La sala detta delle «Asse» si trova al piano terreno della Torre situata all’angolo
verso nord del Castello Sforzesco di Milano. È a pianta quadrata, di metri 15
(braccia milanesi 25) di lato, coperta da vôlta portata da lunette di m. 1.75
di raggio, quattro per ogni lato, impostate a m. 6.60 dal pavimento. Riceve
luce da due finestre in corrispondenza ai lati della Torre, prospettanti il
fossato, e mediante tre porte comunica colle altre sale dell’appartamento ducale
- cioè la Sala Verde, la Sala dei Ducali, ed i camerini fiancheggiami il
portico della «Ponticella» che dalla Corte Ducale conduceva al recinto detto
della Ghirlanda. Ben diverse erano le
condizioni della Sala allorquando, non sono ancora nove anni, serviva come
scuderia: poichè le porte originarie si trovavano murate, e l’unico accesso
alla Sala si aveva mediante una larga apertura, praticata in breccia nel
massiccio muro della Torre, verso la Sala Verde,
egualmente destinata a scuderia. Le finestre non mostravano alcun indizio della
originaria forma, mentre sulle pareti, come sulla vôlta, era stato disteso e
replicato il caratteristico imbianco dei locali di caserma. Il pavimento era in
acciottolato, ed un muricciolo suddivideva l’ambiente per modo da ricavarvi tre
corsie per la infermeria dei cavalli dell’artiglieria, che sino alla seconda
metà dell’anno 1893 ebbe quartiere nella Corte Ducale.
Le indagini che, a
partire dall’anno 1884, ebbi ad avviare in unione al collega architetto Gaetano
Moretti, allo scopo di concretare il piano di massima per il restauro dei
Castello - che a quel tempo si giudicava ipotetico - avevano condotto a
riconoscere la esistenza delle porte originarie del a precisare la forma delle
finestre.
La riapertura del passaggio
originario, formante comunicazione fra la Sala della Torre e la Sala Verde, ebbe a porre in evidenza una
disposizione analoga a quella già constatata nell’altra Torre della Rocchetta, detta
del Tesoro, e cioè una scala nello spessore
del muro (vedasi la sezione a pag. 16),
conducente alla Sala superiore della Torre, pure a vôlta: la quale scala era
stata, non solo abbandonata, ma ostruita con materiale di rifiuto. Alle
indagini ed ai rilievi sul posto vennero in pari tempo ad aggiungersi le
ricerche d’archivio, allo scopo di rintracciare qualche indizio riguardo le
condizioni e la destinazione di quel locale all’epoca sforzesca; il che mi
aveva posto in grado, fin dal 1885, di pubblicare qualche dato in merito alla
Sala della Torre.[1]
Ulteriori indagini mi permisero di precisare, nella seconda edizione della Storia del Castello, pubblicata nel 1894,
la destinazione della Sala e qualche elemento dell’originaria sua decorazione,
come dirò più avanti, sembrandomi opportuno dare anzitutto il riassunto delle
notizie storiche rintracciate negli archivi, o desunte dallo studio diretto
della costruzione.
*
Come ormai viene ammesso, contrariamente alla tradizione,
il Castello che Francesco Sforza decideva nel 1451 di ricostruire sui resti della
Rocca Viscontea - rovinata a furia di popolo nel 1447, sùbito dopo la morte di Filippo
Maria Visconti - non solo ebbe ad occupare la stessa area, ma ne utilizzava
altresì le fondazioni e qualche tratto di muro fuori terra, o più precisamente
al di sopra del cordone, detto redondone,
raccordante la muratura a scarpa dei sotterraneo colla muratura verticale delle
cortine. Della utilizzazione di avanzi viscontei rimane traccia abbastanza
evidente nella già citata torre della Rocchetta, all’angolo verso ovest, che
per qualche tempo fu la Torre Castellana all’incontro di semplici cortine, mentre
in sèguito al progredire delle costruzioni nella Rocchetta, trovandosi
rinserrata fra due corpi di fabbrica fiancheggiati da porticati, potè quella
Torre essere destinata a custodire il tesoro ducale. Anche la Torre quadrata
contenente la Sala delle Asse è da
ritenersi innalzata sopra avanzi del Castello visconteo,[2]
e per qualche tempo dovette trovarsi non del tutto incorporata nelle due ali di
fabbrica della Corte ducale, che oggidì vediamo collegarsi alla Torre. Infatti,
in base ad alcune disposizioni di finestre e di passaggi, che non corrispondono
allo stato attuale della Corte ducale, si deve ammettere che quella torre fosse
stata senza indugio rialzata, fin dal tempo di Francesco Sforza, per difendere
l’angolo nord del Castello: mentre le attigue sale dell’appartamento ducale
risalgono al periodo successivo di Galeazzo M. Sforza. E che la Sala terrena
della Torre, detta poi delle Asse,
sia anteriore alla sistemazione dell’appartamento ducale, risulta anche dalla
circostanza che, mentre tutte le vôlte nelle sale di questo appartamento hanno
le lunette impostate a capitelli pensili, finalmente scolpiti, le lunette nella
Sala della Torre non hanno questo particolare decorativo,[3]
come appunto ne sono sprovviste le sale terrene del lato sud-ovest della
Rocchetta, costituenti precisamente la parte più antica, eseguita da Francesco
Sforza.
Esposte queste condizioni di fatto, veniamo all’esame
delle notizie che ci sono fornite dai documenti dell’epoca.
È noto come Galeazzo M.
Sforza, succedendo nel marzo 1466 al padre, non ne abbia seguito l’esempio di
dimorare nella vecchia Corte Ducale, di fianco al Duomo, e ciò per quella
stessa diffidenza verso i cittadini, che già aveva indotto Filippo M. Visconti
a rinchiudersi nel Castello di Porta Giovia.[4]
Egli quindi ordinò tosto di accelerare i lavori di ricostruzione del Castello,
intendendo farne la residenza ducale, specialmente in vista del suo matrimonio
con Bona di Savoia, colla quale ebbe ad abitare anche una piccola casa
campestre, denominata Cassino,
situata nel giardino, detto Barco,
attiguo al Castello e recinto da muro.[5]
Nel maggio del 1468, poche settimane prima del matrimonio, celebrato nell’agosto,
l’architetto ducale Bartolomeo Gadio scriveva a Galeazzo Maria: «....intendo che V. S. vora alogiare qui in
Castello ne le case principiate l’anno passato. Io me sforzarò de fare che dicte
case siano fomite più presto che sia possibile, perchè gli si possa allogiare».[6]
Infatti il Duca cominciò in quello stesso anno ad abitare in Castello, poichè
nel novembre, trovandosi assente da Milano, faceva scrivere al Gadio che gli
fosse mandato «quello horilogio è in la
camera de la Torre, cioè quello che altre volte porta dietro»[7].
Passato l’inverno, il Duca si affrettava a far decorare quelle prime sale da
lui abitate: egli voleva che la vôlta di una saletta fosse ricoperta di velluto
«cremexile», e nel maggio 1469
spediva da Abbiategrasso le seguenti istruzioni per «la pictnra se ha ad fare nella Saleta, Camera de la Torre, et Sala»:
«La Saletta del Castello di Porta Zobia a Milano sij depinta tutta a zigli
nel campo celestro, mettendo de le stelle tra l’uno ziglio e l’altro, e nella
vôlta di sopra siano li zigli grandi con le stelle ut supra».
«La Camera della Torre, sij tutta rossa depincta con le secchie e il
cimero nel foco, e tra l’uno zimero e l’altro gli siano razi; nella vôlta de
sopra siano gli zimeri grandi».
«La Sala sij verde, depincta a fazoli e nela volta de fazolo l’arco o
sij nivola: ne la vôlta de dicta sala de sopra siano li fazoli grandi con l’arco
ut supra».[8]
Le tre menzionate sale
debbono identificarsi in quella della Torre
e nelle due a questa attigue. I documenti dell’epoca accennano anche all’offerta
fatta da un pittore per eseguire quelle decorazioni; ma non pare che i lavori
cominciassero sùbito, poichè il Duca, avvicinandosi la festa di Natale, ch’egli
si proponeva di passare in Castello, ordinava al Gadio, con lettera del primo
dicembre, che fosse subito dipinta la Saletta e la Sala Verde «et per questa prima fiata non se curamo che
li colori sieno fini, perchè un’altra volta la faremo dipingere più ad nostro
modo».[9]
Si deve quindi supporre, non essendo citata la Sala della Torre, che questa fosse già stata decorata dal maggio al dicembre
di quell’anno, in conformità delle già citate istruzioni. La Sala doveva quindi
essere stata dipinta tutta a fondo rosso, coll’impresa del cimiero nel foco, alternata con quella de li razi: anche nella vôlta doveva trovarsi dipinta la stessa
impresa del cimiero, ma in dimensioni
maggiori, per modo da dominarvi come simbolo ducale, assieme ai razi. Così nella Sala della Torre,
Galeazzo Maria aveva voluto fossero accoppiate le imprese da lui e da Bona particolarmente
favorite; il cimiero viene così
descritto nella concessione di farne uso, rilasciata in quell’anno a Giovanni
Bentivoglio «donamus arma atqne insigne nostrum
Leonis Galeati fulvi coloris, in ignem ardentis, cum fustibus seu bastonis habentibus
situlas aqua plenas, et cum cimerio habente litteras pannonias, sive anglicas
hic of, que latina lingua interpretantur
Io spero».[10] I razi erano invece l’impresa della colombina
nel fiammante radiato, col motto «à bon
droit».
Per il Natale del 1469,
entrambe le camere attigue alla Torre dovevano essere dipinte senza indugio: la
più grande, in verde con li fazoli, e
l’altra a scarlioni bianchi e morelli,[11]
da eseguirsi «in quella forma et modo che
stano nel paramento dela nostra Ill.ma consorte quale troveray -
scriveva il Duca al Gadio il 4 dicembre 1469 - in la guardaroba sua».[12]
E che tale ordine fosse stato eseguito risulta dalle istruzioni impartite, due
anni dopo, per la decorazione delle sale superiori, le quali vi sono menzionate
- lo vedremo fra breve - come sovrastanti la
Sala verde, la Camera deli Ducali,
la Saletta delli Scarlioni, e la Camera de la Columbina.
Anche da queste
istruzioni relative all’adattamento delle sale superiori si può ricavare
qualche interessante indizio per la Sala terrena della Torre. Con lettera del
dicembre 1471, il Duca ordinava di aprire una comunicazione, mediante «uno uscio che andasse da la camera de Sua S.ia
cioè da quella chè fata de novo, suxo l’altra dele asse, in la Camera del Tesoro, e quel uscio se facesse
de sarizo, in modo chello fosse forte».
E il Gadio infatti si accingeva al lavoro, scrivendo ai 15 di dicembre: «...domani comincierò ad fare rompere el muro,
et torò tanti spezapreda che rompano dicto muro, et ordinarano li sarizi vano a
fare dicto uscio.»[13]
Si trattava di una
comunicazione fra la Sala superiore della Torre ed una delle sale a questa
attigua, e precisamente quella sovrastante l’attuale Sala dalla vôlta azzurra.[14]
La denominazione di Sala «de le Asse»
che qui appare per la prima volta, viene spiegata da un successivo documento, e
cioè dalla lettera del luglio 1472, colla quale il Duca scriveva al Gadio, che
riguardo «al fodrare de asse la Camera ch’è
sopra la Camera deli Ducali in Castello, siamo contenti tu la facci foderare et
solare come sta quella de sotto, ricordandoti
che gli facci fare in cima la columbina con el razo, come sta quella de sotto...».[15]
Risulta da questo passo come la Sala terrena della Torre venisse anche chiamata
dei Ducali, per le grandi imprese del
Cimiero dipinte sulla vôlta, assieme alle Colombine: e risulta altresì dai
citati passi di lettera come la Sala terrena della Torre, nel 1471, avesse già
le pareti rivestite di legno, così da ricevere anche il nome di Sala de le Asse. Non prima dell’anno 1473 si
diede corso al citato ordine di rivestire in legno anche la Sala superiore
della Torre, poichè solo nell’aprile di quell’anno si dispose per il pagamento
di 600 lire imp. da «spendere in far fare
la Cappella quale va depincta quì nel Castello de Milano, et far foderare d’asse
la Camera della Torre, et altri lavori...»[16]
Il lavoro venne tosto avviato, tanto che nel settembre, l’architetto Gadio così
scriveva al Duca: «altre volte la V. Ill.ma
Sig.a me impose facessi solare et fodrare d’asse tutta la Camera
della Torre è in questo vostro Castello, così le lunette, sive voltayole, come
lo celo quale è involta. Et restandogli solum a fodrare lo celo, come po habere
veduto V.a S.a, andando in dicto celo circha ducento
busi, per mettere, li calastrini per inchiodare le asse a dicto celo...».[17]
Nel dicembre il Gadio tornava a scrivere per dare notizia del lavoro: «ceterum spero che questa presente settimana
debia essere fornita de fodrare tutta la camera della Torre, et secondo che mi è
refferto da quelli che lhano veduta, chè una bella cosa et piacerà a V.a
S.a».[18]
Si presenta abbastanza strano questo partito di
rivestire interamente la Sala con legno: ma si deve ritenere che lo scopo fosse
di rendere la superficie, tanto delle pareti che della vôlta, atta a ricevere
una speciale decorazione. Già si accennò come Galeazzo Maria si proponesse di
ricoprire le pareti e la vôlta di una sala con velluto rosso: un altro
documento ci ricorda come egli volesse altresì ornare la camera dei girifalchi
con velluto verde, che doveva essere ricamato colle imprese delle secchie e del piumaglio.[19]
Invece, per la Sala sovrastante quella dei Ducali,
o delle Asse, il Duca si proponeva di
dorare tanto le pareti quanto la vôlta, il che spiega il partito di estendere
anche su questa il rivestimento in legno. Tale decorazione si trova ordinata
dal Duca in una nota dell’anno 1472 «Lista
de le cose vole il nostro Ill.mo Signore se depingano in Castello ecc.»
nella quale, dopo le indicazioni relative alle grandiose composizioni che
dovevano adornare la Sala sovrastante la Sala Verde, si legge: «...item,
che la Camera che sta appresso, alla torre, sia tutta indorata, salvo che in
cima sia depincto un Lione grande con le secchie».[20]
Di tale nota esistono due
altri esemplari manoscritti, del tempo, nei quali si volle maggiormente
specificare la indicazione della Sala superiore della Torre: infatti, in una
delle copie si aggiunge «intendendo quela
(Camera) che sta sopra a la Camera de li Ducali» e nell’altra invece «intendendo quella che sta sopra la Camera
rossa». Queste due menzioni - che sarebbero discordanti quando si volessero
riferire alla condizione attuale di due distinte sale terrene, l’una coi
ducali, e l’altra rossa colle colombine - non fanno invece che riconfermare
trattarsi della Sala altrimenti detta delle Asse,
la quale infatti era tutta rossa, ed aveva i ducali dipinti sulla vôlta. Dal
sin qui esposto risulta quindi, in modo non dubbio, come la Sala terrena della
Torre - quella che forma particolare argomento di questo studio - fosse nel
1469 decorata colle imprese del Cimiero e della Colombina su fondo rosso, ed
avesse le pareti rivestite in legno: per cui potè dal 1469 al 1472 essere
variamente chiamata Sala dei Ducali,
Sala rossa, Sala della Torre, o Sala delle Asse. L’attigua sala verso ovest, prima di avere la decorazione
della vôlta in azzurro, quale ancora vediamo, coi grandi stemmi che le
procurarono pure il nome di Sala dei Ducali,
era invece decorata a scarlioni, e
quindi si chiamò anche Saletta delli
scarlioni, per distinguerla dall’altra più grande, pure a scarlioni, che si trova dopo la Sala
delle Colombine.
La decorazione di questa
Sala, che il Duca nel 1469 aveva ordinato fosse fatta «tutta a zigli nel campo celestro, mettendo le stelle tra l’uno ziglio e
l’altro» era stata invece provvisoriamente eseguita, come già si disse, a scarlioni. Il Duca però non venne meno
al proposito di farla poi «dipingere più
ad nostro modo»: poichè l’attuale decorazione della vôlta, se non risponde
al primitivo concetto dei gigli e stelle su fondo azzurro, ci presenta i ducali
in quel campo celestro che Galeazzo
Maria aveva prescritto fin dal 1469. E che da questo Duca sia stata eseguita
tale decorazione, risulta dal fatto che invano Lodovico il Moro volle, di
fianco agli stemmi della vôlta, sovrapporre la sigla sua - L V - a quella di
Galeazzo - G Z - visibile ancora malgrado il mutamento.[21]
Abbiamo nei documenti, dal 1473 al 1498, una
lacuna la quale non ci fu possibile di colmare riguardo alla Sala della Torre, ad
eccezione di qualche raro accenno a questa Sala nella circostanza di cerimonie
che vi si celebrarono, come si vedrà più avanti: per compenso, il documento che
dopo una così lunga interruzione si presenta a noi, ha una importanza veramente
eccezionale. Gualtiero, uno dei famigliari ducali, scriveva il 21 aprile del 1498
a Lodovico: «Ill.mo et ex.mo
S.ra mio. … Lunedì si desarmarà la Camera grande da le asse, cioè da
la tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto septembre, et che per
questo si potrà etiam golder: perchè li ponti chel fara lasarano vacuo de soto per
tuto...».[22]
A proposito di questo
documento, già da me segnalato nella Ia edizione del Castello di
Milano del 1885, osservava Gustavo Uzielli nella nota a pag. 319 delle sue Ricerche intorno a Leonardo da Vinci: «qui
Gualtiero intende dire che si disarmerà la torre, ossia palco provvisorio fatto
di asse, cioè di tavole: non già che
ci fosse una Sala delle Asse, come ha
interpretato il Beltrami nel passo da lui citato della lettera». Certo, se all’infuori
di questa non avessimo alcun’altra menzione riferentesi ad una Sala delle Asse, si potrebbe anche ammettere la
interpretazione dell’Uzielli, in questo senso: «lunedì la camera grande si disarmerà
delle asse, cioè della torre, o castello di legname»: ma, come già si è veduto,
molteplici sono gli accenni ad una Sala delle Asse, ed alle ragioni stesse di tale nome. Il maestro Leonardo, di
cui è parola, era lo stesso Leonardo da Vinci, che alla medesima epoca lavorava
alla Saletta negra ed ai Camerini, nel
Castello. Dalla lettera del 1498 risulta anche che nella Sala della Torre erano
state fatte delle armature, forse per consolidare e riparare la vôlta della
sala, ad ogni modo per rifarvi l’intonaco, che il pittore si proponeva di decorare
nel termine di cinque mesi circa, senza intralciare durante i lavori l’uso ed
il godimento della Sala.
Fu veramente singolare ventura
che, malgrado il grande disperdimento di documenti, ci sia pervenuta la citata
lettera la quale, coll’attestare l’intervento di Leonardo nel decorare la Sala
delle Asse, ci fornisce una
indicazione particolarmente preziosa, concordante colle stesse conclusioni alle
quali ci conduce lo studio della decorazione fattavi eseguire da Lodovico il
Moro, di cui fortunatamente si poterono ancora ritrovare le traccie.[23]
Nell’inverno del 1893-94, avendo il D.r
Paul Müller Walde - che a quel
tempo attendeva alla biografia di Leonardo - domandato di poter compiere alcune
indagini sulla vôlta della grande Sala della Torre, si poterono rimettere in
luce alcuni frammenti dell’originaria decorazione, costituita da grandi tronchi
d’albero che, innalzandosi lungo le pareti, si ramificano in corrispondenza al
piano d’imposta delle lunette, trasformando la vôlta in ampio pergolato, il cui
intreccio di rami viene arricchito dal motivo di corde dorate, a nodi
raggruppantisi intorno alla serraglia della vôlta, dove campeggia lo stemma
ducale in anello dorato. In quella stessa circostanza si rinvenne sul
pennacchio di vôlta nel mezzo del lato nord-est, il frammento di una iscrizione
a lettere d’oro, racchiusa in grande targa dal contorno dorato e dal fondo
azzurro.[24] Di
quel frammento, che non senza difficoltà mi riuscì a quell’ epoca di decifrare,
ebbi nella 2a edizione della Storia
del Castello, pag. 697, a dare la trascrizione seguente:
lvdovicvs
. mediol . dux….
italiam
. caroli . franc…………
……..ictam
. tener……..
…..beatrice
. conivge . in . g….aniam
tr….ecit....vt
. divvs.... x...ro . rex
....roli
. conatibvs . in
italia . se . opponeret .
. obtinvit .
. an . sal . lxxxx....
.
vi. svpra . m.
c
c c c
Sebbene incompleto, il
testo era sufficiente ad attestare come si trattasse dell’iscrizione
commemorante l’aiuto da Lodovico il Moro sollecitato presso l’Imperatore
Massimiliano, allo scopo di contrastare i tentativi di Carlo VIII per
soggiogare l’Italia, nell’ultimo decennio del secolo XV.
Il testo dell’iscrizione
veniva quindi a confermare quanto, dal semplice esame delle traccie di pittura,
risultava non dubbio, e cioè che la decorazione risalisse agli ultimi anni del
dominio di Lodovico il Moro, ed a Leonardo da Vinci si potesse quindi, anche
per ragione di tempo, attribuire la originalissima composizione.
Il fatto di aver trovato
le traccie di quella iscrizione all’ imposta di vôlta, in uno dei lati della
Sala, induceva a ritenere che analoghe iscrizioni dovessero trovarsi in
corrispondenza agli altri tre lati. Infatti vi si poterono ritrovare le traccie
di targhe eguali a quella già menzionata: ma sgraziatamente non fu possibile, a
quell’epoca, di mettere in luce alcun frammento delle iscrizioni che dovettero
un giorno contenere.
Essendosi ritrovati
sufficienti indizi per ricomporre l’intero motivo della originaria decorazione
sulla vôlta della Sala che era la principale nell’ appartamento di Lodovico il
Moro, una sola lacuna, per quanto secondaria, rimaneva per il caso di un
ripristino, e consisteva nella perdita, da ritenersi come irrimediabile, delle
iscrizioni che si dovevano leggere nelle altre targhe della vôlta. La sorte
però, che nella sua bizzarria mi aveva fornito altre volte i più inattesi ajuti
per il restauro del Castello, volle concedermi di colmare anche tale lacuna:
infatti, scorrendo nel 1898 la miniera inesauribile delle notizie costituenti i
Diari di Mariti Sanuto, mi veniva
sott’occhio questo appunto: «Copia di
certi epigrammi quali sono nel Castello di Milano, in una sala di habitatione
dil Signor Ludovico, messi in lettere d’oro.» Tale accenno mi portò ad
intravvedere un nesso fra quegli «epigrammi» e le iscrizioni della Sala della
Torre, alla cui perdita già mi ero rassegnato; la lettura delle epigrafi, dal
Sanuto trascritte, non tardò a dissipare ogni dubbio, poichè nella seconda io
riconobbi il testo completo dell’iscrizione frammentaria già riportata, salvo qualche
variante probabilmente dovuta alla difficoltà della lettura, trovandosi le
iscrizioni all’altezza di circa nove metri dal pavimento della sala. Eccone il
testo, quale è dato dal Sanuto:
Ludovicus Mediolani Dux cum Italiam Gallorum regis arma suspecta
tenerent, cum Beatrice conjuge in Germaniam trajecit et ut divus Maximilianus
rex Caroli conatibus in Italia se opponeret obtinuit. Anno salutis LXXXXVI supra
MCCCC. Risultava
quindi confermata la interpretazione già da me data al frammento ritrovato, trattarsi
cioè dell’aiuto presso Massimiliano invocato da Lodovico il Moro, a tale scopo
recatosi - dice l’iscrizione - assieme alla sposa Beatrice d’Este, in Germania.
Massimiliano è menzionato
anche in due delle altre iscrizioni: nella prima, in ordine di data,
commemorante il matrimonio di Bianca Maria, figlia di Galeazzo M. Sforza, coll’Imperatore
di Germania: e nella seconda, pure in ordine di data, ricordante il riconoscimento
del Ducato di Milano, per parte dello stesso Massimiliano, in favore della casa
Sforzesca.
Ecco il testo di queste
due iscrizioni, quale si legge a fol. 535 dei Diari del Sanuto:
Ludovicus Mediolani Dux, divo Maximiliano Romanorum regi
Blancam nepotem in matrimonium locavit et cum eo arctiorem affinitate ipsa
benivolentiam injunxit. Anno salutis 93 supra 1400.
Ludovicus Mediolani Dux, Mediolani ducatus titulum jusque quod,
mortuo Duce Philippo avo in gente Sfortiana obtinere non potuerat, ab divo
Maximiliano Romanorum rege imperatoreque magnis cumulatus honoribus accepit.
Anno salutis 95 supra 1400.
Veniamo alla quarta delle iscrizioni, la quale si
distingue dalle altre per il maggiore suo sviluppo, mentre il tenore stesso del
testo ci avverte trattarsi di un avvenimento tutt’altro che onorifico per la
casa Sforzesca, e tanto meno per Lodovico il Moro. Ecco la iscrizione:
Ludovicus Sfortia, Alexandriam urbem X milia suorum militum
præsidio munitam, triduo a
Gallis expugnatam captamque cum rescisset, adhuc XL milia passuum hostium
castris a se distantibus territus per alpinum juga cum liberis et amicis paucissimis
in Noricorum latebras aufugit. - Mediolanum ceteræque ejus ditionis urbes Ludovico XII Gallorum regi
invictissimo ac duci eorum legiptimo se dedunt. Anno salutis 99 supra 1400.
Basta leggere questa
iscrizione per ravvisarvi un ricordo della prima dominazione francese, dal 1499
al 1500, sostituito all’originaria iscrizione, la quale doveva invece
commemorare, al pari delle altre, qualche lieto od importante avvenimento della
casa Sforzesca.
Chi mai avrebbe detto a
Lodovico il Moro, che là dove egli aveva voluto, fra lo sfarzo delle più
raffinate manifestazioni dell’arte, registrare al posto d’onore gli avvenimenti
che maggiormente avevano corrisposto alla smisurata sua ambizione, sarebbe
stata registrata la vergognosa sua fuga davanti lo straniero, e la perdita del Ducato?
La musa popolare non aveva tardato a schernire nelle satire il Duca imbelle; ma
la iscrizione che, nella parte più nobile dell’appartamento ducale ricordava
come, appena occupata la città di Alessandria dalle truppe francesi, e mentre
queste erano lontane ancora più di quaranta miglia, Lodovico coi figli e pochi
fidati amici avesse cercato scampo colla fuga al di là delle Alpi, dovette
essere la maggiore umiliazione per il duca spodestato.
Che la singolare decorazione della vôlta nella
Sala delle Asse sia stata eseguita
dopo l’anno 1496, data di una delle iscrizioni, e prima del 1499, anno della
caduta di Lodovico il Moro, non v’ha dubbio; è dunque la decorazione stessa cui
si riferisce la lettera 21 aprile 1498, menzionante il nome di Leonardo, cosicchè
a questo straordinario ingegno devesi attribuire la geniale composizione. D’altronde,
si hanno in questa delle caratteristiche così spiccate, che per sè stesse
sarebbero state sufficienti a persuaderci in tale attribuzione, essendo noto
quanto Leonardo si dilettasse nelle ingegnose combinazioni di intrecci e nodi
di corde, quali appunto si veggono commiste al non meno ingegnoso intreccio costituito
dal ramificarsi di alberi componenti il pergolato. Però, riservandoci di
riscontrare determinati rapporti fra qualche schizzo di Leonardo e la
decorazione della vôlta nella Sala delle Asse,
ci sembra opportuno menzionare qualche altro esempio della caratteristica
decorazione, che sul finire del secolo XV e nei primi anni del seguente, ebbe
una particolare voga.
Rimangono infatti in
Milano due altri notevoli saggi di congenere decorazione, e precisamente la
vôlta della Sagrestia nella Chiesa delle Grazie, e le vôlte di portico nel
cortile della casa già Aliprandi, ora Ponti, in via Bigli: il primo esempio,
basato esclusivamente sull’ornamentazione di intrecci di corde: il secondo
composto con nodi di corde intrecciantisi con rami di edera pentilobata,
affatto fantastica e ricca di bacche sferoidali. L’epoca delle due costruzioni
consente di potervi ravvisare una diretta influenza vinciana, poichè la
decorazione nella Sagrestia di S. Maria delle Grazie fu di certo compiuta nell’ultimo
decennio del quattrocento - mentre Leonardo nel vicino Refettorio attendeva al
«Cenacolo» - e può dirsi coeva, fors’anco anteriore di qualche anno, a quella
nella Sala delle Asse: la casa
Aliprandi doveva essere già ultimata, o quasi, nel 1508, anno di morte di quell’Ambrosio Aliprando, il cui nome così si
legge, con significato di dedica, sulla fronte meridionale del cortile. Un
intervallo di poco più di un decennio s’interpone quindi fra i tre saggi di decorazione.
In favore di Leonardo, quale
ideatore della composizione nella Sala delle Asse - oltre che la già ricordata sua simpatia per gli intrecci di
corde adattati a schema geometrico - stanno gli studi di botanica, specialmente
riguardo la legge di ramificazione negli alberi. Non parmi però di dover
sorvolare del una circostanza di fatto, in base alla quale un altro insigne
artista, che a quella stessa epoca si trovava in Milano, potrebbe avere
esercitato qualche influenza nella decorazione adottata per la Sala delle Asse.
Trovasi nel fol. 225 del Codice
Atlantico, una di quelle liste di appunti, che Leonardo registrava per sua
memoria, e riferentesi senza alcun dubbio all’epoca del suo soggiorno in Milano,
come appare dai nomi di persona «Marliani,
Fra Filippo di Brera, Benedetto Portinari, Giovanni Taverna» e dalle stesse
località citate, come «Castello, Corte
vecchia, Cordusio, S. Lorenzo». Ora, assieme agli appunti «misura di Milano e borghi - misura del naviglio, conche e sostegni -
misura del Castello» vi è anche l’annotazione
«gruppi di Bramante», la quale merita
di essere esaminata. La interpretazione che più spontanea si affaccia, ci
porterebbe a ravvisarvi il riferimento a qualche composizione pittorica di
Bramante, ricordando come questi, durante il suo non breve soggiorno a Milano,
abbia dipinto in chiese ed edifici privati. Però, dopo un maggiore riflesso su
quell’appunto, si presenta più naturale l’altra interpretazione, derivante dall’assegnare
alla parola gruppo il caratteristico
significato lombardo di nodo, vale a dire intreccio di rami, o di corde. Che
Leonardo si dilettasse nel comporre di questi intrecci già si disse: lo stesso
Codice Atlantico contiene alcuni disegni che lo comprovano, mentre ci rimangono
vari esempi di intrecci, dal pittore pazientemente composti, che si dovrebbero
ritenere destinati ad una Accademia,
dal pittore istituita negli ultimi anni del secolo XV, della quale però non si
hanno positivi indizi. Il citato elenco di appunti personali vinciani, nel
Codice Atlantico, contiene anche la nota «a
fra Filippo di Brera prestai certi gruppi» la quale concorre a confermare
il particolare significato che si deve attribuire alla parola gruppo. Meno noto invece - per non dire
inavvertito - rimase il fatto che anche Bramante si dilettasse in pazienti
combinazioni di intrecci, per cui, se ci trovassimo di fronte soltanto al
sommario appunto di Leonardo «gruppi di
Bramante», non ci sentiremmo per verità autorizzati a dedurne senz’altro
tale inclinazione. Ma un’altra testimonianza ben più esplicita ci è
fortunatamente conservata nel «Trattato
dell’Arte de la pittura»[25]
scritto nella seconda metà del secolo XVI dal Lomazzo, il quale a pagina 430
del Libro VI, riferisce: «ne gl’arbori
altresì si è trovato una bella inventione da Leonardo, di far che tutti i rami
si facciano in diversi gruppi bizarri, la qual foggia usò, canestrandogli
tutti, Bramante ancora». Quando si abbia presente l’attendibilità che, per
le notizie riguardanti l’arte in Milano, dalla fine del secolo XV all’ultimo
quarto del secolo seguente, si può ammettere nel Lomazzo, quel passo, per
quanto incidentale, rappresenta una indicazione preziosa, tanto più che
Bramante adottò dei motivi di decorazione, a base di tronchi di alberi, per le
sue composizioni architettoniche; ne è una prova in Milano l’esempio della
Canonica nella Basilica di Sant’Ambrogio, che egli iniziò nell’ultimo decennio
del quattrocento, sotto gli auspici di Lodovico e di Ascanio Sforza, giacchè i
fusti delle colonne corrispondenti agli angoli del chiostro ed alla grande
arcata mediana, hanno la forma di tronchi d’albero, coll’accenno ai rami
recisi. L’annotazione molto sommaria di Leonardo si trova quindi completata
dalla frase del Lomazzo, e dall’esempio caratteristico della Canonica di
Sant’Ambrogio, per rivelarci in Bramante un altro cultore di quella decorazione
inspirata alla natura, che il Lomazzo giudicava, «una bella invenzione di Leonardo»,
e che nel fatto non era se non un ritorno a quegli esempi di decorazione che già
i Greci ed i Romani avevano adottato, mentre si vuole oggidì far passare ancora
quale «invenzione» sotto il titolo di floreale. La frase del Lomazzo ci offre
quindi l’opportunità di una deduzione, per il fatto che, al tempo di Lodovico il
Moro, al pari di Leonardo, Bramante si applicò ad opere di architettura e di decorazione
nel Castello Sforzesco; a lui viene infatti dal discepolo Cesariano, attribuita
la «ponticella» che serviva di uscita dalla Corte Ducale verso il recinto della
Ghirlanda, la quale oggi ancora si conserva.[26]
L’ attribuzione di tale opera a Bramante mi era sembrata, anni sono, poco persuasiva,
di fronte alla semplicità delle linee architettoniche che si notano nel portichetto
formante quel passaggio coperto: però, dopo le indagini praticate in quella
parte del Castello, allo scopo di raccogliere gli elementi per il restauro,[27]
essendosi trovate le traccie delle originarie porte d’accesso ai locali fiancheggianti
il portico, decorate con stipiti in terracotta, accennanti a lavoro molto
accurato, l’asserzione del Cesariano, da tempo accolta dal Barone Henry de Geymüller, risulta pienamente attendibile.
La constatazione che
anche Bramante ebbe a praticare il genere di decorazione ad intrecci di rami e
di corde, non è quindi senza importanza nei rapporti della Sala delle Asse, dacchè viene a collegarsi coll’altra
circostanza che questo artista, non solo frequentava il Castello alla stessa
epoca in cui si eseguiva la decorazione della Sala, ma a pochi passi da questa,
verso il 1498, ebbe a lavorare. E poichè si deve ragionevolmente ammettere che,
durante la esecuzione del pergolato nella Sala delle Asse, Bramante abbia frequentato l’appartamento ducale, così l’accertata
predilezione per i motivi di intrecci arborei induce a ritenere che anche Bramante
possa avere avuto parte nell’ideare la decorazione per la vôlta di quella Sala.
Ma, come già si è osservato, la decorazione della
vôlta nella Sala delle Asse presenta
delle caratteristiche che per sè stesse vi fanno prevalere l’intervento di Leonardo:
poichè, sebbene non si intenda di attribuire a questo artista la invenzione dei
motivi ornamentali a base di intrecci, o l’adozione di motivi direttamente
ricavati dalla vegetazione, non può disconoscersi come Leonardo, a questi due
elementi decorativi ed all’intima loro fusione, abbia dedicato il suo ingegno.
L’ornamentazione a base di intrecci aveva già trovato, nello stile bizantino,
una larga applicazione nelle scolture ornamentali a bassorilievo, e più ancora
nei codici miniati: si può dire anzi che, negli esempi di questi codici, l’arte
tipografica durante i primi decenni dalla sua invenzione abbia ricavato copioso
alimento. Infatti, osservando la parte ornamentale nelle edizioni dal 1470 al
1520, si può rilevare come nei fregi dei primi saggi tipografici si cercasse di
introdurre caratteristiche intrecciature, serbanti ancora un carattere
bizantino, e come lentamente, non senza subire anche un poco la influenza della
decorazione araba, si arrivasse al tipo di un’ornamentazione basata
particolarmente sul concetto di rendere sempre più complicati gli intrecci di non
interrotte corde. Due esempi che lasciano intravvedere questa evoluzione sono
quelli qui riprodotti da due volumi, l’uno stampato nel 1474, l’altro nel 1492:
mentre le iniziali adottate per queste pagine sono ricavate da libri pubblicati
nel periodo dal 1495 al 1519: si noti come gli intrecci di queste iniziali
presentino notevole affinità cogli intrecci della Sala delle Asse, così da potervi ravvisare una
influenza vinciana, non già nel senso immediato, e troppo arbitrario, di una
influenza direttamente esercitata dalla decorazione di questa Sala sugli
esecutori di quei saggi tipografici, ma nel senso che, alla voga ottenuta da
tale genere di ornamentazione abbia contribuito largamente Leonardo, per la
tendenza e la passione da lui dimostrata, non solo nella vôlta della Sala delle
Asse, ma in molti altri lavori a base
di intrecci. Basterebbero per sè stessi i vari motivi di intrecci dall’artista
pazientemente ideati e disegnati come emblema dell’Accademia di Leonardo: e quando
si aggiungano gli schizzi sparsi nei suoi manoscritti, indicanti studi di
decorazione per fregi, cinture, bordi, fascie, ecc. si ha un complesso di esempi,
in cui non riesce difficile di identificare partitamente qualcuno degli
intrecci di corde adottati nella Sala delle Asse.
Cosicchè la conclusione a tale riguardo può essere questa: che nella seconda
metà del secolo XV ebbe particolare voga l’impiego di ornamentazioni a base di intrecci
sempre più complicati, e quasi geometrizzati nella loro regolare ripetizione;
che Leonardo predilesse tale tendenza, contribuendo a renderla sempre più
interessante ed ingegnosa, sia in apposite composizioni, come quelle per l’Accademia
già citata, sia negli abbigliamenti delle figure dipinte, come nel ritratto di Beatrice
d’Este (vedasi a pag. 52) e nelle
composizioni decorative murali, come nella Sala delle Asse. Ma una particolarità, la quale, ha tutto il carattere di una
innovazione vinciana, è quella della unione dei nodi di corde colle
ramificazioni d’alberi, come vediamo appunto in questa Sala. Per arrivare a
questo più complesso grado di intrecciamento, non solo occorreva una grande
famigliarità nel trattare i motivi di nodi o gruppi, ma bisognava avere altresì una profonda esperienza del
ramificarsi degli alberi; giacchè se l’arrivare a rendere oltremodo complicati
gli intrecci di una corda è questione, più che altro, di pazienza, non è in egual
modo facile il complicare gli intrecci fatti con alberi, i quali si possono bensì
adattare e piegare all’artificio di un intreccio, a condizione però di non violentare
le leggi che ne disciplinano il ramificarsi. Ed è noto come Leonardo abbia dedicato
il sesto libro del suo Trattato della Pittura
allo studio di queste leggi, svolgendo delle osservazioni le quali fanno di Leonardo
il vero precursore di Brown, di Malpighi e di altri botanici, ai quali si deve
la scienza della fillotassi.[28]
Non è qui il caso di entrare nel merito scientifico degli appunti sparsi in
moltissimi codici vinciani: ci basti di riportare come saggio qualcuno dei disegni
relativi alla ramificazione, per comprovare come Leonardo non siasi limitato ad
osservazioni superficiali, dal punto di vista puramente pittorico, ma abbia
cercato di rendersi ragione del comportarsi della natura, per modo da poterne
penetrare e riprodurre i vari aspetti.
Alle indagini praticate nel 1893-94 per
rintracciare la originaria decorazione sulla vôlta nella Sala delle Asse, tenne dietro un periodo di sosta
per qualsiasi opera di ripristino inerente a questa Sala: solo nel 1897, in
occasione del restauro alle fronti esterne nord-est e nord-ovest della Corte
Ducale, a complemento delle opere interne per adattarvi i Musei d’arte, si ebbe
a compiere anche il ripristino delle due finestre che illuminano la Sala delle Asse. In tale occasione, lo scrostamento
della muratura aderente al contorno delle finestre mise in evidenza le traccie
dell’originaria decorazione, dalle quali risultò come lo stipite esterno in
terracotta non fosse identico a quello delle finestre nelle attigue sale verso
nord-ovest, essendo privo della fascia ornamentale in terracotta: mentre altri
indizi, che qui non interessa di richiamare, contribuirono ad accertare come
quelle due finestre dovessero essere eguali a quelle che si hanno nella fronte
nord-est, vale a dire senza quella fascia ornata, e senza la disposizione delle
colonnine reggenti i due archetti a sesto acuto. Questa circostanza non è senza
interesse, quale conferma di quanto già si disse riguardo all’epoca della
costruzione della Torre quadrata verso nord, anteriore a quella dell’ala
nord-ovest, di cui nel 1468 Galeazzo M. Sforza ebbe a sollecitare il
compimento, come risulta dalla lettera citata a pag. 17.
Compiuto il restauro
delle due finestre, un nuovo periodo di sosta sopraggiunse nel riordino della
Sala delle Asse; poichè, sebbene dal
1897 al 1899 fosse stato sollecitato il compimento dei restauri nella restante
parte della Corte Ducale, allo scopo di potere ordinare nelle Sale dell’appartamento
ducale le collezioni dei Museo Archeologico e del Museo Artistico, la
sistemazione della Sala delle Asse
venne differita per il fatto che, potendo questa tenersi segregata dal sèguito
delle Sale terrene destinate alla scoltura, senza alcun pregiudizio per la
visita dei musei, si approfittò di tale circostanza per rinviare un
adattamento, che per sè stesso richiedeva un notevole agio di tempo, ed un
dispendio di maggiore entità che non fosse quello occorso per il restauro delle
altre sale. Così, pur riservando alla Sala delle Asse l’ufficio di accogliere, a tempo opportuno, le scolture
appartenenti specialmente al periodo della dominazione sforzesca, si poterono
nel maggio 1900 inaugurare i Musei d’Arte nel Castello senza dare al pubblico
l’accesso alla Sala delle Asse;
finchè, a togliere ogni ulteriore, indugio sopraggiunse la munifica iniziativa
dell’avv. Pietro Volpi, il quale - col proposito di onorare la memoria della
consorte sua, Alessandrina Volpi Bassani, mancata ai 20 di febbraio del 1901 -
deliberava nel seguente marzo di assumersi la spesa per il ripristino della
decorazione pittorica della vôlta nella Sala delle Asse. D’accordo coll’arch. Gaetano Moretti, Direttore dell’Ufficio
Regionale per la Conservazione dei monumenti in Lombardia, il lavoro venne
affidato al pittore sig. Ernesto Rusca, già favorevolmente noto per altri
lavori congeneri di restauro e di completamento in decorazioni pittoriche del
quattrocento.[29]
Fu solo alla fine
dell’aprile 1901 che, scomposti i ponti di servizio innalzati fin dal 1893 per
compiere semplicemente delle indagini alla vôlta, e rifatte le impalcature più
appropriate al lavoro da eseguire, si potè, con maggiore agio e metodo,
riprendere l’opera della ricerca delle traccie originarie. Le indagini del
1893-94 erano state particolarmente concentrate nella porzione di vôlta verso
il lato nord-est perchè, sebbene la superficie della vôlta si presentasse
interamente ricoperta d’imbianco, pure era facile il rilevare come da quella
parte l’intonaco originario presentasse lacune minori che non nella parte verso
il lato opposto, dove estese zone dell’ intonaco si erano già da tempo staccate
dalla vôlta, lasciando nella superficie delle soluzioni di continuità,
avvertibili ancora, malgrado il denso strato dei ripetuti imbianchi.
Fu solo nel maggio 1901
che si potè riprendere il lavoro di ripulire diligentemente le tratte di
intonaco che non erano state toccate nel 1893, il che permise di raccogliere
altri indizi della composizione, per modo da avere gli elementi necessari a
ricostituire fedelmente uno degli otto spicchi nei quali si può dividere la
vôlta, vale a dire l’aggruppamento di tronchi, rami e corde dorate
corrispondente ad una ottava parte della superficie complessiva: si ebbero a
raccogliere al tempo stesso gli elementi delle varianti secondarie, che
concorrono a dare varietà alla ripetizione dell’aggruppamento. Questa
operazione richiedeva un’opera paziente ed uno speciale intuito: ed il pittore E.
Rusca vi corrispose pienamente. Si trattava innanzi tutto di ricomporre lo
schema generale di una decorazione estesa sopra più di quattrocento metri
quadrati, costituita da un in intricatissimo viluppo di rami, complicato dal
raggirarsi di corde che si sbizzarriscono in nodi: occorreva quindi per ogni
traccia di ramo precisare il tronco da cui proveniva, seguirne lo sviluppo, e
tener calcolo altresì dell’alternato loro sovrapporsi. Ricostituita la ossatura
della composizione, il lavoro era ben lungi dall’essere ultimato: bisognava
rintracciare il fogliame, ricomporne le masse, le movenze, i contorni,
ristabilire le parti sforate di tale pergolato, precisando i campi riservati
allo sfondo di ciclo: infine - parte ancora ragguardevole dell’arduo compito -
occorreva riconoscere le tonalità originarie, le gradazioni di colore, le
intensità di luce e di ombre. Furono come tre stadi di difficoltà, che si
dovettero affrontare quasi ad un tempo, giacchè era facile comprendere come l’effetto
finale fosse basato necessariamente sull’armonico equilibrio di queste varie
fasi del lavoro. E quando si pensi alle difficoltà materiali dell’esecuzione,
per le condizioni di luce e per la mutabilità di questa, per la impossibilità
di potere liberamente abbracciare il lavoro in corso, si potrà comprendere
tutto il merito di avere portato a termine l’opera per modo che, levate le
impalcature, la grandiosa composizione si presentò equilibrata, armonica. E se,
nel fissarvi lo sguardo, noi ci sentiamo affascinati dalla poderosa mente che
seppe ideare e svolgere questa composizione, la cui ricchezza e la cui
genialità sempre più si apprezza, quanto più l’occhio nostro vi si addentra,
sorge nell’animo nostro un senso di viva ammirazione anche per l’artista che ha
saputo ricomporre e ravvivare un’opera, che fu certamente tra le più elette di
un’epoca imbevuta del più squisito senso d’arte.
Già nelle ricerche dell’inverno
1893-94 si era constatata la esistenza, alla serraglia della vôlta, di una
targa con traccie di suddivisioni dei campo, da cui si poteva dedurre che vi
dovessero trovarsi accoppiati i due stemmi, lo sforzesco e l’estense. Il
successivo completo ripulimento dell’intonaco originario ebbe a mettere in evidenza
come quella targa fosse racchiusa in largo anello dorato, e come il contorno
ritrovato nel 1893-94 fosse la variante di una targa alquanto più grande, di
cui si rinvenne nel 1901 il contorno, conforme al disegno dato qui di fianco,
riprodotto dal rilievo direttamente ricavato su quelle traccie. Può ritenersi
che la variante nelle dimensioni della targa abbia avuto lo scopo di ottenere
lo spazio per sovrapporre allo stemma la corona ducale, e infatti qualche indizio
concorrerebbe a favore di tale induzione. Niente di più facile che Lodovico il
Moro, a lavoro compiuto, non si fosse accontentato dello stemma suo,
semplicemente accoppiato a quello di Beatrice, senza corona ducale: cosicchè,
coll’ordinare l’aggiunta di questa, avrebbe obbligato ad una riduzione nell’altezza
della targa. Potrebbe però tale variante essere attribuita a Luigi XII, il
quale, nella stessa occasione in cui dispose per il cambiamento di una delle
quattro iscrizioni all’imposta della vôlta, può avere ordinato altresì di
sopprimere lo stemma sforzesco-estense per sostituirvi il suo, sormontato dalla
corona.
Nella incertezza dell’epoca
e delle ragioni di quella variante nella serraglia di vôlta, venne nel
ripristino adottata la forma più grande, quella che si presentava come la
originaria e che, anche dal punto di vista decorativo, dopo il confronto fatto con
modelli delle due forme, risultò più conforme al concetto primitivo.
Le indagini della
composizione pittorica condussero a ritrovare anche una porzione non piccola
della iscrizione nella targa sovrastante la finestra verso nord-ovest, e precisamente
i seguenti frammenti:
lvdov …. med .. vx ... ivo
max ….. ge .. blanc .. neptem .. n
….. onivm . loc . it . et . eo
arctior …. initate . ipsa . inivnxit
an
. sal ... xxxxi..
svpra
. m . cc…..
Nelle altre due targhe
invece, corrispondenti alle due pareti interne della Torre, si rinvennero solo
alcune lettere, insufficienti per riconoscere a quale delle iscrizioni
trascritte dal Sanuto si riferissero. Infatti, vi si trovarono solo queste
traccie:
………. m ….
vm
(targa sud-ovest) ………. vi … m r
……….
(targa sud-est) e ……. … n …
LE due iscrizioni identificate in modo non dubbio
sono adunque quelle che commemorano le nozze, celebrate nel 1493, di Bianca M.
Sforza coll’imperatore Massimiliano, e la visita fatta a questi da Lodovico il
Moro assieme a Beatrice, nel 1496, per implorarne l’appoggio contro Carlo VIII.
Di questa visita ci ha conservato il ricordo anche Bernardino Corio, là dove
nella Parte VII della sua Storia di
Milano dice: «finalmente Massimiliano
inclinandosi a venire in Italia, Lodovico Sforza con Beatrice si condusse fino
a Bormio nel mese di Luglio, che fu dell’anno 1496 della Salute, e poi a Malsio
(Mals) dove con Massimiliano hebbe lunghi
et secreti ragionamenti esortandolo al venire in Italia». La terza
iscrizione, di cui si trovarono poche lettere, doveva essere quella
commemorante l’assunzione del titolo di Duca per parte di Lodovico, nel 1495.
Quale avvenimento avrà
invece commemorato la quarta delle iscrizioni, che Luigi XII volle fosse
cancellata, allo scopo di sostituirvi quella ricordante la fuga di Lodovico il
Moro? Si può ritenere che, nella Sala delle Asse,
questi abbia voluto fosse ricordata la data del suo matrimonio, oppure la data
della morte di Beatrice, avvenuta nel 1497: fors’anco le due date hanno potuto
trovarsi associate nella iscrizione, che si presentava nel posto d’onore per
chi, levando lo sguardo, vedeva la targa dipinta a modo di serraglia della
vôlta, racchiudente lo stemma degli Sforza e degli Estensi. Certo dovette
essere col pensiero rivolto alla perduta consorte, che Lodovico si accinse ad
accrescere lo splendore della Sala delle Asse:
ed il proposito dovette balenargli alla mente fin dal giorno in cui, sullo
scorcio del 1496, egli si era recato con Beatrice a Pavia, per incontrarvi l’imperatore
Massimiliano, reduce dalla fallita impresa di Livorno, ed offrirgli in quel
Castello Visconteo festose accoglienze con sontuosi apparati. Nella stessa
circostanza, Lodovico mostrò desiderio di ospitare l’augusto suo parente anche
nel Castello di Porta Giovia: ma, come nell’andata a Livorno, così nel ritorno,
Massimiliano aveva voluto evitare Milano, forse per quella stessa diffidenza
che già l’aveva portato a dare a Lodovico il consiglio di tenere nel Castello
di Milano «300 fanti alamanni, li quali
sono fidatissimi » e di evitare che « in
esso Castello se havessino a tenere donne, quale molte volte sono causa de la
perdita de le fortezze». Pertanto, pur non raggiungendo in quell’occasione l’intento,
dovette Lodovico decidersi, per ogni eventualità di ricevimenti, ad accrescere lo
splendore della ducale dimora di Milano, alla quale nel dicembre del 1496 egli
faceva ritorno con Beatrice, che di soli 23 anni, pochi giorni dopo, ai due di
gennaio, moriva. Era stata nella stessa giornata a diporto per la città in
«carretta»: aveva pregato sulla tomba di Bianca Sanseverino, figlia spuria del
Moro, morta pochi giorni prima: la sera aveva danzato. A mezzanotte spirava in
una delle sale superiori della Rocchetta.
La morte di Beatrice era
stata riguardata come un triste presagio per le sorti del Ducato di Milano: il
Corio ebbe a riferire come, pochi giorni prima, «sopra questo Castello apparvero grandissimi fuochi, come presagio della
prossima calamità dell’Ill.ma famiglia de gli Sforzeschi».
Forse, fu per contrastare questi tristi presentimenti che Lodovico, superata la
prima crisi di dolore, si propose tosto di affermare in ogni parte del Castello
il suo nome e quello di Beatrice, stendendo un lungo elenco dei ducali da scolpire, o dipingere sulle porte
d’accesso e sulle torri, col nome suo, oppure «con l’arma della Ill. duchessa e nome suo».[30]
Dovette essere in quegli stessi giorni che il Duca si decise a rinnovare la
decorazione della Sala delle Asse,
per sostituire ai ricordi di Galeazzo Maria e di Bona, l’affermazione del suo
dominio e l’omaggio alla perduta consorte. Un artista si presentava
particolarmente indicato per aggiungere alla dimora ducale la più detta
espressione d’arte: Leonardo. Attendeva questi, nel 1497, alle due più
importanti opere sue, il Cenacolo nel Refettorio della Chiesa di S. Maria delle
Grazie cui Lodovico faceva in quell’anno importanti donazioni[31]
e la statua equestre di Francesco Sforza: e l’incarico della decorazione nella
Sala delle Asse, venendo ad
aggiungersi a questi ed a molti altri impegni, dovette richiedere un certo
tempo per ideare e per risolvere il partito di una decorazione estremamente
complessa ed ingegnosa, adattata alla speciale configurazione della vôlta, che
Leonardo si riprometteva di compiere per il mese di settembre del 1498: mentre
la frase della già citata lettera di Gualtiero al Duca dell’aprile, annunciante
che si stava per disarmare la «Camera de
la Torre» lascia supporre fosse stata ritenuta necessaria qualche opera di adattamento
nella stessa vôlta.[32]
La nuova decorazione
della Sala delle Asse dovette quindi
essere deliberata al momento in cui Lodovico il Moro aveva ancora rivolto il
suo pensiero verso la perduta sua sposa: e come nel centro dell’ampio
pergolato, al fianco del ducale sforzesco, campeggia quello degli estensi, così
la iscrizione nella targa fronteggiante il ducale doveva probabilmente
commemorare Beatrice: e forse, per la circostanza che tale iscrizione si
presentava al posto d’onore, oppure per il fatto che non vi era menzionato
Massimiliano, Luigi XII la designò per affermarvi la conquista da lui compiuta
del Ducato di Milano.
Completate le due
iscrizioni, delle quali si ebbe a trovare buona parte del testo, ripristinato
il terzo degli «epigrammi» originali, per singolare fortuna trascritti dal
Sanuto, si affacciava il compito di assegnare alla quarta delle grandi targhe
la relativa iscrizione. Era il caso di riprodurre il quarto degli «epigrammi»
del Sanuto, ricordante la conquista di Luigi XII e la fuga del Moro, oppure di
comporre una iscrizione ricordante Beatrice, quale dobbiamo supporre fosse
quella che andò sacrificata? Nè l’un partito, nè l’altro parve consigliabile: l’iscrizione
fatta collocare da Luigi XII è, per sviluppo, il doppio delle altre tre
originali, così da farci ritenere che dovesse occupare un campo ben più ampio
di quello concesso dalle targhe: e d’altra parte non sembrava che, al momento
di riprodurre un’opera insigne, la quale è da riguardarsi come l’estrema
espressione del culto professato da Lodovico il Moro per l’arte, si avesse ad
accompagnarvi il facile scherno del vincitore: neppure sembrava che in quel
complesso decorativo - di cui volle il caso serbarci gli indizi sufficienti per
la fedele ricostituzione - si avesse ad introdurre un particolare qualsiasi che
avesse a presentarsi come aggiunta arbitraria, suggerita dal proposito di dissimulare
una lacuna. Lo stesso lavoro della ricostituzione dell’ampio pergolato
affacciava invece la opportunità di rendere avvertito l’osservatore e di
ricordare ai posteri come si tratti di un rinnovamento compiuto in base alle
traccie originali, indicando in quale anno, per quale circostanza, per volontà
e per opera di chi venne compiuto: e non era forse doveroso affermare altresì
il nome del creatore di quella geniale composizione? Ed ecco come queste varie
indicazioni le quali, qualora fosse stato possibile di completare le quattro
targhe con tutte le iscrizioni originali, avrebbero trovato posto in qualche
altro punto della Sala, parvero adatte a colmare la lacuna della quarta targa
rimasta senza iscrizione, offrendo così il modo di completare l’opera
intrapresa senza ingenerare il menomo dubbio sulla genuinità della
composizione, e sulle circostanze che condussero al suo ripristino.
Rimane esaurito così l’assunto di esporre le
circostanze per le quali avvenne che uno squallido locale di scuderia, dalle
cui finestre informi non si aveva altro prospetto che il monotono fabbricato di
caserma, innalzato sul muro della Ghirlanda,
abbia potuto riavere parte dell’antico splendore, offrendo il modo di compiere
una rivendicazione artistica e storica ad un tempo. Poichè per quasi quattro
secoli le pareti e la vôlta della Sala delle Asse hanno custodito le traccie dell’opera d’arte oggi
ripristinata, mentre sotto la maschera dei ripetuti intonaci, il nome d’Italia,
ripetuto in una delle targhe, vi rimase quale pegno dei futuri destini della
nazione, là dove avevano echeggiato gli intrighi che ne prepararono la rovina.
Fu appunto nella Sala delle Asse che
la smisurata ambizione di Lodovico il Moro riuscì ad imporsi: ottenuta la
rinuncia alla reggenza del Ducato, per parte di Bona, ed ottenuto l’allontanamento
di questa da Milano, tornò facile a Lodovico il Moro di farsi nominare tutore
del non ancora dodicenne nipote, Giovanni Galeazzo; e la solenne cerimonia per
redigere lo strumento di tu tela venne celebrata nella Sala delle Asse, «in Arce Castri Porte Jovis mediolani, in Camera majori residentiæ prelibati Ill.mi domini Ducis»[33]
alla presenza dei Vescovi di Cremona e di Como, del marchese Pallavicino
governatore del Duca, dei Consiglieri e del Segretario ducale, e del Podestà di
Milano: il quale, dopo che il fanciullo ebbe rivolto ai consiglieri queste
parole «essendosi partita la Ill.ma Madona mia Matre, Io voglio chel sig.
Ludovico mio barba sii mio tutore», udito il parere dei Consiglieri ducali e
stando in «quadam Cathedra posita in Camera
majoris residentiæ Ill.mi dom. Ducis» convenne nella
opportunità di affidare la tutela del giovinetto Duca a Lodovico «ex ejus ingenii acumine maximarumque rerum usu
et consilio: quem omni ex parte ab hujusmodi onus obeundum dignum putavit».[34]
Non è qui il caso di
rievocare il lungo lavorìo col quale Lodovico il Moro, valendosi della tutela
in tal modo conseguita, riuscì poco a poco ad impossessarsi del Ducato, prima
ancora che la morte del giovane nipote, avvenuta nel 1494 nel Castello di Pavia,
sgombrasse interamente il campo a quell’ambizione, che fu una delle cause per
cui precipitarono a rovina il Ducato di Milano e l’Italia. Pure ci sia concesso
di rievocare l’ultimo episodio della catastrofe svoltasi nel Castello di
Milano.
Di passaggio a Milano, ai
primi di agosto del 1499, il Moro informava Marchesino Stanga sulle condizioni
della resistenza nelle parti del confine del Ducato minacciate dall’avvicinarsi
delle truppe francesi: Fontanetto, Novara, Rebbio, Sartirana, Mortara, Vigevano
erano state visitate da Lodovico in persona, che così scriveva: «non havemo possuto vedere le forteze che
sono de là da Po, alle frontiere de Monferrato et Astesana, come havariemo
desiderato»: ma le notizie raccolte lo confortavano, giacchè le rocche di Arugo e di Anono erano state così ben fortificate « che porriano sustenere insulti di tutta Francia quando li venesse
». Tali notizie molto ottimiste inviava il Moro allo Stanga per incoraggiare il
re di Napoli, affinchè questi «vedendo
che qui si ha a combattere, cossi per la salute sua come per la nostra,
acceleri la venuta degli subsidi sui, nè manchi dal canto suo ad esporgere in
tempo quello che ha promesso»; e concludeva come, confermato questo aiuto «la Maestà sua condurà le cose ad voto et
farà che senza sfodrare spada dall’una et l’altra parte, essi inimici voltarano
le spalle». La situazione però non doveva tardare a volgere alla peggio: da
una parte i francesi avevano posto l’assedio ad Alessandria, dall’altra i
veneziani già invadevano tutta la Ghiara d’Adda, cosicchè il Moro tornava a
sollecitare l’aiuto di Massimiliano, disposto a cedere a questi la Valtellina,
e persino la città di Como. Senza neppure attendere un assalto, il Sanseverino
abbandonava la notte del 27 di agosto la difesa di Alessandria, la quale cadde
tosto in mano dei francesi. Avuta notizia di questo rovescio, il Moro rinchiuso
nel Castello di Milano cominciò a meditare di rifugiarsi presso Massimiliano;
la sorte toccata al Tesoriere ducale Antonio da Landriano che, appena uscito
dal Castello dove si era abboccato col Moro, era stato assalito dalla plebe, e
riportato in Castello ferito mortalmente, decise il Moro ad affidare i figliuoli
suoi ai Cardinali Ascanio e Sanseverino, affinchè col tesoro si dirigessero
senza indugio verso la Germania. Dopo di che, Lodovico cedeva Bari col ducato e
le fortezze ad Isabella d’Aragona, cui chiese invano di avere il di lei figlio
Francesco Sforza, per condurlo salvo in Germania. Ai Borromeo restituiva le
terre e rocche di Angera, Arona, Vogogna: ad Alessandro Crivello cedeva
Galliate, a Fr. Bernardino Visconti donava la Sforzesca presso Vigevano, ed a
molti dei suoi intimi varie altre terre. Concordate le disposizioni occorrenti
al governo del Ducato e del Castello durante la sua assenza, abbracciato il
Castellano Bernardino da Corte, al tramonto del primo di settembre Lodovico
usciva dalla Corte ducale, verso la campagna. Molti credettero si dirigesse
verso Como; invece si portò al tempio di S. Maria delle Grazie per pregare sulla
tomba di Beatrice, dopo di che ritornava in Castello per passarvi la notte. All’alba,
scortato dalle truppe che nel Barco
si erano raccolte, abbandonò definitivamente Milano, non senza avere occasione
di constatare la facilità colla quale il popolo, e molti dei suoi stessi
fidati, si disponevano a parteggiare pei francesi.
Erano nel Castello di
Milano - al dir del Corio - mille ottocento macchine da guerra, trentamila
ducati, oltre alla suppellettile di Beatrice e della casa ducale: ma dieci
giorni appena erano trascorsi dalla partenza del Moro, e da veniva concordato
fra il Castellano Bernardino da Corte ed il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio,
a nome di Luigi XII, il testo della capitolazione del Castello, venendo
assicurato a Bernardino da Corte ed agli altri addetti alla difesa, oltre che
la loro vita e la roba, laute pensioni e retribuzioni.
Ottenuta la cessione del
Castello, grazie al tradimento di Bernardino da Corte, Luigi XII era entrato
solennemente in Milano da Porta Ticinese, ai 6 di ottobre del 1499, prendendo
alloggio nella Corte ducale, di cui era rimasto meravigliato: di là si portava
al Castello, e come riferisce un testimonio «le strade erano coperte de panni bianchi fino al Castello, et se
cridava, poco Franza ! E il Re quando
fu su la piaza del Castello, si mise a rider, vedendo il Castello, e trar tre
slanzi, e subito ritornò soto l’ombrela (il baldacchino d’oro). La festa non era come lui credeva, nè cridi,
nè soni, nè bona ciera. Intrato in Castello - continua il cronista Paullo -
et quando lo vide così bello et fornito
de arteleria, molto restò meravigliato et grandemente improperò quello nuovo
Juda de Bernardino da Corte». Del che però è lecito dubitare.
Ad ogni modo, è notevole
come, nei pochi giorni nei quali dimorò nel Castello - di cui volle tosto
accrescere la difesa verso la città coll’aggiunta di un nuovo rivellino - Luigi
XII non siasi dato cura di cancellare gli emblemi e ricordi della Casa
Sforzesca, accontentandosi di porre il nome suo in una sola delle targhe della
Sala delle Asse, per dichiararsi invictissimo e legiptimo, rispettando le
altre iscrizioni, per quanto una fra queste registrasse gli ostacoli frapposti
al dominio del di lui antecessore, Carlo VIII. Forse, lo stesso ripetuto vanto
dell’alleanza con Massimiliano, rendeva agli occhi suoi più gloriosa la facile
conquista del ducato di Milano, da lui compiuta.
Mentre nella Sala delle Asse, come prima conseguenza della
catastrofe di casa Sforzesca da cui ebbe inizio la secolare dominazione
straniera, si registrava l’ignominiosa fuga di Lodovico il Moro, l’artista che
pochi mesi prima aveva dato in quella Sala una nuova prova del poderoso ingegno,
annotava melanconicamente sul libro suo di memorie: «il Castellano fatto prigione: il Visconte strascinato e poi morto il
figliolo: il Duca perso lo Stato e la roba e la libertà: e nessuna sua opera si
finì per lui»[35]:
dopo di che prendeva a sua volta la via dell’esilio, allontanandosi da quella
città che lo aveva lungamente ospitato, e dove aveva dato le maggiori prove
dello straordinario ingegno.
Nel febbraio del seguente
anno 1500, Lodovico il Moro, coll’appoggio di truppe tedesche e svizzere,
riusciva a riprendere la città di Milano, ad eccezione del Castello,
affrettandosi a pubblicare una grida perchè fossero restituiti «dinari, oro, argento, gioye, veste,
tapezarie, scripture et altre robe» da lui lasciatevi pochi mesi prima; all’assedio
del Castello si accingeva tosto il Cardinale Ascanio Sforza, ma il Moro poco
dopo cadeva in mano dei Francesi a Novara, e veniva tradotto in Francia, per
finire miseramente i suoi giorni, nel 1508, nel Castello di Loches, in quella
cella dalle primitive decorazioni sulle pareti e sulla vôlta, che dovette
amaramente ricordare al prigioniero gli splendori d’arte di cui un tempo si era
circondato.
Ma, riportando il pensiero agli ultimi momenti
del periodo di dominazione sforzesca, durato neppure mezzo secolo e pur così
denso di avvenimenti e di intraprese, maggiore è il compianto che inspirano le vittime
innocenti della catastrofe: i figlioletti di Lodovico il Moro, e di Gian
Galeazzo Sforza. Da questo ambiente saturo d’arte, nel quale colla voce infantile
dovettero far echeggiare una nota sincera di allegria, in contrasto coll’alternarsi
di adulazioni ed intrighi politici, essi dovettero avviarsi per tempo nell’aspra
via dell’esilio. Non si saprebbe immaginare una condizione più privilegiata di
quella che la sorte sembrava avesse loro riservato: avevano dischiuso gli occhi
in mezzo alle più raffinate manifestazioni dell’arte, ed alle abitudini domestiche
maggiormente atte a lasciare nella loro mente le più profonde impressioni; si
trattava di dare un libro di preghiere al primogenito di Lodovico il Moro, ed
ecco per il piccolo Massimiliano, che ancor non aveva sette anni, apprestato il
libro del Jesus, ricco di miniature,
che per lungo tempo si poterono riguardare come opera dello stesso Leonardo: si
doveva dare al piccolo erede del Ducato una grammatica, ed era ancora ai più eletti
artisti che si affidava l’incarico di miniarne squisitamente le pagine,
accompagnandovi il ritratto del piccolo Massimiliano, degno ancora di essere
attribuito a Leonardo: il secondogenito Francesco era ancora in fasce, e già
veniva raffigurato di fianco a Beatrice nella pala d’altare della chiesetta di
S. Ambrogio ad Nemus, confinante col giardino del Castello, che fu di certo la
meta devota delle passeggiate ducali nel Barco.
Quale tristezza c’inspira la loro sorte! Colui, pel quale era stato predisposta
una grammatica che è un prodigio d’arte, recante in fronte a guisa di
ammonimento,
«Non basta a l’homo sol forza
e lo ingegno
Signor mio dolce a governare
uno Stato
Ma ancor convien sii docto
e letterato
Ad esser di corona et
sceptri degno»
era quegli stesso che più tardi così chiudeva una
lettera: «io ho scripto la presente a mano mia propria, per non fidarme de
personna: V. S. me perdona se ho mal scripto, che a la scola non imparai
meglio»; e terminava i suoi giorni in terra straniera, come il primogenito di
Giovanni Galeazzo Sforza - a lui sagrificato dall’ambizione di Lodovico il
Moro, condotto da Luigi XII in Francia, ed avviato al sacerdozio - che
tragicamente finiva i suoi giorni in un accidente di caccia.
Il primogenito di
Lodovico il Moro però, prendendo per breve tempo possesso del Ducato, nel
novembre del 1513, non dovette frapporre indugio a cancellare la iscrizione
ignominiosa per la memoria del padre, nella Sala delle Asse: ma nel frattempo,
il patrizio veneto - che giovane ancora si era accinto a quei Diari, che dal 22 marzo 1496 vanno al
settembre del 1535 - aveva annotato senza alcuna distinzione le quattro
iscrizioni di quella Sala, e queste poterono così giungere sino a noi,
registrate in uno dei 58 volumi in foglio che costituiscono i Diari di Marin Sanuto.
*
Nella Relatione generale delle Visita et consegna
de la Fabrica del Castello di Milano, stesa nel 1661 dagli Ing.i
Richino e Pessina, la Sala delle Asse
è così descritta: «Segue la (Sala) quadra con volta a lunette, e dipinte: duoi
fenestroni con suoi telaroni di rovere, invedriate a disegno, con suoi telari
in quattro ante». Risulta quindi che, un secolo e mezzo dopo la caduta di
Lodovico il Moro, la Sala delle Asse
conservava ancora le traccie di decorazione nella vôlta: a quell’epoca però
doveva esser già stato soppresso il rivestimento in legno alle pareti della
Sala, come si può arguire dal fatto che la composizione vinciana si trovò, per
qualche tempo, estesa anche alla parte inferiore delle pareti, essendosi
trovate le traccie di uno dei tronchi d’albero fino a due metri circa dal
pavimento, colle nodose radici disposte per modo da formare decorazione intorno
al camino disposto nell’angolo a nord della Sala: tale prolungamento di tronco,
sebbene non manchi di un certo carattere, si presenta però come lavoro eseguito
durante il periodo della dominazione spagnola: in seguito, col progressivo
tramutarsi del Castello in caserma, la Sala delle Asse, assieme alla Cappella ed alle altre Sale della Corte Ducale,
venne destinata a scuderia, e ridotta in quello stato da cui prendemmo le mosse
per questo scritto; questa trasformazione in scuderia è a credersi sia stata
compiuta solo all’epoca della occupazione francese sul finire del secolo XVIII,
allorquando il Refettorio delle Grazie potè sfuggire ad una consimile
destinazione solo per l’intervento dello stesso Bonaparte. Infatti durante la
occupazione austriaca del secolo XVIII, il locale attiguo alla Sala delle Asse conservò la destinazione a
Cappella, come risultò dalle tombe di militari austriaci, fra cui quella di un
giovane principe di Lichtenstein, ritrovate alcuni anni or sono nell’occasione
dei lavori di restauro.
Tre secoli di dominazione straniera - durante i
quali in Milano si avvicendarono francesi, spagnoli, austriaci e russi - furono
la espiazione, che la funesta politica di Lodovico il Moro impose allo scarso
sentimento patrio, sul finire del secolo XV. Le dolorose conseguenze di questa
lunga servitù avrebbero potuto giustificare il proposito di cancellarne ogni
materiale ricordo, se malgrado le ripetute manomissioni ed i vandalismi subiti,
quelle mura che allo straniero si prestarono come minaccioso asilo, non
avessero serbato un riflesso d’arte, da cui prese le mosse la rivendicazione
del Castello che oggi, sotto il patrocinio di Leonardo, compie un nuovo passo.
Non possiamo per verità, sperare di potervi ricomporre la geniale ricchezza
d’altri tempi: chi mai si accingerebbe oggi a stendere l’elenco dei tesori
d’arte, che solo fra le pareti della Sala delle «Asse» si trovarono or sono quattro secoli accumulati? I dipinti ed
i libri miniati che ci permisero di ravvivare queste pagine - oggidì
disseminati in pubbliche e private gallerie in Italia e all’estero - sono una
piccola parte soltanto del patrimonio d’arte, che in poco più di un trentennio
gli Sforza vi avevano raccolto, e che la bufera del 1499 disperse: delle quali
memorie molte, per fortuna, si conservano ancora in Milano, nella raccolta del
Principe Gian Giacomo Trivulzio dove figurano - non come si potrebbe a primo
aspetto credere, quale spoglia di guerra dell’omonimo Maresciallo, cui fu
riservata la sorte di impossessarsi del Castello sforzesco poco dopo che il
Moro lo aveva abbandonato - bensì quale testimonianza del culto per le memorie
cittadine, perdurato in quella famiglia patrizia anche nelle epoche in cui il
mutato indirizzo d’arte aveva lasciato cadere in dispregio le squisite eleganze
del quattrocento. È il fascino dell’arte che oggi ci muove a ricomporre una
pagina del nostro passato, ed a delineare figure storiche le quali, per le loro
colpe ed i loro errori, avrebbero altrimenti meritato di rimanere per sempre
nell’oblio; è il prestigio del nome di Leonardo che ci sospinge a rianimare questa
Sala delle «Asse» coll’eco lontana degli
avvenimenti che vi si svolsero. Certo Lodovico il Moro non sospettava che al
genio dell’artista, venuto a suoi servigi e malamente ricompensato, anziché al
ricordo della sciagurata sua politica, fosse riservato di rivendicare la Sala, che
fu il nido delle sue gioje famigliari, e della smisurata sua ambizione: l’ampio
e festoso padiglione di vôlta, poetico sogno di un artista insuperato, si direbbe
attenda solo di ospitare le due statue giacenti di Lodovico e di Beatrice, per disperdere,
col sorriso dell’arte e della passione, efficaci strumenti di quella fatale politica,
ogni triste ricordo del passato.
[1] Il Castello di Milano sotto il dominio degli Sforza - Milano
MDCCCLXXXV. Colombo e Cordani.
[2] Il basamento della Torre
è dell’epoca viscontea: vi si notano ancora gli indizi della vôlta a crociera,
che doveva coprire il locale del sotterraneo. Vedasi la sezione della Torre,
data a pag. 16.
[3] Questa mancanza dei
capitelli pensili non si deve ritenere quale una prova decisiva, giacchè
potrebbesi ammettere che i capitelli siano stati levati, essendo d’ intralcio
al partito decorativo della vôlta che vedremo adottato nel 1498.
[4] Risulta dal Rendiconto
del Ducato di Milano dell’anno 1463, come già a quest’epoca il primogenito di
Francesco Sforza, che non aveva ancora 20 anni, avesse una distinta dimora, nel
vecchio Palazzo dell’Arengo.
[5] Fin dal tempo dei
Visconti, attiguo alla Cittadella di Porta Giovia, si stendeva un giardino che,
con ordinanza ducale del 19 nov. 1392, era stato circondato da fossato:
Francesco Sforza, mentre rialzava il Castello di Porta Giovia sulle fondazioni
ed avanzi viscontei, recingeva il giardino, o Barco, con muro. L’estensione del giardino era ancora calcolata,
nel 1633, in 4940 pertiche milanesi, ossia ettari 323.
[6] Archivio di Stato:
Milano - Classe Architetti. Lettera 20 maggio 1468.
[7] Archivio di Stato:
Milano - Classe Architetti. Lettera 27 novembre 1468.
[8] Archivio di Stato:
Milano - Missiva 29 maij 1469, fol.
335 t.o- Doc. XLIX, C. Casati. Vicende del Castello ecc. Di fianco
all’ordinazione della Saletta, si legge: Mag.o
Vincentio depinga questa Saletta: mentre di fianco alla ordinazione della
Sala, si legge: Mag.o Petro
depinga questa Sala. Il primo degli artisti era il celebre Vincenzo Foppa,
l’altro era il pittore Pietro de Marchesi.
[9] Archivio di Stato:
Milano - Missive Reg.o 91,
fol. 68.
[10] Pergamena datata da
Abbiategrasso 30 Maggio 1469, ora nell’Archivio Bentivoglio d’Aragona, a
Ferrara, da cui è ricavata la figura a pag. 18.
[11] Il bianco e il morello
(rosso cupo) erano i colori adottati dagli Sforza: chiamavasi a scarlioni la disposizione di bande a
zig-zag, alternate di bianco e morello.
[12] Archivio di Stato:
Milano - Missive Reg.o 91,
fol. 75.
[13] Archivio di Stato:
Milano - Missive fogli staccati 1472,
fol. 362.
[14] Vedasi la sezione della
Torre, coll’indicazione dell’uscio a
pag. 16.
[15] Archivio di Stato:
Milano - Registro Miss. N.o
105, fol. 95. - Nell’occasione dei lavori di restauro alla Sala superiore della
Torre, si rinvenne appunto questa apertura, dal contorno formato con pezzi
irregolari di sarizzo, evidentemente adattati a riempimento di una preesistente
apertura, molto più grande e riferentesi all’epoca in cui la Torre non era
ancora racchiusa fra le ali della Corte Ducale. Tale particolare, che non manca
d’interesse per le vicende della Sala in relazione ai citati documenti, venne
lasciato in evidenza, come si può constatare nella Sala ora occupata dal
Medagliere Municipale, e come si vede indicato nel disegno di sezione della
Torre nord.
[16] Archivio di Stato:
Milano - Missive, fascicolo staccato.
- Classe Belle Arti.
[17] Archivio di Stato:
Milano - Sezione storica. Architetti
- Lettera 21 sett. 1472.
[18] Archivio di Stato:
Milano - Sezione storica. Architetti
- Lettera 7 dic. 1473.
[19] Il piumaglio era un’altra delle numerose imprese sforzesche.
[20] Archivio di Stato:
Milano - Classe Belle Arti.
[21] Anche l’indicazione di qvintvs, che si accompagna alla
qualifica di Duca (vedasi l’incisione),
conferma trattarsi di decorazione fatta eseguire da Galeazzo Maria, e non dal
Moro.
[22] Archivio di Stato:
Milano - Classe Belle Arti. Vedasi il facsimile
alla pag. 26.
[23] Alla «commissione del dipigniere i camerini»
allude lo stesso Leonardo nel frammento di lettera al Duca, conservato nel
Codice Atlantico, a fol. 328 verso:
in altro frammento, Leonardo allude all’incarico avuto dal Gualtiero,
accennando anche alle cattive sue condizioni finanziarie, con queste parole:
«Assai mi rincrescie d’essere in neciessità, ma più mi dole che quella
sia causa dello interrompere il desiderio mio il quale è sempre disposto e
ubidir vostra Excellentia: forse che vostra Excellentia non commise altro a
messer Gualtieri, credendo che io avessi dinari...».
Alle pitture di Leonardo
nella Saletta Negra fa cenno lo
stesso Gualtiero nella lettera 21 aprile 1498 al Duca, di cui si da qui di
fronte il facsimile.
Esistono di Leonardo vari
disegni che si riferiscono al Castello di Milano, e che già segnalai nella
monografia di questo edificio, edita nel 1885 e nel 1894: qui interessa di
richiamare specialmente l’attenzione sopra due schizzi che riguardano la Torre
contenente la Sala delle Asse. Nel
Cod. B, all’Istituto di Francia, fol.
15 r, vi sono le indicazioni
planimetriche e prospettiche del sistema di incavallature reggenti il tetto
della Torre, basato sul partito di quattro incavallature minori, disposte
diagonalmente, ed appoggiate a pilastri situati nel mezzo dei lati del quadrato
della Torre: disposizione che ancora oggidì si vede sostenere la copertura
della Torre (si confronti colla veduta di sezione, a pag. 16). Lo stesso Codice
B, a fol. 36 v, contiene l’indicazione prospettica dell’angolo nord del
Castello, colla Torre della Sala delle Asse
e la disposizione della cortina, detta Ghirlanda.
[24] Nel 1894 ebbi a riferire
che la iscrizione in oro della targa campeggiava in bianco; ma, in seguito al
ripulimento completo dell’intonaco, risultò in modo non dubbio che il fondo
delle targhe era di azzurro cupo.
[25] Trattato dell’Arte de la Pittura di Gio. Paolo Lomazzo milanese
scrittore. In Milano, appresso P. Goliardo Pontio l’anno 1584.
[26] Cesare Cesariano: Di Lucio Vitruvio Pollione, ecc. Liber
Primus, fol. XXI, verso: «ma Vitruvio
intende questa opera como una ponticella, como quelle che sono in la via
coperta di la nostra arce de Jove in Milano: et maxime quella che fece fare
Bramante Urbinato mio preceptore, quale se traiice da lo mœniano muro de la propria arce ultra le aquose fosse ad lo
cripto itinere».
Ed. di Como, 1521.
[27] Al restauro di questo
interessante particolare del Castello si sta provvedendo, pur munifica
iniziativa del Sig. Cav. Aldo Noseda.
[28] Si vegga a questo
proposito Gustavo Uzielli: Ricerche intorno a Leonardo da Vinci,
Serie II, 1884.
[29] Menzioneremo il
ripristino di vecchie decorazioni nello stesso Castello di Milano, a S. Maria
della Pace, nella Casa Borromeo, al Castello di Melegnano, ecc.
[30] Archivio di Stato:
Milano - Missive anno 1497, fol. 173.
[31] Sono elencate nel Codice
in pergamena, miniato, di cui si presenta il frontispizio alla seguente pagina,
interessante perchè ci offre un altro esempio di intrecci di corde.
[32] Infatti, la decorazione
ideata da Leonardo per la vôlta già esistente, richiese il partito di arrotondarne
le intersezioni colle « voltajole » delle lunette, allo scopo di meglio
raggiungere l’illusione di tronchi d’albero formanti pergolato. E che si
trattasse di impalcature per adattamenti, e non per rifacimento della vôlta, si
può dedurre dal fatto che, in una giornata si potè «disarmare la vôlta»; come
risulta dal qui riportato passo di lettera di Gualtiero (Arch. di Stato Milano - 23 aprile 1498):
[33] Instrumentum Tutelle et
administrationis Ill.i D. J. Galeaz M. Ducis Med. Imbreviatura
Notajo G. Ant.o de Girardis, 3 nov. 1480.
[34] Nella vicina Sala
invece, nel giugno di quello stesso anno, era stato ratificato il fidanzamento
del giovinetto Duca con Isabella, figlia del Duca di Calabria «in Camera
ducatuum audientiæ p.tæ Dominæ
Ducissæ».
[35] Cod. L ò.
Qualche mese prima che la
minaccia dell’invasione del Ducato, per parte delle truppe francesi si
aggravasse, Lodovico il Moro faceva a Leonardo la donazione di una vigna di
sedici pertiche fuori di Porta Vercellina. In uno dei Registri Panigarola (
Libro O, fol. 182), si legge: «1499, 26 aprilis. Ludovicus M. Sfortia Dux
Mediol.ni dono dedit D. Leonardo Vincio florentino pictori
celeberrimo pert. n. 16 soli seu fundi vineæ; quam ab Abate seu
monasterio S. Victoris in suburbano portæ Vercellinæ proximæ acquisterat».
È forse ipotesi troppo
arbitraria quella di pensare che il Duca di Milano si fosse deciso a
ricompensare Leonardo per servigi da questo resi, fra cui la decorazione della
Sala delle Asse? Ludovico il Moro
aveva dall’abate di S. Vittore acquistato il podere, che poi donò a Leonardo;
sembra quindi che nell’intenzione di fare tale dono egli abbia fatto
l’acquisto, poco dopo che la decorazione di quella Sala dovette essere
compiuta, giacchè meno di un anno trascorsi: dal principio del lavoro alla data
di quella donazione.
Si tratta appunto del
fondo che Leonardo nel suo testamento menziona, di cui legava una metà al suo
domestico Battista de Villanis, giacchè nell’altra metà il discepolo Salaino «ha edificata et constructa una casa la qual
sarà e resterà similmente a sempre mai perpetudine al dicto Salai, et ciò in
rimuneratione di boni et grati servitù che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi
servitori li hano facto da qui inanzi» (Testamento di Leonardo, XXIII
aprile 1518).
Nessun commento:
Posta un commento