martedì 27 novembre 2018

1903 - BELTRAMI. Bramante e la Ponticella di Lodovico il Moro

Al Sig. Cav. ALDO NOSEDA

Egregio amico, 
A un anno di distanza dal compimento dell’opera di restauro alla decorazione pittorica nella Sala delle « Asse », rievocante il nome di Leonardo, ecco un’altra parte del nostro Castello - per desiderio tuo, inspirato ad un delicato omaggio filiale - sottratta al secolare abbandono, ed un altro nome immortale di artista, Bramante, rievocato nell’opera sua, ridonata all’originaria eleganza. Così, due forme d’arte, di cui era si può dire perduta ogni diretta memoria, vengono oggidì a ravvivare il ricordo di un’epoca, durante la quale Milano seppe competere coi maggiori centri intellettuali d’Italia, e di questa città rafforzano il patrimonio artistico con quella nota geniale, che sola può dare completo significato alla odierna sua prosperità.
Esaudito il tuo desiderio, mi parve doveroso di render conto dell’opera compiuta, ricomponendo le vicende della « Ponticella » restaurata dopo quattro secoli di vicissitudini, colla cooperazione dell’architetto Gaetano Moretti Direttore e Luigi Perrone architetto dell’Ufficio Regionale, dell’ing. municipale Angelo Pavia, coadiuvato dall’assistente Damiano Colombo e dal pittore Ernesto Rusca.
La forma esteriore oggi è ripristinata, e non mancò il tuo consenso al proposito di accompagnarvi, col sussidio di una tecnica caratteristica del quattrocento, i rari ricordi grafici del Castello nel periodo sforzesco: il che potrà forse provocare ancora una volta il biasimo di quei critici d’arte che, condannati ad una azione puramente negativa, già ebbero a dichiarare - a proposito della Sala delle « Asse » - di preferire lo stato di abbandono in cui questa si trovava, concludendo: « meglio i buchi, lo scialbo, il salnitro, la fuligine! »
Ad integrare il ripristino della Ponticella non rimane ormai che attendere la occasione di poterne incorporare i locali colle Sale ducali, assegnando loro la destinazione a Museo d’Arte: compito che già sorride alla tua mente, e varrà a completare l’opera, con gentile pensiero avviata.
Credimi l’affezionato amico

Venezia, 15 maggio 1903.
LUCA BELTRAMI.



LA Ponticella, detta di Lodovico il Moro, situata a cavaliere del fossato che recinge il Castello Sforzesco lungo il lato nord-est, mette in comunicazione le sale della Corte Ducale col recinto detto della Ghirlanda, del quale rimane solo qualche avanzo delle torri rotonde angolari, e della « Porta di soccorso » verso la campagna. Nella forma in cui oggi si presenta, in sèguito al restauro compiuto in questi giorni, la Ponticella appare come una costruzione aggiunta al concetto primitivo del Castello, i cui accessi lungo i quattro lati del quadrato sforzesco erano difesi da rivellini, piantati nel mezzo del fossato, per modo da non concedere di penetrare nel Castello, se non passando per due ponti levatoi: e poiché si trova coperta da porticato e fiancheggiata da locali, così costituisce una comunicazione sprovvista di un mezzo veramente efficace di difesa, in contrasto con tutte le disposizioni che presidiavano gli altri accessi al Castello. Eppure, la costruzione della Ponticella non deve riguardarsi come una semplice aggiunta al concetto primitivo, da Lodovico il Moro ordinata derogando alle consuetudini di difesa militare, all’intento di facilitare la comunicazione fra gli appartamenti ducali ed il Barco, che si stendeva al di là del recinto della Ghirlanda: in forma più semplice, la Ponticella già esisteva all’epoca di Galeazzo Maria Sforza, anzi nulla ci dissuade dal ritenere che formasse parte integrante del piano generale del Castello che Francesco Sforza - pochi giorni dopo di essersi impossessato del Ducato - si accinse a ricostruire sugli avanzi della rocca viscontea, contrariamente al formale impegno che aveva preso all’atto di entrare come trionfatore in Milano.

* * *

È noto come Francesco Sforza, nei brevi periodi di quiete che le preoccupazioni militari gli concedettero di trascorrere in Milano, abbia dimorato nel vecchio palazzo detto dell’« Arengo », di fianco alla Cattedrale, al che ebbe forse ad influire il proposito di non dimostrare troppa diffidenza verso i nuovi suoi sudditi, mentre a minaccia della città innalzava le due massiccie torri rotonde, irte di bugnato in sarizzo. Non devesi però dimenticare come l’intenzione di prepararsi una dimora, la quale non si trovasse senza difesa, come lo era invece l’Arengo, già fosse stata da lui affermata fino dal 1455, e come il Duca divisasse di adattare ad appartamento ducale, la parte del quadrato sforzesco verso nord, che venne più tardi effettivamente occupata dal figlio Galeazzo Maria.
Infatti, ai 14 di giugno del 1455, l’ingegnere ducale Jacopo da Cortona scriveva a Francesco Sforza: « .... in questo tempo se caverà el fondamento de pilastri che vano per fare la volta della Torre del Cantone, dove sarà la Camera de la Ill.a S.a V.a ». Per comprendere questo passo di lettera, occorre ricordare come le due torri quadrate conterminanti il lato nord-ovest del quadrato sforzesco siano nella loro parte inferiore, dell’epoca viscontea, giacché nel sotterraneo si notano ancora le traccie delle grandi vòlte a crociera, che un dì sostenevano il pavimento delle sale terrene, quella del « Tesoro » nella torre ovest, e quella delle « Asse » nella torre nord. Le due volte, forse sfondate in occasione delle demolizioni compiute dopo la morte di Filippo Maria Visconti, si veggono oggi sostituite da vòlte a botte sostenute mediante quattro pilastri: per cui il passo della lettera di Jacopo da Cortona si riferisce indubbiamente al rifacimento della vòlta sotto la sala delle « Asse », la quale sarebbe stata pertanto da Francesco Sforza designata a propria dimora. E che si tratti della vòlta nella torre nord, anziché di quella simmetrica nella torre ovest, che era a quell’epoca la « Castellana », risulta in modo non dubbio dall’altro passo di lettera di Filippo Scozioli, altro ingegnere ducale addetto ai lavori di ricostruzione del Castello, in cui si dice: « lunedì prossimo che viene se comenzerà a cavare el fondamento de li pilastri che vano nela Camera de la Torre, facendoli nela forma de quella Torre dove sta il Signor Foschino »: il quale Foschino che a quell’epoca aveva la custodia del Castello, abitava appunto nella torre quadrata della Rocchetta, perciò chiamata Castellana ([1]).

* * *

La Ponticella di cui ci siamo proposti di ricostituire le vicende, si trova precisamente impostata all’angolo formato dalla sporgenza della torre quadrata nord: per cui non ci sembra dubbio che al proposito di valicare in quel punto il fossato con un ponte, alluda il seguente passo di lettera del 18 giugno 1455, dello stesso Jacopo da Cortona: « Venerdì, parte de li magistri et lavoranti comenzerano a fondare li pilastri de la Torre del Cantone, per farli suxo la vòlta: et l’altra parte andarano drecto a quela strata coperta mancava de fare per mezo al ponte de dreto, si che di passo in passo ne avixo la Ex.a V.a » ([2]). Dalle quali parole si può desumere che si intendeva di completare il muro di controscarpa contenente la strada di ronda, o strada coperta, al quale muro doveva impostarsi l’altra spalla della ponticella.
Francesco Sforza si interessava a quei lavori, che non tralasciava mai di sollecitare, incolpando talvolta di negligenza gli architetti: e tanto si interessava alla costruzione della parte che si riservava di abitare, da scrivere al Cernuscolo, altro degli ingegneri ducali, in data 28 giugno 1455: « Volimo che tu faci andare dreto alla vòlta dela Torre, et non alzar el muro della Torre per fino tanto che nuy non siamo lì, perchè vorrimo ordinare ad nostro modo come debbono stare quelle salvarobbe ». Tale ordine era in relazione alla proposta che dallo stesso ingegnere ducale era stata fatta due giorni prima di « seguire a lavorare suso el muro de longo, perchè se poterà ligare insema con la dieta torre, et se decernirà li usci de la dieta sala et guardacamera ».

* * *

NELLA primitiva sua forma, la ponticella cui Lodovico il Moro ebbe ad assegnare particolare importanza, valendosi dell’opera di un eminente artista, fu quindi una semplice comunicazione fra i locali terreni della Corte ducale e la Ghirlanda: comunicazione scoperta, costituita da un ponte a due grandi arcate in laterizio, conducente ad una porta situata in prossimità della torre quadrata. L’unica difesa era costituita dal fatto che la parte del pavimento del ponte, vicina all’ingresso, era formata da un tavolato mobile - detto piancheta, dal francese planchette - imperniato alla soglia della porta, e che quando veniva alzato, formava la chiusura lasciando al tempo stesso nel pavimento del ponte un vano, che impediva di avvicinarsi alla porta. Oggi ancora si può, nell’intradosso dell’arcata attigua alla Corte ducale, rilevare tale disposizione di difesa, mentre per la manovra della piancheta, non essendovi alcuna traccia della tipica disposizione del bolzone del ponte levatojo, si deve ritenere fosse stata adottata la disposizione di una semplice catena, che si avvolgeva intorno ad un rullo in legno imperniato sopra la porta, conforme all’esempio che si potè rilevare in corrispondenza dell’altra comunicazione fra le sale terrene della Corte ducale e la Piazza d’armi.
Tale dovette essere la disposizione della ponticella nei primi anni del dominio di Galeazzo Maria Sforza, allorquando questi, succedendo al padre, affrettò la sistemazione interna del Castello per trovarvi una dimora ben più sicura della vecchia residenza dell’Arengo, di fianco al Duomo. Il giovane Duca, che nel 1468 si era insediato nel Castello assieme alla sposa Bona di Savoja, dovette valersi frequentemente della ponticella che gli concedeva di uscire dalle sale ducali e recarsi liberamente nel « Barco », sia per diporto, che per esercizi di caccia. È da quella ponticella che Galeazzo Maria, con Bona ed un numeroso sèguito, mosse nel 1471 per quel viaggio a Firenze che rimase celebre negli annali per lo sfarzo spiegato dalla Corte sforzesca, di cui gli stessi fiorentini rimasero meravigliati. Ed è in relazione ai preparativi per quella spedizione che Galeazzo, nel maggio 1471, scriveva a Bartolomeo da Cremona - il fidato architetto, commissario generale dei lavori di difesa del Ducato -: « Volimo che subito faci fare una sbarra bella et forte al ponte dove se vene fora da le stantie nostre de quello nostro Castello de Porta Zobia, fino al Orto del Castellano, azo per transcorrere de cavali nissuno havesse ad periculare nel fosso, facendo per modo che alla venuta nostra la troviamo facta. » (Arch. di Stato, Milano. Reg. 115, fol. 302 v°).
Così la ponticella andava assumendo sempre maggiore importanza: ed è interessante il rilevare, da quel passo di lettera, come servisse anche per l’uscita dei cavalieri dalle sale ducali, il che porta a concludere che a quel tempo si trovasse cosa naturale l’ammettere i cavalli nello stesso appartamento del Duca. A tale riguardo, va ricordato come l’infelice primogenito di Galeazzo Maria Sforza, moribondo nel Castello di Pavia vent’anni più tardi, abbia voluto negli ultimi momenti di vita rivedere i cavalli suoi favoriti, che gli furono perciò condotti nella camera da letto, al piano superiore.
Le occasioni di approfittare della ponticella si resero sempre più frequenti: nel gennaio 1473 il Duca ordinava che « nela Girlanda di questo nostro Castello, dal canto di S. Maria de li Carmeni, fino a l’altra torre, se facia uno murello per fargli un orto per nostro piacere »: ed era la ponticella che metteva in comunicazione l’appartamento ducale con quel recinto, concedendo così ai membri della famiglia ducale di prendere un poco di aria libera, senza trovarsi a contatto con altre persone dimoranti nel Castello. Fu probabilmente in quel recinto che dovettero trovare qualche svago i figli di Galeazzo Maria Sforza, compresa quella Caterina Sforza, figlia naturale del Duca, che Bona di Savoja non disdegnò di allevare, e che l’ambiente del Castello di Milano preparò e fortificò a quelle avversità, che dovevano farne l’unica eroina nella ingloriosa catastrofe degli Sforza.
Col dominio di Lodovico il Moro, dopo la infelice reggenza di Bona di Savoja, la ponticella della Corte ducale riprende nuova importanza: non sarebbe anzi da escludere che Lodovico il Moro, nel settembre del 1479 - pochi mesi dopo di esser stato allontanato da Milano assieme ai fratelli, per l’accusa di intrighi a danno del nipote Gian Galeazzo - sia riuscito a penetrare segretamente nel Castello a mezzo della ponticella, che poco si prestava alla sorveglianza di cui Bona dovette circondarsi per difendere la propria autorità. Lodovico potè quindi avvicinare Bona, alla quale seppe imporsi, malgrado le opposizioni del segretario Cicco Simonetta, che non tardò a scontare col capo la difesa dei diritti del giovinetto Gian Galeazzo.

* * *

TOSTO che vide nel nome suo assicurato il Ducato, colla esclusione del nipote, Lodovico diede libero sfogo alla sua passione per il fasto: la Corte ducale divenne il convegno di artisti e letterati, e poiché la difesa del ponte levatojo, all’imbocco della ponticella, doveva presentarsi ormai di scarsa efficacia, tale ad ogni modo da non compensare l’incomodo procurato al transito dei numerosi personaggi che accedevano alla Corte ducale, così venne deciso di trasformare l’accesso in un porticato, fiancheggiato da nuovi locali, di piccole dimensioni, ma che dovettero riuscire molto opportuni per la famiglia ducale, che si trovava a disporre di un numero limitato di ambienti, eccezionalmente vasti. Così la ponticella divenne sempre più un elemento integrante degli appartamenti ducali, la comunicazione abituale della famiglia sforzesca col Barco, e colla chiesa di S. Ambrogio ad Nemus, confinante con questo, la cui pala d’altare coi ritratti di Lodovico, di Beatrice e dei figli, oggi alla Pinacoteca di Milano, attesta la particolare devozione della famiglia ducale per quella piccola chiesa.
L’aggiunta dei camerini non potè essere compiuta che col partito di aumentare la larghezza originaria delle arcate; e tale lavoro venne compiuto nel 1495. Infatti, l’ingegnere ducale Ambrogio Ferrari nel marzo avvisava il Duca come « le gronde de li camerini di dreto de la Camera de la Torre se va dreto depingendo »: e che si tratti dei locali della ponticella non è a dubitare, per il fatto che l’ingegnere aggiunge: « la parieta de foravia farò depingere a quadronzini, che farano bel vedere: vedarò se a Milano se atrovano le collone per voltare el transito de la piancheta » ; il che conferma appunto come si trattasse a quell’epoca di coprire a vòlta il transito, mentre della decorazione a quadronzini si ebbe ancora a rintracciare qualche traccia sulla fronte verso il Barco, quella che il Ferrari chiamava parieta de foravia.
Qualche settimana più tardi, era lo stesso Duca che si interessava ai lavori della ponticella, scrivendo da Vigevano all’ingegnere Ferrari affinchè, per l’imminente suo ritorno a Milano, i camerini fossero ultimati, e « l’uscio per il quale se anderà da la camera de la torre in dicti camerini sii facto et fornito nel modo hara ad stare »; il che indica il compimento dei lavori, ad esclusione di quelli delle decorazioni interne, alle quali si attendeva ancora nel seguente anno, come risulta dalla circostanza che essendosi assentato, nel giugno 1496, il pittore incaricato di quella decorazione, il Duca ebbe a raccomandarsi all’arcivescovo di Milano affinchè gli procurasse l’opera del pittore Pietro Perugino ([3]). D’altra parte, un frammento di lettera di Leonardo da Vinci, conservato nel Codice Atlantico, accenna alla « commessione del dipigniere i camerini » il che porterebbe a credere che fosse riuscito vano il desiderio di avere il concorso del Perugino ([4]). Sgraziatamente, anche dell’opera di Leonardo non fu possibile di ritrovare traccia sulle vòlte e sulle pareti dei camerini.

* * *

L’opera del restauro contribuì invece, ben più che le scarse memorie del tempo, ad identificare l’architetto che attese alla sistemazione definitiva della ponticella. Che in questa si dovesse ravvisare un lavoro di Bramante da Urbino era da ammettere in base ad un passo dell’architetto Cesare Cesariano, nel suo Comento a Vitruvio, stampato in Como nel 1520, là dove, a proposito delle comunicazioni militari, dice col solito suo bizzarro stile, che erano « come le ponticelle che sono in la via coperta di la nostra arce de Jove in Milano, et maxime quella che fece fare Bramante Urbinate, mio præceptore, quale si traiice da lo mœniano muro de la propria arce ultra le aquose fosse ad lo cripto itinere »; notizia confermata a sua volta dall’Anonimo Morelliano al principio del XVI secolo, là dove, parlando degli edifici di Milano e del Castel de Jove, aggiunge: « ivi la strada subterranea dalle mure della Rocca insino alla contrascarpa e più oltra, sotto al fosso, fu fatta fare dal signor Lodovico (il Moro) a Bramante « architetto ».
L’attestazione del Cesariano, che si professava allievo dell’Urbinate, ebbe ad indurre, fin dal secolo XVIII, il De Pagave a ricercare nella mole del Castello l’opera di Bramante, ed il Barone H. de Geymuller non esitò a riconoscerla nella ponticella. Dal canto mio, nell’occasione dei rilievi del Castello compiuti nel 1884, non mi era sembrato di ravvisare nella ponticella un’opera d’arte, per la quale risultasse necessario l’intervento di Bramante; ciò in considerazione del fatto che l’elemento architettonico, nel quale sarebbe stato possibile di ravvisare uno stile personale, vale a dire le colonne del porticato, risultava dai documenti come un’opera di semplice ripiego, affidata all’ingegnere Ambrogio Ferrario, commissario generale dei lavori e delle munizioni del Castello. Infatti, secondo la già citata lettera del marzo 1495, il Ferrari si proponeva di trovare in Milano le colonne adatte a formare il portichetto.
Però, allorquando dieci anni più tardi, sgombrato il Castello dall’Autorità militare, fu possibile di avviare le indagini anche nella struttura della ponticella, venne in luce un particolare che ricondusse il pensiero a Bramante.
Infatti, scrostando la parete di fondo del loggiato, si trovarono le traccie degli stipiti di tre porte architravate, in laterizio, la cui profilatura in sporgenza dal muro era stata completamente abrasa; la parte però che risvoltava lungo il fianco dello stipite, a guisa di zoccolo, rimase per fortuna preservata, essendo stati murati i vani di porta. Ora, questa stessa disposizione del risvolto delle profilature, per modo da formare zoccolo, e più ancora il carattere della profilatura, parvero indizi sufficienti per riconoscervi l’opera di un artista che non doveva essere fra coloro che nel Castello si attardavano nelle tradizioni medioevali, e tanto meno poteva trattarsi dell’ingegnere militare Ambrogio Ferrario. E se ingiustificato sarebbe stato l’evocare il nome di Bramante in base solo a quelle scarse traccie architettoniche, la citata testimonianza del Cesariano appariva invece una sanzione non dubbia dell’intervento di questo artista.
La conferma di tale attribuzione si ebbe anche da altre traccie ritrovate nell’occasione dei restauri compiuti di recente, come si dirà più innanzi.

* * *

Colla caduta di Lodovico il Moro, il Castello cessò dall’essere la fastosa residenza ducale: durante la dominazione francese, le stesse opere di difesa, aggiunte per ordine di Luigi XII ai lati della fronte principale del Castello - e delle quali rimangono ancora le traccie - mirarono anzitutto a contrastare un possibile attacco dalla parte della città, giacchè era troppo facile di prevedere che il possesso del Castello potesse riuscire affatto indipendente, anzi in contrasto col possesso materiale della città: come non tardò ad essere comprovato dalle varie circostanze nelle quali il Castello resistette a lungo, anche più di un anno, agli assedi ed attacchi di truppe che già dominavano Milano. La ponticella dovette perciò perdere il suo carattere di comunicazione fra la Corte ducale e le difese esteriori, ed è anzi a meravigliare che non ne sia stata ritenuta conveniente la demolizione. Certo non dovette la ponticella tardare a subire manomissioni, col progressivo sviluppo dato alle difese del Castello, tosto che Milano cadde definitivamente in dominio degli Spagnoli, e si pose mano al grande recinto dei baluardi a forma di stella, la cui costruzione si protrasse sino al secolo XVII. Si conserva, per fortuna, una descrizione particolareggiata, data alle stampe a quell’epoca.
Infatti a pag. 94 della Relazione generale, stesa dagli ingegneri Camerali Fr. Richino e Pessina nell’anno 1661, viene così descritto lo stato in cui si trovava la ponticella:
« Segue l’andito, ouer cottitore, che traversa sopra la fossa interiore, dove è la Roggia (canale) del molino, il qual corritore và verso il Quartiero del Carminetto: tiene la sua porta per entrare con anta fodrata, et cornisata, n. 6 ase, con suoi cancani, cadenazzo tondo et occhi, la qual anta è vecchia et rotta, la porta contraposta in grossezza del muro, num. 5 cancani et un antiporto con suo telaro, cornice per finimento con due ante et fodrine dal mezzo in giù, et dal mezzo in su vi era la gelosia o indiata, che vi manca, cadenazzolo quadro con laniera et parpaioni, il qual va rapezzato.
« Il detto corritore in volta con num. 9 chiave, suolo parte di pichè in piano et parte in coltello che può servire.
« Fenestre num. 8 (sic) verso la detta fossa, con due ante per caduna in buon ordine.
« Porta in testa a detto andito, che và a detto Carminetto, con antiporto con due ante cornisate, ase, cancani, cadenazzo tondo, suoi occhi, serratura, et chiave con manetta.
« In detto andito vi sono quattro antiporti con suoi telari nel muro, con due ante suoi corpini dal mezzo in giù, et dal mezzo in , su con suoi telari d’indiata vecchi.
« Segue la prima camera di fianco di detto corritore, la qual è in volta a lunette con suolo de pieloni che può servire, et una chiave di ferro nella volta.
« Due porte con due ante per parte cornisate, due finestre con sue ante cornisate et snodate, camino incassato nel muro con sue ante et traversi.
« Segue la camera con volta et suolo come sopra etc.
»            »                  »             »      » etc. » ([5]).
  
Da tale descrizione risulta come a quell’epoca la ponticella, ed i relativi camerini, non conservassero alcuna particolarità decorativa: già erano scomparse anche le traccie delle decorazioni che Lodovico il Moro vi aveva fatto dipingere da Leonardo. Va notata in quella descrizione - per quanto minuziosa come comportava il suo carattere di inventario - la svista di indicare otto finestre verso il fossato, mentre in realtà sono quattro, non essendo d’altra parte ammissibile che in parte siano state otturate dopo l’epoca di quella descrizione, il che avrebbe dovuto risultare nell’occasione dei recenti restauri.
Fu nel 1893 che si poterono avviare le prime indagini alla ponticella, tosto che il Castello venne consegnato all’Amministrazione municipale: lo scrostamento delle pareti mise tosto in evidenza le traccie delle porte originarie, che erano state otturate, e colla demolizione della muratura di riempimento si trovarono, come già si disse, le profilature originarie in terracotta, che non erano state abrase, per cui si potè ricostituire la forma e la decorazione delle porte.
Più interessante si presentava la ricerca delle decorazioni interne. Il dottor Müller Walde di Berlino, che a quell’epoca si trovava in Milano per raccogliere notizie su Leonardo da Vinci, dopo di avere rintracciati i resti delle decorazioni pittoriche nella « Saletta negra » e nella Sala delle « Asse », estese le indagini ai Camerini, ma dovette ben presto persuadersi come nessuna traccia pittorica rimanesse sotto l’imbianco delle pareti e delle vòlte; sarebbe stato quasi da porre in dubbio che i documenti accennanti a decorazioni compiute da Leonardo nei Camerini si riferissero a quei locali della ponticella, se la indagine del dott. Müller Walde non avesse esaurito ogni espediente per risolvere la questione: infatti, riconosciuto come l’intonaco delle pareti e delle vòlte non fosse quello originario, il dott. Müller Walde pensò che questo dovesse essere stato distrutto, e che le macerie avessero potuto trovarsi utilizzate nell’adattamento dei locali: egli quindi fece scomporre il vecchio pavimento, e levare tutti i calcinacci che avevano servito a formarne il sottostrato, arrivando così a rintracciare dei pezzi di intonaco recanti varie colorazioni ad affresco, ed anche qualche piccola traccia di ornamentazione. Non vi era alcun dubbio: erano quelli i frammenti delle pitture che avevano decorato i Camerini: pitture alle quali Leonardo aveva, come per la Sala delle « Asse », contribuito coll’opera sua!


COME appare dalle fotografie della ponticella anteriori all’abbandono del Castello effettuato dall’autorità militare, una buona parte del fossato originario recingente il quadrato sforzesco era stata interrata, per modo che tutta l’arcata, impostata al muro di controscarpa, si trovava ostruita: alla quale circostanza devesi ascrivere la grave manomissione nel tratto di portico vicino alla testata della ponticella, colla interruzione dell’architrave in laterizio e colla sostituzione di due dei capitelli originali con altri di rozzo lavoro. Anche la cornice in terracotta era scomparsa, non lasciando altro dato che la ricorrenza dei laterizi che la costituivano: per cui, mancando dati diretti, bisognò ricorrere ad esempi coevi - che a S. Maria delle Grazie non mancarono - per ripristinare la cornice. In tale circostanza si poterono compiere le indagini nella tratta di intonaco corrispondente al fregio, e sotto l’imbianco apparvero ancora le traccie della originaria decorazione, la quale nella fronte verso nord-ovest apparve più ricca, quale si richiedeva dalla disposizione della sottostante parete a quadronzini, o piccole bugne, cui faceva cenno il Ferrari nell’anno 1495; più semplice invece risultò nella fronte verso nord-est, limitata a riquadri in corrispondenza delle colonnine.
Il fregio più ricco contribuì a rafforzare l’intervento di Bramante nei lavori della ponticella. Trattasi infatti di un motivo ornamentale tracciato a grandi linee, ben lontano da quella ricercatezza di esecuzione che caratterizza le ornamentazioni di quell’epoca in Milano: mentre riesce evidente il punto di contatto fra quel fregio e le ornamentazioni architettoniche nei frammenti della decorazione nella « Sala dei Maestri d’Arme » da Bramante dipinti nella Casa dei Panigarola in Milano, ora conservati nella Pinacoteca di Brera.
L’opera di restauro potè quindi compiersi sulla scorta di elementi sicuri; le decorazioni in laterizio vennero eseguite dalla Ditta Repellini di Cremona, ed il restauro delle decorazioni in pietra, dalla Ditta Ferradini di Milano: mentre al ripristino della decorazione pittorica attese il pittore Ernesto Rusca, lo stesso ch’ebbe lo scorso anno a compiere il restauro della vòlta nella Sala delle « Asse » e in questi giorni sta ultimando la decorazione nella Sala del Consiglio Ducale, nella Rocchetta.
Di un solo elemento della ponticella mancava in modo irrimediabile qualsiasi indizio, la porta di accesso al portico: la quale, come appare nelle vedute anteriori al restauro, era stata sformata in una arcata, dal contorno superiore elittico. Si dovette quindi ricorrere ad un esempio di porta della stessa epoca, e parve più indicato il riprodurre la porta che nel Lazzaretto, ora distrutto, metteva in comunicazione l’andito di accesso col primo locale di sinistra, trattandosi di costruzione in laterizio innalzata durante il periodo della tutela esercitata da Lodovico il Moro sul giovinetto nipote Gian Galeazzo, sette anni prima della riforma della ponticella.
Il partito di decorare l’intonaco delle pareti e delle vòlte mediante graffiti, ch’ebbe particolare voga sul finire del secolo XV e sul principio del secolo XVI, si giovò delle vedute prospettiche per interessare la parete di fondo dei porticati: era quindi naturale che, a decorare la ponticella di Lodovico il Moro, si avesse ad approfittare di quel caratteristico esempio, tanto più che le vedute che ancora ci restano nei graffiti di quell’epoca, rivelano una particolare preferenza per il Castello sforzesco. Un frammento di veduta di questo Castello era stato da me ritrovato, per caso singolare, or son quindici anni, nel suburbio di Milano sotto il porticato che congiungeva la Cascina Pozzobonella, ora distrutta, colla cappelletta che ancora si conserva; dalla quale veduta trassero origine gli studi per la ricostruzione della Torre principale d’ingresso, rovinata nel 1521 dallo scoppio delle polveri, e che oggi si sta costruendo in memoria di Umberto I. Un’altra veduta del Castello trovasi sulla parete di fondo di un porticato che era addossato al braccio di croce di mezzodì della Abbazia di Chiaravalle milanese. Assicurare al Castello sforzesco il ricordo di quelle due rare rappresentazioni grafiche - anteriori al 1521, giacché vi è raffigurata ancora la torre centrale - parve quindi particolarmente opportuno; e poiché cinque erano gli spazi che si prestavano ad accogliere composizioni architettoniche, così si ebbe campo di associare alla riproduzione di quei due graffiti, qualche altro vecchio ricordo grafico del Castello. La veduta che più di ogni altra si ricollega a quelle della Cascina Pozzobonella e di Chiaravalle, e venne perciò riprodotta, si trova eseguita ad intarsio in uno degli sfondi degli stalli, nel coro della Cattedrale di Cremona, nel quale intarsio si vede la torre principale d’ingresso al Castello, colla campana che serviva a battere le ore, e giustificò anche il nome di Torre dell’orologio: quel coro venne eseguito dal 1480 al 1490, da Giovanni Maria Platina expertus in arte tarxiæ et intaliator, come è confermato dalla iscrizione esageratamente laudativa, che si legge sullo stesso coro, recante anche la data.
A questi tre ricordi grafici, genuini nella stessa loro semplicità, si vollero aggiungere due esempi di vedute del Castello di Milano del secolo XVI, le quali concorrono a dare una idea della grandiosità della costruzione non solo, ma anche della rinomanza di cui la medesima godeva a quell’epoca, per cui ebbe anche a provocare delle interpretazioni fantastiche. Una di tali vedute si trova incisa in rame nell’opera « Civitates orbis terrarum - Colonia MDLXXII », e la rappresentazione è abbastanza fedele: l’altra, piuttosto fantastica, si vede in una edizione di Vitruvio edita a Basilea nel 1616, riprodotta però da una pubblicazione di data anteriore, che non mi è stato possibile ancora di identificare dal semplice foglio staccato, recante la xilografia.
Così si poterono utilizzare i vari campi della parete di fondo del portico, interrotta dalle porte di accesso ai camerini, disponendovi una serie di rappresentazioni interessanti, sia come documenti in appoggio dei restauri compiuti, od ancora in corso, sia come prove della rinomanza di cui il Castello godeva a quell’epoca.

* * *

A ricordo del restauro compiuto, venne sopra una lapide in marmo di Candoglia, murata nel mezzo della testata, incisa la seguente iscrizione:

†lvdovicvs maria sfortia et beatrix estēn mlī dvces vt familiare ad barchvm iter commodivs esset ponticvlvm hvnc aptavere. a d nonagesimo qvinto svpra millesivm et quadrigentesimvm opvs bramantis vebinatis arch jamdiv dilabena aldys noseda in memoriam aloysii francisciet dorothæ noerbelle basileensis parentum optimotum restitvit anno mcmii.



[1] Foschino degli Attendoli da Cotignola, era il castellano che per il primo ebbe la custodia del Castello ricostrutto da Francesco Sforza: questi aveva dapprima fissato l’insediamento del castellano ai primi di dicembre 1451, ma poi avevagli ordinato di rinviare l’ingresso « fina non te scriveremo el dì, perchè la luna sta adesso in declinando, et perfino la luna non crescha non volimi intri » (Lettera da Lodi, 4 dicembre 1451 - Vedasi Il Castello di Milano, ediz. 1894, pag.99). Ma le pratiche per fissare il giorno in cui il Foschino avesse a prender possesso del Castello, non si limitarono a tener conto della luna: due astrologhi ducali, Pietro da Busto e Antonio da Bernarezzo, dovevano « vedere et calculare uno bono di et hora, ad ciò che possi intrare in lo dicto Castello, et se li dicti domanderano lo dì della nostra nativitate potray domandarlo ad Ant.° de Minuti, Regulatore de le nostre intrate, che te lo darà perchè luy lha per scripto ». Come si vede, il Duca non ricordava nemmeno quale fosse il suo giorno natalizio e doveva quindi rimettersi ad Antonio Minuti, il noto biografo di Attendolo, che col Foschino aveva seguito Francesco Sforza nelle sue vicende militari. Il Foschino tenne la custodia del Castello sino alla sua morte, avvenuta ai 3 di novembre del 1461.
[2] Le lettere citate si trovano pubblicate alle pag. 176-178 del Castello di Milano, edizione Hoepli, 1894.
[3] Il Duca scriveva all’Arcivescovo di Milano: « Mons.e Il pictore quale pinzeva li Camerini nostri ha facto certo scandalo per el quale se è absentato, et havendo noi adesso a pensare ad altro pinctore per fornire l’opera, e intendendo che Magistro Pietro Perugino si trova li, ci è parso darvi cura de parlarli et intendere da luy sei vole venire ad servirne ... Questa lettera venne dal marchese Gerolamo d’Adda riprodotta nel libro « Indagini sulla libreria Visconteo-Sforzesca di Pavia » (Milano, 1875): ma non può esser dubbio che si riferisca ai lavori nel Castello di Milano.
[4]  L’incarico dato successivamente a Leonardo da Vinci risulta dal frammento di lettera nel Cod. Atlant., fol. 328 v.°. «E vostra Signoria si richorda della commissione del dipignere i camerini, e la premura portavo a V.a S.a ...». Allo stesso incarico possono collegarsi alcuni appunti relativi a misure ed a giornate di lavoro per dipingere pareti e vòlte, contenuti nel Codice H (vedi Richter, vol. II, n.i 1513-17).
[5] Relatione generale della visita et consegna de la Fabrica del Castello di Milano, a stampa: anno 1661.

  






































lunedì 19 novembre 2018

1983 - Kenneth CLARK, Studi per il Cenacolo


Introduzione
Kenneth Clark

Si è tutti d’accordo nel considerare il Cenacolo come il culmine della carriera pittorica di Leonardo da Vinci. Nell’accostarsi a questa fase della sua attività, ogni studioso di Leonardo è indotto ad esitare, impressionato dalla quantità di scritti che questo capolavoro ha provocato, nonché dalla indiscutibile autorità del capolavoro stesso. E quello che stordisce quasi quanto la sua autorità è il suo carattere di familiarità. Come si può esercitare una analisi critica di un’opera che tutti conosciamo fin dall’infanzia? Ci si è abituati a vedere nel Cenacolo di Leonardo più un prodotto della natura che opera umana, e non si pensa di poterne discutere la forma come non si discute quella delle isole britanniche su una carta geografica. Di fronte a questa pittura il problema non è tanto quello di dover analizzare le proprie emozioni quanto di averne. Ma ci sono alternative a un accostamento di ordine puramente estetico. Può essere istruttivo immaginare il tempo in cui il Cenacolo non esisteva ancora, quando Leonardo si trovava a confronto con una parete in bianco e con un committente che sapeva il fatto suo.
Il Cenacolo fu dipinto per ordine di Ludovico il Moro per il refettorio del convento dei frati Domenicani di Santa Maria delle Grazie a Milano. Fu probabilmente iniziato nel 1495, ma gli archivi del convento sono andati distrutti e la nostra scarsa documentazione si riduce a indicare che nel 1497 il dipinto era quasi terminato. Il 29 giugno di quell’anno il Duca inviava un promemoria al suo segretario Marchesino Stanga, chiedendogli di ordinare a Leonardo II Fiorentino di finire l’opera incominciata al refettorio delle Grazie per potersi poi dedicare alla parete opposta nello stesso refettorio. Questo presuppone che Leonardo fosse già molto avanti col Cenacolo; e infatti il Pacioli nella lettera dedicatoria della sua Divina Proportione in data 9 febbraio 1498, ne parla come di opera compiuta. In mancanza di documenti, si hanno però diversi resoconti sul progresso dell’opera da parte di testimoni oculari. Fra questi è quello ben noto del novellista Matteo Bandello, che val la pena riportare di nuovo, non foss’altro per il modo vivace col quale ci rappresenta Leonardo all’opera.
“Soleva anco spesso, et io più volte l’ho veduto e considerato, andare la mattina a buon’hora a montar su ’l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva (dico) dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sè, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove”.
Questo modo saltuario di procedere implica che il dipinto non poteva essere un affresco; e infatti sappiamo che il metodo impiegato da Leonardo consisteva di una mistura di olio e lacche. A causa dell’umidità della parete la pittura cominciò presto a deteriorarsi. Già nel 1517 Antonio De Beatis ne parla come di un’opera eccellente che però cominciava a deperire a causa dell’umidità o di qualche altra disgrazia. E Vasari, che la vide nel maggio 1566, afferma essere in tali condizioni “che non si scorge più se non una macchia abbagliata”. Per Scannelli che scriveva nel 1642, non era rimasto dell’originale che alcune tracce delle figure, e anche quelle così confuse che solo a fatica se ne poteva ricavare un’indicazione del soggetto. Di fronte a queste testimonianze è difficile trattenersi dal concludere che quanto si vede ora sulla parete delle Grazie è nella maggior parte l’opera di restauratori. Si sa che il dipinto fu restaurato quattro volte dal principio del Settecento, e probabilmente era già stato restaurato diverse volte anche prima di allora. Nel 1908 fu pulito sistematicamente da Cavenaghi, che si dimostrò molto ottimista nei riguardi delle condizioni della pittura, affermando che gli interventi più seri si limitavano alla mano sinistra di Cristo. Aggiungeva inoltre che Leonardo aveva di gran lunga precorso i tempi, per via della tecnica impiegata che non appare infatti prima della fine del Cinquecento. La reputazione professionale del Cavenaghi era tale che le sue affermazioni furono generalmente accettate, ma in questo caso tutto prova che si sbagliasse. Non si può credere che un dipinto ricordato diverse volte nel Cinquecento e Seicento come un relitto senza più speranza, potesse sopravvivere fino ai giorni nostri più o meno intatto, e la prova irrefutabile dei restauri è procurata dal confronto delle teste degli Apostoli nella pittura con quelle nelle copie più antiche. Forse gli esempi più efficaci sono quelli che ci vengono da due serie indipendenti di disegni di teste, a Weimar e Strasburgo, eseguiti direttamente dall’originale da allievi di Leonardo senza quelle variazioni che un copista introduce, come contributo personale, solo nel quadro finito. Ora questi disegni sono coerenti nell’allontanarsi da certi particolari del dipinto quale ora ci si presenta, e in ogni caso il disegno è sempre superiore sia nell’espressione che nella impostazione. Si prendano ad esempio i quattro Apostoli alla destra di Cristo. Nell’originale Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle figure che disturbano di più nell’intera composizione; ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profil perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a Windsor. Il restauratore l’ha rigirato, collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l’effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il restauratore l’ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine.
Val la pena insistere su questi cambiamenti perché essi dimostrano come l’effetto drammatico del Cenacolo può solo dipendere, ora, esclusivamente dalla disposizione delle figure e dal loro movimento in generale, e non dall’espressione delle singole teste. Quegli scrittori che si sono lamentati del loro carattere sforzato o monotono, si sono affaticati invano a seguire un’ombra. Non c’è dubbio che nei particolari la pittura è quasi interamente il risultato degli interventi di una serie di restauratori, e le smorfie esagerate, che sembrano arieggiare i tipi del Giudizio Universale di Michelangelo, suggeriscono che il tutto ebbe inizio ad opera di un debole manierista del Cinquecento. Dopo un restauro a fondo ad opera di Michelangelo Bellotti nel 1729, si ebbe, nel 1770, il malaugurato intervento di Pietro Mazza che la ridipinse quasi tutta. Le parti che hanno sofferto di meno sono quelle delle lunette al di sopra del Cenacolo, semplicemente perché furono scoperte solo nel secolo scorso ad opera del restauratore Stefano Barezzi; e in un punto della lunetta centrale si intravede ancora il disegno a carboncino di Leonardo.
Eppure, nonostante il deprimente ricorrere di questi fatti, qualcosa del fascino dell’originale è rimasto a conferire alla tragica rovina a Santa Maria delle Grazie una qualità che manca alla buia levigatezza delle copie degli allievi. La luminosità, il senso atmosferico che distingue l’opera autentica di Leonardo da quella dei suoi allievi, deve avere caratterizzato anche il Cenacolo. E la pittura, forse proprio per via del suo carattere indistinto, ha mantenuto una certa qualità atmosferica. Nell’osservarle, queste macchie spettrali sulla parete, “evanescenti come l’ombre di foglie autunnali”, acquistano poco a poco una forza su di noi che non è dovuta solo al sentimento della suggestione. Attraverso le nebbie dei ritocchi e del deperimento, si può ancora afferrare il senso delle forme sovraumane dell’originale; e nel percepire il dramma dell’avvicendarsi reciproco delle loro azioni, ci si rende conto delle qualità che concorrono a fare del Cenacolo la chiave di volta dell’arte europea. La potenza inventiva di Leonardo si riconosce col semplice mezzo di osservare come il tema fosse stato svolto da chi lo precedette. I Cenacoli di Ghirlandaio e Perugino, dipinti solo un anno o due prima, mostrano fondamentalmente il tipo di composizione che per quasi mille anni aveva soddisfatto i fedeli. Undici Apostoli siedono allineati dietro un tavolo, quieti nella posa e ciascuno separato dall’altro. Alle volte parlano fra di loro, o bevono il loro vino. Nostro Signore siede nel mezzo, con Giovanni chinatogli goffamente in grembo. Isolato, all’altro lato del tavolo, è Giuda. Si è potuto vedere come l’allontanarsi da una iconografia tradizionale nella giovanile Adorazione dei Magi comportasse un cambiamento nell’interpretazione globale del dramma. Lo stesso si può dire del Cenacolo. I vecchi pittori avevano rappresentato il momento della Comunione, un momento di calma durante il quale ciascun Apostolo poteva desiderare di restar solo coi propri pensieri. Leonardo, come è ben noto, scelse il momento in cui Gesù dice: “Uno di voi mi tradirà”. All’improvviso questi individui in fila compunta sono uniti insieme dall’emozione.
Unità e dramma, queste sono le qualità essenziali che distinguono il Cenacolo di Leonardo da ogni precedente rappresentazione dello stesso soggetto. Val la pena analizzare i mezzi coi quali queste qualità sono conseguite. A cominciare dall’ambiente. Si nota che non vi è nulla in esso che possa distrarre l’occhio dal tema principale. “Non fare mai nelle istorie”, dice Leonardo nel Trattato della Pittura, “tanti ornamenti alle tue figure e altri corpi, che impedischino la forma e l’attitudine di tal figure e l’essentia de predetti altri corpi” (Lu 182, McM 275). Invece della fantasiosa, ornata architettura che appare nelle precedenti interpretazioni del soggetto, la scena del Cenacolo di Leonardo è così nuda e severa che molti copisti si sentirono indotti a inventare un ambiente più variato. Non vi sono motivi fortuiti - come uccelli che volano o servi che chiacchierano. Il punto focale del sistema prospettico corrisponde alla figura principale. Ogni forma, ogni gesto è concentrato. Il problema della concentrazione drammatica e formale, sempre difficile, è quasi insolubile quando il soggetto consiste di tredici persone sedute a tavola. I pittori precedenti non tentarono nemmeno di subordinare le loro figure a un singolo motivo, ma si affidarono a una disposizione puramente decorativa. I pittori dell’età del Barocco, per i quali fu essenziale unificare la composizione, seppero risolvere il problema con ingegnosi espedienti di luci e scorci, ma per questo furono costretti a sacrificare la rapidità e chiarezza con le quali esporre il tema, per cui la scena, come nel caso di Tintoretto a San Polo, doveva trasformarsi in una manifestazione di violenza, trascinando gli Apostoli in un unico vortice con servi e anonimi spettatori. In un certo senso, la soluzione di Leonardo è la stessa che già si presenta nell’Adorazione dei Magi: due masse dinamiche unite e tenute in situazione di riposo da un singolo fulcro. Questa intesa apparentemente semplice comporta la facoltà di saper collocare dodici Apostoli in due gruppi di sei: e riuscire a tenere questi gruppi perfettamente coerenti, pur conferendo loro un movimento sufficiente a renderli interessanti in rapporto al punto centrale. Le fasi attraverso le quali Leonardo pervenne al risultato finale non si conoscono. Infatti sono pochissimi i disegni per il Cenacolo che ci sono rimasti, e fra questi solo due si riferiscono alla composizione. Quello più elaborato di questi, un disegno a matita rossa a Venezia, è uno dei resti più problematici di Leonardo. È un disegno scadente-il braccio destro di Cristo con relativa mano è quanto ci si può aspettare da un bambino; e nonostante la pretesa animazione delle figure, manca di quella folgorazione di vita interiore che riscatta anche gli sgorbi più negligenti di Leonardo. Sono figure rigide, quasi arcaiche. Per questo, alcuni dei migliori critici hanno messo in dubbio la sua autenticità; ma le parole scritte al di sopra delle figure con la stessa matita rossa appaiono autentiche, e qui occorre riflettere sul fatto che Leonardo, forse, era interessato solo a registrare la disposizione e le caratteristiche degli Apostoli. Quanto alla composizione, ci dice solo che, benché il disegno sia databile intorno al 1495, Leonardo non è ancora arrivato a pensare ai due gruppi come entità, e Giuda è ancora isolato sul lato più prossimo del tavolo. Quest’ultimo motivo appare anche nell’altro studio compositivo che ci è pervenuto, un disegno a penna a Windsor; ma qui Leonardo già aspira a una unità drammatica, e in uno schizzo complementare sullo stesso foglio arriva a considerare il tema quasi insopportabilmente drammatico del Cristo che allunga il boccone a Giuda.
Fra questi schizzi e la composizione conclusiva deve essere intervenuto un immenso lavoro; ma purtroppo i disegni e gli studi attraverso i quali la grande costruzione andava gradualmente prendendo la sua inevitabile forma sono quasi completamente perduti. E forse un aspetto criticabile del Cenacolo che questo processo sia ancora fin troppo evidente nei gruppi degli Apostoli. Si può vedere come Leonardo avesse variato ogni azione, calcolato ogni intervallo, soppesato ogni cambio di direzione. Con questo ci ha fornito una dimostrazione ideale del suo trattato della pittura. Nulla poteva essere più consono alle sue teorie dei due gruppi di Apostoli ai due lati del Cristo, ciascuno rivolto al centro secondo un sistema di assi prospettici che suggerisce un procedere in formazione; oppure il modo in cui avendo adottato la soluzione di rivolgere i tre Apostoli all’estrema sinistra con intenso trasporto verso il centro, di rimando ne pone due sulla destra in atto di rivolgersi all’esterno ma con gesti diretti al centro, così che le loro intenzioni, raggiunto lo splendore formidabile di Simone, sembrano rimbalzare sulla scia delle loro mani. Non c’è dubbio che la realizzazione di questo complesso di sequenze è una delle più grandi manifestazioni delle forze intellettuali in arte; ma osservato attraverso la mediazione delle copie, il risultato, intellettualmente stupendo, rimane freddo e accademico. Il centro della composizione, la figura di Cristo, sul quale queste due masse dinamiche vengono a posarsi, sembra scattare da una ragione più profonda. Il mistero imponderabile è che Leonardo, in tutta la sua apparente insensibilità, il suo distacco dai consueti sentimenti umani, la sua estraneità di base, potesse creare questa figura così semplice, così commovente, così universale nel suo richiamo.
Evidentemente non si può osservare a lungo il Cenacolo senza accorgersi che invece di studiarlo come composizione occorre considerarlo come dramma. È la più letteraria di tutte le grandi pitture, una delle poche nelle quali l’effetto può essere reso - e perfino esaltato - dalla descrizione. E infatti l’opposto di una pittura di un grande decoratore come poteva essere, per esempio, Paolo Veronese, dove le azioni, le distrazioni, i costumi e le espressioni degli attori potrebbero giudicarsi alquanto inadeguati al tema, e scelti semplicemente per la loro efficacia pittorica.
È difficilmente necessario descrivere, come si fa spesso, la varietà dei gesti che Leonardo attribuisce a ciascun Apostolo e il modo in cui l’effetto di questi gesti viene ad intensificarsi in base a situazioni di contrasto. Come, per esempio, la rudezza di un impetuoso Pietro, pugnacemente ansioso di proclamarsi innocente, contrasti col rassegnato Giovanni, cui non resta che starsene tranquillo perché sa che nessuno può sospettare di lui. E come la mano di Pietro, facendo ponte fra le teste di Giovanni e Giuda, venga a sottolineare il contrasto fra innocenza e malvagità -le bellezze con le bruttezze, dice Leonardo, paiono più potenti l’una per l’altra (Lu 139, McM 277). Tutte queste compenetrazioni, queste invenzioni di drammaticità, sono state analizzate una volta per tutte da uno dei pochi che, per la misura del suo genio, era in grado di giudicare Leonardo - Goethe. Il suo saggio sul libro del Bossi resta la migliore interpretazione letteraria del Cenacolo. Quasi sempre nel leggere l’interpretazione di un dipinto si avverte che quello che uno scrittore prende per una manifestazione di genio drammatico è qualcosa che al pittore era occorso senza che se ne rendesse del tutto conto. Non così con Leonardo. Sappiamo dai suoi taccuini di appunti e dai suoi scritti sulle teorie artistiche quanto pensiero egli dedicasse alla formulazione letteraria del soggetto. Egli consiglia sempre il pittore di studiare i gesti espressivi e le azioni adatte, orchestrandole per ottenere varietà di effetti e contrasti. “Quella figura è più laudabile”, egli afferma, “che con l’atto meglio esprime la passione del suo animo” (MS. A di Parigi, fol. 109 v). È un caso che ci sia pervenuto in uno dei suoi taccuini proprio una nota sulle attitudini e gesti appropriati ai personaggi del Cenacolo:
“Uno che beveva e lasciò la zaina nel suo sito, e volse la testa inverso il proponitore. Un altro  tesse le dita delle mani insieme, e co’ rigide ciglia si volta al compagnio; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle, e alza le spalli inver li orecchi e fa la bocca della maraviglia. Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui, e gli porge gli orecchi, tenendo un coltello ne l’una mano e nell’altra il pane mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel voltarsi, tenendo un coltello in man, versa con tal mano una zaina sopra della tavola”. (Cod. Forster II, fol. 62 v)
“L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda. L’altro soffia nel boccone. L’altro si china per vedere il proponitore, e fassi ombra colla mano alli occhi. L’altro si tira derieto a quel che si china, e vede il proponitore infra ’l muro e ’l chinato” (Cod. Forster II, fol. 63 r).
I gesti qui descritti non sono ancora, per così dire, assortiti, ed è interessante vedere quali sono quelli che Leonardo decide di adottare. Non è difficile riconoscere nell’Andrea l’uomo che si stringe nelle spalle e fa “la bocca della maraviglia”; e Pietro, che parla nell’orecchio del vicino, tiene ancora il coltello. Il gesto dell’uomo che “tesse le dita delle mani insieme”, inadeguato a contribuire movimento alla composizione, era destinato ad essere abbandonato, come pure il motivo dell’altro che sta portando il bicchiere alla bocca. L’annotazione di Leonardo proviene dall’osservazione diretta, e poiché la composizione del Cenacolo andava prendendo corpo secondo un’impostazione di carattere sempre più eroico, questi gesti di natura quotidiana non erano più adeguati. Ma il motivo dell’uomo che si rigira bruscamente e rovescia un bicchiere ha subito una curiosa trasformazione. È il motivo assegnato a Giuda, con la differenza che invece di un coltello egli tiene una borsa, e invece di un bicchiere rovescia il sale - un incidente ancora temuto dai superstiziosi.
Eppure questa abbondanza e varietà di gesti, alla quale Leonardo dedicò tanta riflessione, non è la caratteristica del Cenacolo che fa più presa sulla nostra sensibilità moderna. E non credo nemmeno che la nostra mancanza di comprensione derivi da una forma di imbarazzo nordico verso maniere più espressive del sud. Ci sentiamo più a nostro agio di fronte all’Adorazione dei Magi degli Uffizi, e questo è dovuto, in parte, al fatto che l’Adorazione è incompiuta. Il moto delle sue figure è trasmesso attraverso il movimento ancora percepibile del pennello del pittore. Nel Cenacolo il movimento è sospeso. C’è qualcosa che spaventa in queste poderose figure in azione, qualcosa che ci si presenta come una contraddizione nel senso del procedere lento che è alla base della perfezione di ogni gesto. E al di là di questo è una causa più profonda. Tutta la forza dei gesti, come espressione di emozioni, sta nella loro spontaneità - e i gesti del Cenacolo non sono spontanei. Leonardo, si è appena visto, esclude consciamente quei moti che si accostano alla categoria delle generalità. Farò una finzione, che significherà cose grandi (Lu 19, McM 30). Per lui l’intera scena deve essere impostata secondo i canoni più alti dell’arte classica, e l’imposizione di questo classicismo sul proprio sentimento spontaneo della vita finisce col turbare. Gli Apostoli hanno troppa vitalità per essere eroici, e sono troppo grandi per essere animati.
E qui si ritorna al disastro che l’intero dipinto ha subito in conseguenza alle ridipinture delle teste; infatti, se le teste originali esistessero ancora, in tutto il loro pathos e intensità drammatica, i gesti, in ruolo subordinato, avrebbero potuto perdere qualcosa del loro sapore di artificialità. Le smorfie dipinte rozzamente, che è quanto il tempo e i restauri ci hanno lasciato, avrebbero scandalizzato Leonardo, dal momento che in molti testi del suo Trattato insiste sull’importanza da darsi all’espressione dei volti, col descrivere come il pittore debba usare ogni mezzo per osservarla e notarsela. Per farsi un’idea di quanto si è perduto, occorre rivolgersi ai disegni superstiti, in particolare a quei due capolavori, il Giacomo Maggiore e il Filippo a Windsor: e occorre tenere presente che nella pittura la carica drammatica di entrambi sarebbe stata indubbiamente intensificata; essi avrebbero cessato di essere studi dal vero per assumere il carattere di personificazioni di stati emotivi, concentrati e completi come in ogni più alta creazione del dramma classico.