Egregio amico,
A un anno di distanza dal compimento dell’opera
di restauro alla decorazione pittorica nella Sala delle « Asse », rievocante il nome di
Leonardo, ecco
un’altra parte del nostro Castello - per desiderio tuo, inspirato ad un
delicato omaggio filiale - sottratta al secolare abbandono, ed un altro nome
immortale di artista, Bramante, rievocato nell’opera sua, ridonata
all’originaria eleganza. Così, due forme d’arte, di cui era si può dire perduta
ogni diretta memoria, vengono oggidì a ravvivare il ricordo di un’epoca,
durante la quale Milano seppe competere coi maggiori centri intellettuali d’Italia,
e di questa città rafforzano il patrimonio artistico con quella nota geniale,
che sola può dare completo significato alla odierna sua prosperità.
Esaudito il tuo desiderio, mi parve
doveroso di render conto dell’opera compiuta, ricomponendo le vicende della «
Ponticella » restaurata dopo quattro secoli di vicissitudini, colla
cooperazione dell’architetto Gaetano Moretti Direttore e Luigi Perrone
architetto dell’Ufficio Regionale, dell’ing. municipale
Angelo Pavia, coadiuvato dall’assistente Damiano Colombo e dal pittore Ernesto
Rusca.
La forma esteriore oggi è ripristinata, e
non mancò il tuo consenso al proposito di accompagnarvi, col sussidio di una
tecnica caratteristica del quattrocento, i rari ricordi grafici del Castello
nel periodo sforzesco: il che potrà forse provocare ancora una volta il biasimo
di quei critici d’arte che, condannati ad una azione puramente negativa, già
ebbero a dichiarare - a proposito della Sala delle « Asse » - di preferire lo stato di abbandono
in cui questa si trovava, concludendo: « meglio i buchi, lo scialbo, il
salnitro, la fuligine! »
Ad integrare il ripristino della Ponticella
non rimane ormai che attendere la occasione di poterne incorporare i locali
colle Sale ducali, assegnando loro la destinazione a Museo d’Arte: compito che
già sorride alla tua mente, e varrà a completare l’opera, con gentile pensiero
avviata.
Credimi l’affezionato amico
Venezia, 15 maggio 1903.
LUCA BELTRAMI.
LA
Ponticella, detta di Lodovico il Moro, situata a cavaliere del fossato che
recinge il Castello Sforzesco lungo il lato nord-est, mette in comunicazione le
sale della Corte Ducale col recinto detto della Ghirlanda, del
quale rimane solo qualche avanzo delle torri rotonde angolari, e della « Porta
di soccorso » verso la campagna. Nella forma in cui oggi si presenta, in
sèguito al restauro compiuto in questi giorni, la Ponticella appare come una
costruzione aggiunta al concetto primitivo del Castello, i cui accessi lungo i
quattro lati del quadrato sforzesco erano difesi da rivellini, piantati nel
mezzo del fossato, per modo da non concedere di penetrare nel Castello, se non
passando per due ponti levatoi: e poiché si trova coperta da porticato e
fiancheggiata da locali, così costituisce una comunicazione sprovvista di un
mezzo veramente efficace di difesa, in contrasto con tutte le disposizioni che
presidiavano gli altri accessi al Castello. Eppure, la costruzione della
Ponticella non deve riguardarsi come una semplice aggiunta al concetto
primitivo, da Lodovico il Moro ordinata derogando alle consuetudini di difesa
militare, all’intento di facilitare la comunicazione fra gli appartamenti
ducali ed il
Barco, che si stendeva al di là del recinto della Ghirlanda: in
forma più semplice, la Ponticella già esisteva all’epoca di Galeazzo Maria
Sforza, anzi nulla ci dissuade dal ritenere che formasse parte integrante del
piano generale del Castello che Francesco Sforza - pochi giorni dopo di essersi
impossessato del Ducato - si accinse a ricostruire sugli avanzi della rocca
viscontea, contrariamente al formale impegno che aveva preso all’atto di
entrare come trionfatore in Milano.
*
* *
È noto come Francesco Sforza, nei brevi periodi di
quiete che le preoccupazioni militari gli concedettero di trascorrere in
Milano, abbia dimorato nel vecchio palazzo detto dell’« Arengo », di fianco
alla Cattedrale, al che ebbe forse ad influire il proposito di non dimostrare
troppa diffidenza verso i nuovi suoi sudditi, mentre a minaccia della città
innalzava le due massiccie torri rotonde, irte di bugnato in sarizzo. Non
devesi però dimenticare come l’intenzione di prepararsi una dimora, la quale
non si trovasse senza difesa, come lo era invece l’Arengo, già fosse stata da
lui affermata fino dal 1455,
e come il Duca divisasse di adattare ad appartamento ducale, la
parte del quadrato sforzesco verso nord, che venne più tardi effettivamente
occupata dal figlio Galeazzo Maria.
Infatti, ai 14 di giugno del 1455, l’ingegnere
ducale Jacopo da Cortona scriveva a Francesco Sforza: « .... in questo tempo se
caverà el fondamento de pilastri che vano per fare la volta della Torre del
Cantone, dove sarà la Camera de la Ill.a S.a V.a ».
Per comprendere questo passo di lettera, occorre ricordare come le due torri
quadrate conterminanti il lato nord-ovest del quadrato sforzesco siano nella
loro parte inferiore, dell’epoca viscontea, giacché nel sotterraneo si notano
ancora le traccie delle grandi vòlte a crociera, che un dì sostenevano il
pavimento delle sale terrene, quella del « Tesoro »
nella torre ovest, e quella delle « Asse »
nella torre nord. Le due volte, forse sfondate in occasione delle demolizioni
compiute dopo la morte di Filippo Maria Visconti, si veggono oggi sostituite da
vòlte a botte sostenute mediante quattro pilastri: per cui il passo della
lettera di Jacopo da Cortona si riferisce indubbiamente al rifacimento della
vòlta sotto la sala delle «
Asse », la quale sarebbe stata pertanto da Francesco Sforza designata
a propria dimora. E che si tratti della vòlta nella torre nord, anziché di
quella simmetrica nella torre ovest, che era a quell’epoca la « Castellana »,
risulta in modo non dubbio dall’altro passo di lettera di Filippo Scozioli,
altro ingegnere ducale addetto ai lavori di ricostruzione del Castello, in cui
si dice: « lunedì prossimo che viene se comenzerà a cavare el fondamento de li
pilastri che vano nela Camera de la Torre, facendoli nela forma de quella Torre
dove sta il Signor Foschino »: il quale Foschino che a quell’epoca aveva la
custodia del Castello, abitava appunto nella torre quadrata della Rocchetta,
perciò chiamata Castellana ([1]).
*
* *
La Ponticella di cui ci siamo proposti di
ricostituire le vicende, si trova precisamente impostata all’angolo formato
dalla sporgenza della torre quadrata nord: per cui non ci sembra dubbio che al
proposito di valicare in quel punto il fossato con un ponte, alluda il seguente
passo di lettera del 18 giugno 1455,
dello stesso Jacopo da Cortona: « Venerdì, parte de li magistri et lavoranti
comenzerano a fondare li pilastri de la Torre del Cantone, per farli suxo la
vòlta: et l’altra parte andarano drecto a quela strata coperta mancava de fare
per mezo al ponte de dreto, si che di passo in passo ne avixo la Ex.a
V.a » ([2]).
Dalle quali parole si può desumere che si intendeva di completare il muro di controscarpa
contenente la strada di ronda, o
strada coperta, al quale muro doveva impostarsi l’altra spalla
della ponticella.
Francesco Sforza si interessava a quei lavori, che
non tralasciava mai di sollecitare, incolpando talvolta di negligenza gli
architetti: e tanto si interessava alla costruzione della parte che si
riservava di abitare, da scrivere al Cernuscolo, altro degli ingegneri ducali,
in data 28 giugno 1455:
« Volimo che tu faci andare dreto alla vòlta dela Torre, et non
alzar el muro della Torre per fino tanto che nuy non siamo lì, perchè vorrimo
ordinare ad nostro modo come debbono stare quelle salvarobbe ». Tale ordine era
in relazione alla proposta che dallo stesso ingegnere ducale era stata fatta
due giorni prima di « seguire a lavorare suso el muro de longo, perchè se
poterà ligare insema con la dieta torre, et se decernirà li usci de la dieta
sala et guardacamera ».
*
* *
NELLA primitiva sua forma, la ponticella cui
Lodovico il Moro ebbe ad assegnare particolare importanza, valendosi dell’opera
di un eminente artista, fu quindi una semplice comunicazione fra i locali
terreni della Corte ducale e la Ghirlanda: comunicazione scoperta, costituita da
un ponte a due grandi arcate in laterizio, conducente ad una porta situata in
prossimità della torre quadrata. L’unica difesa era costituita dal fatto che la
parte del pavimento del ponte, vicina all’ingresso, era formata da un tavolato
mobile - detto
piancheta, dal francese planchette
- imperniato alla soglia della porta, e che quando veniva alzato, formava la
chiusura lasciando al tempo stesso nel pavimento del ponte un vano, che
impediva di avvicinarsi alla porta. Oggi ancora si può, nell’intradosso dell’arcata
attigua alla Corte ducale, rilevare tale disposizione di difesa, mentre per la
manovra della
piancheta, non essendovi alcuna traccia della tipica disposizione
del bolzone del ponte levatojo, si deve ritenere fosse stata adottata la
disposizione di una semplice catena, che si avvolgeva intorno ad un rullo in
legno imperniato sopra la porta, conforme all’esempio che si potè rilevare in
corrispondenza dell’altra comunicazione fra le sale terrene della Corte ducale
e la Piazza d’armi.
Tale dovette essere la disposizione della
ponticella nei primi anni del dominio di Galeazzo Maria Sforza, allorquando
questi, succedendo al padre, affrettò la sistemazione interna del Castello per
trovarvi una dimora ben più sicura della vecchia residenza dell’Arengo, di
fianco al Duomo. Il giovane Duca, che nel 1468 si
era insediato nel Castello assieme alla sposa Bona di Savoja, dovette valersi
frequentemente della ponticella che gli concedeva di uscire dalle sale ducali e
recarsi liberamente nel « Barco », sia per diporto, che per esercizi di caccia.
È da quella ponticella che Galeazzo Maria, con Bona ed un numeroso sèguito,
mosse nel 1471
per quel viaggio a Firenze che rimase celebre negli annali per lo sfarzo spiegato
dalla Corte sforzesca, di cui gli stessi fiorentini rimasero meravigliati. Ed è
in relazione ai preparativi per quella spedizione che Galeazzo, nel maggio 1471,
scriveva a Bartolomeo da Cremona - il fidato architetto, commissario generale
dei lavori di difesa del Ducato -: « Volimo che subito faci fare una sbarra
bella et forte al ponte dove se vene fora da le stantie nostre de quello nostro
Castello de Porta Zobia, fino al Orto del Castellano, azo per transcorrere de
cavali nissuno havesse ad periculare nel fosso, facendo per modo che alla
venuta nostra la troviamo facta. » (Arch. di Stato,
Milano. Reg. 115,
fol. 302 v°).
Così la ponticella andava assumendo sempre
maggiore importanza: ed è interessante il rilevare, da quel passo di lettera,
come servisse anche per l’uscita dei cavalieri dalle sale ducali, il che porta
a concludere che a quel tempo si trovasse cosa naturale l’ammettere i cavalli
nello stesso appartamento del Duca. A tale riguardo, va ricordato come
l’infelice primogenito di Galeazzo Maria Sforza, moribondo nel Castello di
Pavia vent’anni più tardi, abbia voluto negli ultimi momenti di vita rivedere i
cavalli suoi favoriti, che gli furono perciò condotti nella camera da letto, al
piano superiore.
Le occasioni di approfittare della ponticella si
resero sempre più frequenti: nel gennaio 1473 il
Duca ordinava che « nela Girlanda di questo nostro Castello, dal canto di S.
Maria de li Carmeni, fino a l’altra torre, se facia uno murello per fargli un
orto per nostro piacere »: ed era la ponticella che metteva in comunicazione
l’appartamento ducale con quel recinto, concedendo così ai membri della
famiglia ducale di prendere un poco di aria libera, senza trovarsi a contatto
con altre persone dimoranti nel Castello. Fu probabilmente in quel recinto che
dovettero trovare qualche svago i figli di Galeazzo Maria Sforza, compresa
quella Caterina Sforza, figlia naturale del Duca, che Bona di Savoja non
disdegnò di allevare, e che l’ambiente del Castello di Milano preparò e
fortificò a quelle avversità, che dovevano farne l’unica eroina nella
ingloriosa catastrofe degli Sforza.
Col dominio di Lodovico il Moro, dopo la infelice
reggenza di Bona di Savoja, la ponticella della Corte ducale riprende nuova
importanza: non sarebbe anzi da escludere che Lodovico il Moro, nel settembre
del 1479 - pochi
mesi dopo di esser stato allontanato da Milano assieme ai fratelli, per l’accusa
di intrighi a danno del nipote Gian Galeazzo - sia riuscito a penetrare
segretamente nel Castello a mezzo della ponticella, che poco si prestava alla
sorveglianza di cui Bona dovette circondarsi per difendere la propria autorità.
Lodovico potè quindi avvicinare Bona, alla quale seppe imporsi, malgrado le
opposizioni del segretario Cicco Simonetta, che non tardò a scontare col capo
la difesa dei diritti del giovinetto Gian Galeazzo.
*
* *
TOSTO
che vide nel nome suo assicurato il Ducato, colla esclusione del nipote,
Lodovico diede libero sfogo alla sua passione per il fasto: la Corte ducale
divenne il convegno di artisti e letterati, e poiché la difesa del ponte
levatojo, all’imbocco della ponticella, doveva presentarsi ormai di scarsa
efficacia, tale ad ogni modo da non compensare l’incomodo procurato al transito
dei numerosi personaggi che accedevano alla Corte ducale, così venne deciso di
trasformare l’accesso in un porticato, fiancheggiato da nuovi locali, di piccole
dimensioni, ma che dovettero riuscire molto opportuni per la famiglia ducale,
che si trovava a disporre di un numero limitato di ambienti, eccezionalmente
vasti. Così la ponticella divenne sempre più un elemento integrante degli
appartamenti ducali, la comunicazione abituale della famiglia
sforzesca col
Barco, e colla chiesa di S. Ambrogio ad Nemus, confinante con
questo, la cui pala d’altare coi ritratti di Lodovico, di Beatrice e dei figli,
oggi alla Pinacoteca di Milano, attesta la particolare devozione della famiglia
ducale per quella piccola chiesa.
L’aggiunta dei camerini non potè essere compiuta
che col partito di aumentare la larghezza originaria delle arcate; e tale
lavoro venne compiuto nel 1495.
Infatti, l’ingegnere ducale Ambrogio Ferrari nel marzo avvisava il Duca come «
le gronde de li camerini di dreto de la Camera de la Torre se va dreto
depingendo »: e che si tratti dei locali della ponticella non è a dubitare, per
il fatto che l’ingegnere aggiunge: « la parieta de foravia farò depingere a
quadronzini, che farano bel vedere: vedarò se a Milano se atrovano le collone
per voltare el transito de la piancheta » ; il che conferma appunto come si
trattasse a quell’epoca di coprire a vòlta il transito, mentre della
decorazione a
quadronzini si ebbe ancora a rintracciare qualche traccia sulla
fronte verso il
Barco, quella che il Ferrari chiamava parieta de foravia.
Qualche settimana più tardi, era lo stesso Duca
che si interessava ai lavori della ponticella, scrivendo da Vigevano all’ingegnere
Ferrari affinchè, per l’imminente suo ritorno a Milano, i camerini fossero
ultimati, e « l’uscio per il quale se anderà da la camera de la torre in dicti
camerini sii facto et fornito nel modo hara ad stare »; il che indica il
compimento dei lavori, ad esclusione di quelli delle decorazioni interne, alle
quali si attendeva ancora nel seguente anno, come risulta dalla circostanza che
essendosi assentato, nel giugno 1496,
il pittore incaricato di quella decorazione, il Duca ebbe a raccomandarsi all’arcivescovo
di Milano affinchè gli procurasse l’opera del pittore Pietro Perugino ([3]).
D’altra parte, un frammento di lettera di Leonardo da Vinci, conservato nel Codice
Atlantico, accenna alla « commessione del dipigniere i camerini » il che
porterebbe a credere che fosse riuscito vano il desiderio di avere il concorso
del Perugino ([4]).
Sgraziatamente, anche dell’opera di Leonardo non
fu possibile di ritrovare traccia sulle vòlte e sulle pareti dei camerini.
*
* *
L’opera del restauro contribuì invece, ben più che
le scarse memorie del tempo, ad identificare l’architetto che attese alla
sistemazione definitiva della ponticella. Che in questa si dovesse ravvisare un
lavoro di Bramante da Urbino era da ammettere in base ad un passo dell’architetto
Cesare Cesariano, nel suo Comento a Vitruvio, stampato in Como nel 1520, là
dove, a proposito delle comunicazioni militari, dice col solito suo bizzarro
stile, che erano « come le ponticelle che sono in la via coperta di la nostra
arce de Jove in Milano, et maxime quella che fece fare Bramante Urbinate, mio præceptore, quale si traiice da lo mœniano muro de la propria arce ultra le aquose fosse ad lo
cripto itinere »; notizia confermata a sua volta dall’Anonimo Morelliano al
principio del XVI
secolo, là dove, parlando degli edifici di Milano e del Castel de Jove,
aggiunge: « ivi la strada subterranea dalle mure della Rocca insino alla
contrascarpa e più oltra, sotto al fosso, fu fatta fare dal signor Lodovico (il Moro)
a Bramante « architetto ».
L’attestazione del Cesariano, che si professava
allievo dell’Urbinate, ebbe ad indurre, fin dal secolo XVIII, il De Pagave
a ricercare nella mole del Castello l’opera di Bramante, ed il Barone H. de
Geymuller non esitò a riconoscerla nella ponticella. Dal canto mio, nell’occasione
dei rilievi del Castello compiuti nel 1884,
non mi era sembrato di ravvisare nella ponticella un’opera d’arte, per la quale
risultasse necessario l’intervento di Bramante; ciò in considerazione del fatto
che l’elemento architettonico, nel quale sarebbe stato possibile di ravvisare
uno stile personale, vale a dire le colonne del porticato, risultava dai
documenti come un’opera di semplice ripiego, affidata all’ingegnere Ambrogio
Ferrario, commissario generale dei lavori e delle munizioni del Castello.
Infatti, secondo la già citata lettera del marzo 1495, il Ferrari si proponeva
di trovare in Milano le colonne adatte a formare il portichetto.
Però, allorquando dieci anni più tardi, sgombrato
il Castello dall’Autorità militare, fu possibile di avviare le indagini anche
nella struttura della ponticella, venne in luce un particolare che ricondusse
il pensiero a Bramante.
Infatti, scrostando la parete di fondo del
loggiato, si trovarono le traccie degli stipiti di tre porte architravate, in
laterizio, la cui profilatura in sporgenza dal muro era stata completamente
abrasa; la parte però che risvoltava lungo il fianco dello stipite, a guisa di
zoccolo, rimase per fortuna preservata, essendo stati murati i vani di porta.
Ora, questa stessa disposizione del risvolto delle profilature, per modo da
formare zoccolo, e più ancora il carattere della profilatura, parvero indizi
sufficienti per riconoscervi l’opera di un artista che non doveva essere fra
coloro che nel Castello si attardavano nelle tradizioni medioevali, e tanto
meno poteva trattarsi dell’ingegnere militare Ambrogio Ferrario. E se
ingiustificato sarebbe stato l’evocare il nome di Bramante in base solo a
quelle scarse traccie architettoniche, la citata testimonianza del Cesariano
appariva invece una sanzione non dubbia dell’intervento di questo artista.
La conferma di tale attribuzione si ebbe anche da
altre traccie ritrovate nell’occasione dei restauri compiuti di recente, come
si dirà più innanzi.
*
* *
Colla caduta di Lodovico il Moro, il Castello
cessò dall’essere la fastosa residenza ducale: durante la dominazione francese,
le stesse opere di difesa, aggiunte per ordine di Luigi XII ai lati della
fronte principale del Castello - e delle quali rimangono ancora le traccie -
mirarono anzitutto a contrastare un possibile attacco dalla parte della città,
giacchè era troppo facile di prevedere che il possesso del Castello potesse
riuscire affatto indipendente, anzi in contrasto col possesso materiale della
città: come non tardò ad essere comprovato dalle varie circostanze nelle quali
il Castello resistette a lungo, anche più di un anno, agli assedi ed attacchi
di truppe che già dominavano Milano. La ponticella dovette perciò perdere il
suo carattere di comunicazione fra la Corte ducale e le difese esteriori, ed è
anzi a meravigliare che non ne sia stata ritenuta conveniente la demolizione.
Certo non dovette la ponticella tardare a subire manomissioni, col progressivo
sviluppo dato alle difese del Castello, tosto che Milano cadde definitivamente
in dominio degli Spagnoli, e si pose mano al grande recinto dei baluardi a
forma di stella, la cui costruzione si protrasse sino al secolo XVII. Si
conserva, per fortuna, una descrizione particolareggiata, data alle stampe a
quell’epoca.
Infatti a pag. 94 della Relazione generale,
stesa dagli ingegneri Camerali Fr. Richino e Pessina nell’anno 1661,
viene così descritto lo stato in cui si trovava la ponticella:
« Segue
l’andito, ouer cottitore, che traversa sopra la fossa interiore, dove è la Roggia
(canale) del molino, il qual corritore và verso il Quartiero del Carminetto:
tiene la sua porta per entrare con anta fodrata, et cornisata, n. 6 ase, con
suoi cancani, cadenazzo tondo et occhi, la qual anta è vecchia et rotta, la
porta contraposta in grossezza del muro, num. 5 cancani et un antiporto con suo
telaro, cornice per finimento con due ante et fodrine dal mezzo in giù, et dal
mezzo in su vi era la gelosia o indiata, che vi manca, cadenazzolo quadro con
laniera et parpaioni, il qual va rapezzato.
« Il detto corritore in volta con num. 9 chiave,
suolo parte di pichè in piano et parte in coltello che può servire.
« Fenestre num. 8 (sic)
verso la detta fossa, con due ante per caduna in buon ordine.
« Porta in testa a detto andito, che và a detto
Carminetto, con antiporto con due ante cornisate, ase, cancani, cadenazzo
tondo, suoi occhi, serratura, et chiave con manetta.
« In detto andito vi sono quattro antiporti con
suoi telari nel muro, con due ante suoi corpini dal mezzo in giù, et dal mezzo
in , su con suoi telari d’indiata vecchi.
« Segue la prima camera di fianco di detto
corritore, la qual è in volta a lunette con suolo de pieloni che può servire,
et una chiave di ferro nella volta.
« Due porte con due ante per parte cornisate, due
finestre con sue ante cornisate et snodate, camino incassato nel muro con sue
ante et traversi.
« Segue la camera con volta et suolo come sopra
etc.
» » » » »
etc. » ([5]).
Da tale descrizione risulta come a quell’epoca la
ponticella, ed i relativi camerini, non conservassero alcuna particolarità
decorativa: già erano scomparse anche le traccie delle decorazioni che Lodovico
il Moro vi aveva fatto dipingere da Leonardo. Va notata in quella descrizione -
per quanto minuziosa come comportava il suo carattere di inventario - la svista
di indicare otto finestre verso il fossato, mentre in realtà sono quattro, non
essendo d’altra parte ammissibile che in parte siano state otturate dopo l’epoca
di quella descrizione, il che avrebbe dovuto risultare nell’occasione dei
recenti restauri.
Fu nel 1893
che si poterono avviare le prime indagini alla ponticella, tosto che il
Castello venne consegnato all’Amministrazione municipale: lo scrostamento delle
pareti mise tosto in evidenza le traccie delle porte originarie, che erano
state otturate, e colla demolizione della muratura di riempimento si trovarono,
come già si disse, le profilature originarie in terracotta, che non erano state
abrase, per cui si potè ricostituire la forma e la decorazione delle porte.
Più interessante si presentava la ricerca delle
decorazioni interne. Il dottor Müller Walde di
Berlino, che a quell’epoca si trovava in Milano per raccogliere notizie su
Leonardo da Vinci, dopo di avere rintracciati i resti delle decorazioni
pittoriche nella «
Saletta negra » e nella Sala delle « Asse »,
estese le indagini ai Camerini, ma dovette ben presto persuadersi come nessuna
traccia pittorica rimanesse sotto l’imbianco delle pareti e delle vòlte;
sarebbe stato quasi da porre in dubbio che i documenti accennanti a decorazioni
compiute da Leonardo nei Camerini si riferissero a quei locali della
ponticella, se la indagine del dott. Müller Walde non avesse esaurito ogni
espediente per risolvere la questione: infatti, riconosciuto come l’intonaco
delle pareti e delle vòlte non fosse quello originario, il dott. Müller Walde
pensò che questo dovesse essere stato distrutto, e che le macerie avessero
potuto trovarsi utilizzate nell’adattamento dei locali: egli quindi fece
scomporre il vecchio pavimento, e levare tutti i calcinacci che avevano servito
a formarne il sottostrato, arrivando così a rintracciare dei pezzi di intonaco
recanti varie colorazioni ad affresco, ed anche qualche piccola traccia di
ornamentazione. Non vi era alcun dubbio: erano quelli i frammenti delle pitture
che avevano decorato i Camerini: pitture alle quali Leonardo aveva, come per la
Sala delle «
Asse », contribuito coll’opera sua!
COME
appare dalle fotografie della ponticella anteriori all’abbandono del Castello
effettuato dall’autorità militare, una buona parte del fossato originario
recingente il quadrato sforzesco era stata interrata, per modo che tutta l’arcata,
impostata al muro di controscarpa, si trovava ostruita: alla quale circostanza
devesi ascrivere la grave manomissione nel tratto di portico vicino alla
testata della ponticella, colla interruzione dell’architrave in laterizio e
colla sostituzione di due dei capitelli originali con altri di rozzo lavoro.
Anche la cornice in terracotta era scomparsa, non lasciando altro dato che la
ricorrenza dei laterizi che la costituivano: per cui, mancando dati diretti,
bisognò ricorrere ad esempi coevi - che a S. Maria delle Grazie non mancarono -
per ripristinare la cornice. In tale circostanza si poterono compiere le
indagini nella tratta di intonaco corrispondente al fregio, e sotto l’imbianco
apparvero ancora le traccie della originaria decorazione, la quale nella fronte
verso nord-ovest apparve più ricca, quale si richiedeva dalla disposizione
della sottostante parete a
quadronzini, o piccole bugne, cui faceva cenno il Ferrari nell’anno
1495; più
semplice invece risultò nella fronte verso nord-est, limitata a riquadri in
corrispondenza delle colonnine.
Il fregio più ricco contribuì a rafforzare l’intervento
di Bramante nei lavori della ponticella. Trattasi infatti di un motivo
ornamentale tracciato a grandi linee, ben lontano da quella ricercatezza di
esecuzione che caratterizza le ornamentazioni di quell’epoca in Milano: mentre
riesce evidente il punto di contatto fra quel fregio e le ornamentazioni
architettoniche nei frammenti della decorazione nella « Sala dei Maestri d’Arme
» da Bramante dipinti nella Casa dei Panigarola in Milano, ora conservati nella
Pinacoteca di Brera.
L’opera di restauro potè quindi compiersi sulla
scorta di elementi sicuri; le decorazioni in laterizio vennero eseguite dalla
Ditta Repellini di Cremona, ed il restauro delle decorazioni in pietra, dalla
Ditta Ferradini di Milano: mentre al ripristino della decorazione pittorica
attese il pittore Ernesto Rusca, lo stesso ch’ebbe lo scorso anno a compiere il
restauro della vòlta nella Sala delle «
Asse » e in questi giorni sta ultimando la decorazione nella Sala
del Consiglio Ducale, nella Rocchetta.
Di un solo elemento della ponticella mancava in
modo irrimediabile qualsiasi indizio, la porta di accesso al portico: la quale,
come appare nelle vedute anteriori al restauro, era stata sformata in una
arcata, dal contorno superiore elittico. Si dovette quindi ricorrere ad un
esempio di porta della stessa epoca, e parve più indicato il riprodurre la
porta che nel Lazzaretto, ora distrutto, metteva in comunicazione l’andito di
accesso col primo locale di sinistra, trattandosi di costruzione in laterizio
innalzata durante il periodo della tutela esercitata da Lodovico il Moro sul
giovinetto nipote Gian Galeazzo, sette anni prima della riforma della
ponticella.
Il partito di decorare l’intonaco delle pareti e
delle vòlte mediante graffiti, ch’ebbe particolare voga sul finire del secolo
XV e sul principio del secolo XVI,
si giovò delle vedute prospettiche per interessare la parete di fondo dei
porticati: era quindi naturale che, a decorare la ponticella di Lodovico il
Moro, si avesse ad approfittare di quel caratteristico esempio, tanto più che
le vedute che ancora ci restano nei graffiti di quell’epoca, rivelano una
particolare preferenza per il Castello sforzesco. Un frammento di veduta di
questo Castello era stato da me ritrovato, per caso singolare, or son quindici
anni, nel suburbio di Milano sotto il porticato che congiungeva la Cascina
Pozzobonella, ora distrutta, colla cappelletta che ancora si conserva; dalla
quale veduta trassero origine gli studi per la ricostruzione della Torre
principale d’ingresso, rovinata nel 1521 dallo scoppio delle polveri, e che
oggi si sta costruendo in memoria di Umberto I. Un’altra veduta del Castello
trovasi sulla parete di fondo di un porticato che era addossato al braccio di
croce di mezzodì della Abbazia di Chiaravalle milanese. Assicurare al Castello
sforzesco il ricordo di quelle due rare rappresentazioni grafiche - anteriori
al 1521, giacché vi è raffigurata ancora la torre centrale - parve quindi
particolarmente opportuno; e poiché cinque erano gli spazi che si prestavano ad
accogliere composizioni architettoniche, così si ebbe campo di associare alla
riproduzione di quei due graffiti, qualche altro vecchio ricordo grafico del
Castello. La veduta che più di ogni altra si ricollega a quelle della Cascina
Pozzobonella e di Chiaravalle, e venne perciò riprodotta, si trova eseguita ad
intarsio in uno degli sfondi degli stalli, nel coro della Cattedrale di
Cremona, nel quale intarsio si vede la torre principale d’ingresso al Castello,
colla campana che serviva a battere le ore, e giustificò anche il nome di Torre dell’orologio:
quel coro venne eseguito dal 1480
al 1490,
da Giovanni Maria Platina expertus in arte tarxiæ et intaliator, come è confermato dalla
iscrizione esageratamente laudativa, che si legge sullo stesso coro, recante
anche la data.
A questi tre ricordi grafici, genuini nella stessa
loro semplicità, si vollero aggiungere due esempi di vedute del Castello di
Milano del secolo XVI,
le quali concorrono a dare una idea della grandiosità della costruzione non
solo, ma anche della rinomanza di cui la medesima godeva a quell’epoca, per cui
ebbe anche a provocare delle interpretazioni fantastiche. Una di tali vedute si
trova incisa in rame nell’opera «
Civitates orbis terrarum - Colonia MDLXXII »,
e la rappresentazione è abbastanza fedele: l’altra, piuttosto fantastica, si
vede in una edizione di Vitruvio edita a Basilea nel 1616, riprodotta
però da una pubblicazione di data anteriore, che non mi è stato possibile
ancora di identificare dal semplice foglio staccato, recante la xilografia.
Così si poterono utilizzare i vari campi della
parete di fondo del portico, interrotta dalle porte di accesso ai camerini,
disponendovi una serie di rappresentazioni interessanti, sia come documenti in
appoggio dei restauri compiuti, od ancora in corso, sia come prove della
rinomanza di cui il Castello godeva a quell’epoca.
*
* *
A ricordo del restauro compiuto, venne sopra una
lapide in marmo di Candoglia, murata nel mezzo della testata, incisa la
seguente iscrizione:
†lvdovicvs
maria sfortia et beatrix estēn mlī dvces vt familiare ad barchvm iter commodivs
esset ponticvlvm hvnc aptavere. a d nonagesimo qvinto svpra millesivm et
quadrigentesimvm opvs bramantis vebinatis arch jamdiv dilabena aldys noseda in
memoriam aloysii francisciet dorothæ noerbelle basileensis parentum optimotum
restitvit anno mcmii.
[1] Foschino degli
Attendoli da Cotignola, era il castellano che per il primo ebbe la custodia del
Castello ricostrutto da Francesco Sforza: questi aveva dapprima fissato
l’insediamento del castellano ai primi di dicembre 1451, ma poi avevagli
ordinato di rinviare l’ingresso « fina non te scriveremo el dì, perchè la luna
sta adesso in declinando, et perfino la luna non crescha non volimi intri »
(Lettera da Lodi, 4 dicembre 1451 - Vedasi Il Castello di Milano, ediz. 1894, pag.99). Ma le pratiche per fissare
il giorno in cui il Foschino avesse a prender possesso del Castello, non si
limitarono a tener conto della luna: due astrologhi ducali, Pietro da Busto e
Antonio da Bernarezzo, dovevano « vedere et calculare uno bono di et hora, ad
ciò che possi intrare in lo dicto Castello, et se li dicti domanderano lo dì
della nostra nativitate potray domandarlo ad Ant.° de Minuti, Regulatore de le
nostre intrate, che te lo darà perchè luy lha per scripto ». Come si vede, il
Duca non ricordava nemmeno quale fosse il suo giorno natalizio e doveva quindi
rimettersi ad Antonio Minuti, il noto biografo di Attendolo, che col Foschino
aveva seguito Francesco Sforza nelle sue vicende militari. Il Foschino tenne la
custodia del Castello sino alla sua morte, avvenuta ai 3 di novembre del 1461.
[2] Le lettere citate si trovano
pubblicate alle pag. 176-178 del Castello di
Milano,
edizione Hoepli, 1894.
[3] Il Duca scriveva
all’Arcivescovo di Milano: « Mons.e Il pictore quale pinzeva li
Camerini nostri ha facto certo scandalo per el quale se è absentato, et havendo
noi adesso a pensare ad altro pinctore per fornire l’opera, e intendendo che
Magistro Pietro Perugino si trova li, ci è parso darvi cura de parlarli et
intendere da luy sei vole venire ad servirne ... Questa lettera venne dal
marchese Gerolamo d’Adda
riprodotta nel libro « Indagini sulla libreria
Visconteo-Sforzesca di Pavia » (Milano, 1875): ma non può esser dubbio che si
riferisca ai lavori nel Castello di Milano.
[4] L’incarico
dato successivamente a Leonardo da Vinci risulta dal frammento di lettera nel Cod. Atlant., fol. 328 v.°. «E vostra Signoria si richorda della
commissione del dipignere i camerini, e la premura portavo a V.a S.a ...».
Allo stesso incarico possono collegarsi alcuni appunti relativi a misure ed a
giornate di lavoro per dipingere pareti e vòlte, contenuti nel Codice H (vedi Richter, vol. II, n.i
1513-17).
[5] Relatione generale della visita et consegna de la
Fabrica del Castello di Milano, a stampa: anno 1661.
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