna gentium multitudine» nominato priore il sacerdote Taddeo da Alzate.
Nel periodo fra il 1479 e il 1490 troviamo fra i preposti della confraternita
rappresentate le famiglie Terzago, Corio, Pietrasanta, Orrigoni, Pozzobonelli,
Mantegazza, Casati, Scanzi, Legnani, ecc.
[28] Rimandiamo il lettore
all’esame diligente e perspicuo della questione considerata sotto tutti gli
ispetti dal von Seidlitz nella sua
recente biografia di Leonardo: Leonardo
da Vinci, der Wendepunkt der Renaissance, Berlin, 1909, I, pp. 157 e 407.
[29] L’ultima notizia di Giovanni
Ambrogio Preda ci è data da un atto del 12 luglio 1509 (ANM, Imbr. Gio. Pietro dei Porri, n. 7212), relativo
all’affitto di una sua possessione in quel di Sedriano (casa colonica con circa
350 pertiche di terreno a vigna). Dalle varianti del secondo esemplare in
confronto dell’archetipo passato in Francia, si sarebbe indotti ad attribuire
la riproduzione al Preda, il quale poteva averle desunte da originali cartoni e
da disegni di Leonardo, rimasti nelle sue mani quale collaboratore con lui nei
lavori dell’ancona.
[30] D. Sant’Ambrogio, Sull’ordinazione
dei confratelli della Concezione di S. Francesco e sull’originale leonardesco
della Vergine delle roccie in Bollettino
della Società Pavese di storia patria, I, 1901, fasc. IV. Non ha avuto né
poteva fortuna l’attribuzione data a Leonardo, con tanta asseveranza, da questo
appassionato scrittore di cose d’arte, del quadro luinesco della chiesa
parrocchiale di Affori presso Milano, presentato come l’archetipo della Vergine
delle roccie; quasi che lo spazio dell’ancona destinato per la tavola originale
potesse essere stato di poi occupato da una copia di dimensioni quasi doppi! La
tavola di Affori misura m. 0.82 x 0.67. Le misure della pala di Londra, cui il
catalogo assegna piedi 6 e ½ x 3,9 ½ corrispondenti a m. 1.98 x 1.15, sono
state rettificate dal direttore signor Poyate: in una sua comunicazione al
signor Gustavo Frizzoni in m. 1.89 x 1.195; quelle della pala del Louvre,
indicate nel Catalogo in m. 1.99 x 1.11, sono state pure rettificate dal
direttore signor Lafenestre in una sua comunicazione al signor Frizzoni in m.
1.975 x 1.3. Le differenze nelle dimensioni dei due quadri di Londra e di
Parigi, che possono dipendere in parte dal diverso sistema seguito nella
misurazione, secondo che si è tenuto conto o no del margine del quadro coperto
dalla cornice, ed in parte dal trasporto del dipinto a Parigi dalla tavola
sopra la tela, non sono tali da escludere che le due pitture fossero state in
origine destinate ad occupare lo stesso spazio di mezzo dell’ancona.
[31] Starebbe forse la trascrizione
dell’istrumento del 25 aprile 1483 nel quaderno «Iupiter» fra il 1502 e il
1503, dopo quasi un ventennio, in relazione coi nuovi accordi stipulati intorno
a quel tempo fra la confraternita ed il pittore incaricato di sostituire una
copia all’originale di Leonardo, che doveva passare le Alpi?
[32] Sant’Ambrogio, op. e loc. cit.
[33] ASM, Fondo di Relig., parte mod., Confrater. Cit., busta 1511.
[34] Sant’Ambrogio, op. e loc. cit.
[35] Descrizione di Milano, 1737, IV, p. 245.
[36] All’ultimo momento abbiamo
rinvenuto il testamento di Evangelista Preda, che è del 27 dicembre 1490 (ANM, Imbr. del not. Gio. Pietro de Porri, n.
3072). Il testatore si dice «sanus mente, licet eger corporis». Riconosciamo
francamente che la data di quest’atto fornisce un apprezzabile argomento per
assegnare la presentazione della supplica, ove l’Evangelista Preda non è
neppure nominato, ed al compimento della tavola di Leonardo a tempo posteriore
al 1490. Una spiegazione potrebbe tuttavia recarsi innanzi della mancanza,
nella supplica, del nome dell’Evangelista, anche senza ricorrere
necessariamente alla ipotesi della sua morte; ed è che, secondo il testo della
petizione, i reclamati non avevano nulla da ripetere per i lavori di doratura e
di coloritura delle parti in rilievo dell’ancona, rispetto alle quali si
consideravano sufficientemente ricompensati con le lire ottocento già
incassate. La questione riguardava unicamente le pitture delle tavole in piano
(gli angeli di Gio. Ambrogio e la «nostra dona» di Leonardo), per le quali
pretendevano un sovrapprezzo. Evangelista, il quale aveva avuto parte soltanto
nei lavori di doratura e di coloritura, poteva considerarsi estraneo alla
controversia. Sarebbe stato questo un modo di argomentare contrario bensì al carattere
di solidarietà e di indivisibilità dei diritti e delle obbligazioni che il
contratto del 1483 attribuiva e rispettivamente imponeva a Leonardo e ai due
Preda, ma pur rispondente al punto di vista artificioso, sotto il quale
venivano nella supplica ad opportunità di causa prospettati i diritti e le
obbligazioni medesime. - Pure all’ultimo momento il nob. Dott. Gerolamo Calvi,
del cui lavoro sulla vita e sulle opere di Leonardo gli studiosi affrettano con
vivo desiderio la pubblicazione, ha voluto cortesemente richiamare la nostra
attenzione sopra l’annotazione che si legge nel già Ashburnham I, 1.3, ora
nella biblioteca dell’Istituto di Francia, sotto la data del 10 luglio 1492,
relativa ad una serie di esazioni per l’importo complessivo di lire imp. 811.
Dalla corrispondenza approssimativa di questa somma con quella delle «lire
ottocento imperiali», che nella supplica i due artisti dichiarano di aver
ricevuto dalla confraternita, si potrebbe argomentare che l’annotazione
riproduca il conto dei versamenti effettuati dalla confraternita per i lavori
dell’ancona. Siccome i confratelli erano disposti a pagare in più di lire 800
le lire 100 (ducati 25) «declarate» dai tre commissari, non sarebbe a
meravigliarsi che in pendenza della definizione della controversia si fossero
pagate poche lire di più del prezzo minimo stabilito nel contratto. Rimangono
però a superare le difficoltà derivanti dalla minore esposizione contenuta
nella supplica e dal nessun cenno fatto in quel conto alla compensazione di una
parte, sia pur modica, del prezzo dovuto dalla confraternita, con l’importo
dell’oro impiegato nella doratura dell’ancona. Se queste difficoltà possono
essere superate, si avrebbe nella data dell’annotazione un ulteriore argomento
intorno all’epoca approssimativa del compimento della Vergine delle roccie. In
luogo dei mesi sette e mezzo stabiliti nel contratto, la confraternita avrebbe
pazientemente aspettato nove lunghi anni… per sentirsi all’ultimo fare la
stupefacente proposta di lasciare il quadro tanto sospirato a disposizione del
suo autore!
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