Introduzione
Kenneth Clark
Si è tutti d’accordo nel considerare il Cenacolo come il culmine della carriera pittorica di Leonardo da
Vinci. Nell’accostarsi a questa fase della sua attività, ogni studioso di
Leonardo è indotto ad esitare, impressionato dalla quantità di scritti che
questo capolavoro ha provocato, nonché dalla indiscutibile autorità del
capolavoro stesso. E quello che stordisce quasi quanto la sua autorità è il suo
carattere di familiarità. Come si può esercitare una analisi critica di un’opera
che tutti conosciamo fin dall’infanzia? Ci si è abituati a vedere nel Cenacolo di Leonardo più un prodotto
della natura che opera umana, e non si pensa di poterne discutere la forma come
non si discute quella delle isole britanniche su una carta geografica. Di
fronte a questa pittura il problema non è tanto quello di dover analizzare le
proprie emozioni quanto di averne. Ma ci sono alternative a un accostamento di
ordine puramente estetico. Può essere istruttivo immaginare il tempo in cui il Cenacolo non esisteva ancora, quando
Leonardo si trovava a confronto con una parete in bianco e con un committente
che sapeva il fatto suo.
Il Cenacolo
fu dipinto per ordine di Ludovico il Moro per il refettorio del convento dei
frati Domenicani di Santa Maria delle Grazie a Milano. Fu probabilmente
iniziato nel 1495, ma gli archivi del convento sono andati distrutti e la
nostra scarsa documentazione si riduce a indicare che nel 1497 il dipinto era
quasi terminato. Il 29 giugno di quell’anno il Duca inviava un promemoria al
suo segretario Marchesino Stanga, chiedendogli di ordinare a Leonardo II
Fiorentino di finire l’opera incominciata al refettorio delle Grazie per
potersi poi dedicare alla parete opposta nello stesso refettorio. Questo
presuppone che Leonardo fosse già molto avanti col Cenacolo; e infatti il Pacioli nella lettera dedicatoria della sua Divina Proportione in data 9 febbraio
1498, ne parla come di opera compiuta. In mancanza di documenti, si hanno però
diversi resoconti sul progresso dell’opera da parte di testimoni oculari. Fra
questi è quello ben noto del novellista Matteo Bandello, che val la pena
riportare di nuovo, non foss’altro per il modo vivace col quale ci rappresenta
Leonardo all’opera.
“Soleva anco spesso, et io più volte l’ho
veduto e considerato, andare la mattina a buon’hora a montar su ’l ponte,
perché il Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva (dico) dal nascente Sole
sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il
mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e
quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o
due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sè,
le sue figure giudicava. L’ho anche veduto (secondo che il capriccio o
ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da
Corte vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto
a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate
dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove”.
Questo modo saltuario di procedere implica
che il dipinto non poteva essere un affresco; e infatti sappiamo che il metodo
impiegato da Leonardo consisteva di una mistura di olio e lacche. A causa dell’umidità
della parete la pittura cominciò presto a deteriorarsi. Già nel 1517 Antonio De
Beatis ne parla come di un’opera eccellente che però cominciava a deperire a
causa dell’umidità o di qualche altra disgrazia. E Vasari, che la vide nel
maggio 1566, afferma essere in tali condizioni “che non si scorge più se non
una macchia abbagliata”. Per Scannelli che scriveva nel 1642, non era rimasto
dell’originale che alcune tracce delle figure, e anche quelle così confuse che
solo a fatica se ne poteva ricavare un’indicazione del soggetto. Di fronte a
queste testimonianze è difficile trattenersi dal concludere che quanto si vede
ora sulla parete delle Grazie è nella maggior parte l’opera di restauratori. Si
sa che il dipinto fu restaurato quattro volte dal principio del Settecento, e
probabilmente era già stato restaurato diverse volte anche prima di allora. Nel
1908 fu pulito sistematicamente da Cavenaghi, che si dimostrò molto ottimista
nei riguardi delle condizioni della pittura, affermando che gli interventi più
seri si limitavano alla mano sinistra di Cristo. Aggiungeva inoltre che
Leonardo aveva di gran lunga precorso i tempi, per via della tecnica impiegata
che non appare infatti prima della fine del Cinquecento. La reputazione
professionale del Cavenaghi era tale che le sue affermazioni furono
generalmente accettate, ma in questo caso tutto prova che si sbagliasse. Non si
può credere che un dipinto ricordato diverse volte nel Cinquecento e Seicento
come un relitto senza più speranza, potesse sopravvivere fino ai giorni nostri
più o meno intatto, e la prova irrefutabile dei restauri è procurata dal
confronto delle teste degli Apostoli nella pittura con quelle nelle copie più
antiche. Forse gli esempi più efficaci sono quelli che ci vengono da due serie
indipendenti di disegni di teste, a Weimar e Strasburgo, eseguiti direttamente
dall’originale da allievi di Leonardo senza quelle variazioni che un copista
introduce, come contributo personale, solo nel quadro finito. Ora questi
disegni sono coerenti nell’allontanarsi da certi particolari del dipinto quale
ora ci si presenta, e in ogni caso il disegno è sempre superiore sia nell’espressione
che nella impostazione. Si prendano ad esempio i quattro Apostoli alla destra
di Cristo. Nell’originale Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle
figure che disturbano di più nell’intera composizione; ma le copie mostrano che
la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il
restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e
così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si
tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda
e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profil perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a
Windsor. Il restauratore l’ha rigirato, collocandolo in netto profilo e
pregiudicandone così l’effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il
restauratore l’ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre
ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia
scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore,
che con essa dà la misura della propria inettitudine.
Val la pena insistere su questi cambiamenti
perché essi dimostrano come l’effetto drammatico del Cenacolo può solo dipendere, ora, esclusivamente dalla disposizione
delle figure e dal loro movimento in generale, e non dall’espressione delle
singole teste. Quegli scrittori che si sono lamentati del loro carattere
sforzato o monotono, si sono affaticati invano a seguire un’ombra. Non c’è
dubbio che nei particolari la pittura è quasi interamente il risultato degli
interventi di una serie di restauratori, e le smorfie esagerate, che sembrano
arieggiare i tipi del Giudizio Universale
di Michelangelo, suggeriscono che il tutto ebbe inizio ad opera di un debole
manierista del Cinquecento. Dopo un restauro a fondo ad opera di Michelangelo
Bellotti nel 1729, si ebbe, nel 1770, il malaugurato intervento di Pietro Mazza
che la ridipinse quasi tutta. Le parti che hanno sofferto di meno sono quelle
delle lunette al di sopra del Cenacolo,
semplicemente perché furono scoperte solo nel secolo scorso ad opera del
restauratore Stefano Barezzi; e in un punto della lunetta centrale si intravede
ancora il disegno a carboncino di Leonardo.
Eppure, nonostante il deprimente ricorrere
di questi fatti, qualcosa del fascino dell’originale è rimasto a conferire alla
tragica rovina a Santa Maria delle Grazie una qualità che manca alla buia
levigatezza delle copie degli allievi. La luminosità, il senso atmosferico che
distingue l’opera autentica di Leonardo da quella dei suoi allievi, deve avere
caratterizzato anche il Cenacolo. E
la pittura, forse proprio per via del suo carattere indistinto, ha mantenuto
una certa qualità atmosferica. Nell’osservarle, queste macchie spettrali sulla
parete, “evanescenti come l’ombre di foglie autunnali”, acquistano poco a poco
una forza su di noi che non è dovuta solo al sentimento della suggestione.
Attraverso le nebbie dei ritocchi e del deperimento, si può ancora afferrare il
senso delle forme sovraumane dell’originale; e nel percepire il dramma dell’avvicendarsi
reciproco delle loro azioni, ci si rende conto delle qualità che concorrono a
fare del Cenacolo la chiave di volta
dell’arte europea. La potenza inventiva di Leonardo si riconosce col semplice
mezzo di osservare come il tema fosse stato svolto da chi lo precedette. I
Cenacoli di Ghirlandaio e Perugino, dipinti solo un anno o due prima, mostrano
fondamentalmente il tipo di composizione che per quasi mille anni aveva
soddisfatto i fedeli. Undici Apostoli siedono allineati dietro un tavolo, quieti
nella posa e ciascuno separato dall’altro. Alle volte parlano fra di loro, o
bevono il loro vino. Nostro Signore siede nel mezzo, con Giovanni chinatogli
goffamente in grembo. Isolato, all’altro lato del tavolo, è Giuda. Si è potuto
vedere come l’allontanarsi da una iconografia tradizionale nella giovanile Adorazione dei Magi comportasse un
cambiamento nell’interpretazione globale del dramma. Lo stesso si può dire del Cenacolo. I vecchi pittori avevano
rappresentato il momento della Comunione, un momento di calma durante il quale
ciascun Apostolo poteva desiderare di restar solo coi propri pensieri.
Leonardo, come è ben noto, scelse il momento in cui Gesù dice: “Uno di voi mi
tradirà”. All’improvviso questi individui in fila compunta sono uniti insieme
dall’emozione.
Unità e dramma, queste sono le qualità
essenziali che distinguono il Cenacolo
di Leonardo da ogni precedente rappresentazione dello stesso soggetto. Val la
pena analizzare i mezzi coi quali queste qualità sono conseguite. A cominciare
dall’ambiente. Si nota che non vi è nulla in esso che possa distrarre l’occhio
dal tema principale. “Non fare mai nelle istorie”, dice Leonardo nel Trattato della Pittura, “tanti ornamenti
alle tue figure e altri corpi, che impedischino la forma e l’attitudine di tal
figure e l’essentia de predetti altri corpi” (Lu 182, McM 275). Invece della
fantasiosa, ornata architettura che appare nelle precedenti interpretazioni del
soggetto, la scena del Cenacolo di
Leonardo è così nuda e severa che molti copisti si sentirono indotti a
inventare un ambiente più variato. Non vi sono motivi fortuiti - come uccelli
che volano o servi che chiacchierano. Il punto focale del sistema prospettico
corrisponde alla figura principale. Ogni forma, ogni gesto è concentrato. Il
problema della concentrazione drammatica e formale, sempre difficile, è quasi
insolubile quando il soggetto consiste di tredici persone sedute a tavola. I
pittori precedenti non tentarono nemmeno di subordinare le loro figure a un
singolo motivo, ma si affidarono a una disposizione puramente decorativa. I
pittori dell’età del Barocco, per i quali fu essenziale unificare la
composizione, seppero risolvere il problema con ingegnosi espedienti di luci e
scorci, ma per questo furono costretti a sacrificare la rapidità e chiarezza
con le quali esporre il tema, per cui la scena, come nel caso di Tintoretto a
San Polo, doveva trasformarsi in una manifestazione di violenza, trascinando
gli Apostoli in un unico vortice con servi e anonimi spettatori. In un certo
senso, la soluzione di Leonardo è la stessa che già si presenta nell’Adorazione dei Magi: due masse dinamiche
unite e tenute in situazione di riposo da un singolo fulcro. Questa intesa
apparentemente semplice comporta la facoltà di saper collocare dodici Apostoli
in due gruppi di sei: e riuscire a tenere questi gruppi perfettamente coerenti,
pur conferendo loro un movimento sufficiente a renderli interessanti in
rapporto al punto centrale. Le fasi attraverso le quali Leonardo pervenne al
risultato finale non si conoscono. Infatti sono pochissimi i disegni per il Cenacolo che ci sono rimasti, e fra
questi solo due si riferiscono alla composizione. Quello più elaborato di
questi, un disegno a matita rossa a Venezia, è uno dei resti più problematici
di Leonardo. È un disegno scadente-il braccio destro di Cristo con relativa
mano è quanto ci si può aspettare da un bambino; e nonostante la pretesa
animazione delle figure, manca di quella folgorazione di vita interiore che
riscatta anche gli sgorbi più negligenti di Leonardo. Sono figure rigide, quasi
arcaiche. Per questo, alcuni dei migliori critici hanno messo in dubbio la sua
autenticità; ma le parole scritte al di sopra delle figure con la stessa matita
rossa appaiono autentiche, e qui occorre riflettere sul fatto che Leonardo, forse,
era interessato solo a registrare la disposizione e le caratteristiche degli
Apostoli. Quanto alla composizione, ci dice solo che, benché il disegno sia
databile intorno al 1495, Leonardo non è ancora arrivato a pensare ai due
gruppi come entità, e Giuda è ancora isolato sul lato più prossimo del tavolo.
Quest’ultimo motivo appare anche nell’altro studio compositivo che ci è
pervenuto, un disegno a penna a Windsor; ma qui Leonardo già aspira a una unità
drammatica, e in uno schizzo complementare sullo stesso foglio arriva a
considerare il tema quasi insopportabilmente drammatico del Cristo che allunga
il boccone a Giuda.
Fra questi schizzi e la composizione
conclusiva deve essere intervenuto un immenso lavoro; ma purtroppo i disegni e
gli studi attraverso i quali la grande costruzione andava gradualmente
prendendo la sua inevitabile forma sono quasi completamente perduti. E forse un
aspetto criticabile del Cenacolo che
questo processo sia ancora fin troppo evidente nei gruppi degli Apostoli. Si
può vedere come Leonardo avesse variato ogni azione, calcolato ogni intervallo,
soppesato ogni cambio di direzione. Con questo ci ha fornito una dimostrazione
ideale del suo trattato della pittura. Nulla poteva essere più consono alle sue
teorie dei due gruppi di Apostoli ai due lati del Cristo, ciascuno rivolto al
centro secondo un sistema di assi prospettici che suggerisce un procedere in
formazione; oppure il modo in cui avendo adottato la soluzione di rivolgere i
tre Apostoli all’estrema sinistra con intenso trasporto verso il centro, di
rimando ne pone due sulla destra in atto di rivolgersi all’esterno ma con gesti
diretti al centro, così che le loro intenzioni, raggiunto lo splendore
formidabile di Simone, sembrano rimbalzare sulla scia delle loro mani. Non c’è
dubbio che la realizzazione di questo complesso di sequenze è una delle più
grandi manifestazioni delle forze intellettuali in arte; ma osservato
attraverso la mediazione delle copie, il risultato, intellettualmente stupendo,
rimane freddo e accademico. Il centro della composizione, la figura di Cristo,
sul quale queste due masse dinamiche vengono a posarsi, sembra scattare da una
ragione più profonda. Il mistero imponderabile è che Leonardo, in tutta la sua
apparente insensibilità, il suo distacco dai consueti sentimenti umani, la sua
estraneità di base, potesse creare questa figura così semplice, così
commovente, così universale nel suo richiamo.
Evidentemente non si può osservare a lungo
il Cenacolo senza accorgersi che
invece di studiarlo come composizione occorre considerarlo come dramma. È la
più letteraria di tutte le grandi pitture, una delle poche nelle quali l’effetto
può essere reso - e perfino esaltato - dalla descrizione. E infatti l’opposto
di una pittura di un grande decoratore come poteva essere, per esempio, Paolo Veronese,
dove le azioni, le distrazioni, i costumi e le espressioni degli attori
potrebbero giudicarsi alquanto inadeguati al tema, e scelti semplicemente per
la loro efficacia pittorica.
È difficilmente necessario descrivere, come
si fa spesso, la varietà dei gesti che Leonardo attribuisce a ciascun Apostolo
e il modo in cui l’effetto di questi gesti viene ad intensificarsi in base a
situazioni di contrasto. Come, per esempio, la rudezza di un impetuoso Pietro,
pugnacemente ansioso di proclamarsi innocente, contrasti col rassegnato
Giovanni, cui non resta che starsene tranquillo perché sa che nessuno può
sospettare di lui. E come la mano di Pietro, facendo ponte fra le teste di
Giovanni e Giuda, venga a sottolineare il contrasto fra innocenza e malvagità -le bellezze con le bruttezze, dice
Leonardo, paiono più potenti l’una per l’altra (Lu 139, McM 277). Tutte queste
compenetrazioni, queste invenzioni di drammaticità, sono state analizzate una
volta per tutte da uno dei pochi che, per la misura del suo genio, era in grado
di giudicare Leonardo - Goethe. Il suo saggio sul libro del Bossi resta la
migliore interpretazione letteraria del Cenacolo.
Quasi sempre nel leggere l’interpretazione di un dipinto si avverte che quello
che uno scrittore prende per una manifestazione di genio drammatico è qualcosa
che al pittore era occorso senza che se ne rendesse del tutto conto. Non così
con Leonardo. Sappiamo dai suoi taccuini di appunti e dai suoi scritti sulle
teorie artistiche quanto pensiero egli dedicasse alla formulazione letteraria del
soggetto. Egli consiglia sempre il pittore di studiare i gesti espressivi e le
azioni adatte, orchestrandole per ottenere varietà di effetti e contrasti. “Quella
figura è più laudabile”, egli afferma, “che con l’atto meglio esprime la
passione del suo animo” (MS. A di Parigi, fol. 109 v). È un caso che ci sia
pervenuto in uno dei suoi taccuini proprio una nota sulle attitudini e gesti appropriati
ai personaggi del Cenacolo:
“Uno che beveva e lasciò la zaina nel suo
sito, e volse la testa inverso il proponitore. Un altro tesse le dita delle mani insieme, e co’ rigide
ciglia si volta al compagnio; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di
quelle, e alza le spalli inver li orecchi e fa la bocca della maraviglia. Un
altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso
lui, e gli porge gli orecchi, tenendo un coltello ne l’una mano e nell’altra il
pane mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel voltarsi, tenendo un coltello
in man, versa con tal mano una zaina sopra della tavola”. (Cod. Forster II,
fol. 62 v)
“L’altro posa le mani sopra della tavola e
guarda. L’altro soffia nel boccone. L’altro si china per vedere il proponitore,
e fassi ombra colla mano alli occhi. L’altro si tira derieto a quel che si
china, e vede il proponitore infra ’l muro e ’l chinato” (Cod. Forster II, fol.
63 r).
I gesti qui descritti non sono ancora, per
così dire, assortiti, ed è interessante vedere quali sono quelli che Leonardo
decide di adottare. Non è difficile riconoscere nell’Andrea l’uomo che si stringe
nelle spalle e fa “la bocca della maraviglia”; e Pietro, che parla nell’orecchio
del vicino, tiene ancora il coltello. Il gesto dell’uomo che “tesse le dita
delle mani insieme”, inadeguato a contribuire movimento alla composizione, era
destinato ad essere abbandonato, come pure il motivo dell’altro che sta
portando il bicchiere alla bocca. L’annotazione di Leonardo proviene dall’osservazione
diretta, e poiché la composizione del Cenacolo
andava prendendo corpo secondo un’impostazione di carattere sempre più eroico,
questi gesti di natura quotidiana non erano più adeguati. Ma il motivo dell’uomo
che si rigira bruscamente e rovescia un bicchiere ha subito una curiosa
trasformazione. È il motivo assegnato a Giuda, con la differenza che invece di
un coltello egli tiene una borsa, e invece di un bicchiere rovescia il sale -
un incidente ancora temuto dai superstiziosi.
Eppure questa abbondanza e varietà di
gesti, alla quale Leonardo dedicò tanta riflessione, non è la caratteristica
del Cenacolo che fa più presa sulla
nostra sensibilità moderna. E non credo nemmeno che la nostra mancanza di
comprensione derivi da una forma di imbarazzo nordico verso maniere più
espressive del sud. Ci sentiamo più a nostro agio di fronte all’Adorazione dei Magi degli Uffizi, e
questo è dovuto, in parte, al fatto che l’Adorazione
è incompiuta. Il moto delle sue figure è trasmesso attraverso il movimento
ancora percepibile del pennello del pittore. Nel Cenacolo il movimento è sospeso. C’è qualcosa che spaventa in
queste poderose figure in azione, qualcosa che ci si presenta come una
contraddizione nel senso del procedere lento che è alla base della perfezione
di ogni gesto. E al di là di questo è una causa più profonda. Tutta la forza dei
gesti, come espressione di emozioni, sta nella loro spontaneità - e i gesti del
Cenacolo non sono spontanei.
Leonardo, si è appena visto, esclude consciamente quei moti che si accostano
alla categoria delle generalità. Farò una finzione, che significherà cose
grandi (Lu 19, McM 30). Per lui l’intera scena deve essere impostata secondo i
canoni più alti dell’arte classica, e l’imposizione di questo classicismo sul
proprio sentimento spontaneo della vita finisce col turbare. Gli Apostoli hanno
troppa vitalità per essere eroici, e sono troppo grandi per essere animati.
E qui si ritorna al disastro che l’intero
dipinto ha subito in conseguenza alle ridipinture delle teste; infatti, se le
teste originali esistessero ancora, in tutto il loro pathos e intensità drammatica, i gesti, in ruolo subordinato,
avrebbero potuto perdere qualcosa del loro sapore di artificialità. Le smorfie
dipinte rozzamente, che è quanto il tempo e i restauri ci hanno lasciato,
avrebbero scandalizzato Leonardo, dal momento che in molti testi del suo Trattato insiste sull’importanza da
darsi all’espressione dei volti, col descrivere come il pittore debba usare
ogni mezzo per osservarla e notarsela. Per farsi un’idea di quanto si è
perduto, occorre rivolgersi ai disegni superstiti, in particolare a quei due
capolavori, il Giacomo Maggiore e il Filippo a Windsor: e occorre tenere
presente che nella pittura la carica drammatica di entrambi sarebbe stata
indubbiamente intensificata; essi avrebbero cessato di essere studi dal vero
per assumere il carattere di personificazioni di stati emotivi, concentrati e
completi come in ogni più alta creazione del dramma classico.
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