giovedì 12 febbraio 2015

1904 - BELTRAMI, Leonardo e la Sala delle "Asse"







La sala detta delle «Asse» si trova al piano terreno della Torre situata all’angolo verso nord del Castello Sforzesco di Milano. È a pianta quadrata, di metri 15 (braccia milanesi 25) di lato, coperta da vôlta portata da lunette di m. 1.75 di raggio, quattro per ogni lato, impostate a m. 6.60 dal pavimento. Riceve luce da due finestre in corrispondenza ai lati della Torre, prospettanti il fossato, e mediante tre porte comunica colle altre sale dell’appartamento ducale - cioè la Sala Verde, la Sala dei Ducali, ed i camerini fiancheggiami il portico della «Ponticella» che dalla Corte Ducale conduceva al recinto detto della Ghirlanda. Ben diverse erano le condizioni della Sala allorquando, non sono ancora nove anni, serviva come scuderia: poichè le porte originarie si trovavano murate, e l’unico accesso alla Sala si aveva mediante una larga apertura, praticata in breccia nel massiccio muro della Torre, verso la Sala Verde, egualmente destinata a scuderia. Le finestre non mostravano alcun indizio della originaria forma, mentre sulle pareti, come sulla vôlta, era stato disteso e replicato il caratteristico imbianco dei locali di caserma. Il pavimento era in acciottolato, ed un muricciolo suddivideva l’ambiente per modo da ricavarvi tre corsie per la infermeria dei cavalli dell’artiglieria, che sino alla seconda metà dell’anno 1893 ebbe quartiere nella Corte Ducale.
Le indagini che, a partire dall’anno 1884, ebbi ad avviare in unione al collega architetto Gaetano Moretti, allo scopo di concretare il piano di massima per il restauro dei Castello - che a quel tempo si giudicava ipotetico - avevano condotto a riconoscere la esistenza delle porte originarie del a precisare la forma delle finestre.
La riapertura del passaggio originario, formante comunicazione fra la Sala della Torre e la Sala Verde, ebbe a porre in evidenza una disposizione analoga a quella già constatata nell’altra Torre della Rocchetta, detta del Tesoro, e cioè una scala nello spessore del muro (vedasi la sezione a pag. 16), conducente alla Sala superiore della Torre, pure a vôlta: la quale scala era stata, non solo abbandonata, ma ostruita con materiale di rifiuto. Alle indagini ed ai rilievi sul posto vennero in pari tempo ad aggiungersi le ricerche d’archivio, allo scopo di rintracciare qualche indizio riguardo le condizioni e la destinazione di quel locale all’epoca sforzesca; il che mi aveva posto in grado, fin dal 1885, di pubblicare qualche dato in merito alla Sala della Torre.[1] Ulteriori indagini mi permisero di precisare, nella seconda edizione della Storia del Castello, pubblicata nel 1894, la destinazione della Sala e qualche elemento dell’originaria sua decorazione, come dirò più avanti, sembrandomi opportuno dare anzitutto il riassunto delle notizie storiche rintracciate negli archivi, o desunte dallo studio diretto della costruzione.

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Come ormai viene ammesso, contrariamente alla tradizione, il Castello che Francesco Sforza decideva nel 1451 di ricostruire sui resti della Rocca Viscontea - rovinata a furia di popolo nel 1447, sùbito dopo la morte di Filippo Maria Visconti - non solo ebbe ad occupare la stessa area, ma ne utilizzava altresì le fondazioni e qualche tratto di muro fuori terra, o più precisamente al di sopra del cordone, detto redondone, raccordante la muratura a scarpa dei sotterraneo colla muratura verticale delle cortine. Della utilizzazione di avanzi viscontei rimane traccia abbastanza evidente nella già citata torre della Rocchetta, all’angolo verso ovest, che per qualche tempo fu la Torre Castellana all’incontro di semplici cortine, mentre in sèguito al progredire delle costruzioni nella Rocchetta, trovandosi rinserrata fra due corpi di fabbrica fiancheggiati da porticati, potè quella Torre essere destinata a custodire il tesoro ducale. Anche la Torre quadrata contenente la Sala delle Asse è da ritenersi innalzata sopra avanzi del Castello visconteo,[2] e per qualche tempo dovette trovarsi non del tutto incorporata nelle due ali di fabbrica della Corte ducale, che oggidì vediamo collegarsi alla Torre. Infatti, in base ad alcune disposizioni di finestre e di passaggi, che non corrispondono allo stato attuale della Corte ducale, si deve ammettere che quella torre fosse stata senza indugio rialzata, fin dal tempo di Francesco Sforza, per difendere l’angolo nord del Castello: mentre le attigue sale dell’appartamento ducale risalgono al periodo successivo di Galeazzo M. Sforza. E che la Sala terrena della Torre, detta poi delle Asse, sia anteriore alla sistemazione dell’appartamento ducale, risulta anche dalla circostanza che, mentre tutte le vôlte nelle sale di questo appartamento hanno le lunette impostate a capitelli pensili, finalmente scolpiti, le lunette nella Sala della Torre non hanno questo particolare decorativo,[3] come appunto ne sono sprovviste le sale terrene del lato sud-ovest della Rocchetta, costituenti precisamente la parte più antica, eseguita da Francesco Sforza.

Esposte queste condizioni di fatto, veniamo all’esame delle notizie che ci sono fornite dai documenti dell’epoca.
È noto come Galeazzo M. Sforza, succedendo nel marzo 1466 al padre, non ne abbia seguito l’esempio di dimorare nella vecchia Corte Ducale, di fianco al Duomo, e ciò per quella stessa diffidenza verso i cittadini, che già aveva indotto Filippo M. Visconti a rinchiudersi nel Castello di Porta Giovia.[4] Egli quindi ordinò tosto di accelerare i lavori di ricostruzione del Castello, intendendo farne la residenza ducale, specialmente in vista del suo matrimonio con Bona di Savoia, colla quale ebbe ad abitare anche una piccola casa campestre, denominata Cassino, situata nel giardino, detto Barco, attiguo al Castello e recinto da muro.[5] Nel maggio del 1468, poche settimane prima del matrimonio, celebrato nell’agosto, l’architetto ducale Bartolomeo Gadio scriveva a Galeazzo Maria: «....intendo che V. S. vora alogiare qui in Castello ne le case principiate l’anno passato. Io me sforzarò de fare che dicte case siano fomite più presto che sia possibile, perchè gli si possa allogiare».[6] Infatti il Duca cominciò in quello stesso anno ad abitare in Castello, poichè nel novembre, trovandosi assente da Milano, faceva scrivere al Gadio che gli fosse mandato «quello horilogio è in la camera de la Torre, cioè quello che altre volte porta dietro»[7]. Passato l’inverno, il Duca si affrettava a far decorare quelle prime sale da lui abitate: egli voleva che la vôlta di una saletta fosse ricoperta di velluto «cremexile», e nel maggio 1469 spediva da Abbiategrasso le seguenti istruzioni per «la pictnra se ha ad fare nella Saleta, Camera de la Torre, et Sala»:

«La Saletta del Castello di Porta Zobia a Milano sij depinta tutta a zigli nel campo celestro, mettendo de le stelle tra l’uno ziglio e l’altro, e nella vôlta di sopra siano li zigli grandi con le stelle ut supra».
«La Camera della Torre, sij tutta rossa depincta con le secchie e il cimero nel foco, e tra l’uno zimero e l’altro gli siano razi; nella vôlta de sopra siano gli zimeri grandi».
«La Sala sij verde, depincta a fazoli e nela volta de fazolo l’arco o sij nivola: ne la vôlta de dicta sala de sopra siano li fazoli grandi con l’arco ut supra».[8]

Le tre menzionate sale debbono identificarsi in quella della Torre e nelle due a questa attigue. I documenti dell’epoca accennano anche all’offerta fatta da un pittore per eseguire quelle decorazioni; ma non pare che i lavori cominciassero sùbito, poichè il Duca, avvicinandosi la festa di Natale, ch’egli si proponeva di passare in Castello, ordinava al Gadio, con lettera del primo dicembre, che fosse subito dipinta la Saletta e la Sala Verde «et per questa prima fiata non se curamo che li colori sieno fini, perchè un’altra volta la faremo dipingere più ad nostro modo».[9] Si deve quindi supporre, non essendo citata la Sala della Torre, che questa fosse già stata decorata dal maggio al dicembre di quell’anno, in conformità delle già citate istruzioni. La Sala doveva quindi essere stata dipinta tutta a fondo rosso, coll’impresa del cimiero nel foco, alternata con quella de li razi: anche nella vôlta doveva trovarsi dipinta la stessa impresa del cimiero, ma in dimensioni maggiori, per modo da dominarvi come simbolo ducale, assieme ai razi. Così nella Sala della Torre, Galeazzo Maria aveva voluto fossero accoppiate le imprese da lui e da Bona particolarmente favorite; il cimiero viene così descritto nella concessione di farne uso, rilasciata in quell’anno a Giovanni Bentivoglio «donamus arma atqne insigne nostrum Leonis Galeati fulvi coloris, in ignem ardentis, cum fustibus seu bastonis habentibus situlas aqua plenas, et cum cimerio habente litteras pannonias, sive anglicas hic of, que latina lingua interpretantur Io spero».[10] I razi erano invece l’impresa della colombina nel fiammante radiato, col motto «à bon droit».
Per il Natale del 1469, entrambe le camere attigue alla Torre dovevano essere dipinte senza indugio: la più grande, in verde con li fazoli, e l’altra a scarlioni bianchi e morelli,[11] da eseguirsi «in quella forma et modo che stano nel paramento dela nostra Ill.ma consorte quale troveray - scriveva il Duca al Gadio il 4 dicembre 1469 - in la guardaroba sua».[12] E che tale ordine fosse stato eseguito risulta dalle istruzioni impartite, due anni dopo, per la decorazione delle sale superiori, le quali vi sono menzionate - lo vedremo fra breve - come sovrastanti la Sala verde, la Camera deli Ducali, la Saletta delli Scarlioni, e la Camera de la Columbina.
Anche da queste istruzioni relative all’adattamento delle sale superiori si può ricavare qualche interessante indizio per la Sala terrena della Torre. Con lettera del dicembre 1471, il Duca ordinava di aprire una comunicazione, mediante «uno uscio che andasse da la camera de Sua S.ia cioè da quella chè fata de novo, suxo l’altra dele asse, in la Camera del Tesoro, e quel uscio se facesse de sarizo, in modo chello fosse forte». E il Gadio infatti si accingeva al lavoro, scrivendo ai 15 di dicembre: «...domani comincierò ad fare rompere el muro, et torò tanti spezapreda che rompano dicto muro, et ordinarano li sarizi vano a fare dicto uscio[13]
Si trattava di una comunicazione fra la Sala superiore della Torre ed una delle sale a questa attigua, e precisamente quella sovrastante l’attuale Sala dalla vôlta azzurra.[14] La denominazione di Sala «de le Asse» che qui appare per la prima volta, viene spiegata da un successivo documento, e cioè dalla lettera del luglio 1472, colla quale il Duca scriveva al Gadio, che riguardo «al fodrare de asse la Camera ch’è sopra la Camera deli Ducali in Castello, siamo contenti tu la facci foderare et solare come sta quella de sotto, ricordandoti che gli facci fare in cima la columbina con el razo, come sta quella de sotto...».[15] Risulta da questo passo come la Sala terrena della Torre venisse anche chiamata dei Ducali, per le grandi imprese del Cimiero dipinte sulla vôlta, assieme alle Colombine: e risulta altresì dai citati passi di lettera come la Sala terrena della Torre, nel 1471, avesse già le pareti rivestite di legno, così da ricevere anche il nome di Sala de le Asse. Non prima dell’anno 1473 si diede corso al citato ordine di rivestire in legno anche la Sala superiore della Torre, poichè solo nell’aprile di quell’anno si dispose per il pagamento di 600 lire imp. da «spendere in far fare la Cappella quale va depincta quì nel Castello de Milano, et far foderare d’asse la Camera della Torre, et altri lavori...»[16] Il lavoro venne tosto avviato, tanto che nel settembre, l’architetto Gadio così scriveva al Duca: «altre volte la V. Ill.ma Sig.a me impose facessi solare et fodrare d’asse tutta la Camera della Torre è in questo vostro Castello, così le lunette, sive voltayole, come lo celo quale è involta. Et restandogli solum a fodrare lo celo, come po habere veduto V.a S.a, andando in dicto celo circha ducento busi, per mettere, li calastrini per inchiodare le asse a dicto celo...».[17] Nel dicembre il Gadio tornava a scrivere per dare notizia del lavoro: «ceterum spero che questa presente settimana debia essere fornita de fodrare tutta la camera della Torre, et secondo che mi è refferto da quelli che lhano veduta, chè una bella cosa et piacerà a V.a S.a».[18]

Si presenta abbastanza strano questo partito di rivestire interamente la Sala con legno: ma si deve ritenere che lo scopo fosse di rendere la superficie, tanto delle pareti che della vôlta, atta a ricevere una speciale decorazione. Già si accennò come Galeazzo Maria si proponesse di ricoprire le pareti e la vôlta di una sala con velluto rosso: un altro documento ci ricorda come egli volesse altresì ornare la camera dei girifalchi con velluto verde, che doveva essere ricamato colle imprese delle secchie e del piumaglio.[19] Invece, per la Sala sovrastante quella dei Ducali, o delle Asse, il Duca si proponeva di dorare tanto le pareti quanto la vôlta, il che spiega il partito di estendere anche su questa il rivestimento in legno. Tale decorazione si trova ordinata dal Duca in una nota dell’anno 1472 «Lista de le cose vole il nostro Ill.mo Signore se depingano in Castello ecc.» nella quale, dopo le indicazioni relative alle grandiose composizioni che dovevano adornare la Sala sovrastante la Sala Verde, si legge: «...item, che la Camera che sta appresso, alla torre, sia tutta indorata, salvo che in cima sia depincto un Lione grande con le secchie».[20]

Di tale nota esistono due altri esemplari manoscritti, del tempo, nei quali si volle maggiormente specificare la indicazione della Sala superiore della Torre: infatti, in una delle copie si aggiunge «intendendo quela (Camera) che sta sopra a la Camera de li Ducali» e nell’altra invece «intendendo quella che sta sopra la Camera rossa». Queste due menzioni - che sarebbero discordanti quando si volessero riferire alla condizione attuale di due distinte sale terrene, l’una coi ducali, e l’altra rossa colle colombine - non fanno invece che riconfermare trattarsi della Sala altrimenti detta delle Asse, la quale infatti era tutta rossa, ed aveva i ducali dipinti sulla vôlta. Dal sin qui esposto risulta quindi, in modo non dubbio, come la Sala terrena della Torre - quella che forma particolare argomento di questo studio - fosse nel 1469 decorata colle imprese del Cimiero e della Colombina su fondo rosso, ed avesse le pareti rivestite in legno: per cui potè dal 1469 al 1472 essere variamente chiamata Sala dei Ducali, Sala rossa, Sala della Torre, o Sala delle Asse. L’attigua sala verso ovest, prima di avere la decorazione della vôlta in azzurro, quale ancora vediamo, coi grandi stemmi che le procurarono pure il nome di Sala dei Ducali, era invece decorata a scarlioni, e quindi si chiamò anche Saletta delli scarlioni, per distinguerla dall’altra più grande, pure a scarlioni, che si trova dopo la Sala delle Colombine.
La decorazione di questa Sala, che il Duca nel 1469 aveva ordinato fosse fatta «tutta a zigli nel campo celestro, mettendo le stelle tra l’uno ziglio e l’altro» era stata invece provvisoriamente eseguita, come già si disse, a scarlioni. Il Duca però non venne meno al proposito di farla poi «dipingere più ad nostro modo»: poichè l’attuale decorazione della vôlta, se non risponde al primitivo concetto dei gigli e stelle su fondo azzurro, ci presenta i ducali in quel campo celestro che Galeazzo Maria aveva prescritto fin dal 1469. E che da questo Duca sia stata eseguita tale decorazione, risulta dal fatto che invano Lodovico il Moro volle, di fianco agli stemmi della vôlta, sovrapporre la sigla sua - L V - a quella di Galeazzo - G Z - visibile ancora malgrado il mutamento.[21]

Abbiamo nei documenti, dal 1473 al 1498, una lacuna la quale non ci fu possibile di colmare riguardo alla Sala della Torre, ad eccezione di qualche raro accenno a questa Sala nella circostanza di cerimonie che vi si celebrarono, come si vedrà più avanti: per compenso, il documento che dopo una così lunga interruzione si presenta a noi, ha una importanza veramente eccezionale. Gualtiero, uno dei famigliari ducali, scriveva il 21 aprile del 1498 a Lodovico: «Ill.mo et ex.mo S.ra mio. … Lunedì si desarmarà la Camera grande da le asse, cioè da la tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto septembre, et che per questo si potrà etiam golder: perchè li ponti chel fara lasarano vacuo de soto per tuto...».[22]
A proposito di questo documento, già da me segnalato nella Ia edizione del Castello di Milano del 1885, osservava Gustavo Uzielli nella nota a pag. 319 delle sue Ricerche intorno a Leonardo da Vinci: «qui Gualtiero intende dire che si disarmerà la torre, ossia palco provvisorio fatto di asse, cioè di tavole: non già che ci fosse una Sala delle Asse, come ha interpretato il Beltrami nel passo da lui citato della lettera». Certo, se all’infuori di questa non avessimo alcun’altra menzione riferentesi ad una Sala delle Asse, si potrebbe anche ammettere la interpretazione dell’Uzielli, in questo senso: «lunedì la camera grande si disarmerà delle asse, cioè della torre, o castello di legname»: ma, come già si è veduto, molteplici sono gli accenni ad una Sala delle Asse, ed alle ragioni stesse di tale nome. Il maestro Leonardo, di cui è parola, era lo stesso Leonardo da Vinci, che alla medesima epoca lavorava alla Saletta negra ed ai Camerini, nel Castello. Dalla lettera del 1498 risulta anche che nella Sala della Torre erano state fatte delle armature, forse per consolidare e riparare la vôlta della sala, ad ogni modo per rifarvi l’intonaco, che il pittore si proponeva di decorare nel termine di cinque mesi circa, senza intralciare durante i lavori l’uso ed il godimento della Sala.
Fu veramente singolare ventura che, malgrado il grande disperdimento di documenti, ci sia pervenuta la citata lettera la quale, coll’attestare l’intervento di Leonardo nel decorare la Sala delle Asse, ci fornisce una indicazione particolarmente preziosa, concordante colle stesse conclusioni alle quali ci conduce lo studio della decorazione fattavi eseguire da Lodovico il Moro, di cui fortunatamente si poterono ancora ritrovare le traccie.[23]

Nell’inverno del 1893-94, avendo il D.r Paul Müller Walde - che a quel tempo attendeva alla biografia di Leonardo - domandato di poter compiere alcune indagini sulla vôlta della grande Sala della Torre, si poterono rimettere in luce alcuni frammenti dell’originaria decorazione, costituita da grandi tronchi d’albero che, innalzandosi lungo le pareti, si ramificano in corrispondenza al piano d’imposta delle lunette, trasformando la vôlta in ampio pergolato, il cui intreccio di rami viene arricchito dal motivo di corde dorate, a nodi raggruppantisi intorno alla serraglia della vôlta, dove campeggia lo stemma ducale in anello dorato. In quella stessa circostanza si rinvenne sul pennacchio di vôlta nel mezzo del lato nord-est, il frammento di una iscrizione a lettere d’oro, racchiusa in grande targa dal contorno dorato e dal fondo azzurro.[24] Di quel frammento, che non senza difficoltà mi riuscì a quell’ epoca di decifrare, ebbi nella 2a edizione della Storia del Castello, pag. 697, a dare la trascrizione seguente:

lvdovicvs . mediol . dux….
italiam . caroli . franc…………
……..ictam . tener……..
…..beatrice . conivge . in . g….aniam
tr….ecit....vt . divvs.... x...ro . rex
....roli . conatibvs . in
italia . se . opponeret .
. obtinvit .
. an . sal . lxxxx....
. vi. svpra . m.
c c c c

Sebbene incompleto, il testo era sufficiente ad attestare come si trattasse dell’iscrizione commemorante l’aiuto da Lodovico il Moro sollecitato presso l’Imperatore Massimiliano, allo scopo di contrastare i tentativi di Carlo VIII per soggiogare l’Italia, nell’ultimo decennio del secolo XV.
Il testo dell’iscrizione veniva quindi a confermare quanto, dal semplice esame delle traccie di pittura, risultava non dubbio, e cioè che la decorazione risalisse agli ultimi anni del dominio di Lodovico il Moro, ed a Leonardo da Vinci si potesse quindi, anche per ragione di tempo, attribuire la originalissima composizione.
Il fatto di aver trovato le traccie di quella iscrizione all’ imposta di vôlta, in uno dei lati della Sala, induceva a ritenere che analoghe iscrizioni dovessero trovarsi in corrispondenza agli altri tre lati. Infatti vi si poterono ritrovare le traccie di targhe eguali a quella già menzionata: ma sgraziatamente non fu possibile, a quell’epoca, di mettere in luce alcun frammento delle iscrizioni che dovettero un giorno contenere.
Essendosi ritrovati sufficienti indizi per ricomporre l’intero motivo della originaria decorazione sulla vôlta della Sala che era la principale nell’ appartamento di Lodovico il Moro, una sola lacuna, per quanto secondaria, rimaneva per il caso di un ripristino, e consisteva nella perdita, da ritenersi come irrimediabile, delle iscrizioni che si dovevano leggere nelle altre targhe della vôlta. La sorte però, che nella sua bizzarria mi aveva fornito altre volte i più inattesi ajuti per il restauro del Castello, volle concedermi di colmare anche tale lacuna: infatti, scorrendo nel 1898 la miniera inesauribile delle notizie costituenti i Diari di Mariti Sanuto, mi veniva sott’occhio questo appunto: «Copia di certi epigrammi quali sono nel Castello di Milano, in una sala di habitatione dil Signor Ludovico, messi in lettere d’oro.» Tale accenno mi portò ad intravvedere un nesso fra quegli «epigrammi» e le iscrizioni della Sala della Torre, alla cui perdita già mi ero rassegnato; la lettura delle epigrafi, dal Sanuto trascritte, non tardò a dissipare ogni dubbio, poichè nella seconda io riconobbi il testo completo dell’iscrizione frammentaria già riportata, salvo qualche variante probabilmente dovuta alla difficoltà della lettura, trovandosi le iscrizioni all’altezza di circa nove metri dal pavimento della sala. Eccone il testo, quale è dato dal Sanuto:
Ludovicus Mediolani Dux cum Italiam Gallorum regis arma suspecta tenerent, cum Beatrice conjuge in Germaniam trajecit et ut divus Maximilianus rex Caroli conatibus in Italia se opponeret obtinuit. Anno salutis LXXXXVI supra MCCCC. Risultava quindi confermata la interpretazione già da me data al frammento ritrovato, trattarsi cioè dell’aiuto presso Massimiliano invocato da Lodovico il Moro, a tale scopo recatosi - dice l’iscrizione - assieme alla sposa Beatrice d’Este, in Germania.
Massimiliano è menzionato anche in due delle altre iscrizioni: nella prima, in ordine di data, commemorante il matrimonio di Bianca Maria, figlia di Galeazzo M. Sforza, coll’Imperatore di Germania: e nella seconda, pure in ordine di data, ricordante il riconoscimento del Ducato di Milano, per parte dello stesso Massimiliano, in favore della casa Sforzesca.
Ecco il testo di queste due iscrizioni, quale si legge a fol. 535 dei Diari del Sanuto:

Ludovicus Mediolani Dux, divo Maximiliano Romanorum regi Blancam nepotem in matrimonium locavit et cum eo arctiorem affinitate ipsa benivolentiam injunxit. Anno salutis 93 supra 1400.

Ludovicus Mediolani Dux, Mediolani ducatus titulum jusque quod, mortuo Duce Philippo avo in gente Sfortiana obtinere non potuerat, ab divo Maximiliano Romanorum rege imperatoreque magnis cumulatus honoribus accepit. Anno salutis 95 supra 1400.

Veniamo alla quarta delle iscrizioni, la quale si distingue dalle altre per il maggiore suo sviluppo, mentre il tenore stesso del testo ci avverte trattarsi di un avvenimento tutt’altro che onorifico per la casa Sforzesca, e tanto meno per Lodovico il Moro. Ecco la iscrizione:
Ludovicus Sfortia, Alexandriam urbem X milia suorum militum præsidio munitam, triduo a Gallis expugnatam captamque cum rescisset, adhuc XL milia passuum hostium castris a se distantibus territus per alpinum juga cum liberis et amicis paucissimis in Noricorum latebras aufugit. - Mediolanum ceteræque ejus ditionis urbes Ludovico XII Gallorum regi invictissimo ac duci eorum legiptimo se dedunt. Anno salutis 99 supra 1400.
Basta leggere questa iscrizione per ravvisarvi un ricordo della prima dominazione francese, dal 1499 al 1500, sostituito all’originaria iscrizione, la quale doveva invece commemorare, al pari delle altre, qualche lieto od importante avvenimento della casa Sforzesca.
Chi mai avrebbe detto a Lodovico il Moro, che là dove egli aveva voluto, fra lo sfarzo delle più raffinate manifestazioni dell’arte, registrare al posto d’onore gli avvenimenti che maggiormente avevano corrisposto alla smisurata sua ambizione, sarebbe stata registrata la vergognosa sua fuga davanti lo straniero, e la perdita del Ducato? La musa popolare non aveva tardato a schernire nelle satire il Duca imbelle; ma la iscrizione che, nella parte più nobile dell’appartamento ducale ricordava come, appena occupata la città di Alessandria dalle truppe francesi, e mentre queste erano lontane ancora più di quaranta miglia, Lodovico coi figli e pochi fidati amici avesse cercato scampo colla fuga al di là delle Alpi, dovette essere la maggiore umiliazione per il duca spodestato.

Che la singolare decorazione della vôlta nella Sala delle Asse sia stata eseguita dopo l’anno 1496, data di una delle iscrizioni, e prima del 1499, anno della caduta di Lodovico il Moro, non v’ha dubbio; è dunque la decorazione stessa cui si riferisce la lettera 21 aprile 1498, menzionante il nome di Leonardo, cosicchè a questo straordinario ingegno devesi attribuire la geniale composizione. D’altronde, si hanno in questa delle caratteristiche così spiccate, che per sè stesse sarebbero state sufficienti a persuaderci in tale attribuzione, essendo noto quanto Leonardo si dilettasse nelle ingegnose combinazioni di intrecci e nodi di corde, quali appunto si veggono commiste al non meno ingegnoso intreccio costituito dal ramificarsi di alberi componenti il pergolato. Però, riservandoci di riscontrare determinati rapporti fra qualche schizzo di Leonardo e la decorazione della vôlta nella Sala delle Asse, ci sembra opportuno menzionare qualche altro esempio della caratteristica decorazione, che sul finire del secolo XV e nei primi anni del seguente, ebbe una particolare voga.
Rimangono infatti in Milano due altri notevoli saggi di congenere decorazione, e precisamente la vôlta della Sagrestia nella Chiesa delle Grazie, e le vôlte di portico nel cortile della casa già Aliprandi, ora Ponti, in via Bigli: il primo esempio, basato esclusivamente sull’ornamentazione di intrecci di corde: il secondo composto con nodi di corde intrecciantisi con rami di edera pentilobata, affatto fantastica e ricca di bacche sferoidali. L’epoca delle due costruzioni consente di potervi ravvisare una diretta influenza vinciana, poichè la decorazione nella Sagrestia di S. Maria delle Grazie fu di certo compiuta nell’ultimo decennio del quattrocento - mentre Leonardo nel vicino Refettorio attendeva al «Cenacolo» - e può dirsi coeva, fors’anco anteriore di qualche anno, a quella nella Sala delle Asse: la casa Aliprandi doveva essere già ultimata, o quasi, nel 1508, anno di morte di quell’Ambrosio Aliprando, il cui nome così si legge, con significato di dedica, sulla fronte meridionale del cortile. Un intervallo di poco più di un decennio s’interpone quindi fra i tre saggi di decorazione.
In favore di Leonardo, quale ideatore della composizione nella Sala delle Asse - oltre che la già ricordata sua simpatia per gli intrecci di corde adattati a schema geometrico - stanno gli studi di botanica, specialmente riguardo la legge di ramificazione negli alberi. Non parmi però di dover sorvolare del una circostanza di fatto, in base alla quale un altro insigne artista, che a quella stessa epoca si trovava in Milano, potrebbe avere esercitato qualche influenza nella decorazione adottata per la Sala delle Asse.
Trovasi nel fol. 225 del Codice Atlantico, una di quelle liste di appunti, che Leonardo registrava per sua memoria, e riferentesi senza alcun dubbio all’epoca del suo soggiorno in Milano, come appare dai nomi di persona «Marliani, Fra Filippo di Brera, Benedetto Portinari, Giovanni Taverna» e dalle stesse località citate, come «Castello, Corte vecchia, Cordusio, S. Lorenzo». Ora, assieme agli appunti «misura di Milano e borghi - misura del naviglio, conche e sostegni - misura del Castello» vi è anche l’annotazione «gruppi di Bramante», la quale merita di essere esaminata. La interpretazione che più spontanea si affaccia, ci porterebbe a ravvisarvi il riferimento a qualche composizione pittorica di Bramante, ricordando come questi, durante il suo non breve soggiorno a Milano, abbia dipinto in chiese ed edifici privati. Però, dopo un maggiore riflesso su quell’appunto, si presenta più naturale l’altra interpretazione, derivante dall’assegnare alla parola gruppo il caratteristico significato lombardo di nodo, vale a dire intreccio di rami, o di corde. Che Leonardo si dilettasse nel comporre di questi intrecci già si disse: lo stesso Codice Atlantico contiene alcuni disegni che lo comprovano, mentre ci rimangono vari esempi di intrecci, dal pittore pazientemente composti, che si dovrebbero ritenere destinati ad una Accademia, dal pittore istituita negli ultimi anni del secolo XV, della quale però non si hanno positivi indizi. Il citato elenco di appunti personali vinciani, nel Codice Atlantico, contiene anche la nota «a fra Filippo di Brera prestai certi gruppi» la quale concorre a confermare il particolare significato che si deve attribuire alla parola gruppo. Meno noto invece - per non dire inavvertito - rimase il fatto che anche Bramante si dilettasse in pazienti combinazioni di intrecci, per cui, se ci trovassimo di fronte soltanto al sommario appunto di Leonardo «gruppi di Bramante», non ci sentiremmo per verità autorizzati a dedurne senz’altro tale inclinazione. Ma un’altra testimonianza ben più esplicita ci è fortunatamente conservata nel «Trattato dell’Arte de la pittura»[25] scritto nella seconda metà del secolo XVI dal Lomazzo, il quale a pagina 430 del Libro VI, riferisce: «ne gl’arbori altresì si è trovato una bella inventione da Leonardo, di far che tutti i rami si facciano in diversi gruppi bizarri, la qual foggia usò, canestrandogli tutti, Bramante ancora». Quando si abbia presente l’attendibilità che, per le notizie riguardanti l’arte in Milano, dalla fine del secolo XV all’ultimo quarto del secolo seguente, si può ammettere nel Lomazzo, quel passo, per quanto incidentale, rappresenta una indicazione preziosa, tanto più che Bramante adottò dei motivi di decorazione, a base di tronchi di alberi, per le sue composizioni architettoniche; ne è una prova in Milano l’esempio della Canonica nella Basilica di Sant’Ambrogio, che egli iniziò nell’ultimo decennio del quattrocento, sotto gli auspici di Lodovico e di Ascanio Sforza, giacchè i fusti delle colonne corrispondenti agli angoli del chiostro ed alla grande arcata mediana, hanno la forma di tronchi d’albero, coll’accenno ai rami recisi. L’annotazione molto sommaria di Leonardo si trova quindi completata dalla frase del Lomazzo, e dall’esempio caratteristico della Canonica di Sant’Ambrogio, per rivelarci in Bramante un altro cultore di quella decorazione inspirata alla natura, che il Lomazzo giudicava, «una bella invenzione di Leonardo», e che nel fatto non era se non un ritorno a quegli esempi di decorazione che già i Greci ed i Romani avevano adottato, mentre si vuole oggidì far passare ancora quale «invenzione» sotto il titolo di floreale. La frase del Lomazzo ci offre quindi l’opportunità di una deduzione, per il fatto che, al tempo di Lodovico il Moro, al pari di Leonardo, Bramante si applicò ad opere di architettura e di decorazione nel Castello Sforzesco; a lui viene infatti dal discepolo Cesariano, attribuita la «ponticella» che serviva di uscita dalla Corte Ducale verso il recinto della Ghirlanda, la quale oggi ancora si conserva.[26] L’ attribuzione di tale opera a Bramante mi era sembrata, anni sono, poco persuasiva, di fronte alla semplicità delle linee architettoniche che si notano nel portichetto formante quel passaggio coperto: però, dopo le indagini praticate in quella parte del Castello, allo scopo di raccogliere gli elementi per il restauro,[27] essendosi trovate le traccie delle originarie porte d’accesso ai locali fiancheggianti il portico, decorate con stipiti in terracotta, accennanti a lavoro molto accurato, l’asserzione del Cesariano, da tempo accolta dal Barone Henry de Geymüller, risulta pienamente attendibile.
La constatazione che anche Bramante ebbe a praticare il genere di decorazione ad intrecci di rami e di corde, non è quindi senza importanza nei rapporti della Sala delle Asse, dacchè viene a collegarsi coll’altra circostanza che questo artista, non solo frequentava il Castello alla stessa epoca in cui si eseguiva la decorazione della Sala, ma a pochi passi da questa, verso il 1498, ebbe a lavorare. E poichè si deve ragionevolmente ammettere che, durante la esecuzione del pergolato nella Sala delle Asse, Bramante abbia frequentato l’appartamento ducale, così l’accertata predilezione per i motivi di intrecci arborei induce a ritenere che anche Bramante possa avere avuto parte nell’ideare la decorazione per la vôlta di quella Sala.

Ma, come già si è osservato, la decorazione della vôlta nella Sala delle Asse presenta delle caratteristiche che per sè stesse vi fanno prevalere l’intervento di Leonardo: poichè, sebbene non si intenda di attribuire a questo artista la invenzione dei motivi ornamentali a base di intrecci, o l’adozione di motivi direttamente ricavati dalla vegetazione, non può disconoscersi come Leonardo, a questi due elementi decorativi ed all’intima loro fusione, abbia dedicato il suo ingegno. L’ornamentazione a base di intrecci aveva già trovato, nello stile bizantino, una larga applicazione nelle scolture ornamentali a bassorilievo, e più ancora nei codici miniati: si può dire anzi che, negli esempi di questi codici, l’arte tipografica durante i primi decenni dalla sua invenzione abbia ricavato copioso alimento. Infatti, osservando la parte ornamentale nelle edizioni dal 1470 al 1520, si può rilevare come nei fregi dei primi saggi tipografici si cercasse di introdurre caratteristiche intrecciature, serbanti ancora un carattere bizantino, e come lentamente, non senza subire anche un poco la influenza della decorazione araba, si arrivasse al tipo di un’ornamentazione basata particolarmente sul concetto di rendere sempre più complicati gli intrecci di non interrotte corde. Due esempi che lasciano intravvedere questa evoluzione sono quelli qui riprodotti da due volumi, l’uno stampato nel 1474, l’altro nel 1492: mentre le iniziali adottate per queste pagine sono ricavate da libri pubblicati nel periodo dal 1495 al 1519: si noti come gli intrecci di queste iniziali presentino notevole affinità cogli intrecci della Sala delle Asse, così da potervi ravvisare una influenza vinciana, non già nel senso immediato, e troppo arbitrario, di una influenza direttamente esercitata dalla decorazione di questa Sala sugli esecutori di quei saggi tipografici, ma nel senso che, alla voga ottenuta da tale genere di ornamentazione abbia contribuito largamente Leonardo, per la tendenza e la passione da lui dimostrata, non solo nella vôlta della Sala delle Asse, ma in molti altri lavori a base di intrecci. Basterebbero per sè stessi i vari motivi di intrecci dall’artista pazientemente ideati e disegnati come emblema dell’Accademia di Leonardo: e quando si aggiungano gli schizzi sparsi nei suoi manoscritti, indicanti studi di decorazione per fregi, cinture, bordi, fascie, ecc. si ha un complesso di esempi, in cui non riesce difficile di identificare partitamente qualcuno degli intrecci di corde adottati nella Sala delle Asse. Cosicchè la conclusione a tale riguardo può essere questa: che nella seconda metà del secolo XV ebbe particolare voga l’impiego di ornamentazioni a base di intrecci sempre più complicati, e quasi geometrizzati nella loro regolare ripetizione; che Leonardo predilesse tale tendenza, contribuendo a renderla sempre più interessante ed ingegnosa, sia in apposite composizioni, come quelle per l’Accademia già citata, sia negli abbigliamenti delle figure dipinte, come nel ritratto di Beatrice d’Este (vedasi a pag. 52) e nelle composizioni decorative murali, come nella Sala delle Asse. Ma una particolarità, la quale, ha tutto il carattere di una innovazione vinciana, è quella della unione dei nodi di corde colle ramificazioni d’alberi, come vediamo appunto in questa Sala. Per arrivare a questo più complesso grado di intrecciamento, non solo occorreva una grande famigliarità nel trattare i motivi di nodi o gruppi, ma bisognava avere altresì una profonda esperienza del ramificarsi degli alberi; giacchè se l’arrivare a rendere oltremodo complicati gli intrecci di una corda è questione, più che altro, di pazienza, non è in egual modo facile il complicare gli intrecci fatti con alberi, i quali si possono bensì adattare e piegare all’artificio di un intreccio, a condizione però di non violentare le leggi che ne disciplinano il ramificarsi. Ed è noto come Leonardo abbia dedicato il sesto libro del suo Trattato della Pittura allo studio di queste leggi, svolgendo delle osservazioni le quali fanno di Leonardo il vero precursore di Brown, di Malpighi e di altri botanici, ai quali si deve la scienza della fillotassi.[28] Non è qui il caso di entrare nel merito scientifico degli appunti sparsi in moltissimi codici vinciani: ci basti di riportare come saggio qualcuno dei disegni relativi alla ramificazione, per comprovare come Leonardo non siasi limitato ad osservazioni superficiali, dal punto di vista puramente pittorico, ma abbia cercato di rendersi ragione del comportarsi della natura, per modo da poterne penetrare e riprodurre i vari aspetti.

Alle indagini praticate nel 1893-94 per rintracciare la originaria decorazione sulla vôlta nella Sala delle Asse, tenne dietro un periodo di sosta per qualsiasi opera di ripristino inerente a questa Sala: solo nel 1897, in occasione del restauro alle fronti esterne nord-est e nord-ovest della Corte Ducale, a complemento delle opere interne per adattarvi i Musei d’arte, si ebbe a compiere anche il ripristino delle due finestre che illuminano la Sala delle Asse. In tale occasione, lo scrostamento della muratura aderente al contorno delle finestre mise in evidenza le traccie dell’originaria decorazione, dalle quali risultò come lo stipite esterno in terracotta non fosse identico a quello delle finestre nelle attigue sale verso nord-ovest, essendo privo della fascia ornamentale in terracotta: mentre altri indizi, che qui non interessa di richiamare, contribuirono ad accertare come quelle due finestre dovessero essere eguali a quelle che si hanno nella fronte nord-est, vale a dire senza quella fascia ornata, e senza la disposizione delle colonnine reggenti i due archetti a sesto acuto. Questa circostanza non è senza interesse, quale conferma di quanto già si disse riguardo all’epoca della costruzione della Torre quadrata verso nord, anteriore a quella dell’ala nord-ovest, di cui nel 1468 Galeazzo M. Sforza ebbe a sollecitare il compimento, come risulta dalla lettera citata a pag. 17.
Compiuto il restauro delle due finestre, un nuovo periodo di sosta sopraggiunse nel riordino della Sala delle Asse; poichè, sebbene dal 1897 al 1899 fosse stato sollecitato il compimento dei restauri nella restante parte della Corte Ducale, allo scopo di potere ordinare nelle Sale dell’appartamento ducale le collezioni dei Museo Archeologico e del Museo Artistico, la sistemazione della Sala delle Asse venne differita per il fatto che, potendo questa tenersi segregata dal sèguito delle Sale terrene destinate alla scoltura, senza alcun pregiudizio per la visita dei musei, si approfittò di tale circostanza per rinviare un adattamento, che per sè stesso richiedeva un notevole agio di tempo, ed un dispendio di maggiore entità che non fosse quello occorso per il restauro delle altre sale. Così, pur riservando alla Sala delle Asse l’ufficio di accogliere, a tempo opportuno, le scolture appartenenti specialmente al periodo della dominazione sforzesca, si poterono nel maggio 1900 inaugurare i Musei d’Arte nel Castello senza dare al pubblico l’accesso alla Sala delle Asse; finchè, a togliere ogni ulteriore, indugio sopraggiunse la munifica iniziativa dell’avv. Pietro Volpi, il quale - col proposito di onorare la memoria della consorte sua, Alessandrina Volpi Bassani, mancata ai 20 di febbraio del 1901 - deliberava nel seguente marzo di assumersi la spesa per il ripristino della decorazione pittorica della vôlta nella Sala delle Asse. D’accordo coll’arch. Gaetano Moretti, Direttore dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei monumenti in Lombardia, il lavoro venne affidato al pittore sig. Ernesto Rusca, già favorevolmente noto per altri lavori congeneri di restauro e di completamento in decorazioni pittoriche del quattrocento.[29]
Fu solo alla fine dell’aprile 1901 che, scomposti i ponti di servizio innalzati fin dal 1893 per compiere semplicemente delle indagini alla vôlta, e rifatte le impalcature più appropriate al lavoro da eseguire, si potè, con maggiore agio e metodo, riprendere l’opera della ricerca delle traccie originarie. Le indagini del 1893-94 erano state particolarmente concentrate nella porzione di vôlta verso il lato nord-est perchè, sebbene la superficie della vôlta si presentasse interamente ricoperta d’imbianco, pure era facile il rilevare come da quella parte l’intonaco originario presentasse lacune minori che non nella parte verso il lato opposto, dove estese zone dell’ intonaco si erano già da tempo staccate dalla vôlta, lasciando nella superficie delle soluzioni di continuità, avvertibili ancora, malgrado il denso strato dei ripetuti imbianchi.
Fu solo nel maggio 1901 che si potè riprendere il lavoro di ripulire diligentemente le tratte di intonaco che non erano state toccate nel 1893, il che permise di raccogliere altri indizi della composizione, per modo da avere gli elementi necessari a ricostituire fedelmente uno degli otto spicchi nei quali si può dividere la vôlta, vale a dire l’aggruppamento di tronchi, rami e corde dorate corrispondente ad una ottava parte della superficie complessiva: si ebbero a raccogliere al tempo stesso gli elementi delle varianti secondarie, che concorrono a dare varietà alla ripetizione dell’aggruppamento. Questa operazione richiedeva un’opera paziente ed uno speciale intuito: ed il pittore E. Rusca vi corrispose pienamente. Si trattava innanzi tutto di ricomporre lo schema generale di una decorazione estesa sopra più di quattrocento metri quadrati, costituita da un in intricatissimo viluppo di rami, complicato dal raggirarsi di corde che si sbizzarriscono in nodi: occorreva quindi per ogni traccia di ramo precisare il tronco da cui proveniva, seguirne lo sviluppo, e tener calcolo altresì dell’alternato loro sovrapporsi. Ricostituita la ossatura della composizione, il lavoro era ben lungi dall’essere ultimato: bisognava rintracciare il fogliame, ricomporne le masse, le movenze, i contorni, ristabilire le parti sforate di tale pergolato, precisando i campi riservati allo sfondo di ciclo: infine - parte ancora ragguardevole dell’arduo compito - occorreva riconoscere le tonalità originarie, le gradazioni di colore, le intensità di luce e di ombre. Furono come tre stadi di difficoltà, che si dovettero affrontare quasi ad un tempo, giacchè era facile comprendere come l’effetto finale fosse basato necessariamente sull’armonico equilibrio di queste varie fasi del lavoro. E quando si pensi alle difficoltà materiali dell’esecuzione, per le condizioni di luce e per la mutabilità di questa, per la impossibilità di potere liberamente abbracciare il lavoro in corso, si potrà comprendere tutto il merito di avere portato a termine l’opera per modo che, levate le impalcature, la grandiosa composizione si presentò equilibrata, armonica. E se, nel fissarvi lo sguardo, noi ci sentiamo affascinati dalla poderosa mente che seppe ideare e svolgere questa composizione, la cui ricchezza e la cui genialità sempre più si apprezza, quanto più l’occhio nostro vi si addentra, sorge nell’animo nostro un senso di viva ammirazione anche per l’artista che ha saputo ricomporre e ravvivare un’opera, che fu certamente tra le più elette di un’epoca imbevuta del più squisito senso d’arte.
Già nelle ricerche dell’inverno 1893-94 si era constatata la esistenza, alla serraglia della vôlta, di una targa con traccie di suddivisioni dei campo, da cui si poteva dedurre che vi dovessero trovarsi accoppiati i due stemmi, lo sforzesco e l’estense. Il successivo completo ripulimento dell’intonaco originario ebbe a mettere in evidenza come quella targa fosse racchiusa in largo anello dorato, e come il contorno ritrovato nel 1893-94 fosse la variante di una targa alquanto più grande, di cui si rinvenne nel 1901 il contorno, conforme al disegno dato qui di fianco, riprodotto dal rilievo direttamente ricavato su quelle traccie. Può ritenersi che la variante nelle dimensioni della targa abbia avuto lo scopo di ottenere lo spazio per sovrapporre allo stemma la corona ducale, e infatti qualche indizio concorrerebbe a favore di tale induzione. Niente di più facile che Lodovico il Moro, a lavoro compiuto, non si fosse accontentato dello stemma suo, semplicemente accoppiato a quello di Beatrice, senza corona ducale: cosicchè, coll’ordinare l’aggiunta di questa, avrebbe obbligato ad una riduzione nell’altezza della targa. Potrebbe però tale variante essere attribuita a Luigi XII, il quale, nella stessa occasione in cui dispose per il cambiamento di una delle quattro iscrizioni all’imposta della vôlta, può avere ordinato altresì di sopprimere lo stemma sforzesco-estense per sostituirvi il suo, sormontato dalla corona.
Nella incertezza dell’epoca e delle ragioni di quella variante nella serraglia di vôlta, venne nel ripristino adottata la forma più grande, quella che si presentava come la originaria e che, anche dal punto di vista decorativo, dopo il confronto fatto con modelli delle due forme, risultò più conforme al concetto primi­tivo.
Le indagini della composizione pittorica condussero a ritrovare anche una porzione non piccola della iscrizione nella targa sovrastante la finestra verso nord-ovest, e precisamente i seguenti frammenti:

lvdov …. med .. vx ... ivo
max ….. ge .. blanc .. neptem .. n
….. onivm . loc . it . et . eo
arctior …. initate . ipsa . inivnxit

an . sal ... xxxxi..
svpra . m . cc…..

Nelle altre due targhe invece, corrispondenti alle due pareti interne della Torre, si rinvennero solo alcune lettere, insufficienti per riconoscere a quale delle iscrizioni trascritte dal Sanuto si riferissero. Infatti, vi si trovarono solo queste traccie:

………. m                      …. vm
(targa sud-ovest)            ………. vi … m              r ……….
(targa sud-est)                e …….                          … n …

LE due iscrizioni identificate in modo non dubbio sono adunque quelle che commemorano le nozze, celebrate nel 1493, di Bianca M. Sforza coll’imperatore Massimiliano, e la visita fatta a questi da Lodovico il Moro assieme a Beatrice, nel 1496, per implorarne l’appoggio contro Carlo VIII. Di questa visita ci ha conservato il ricordo anche Bernardino Corio, là dove nella Parte VII della sua Storia di Milano dice: «finalmente Massimiliano inclinandosi a venire in Italia, Lodovico Sforza con Beatrice si condusse fino a Bormio nel mese di Luglio, che fu dell’anno 1496 della Salute, e poi a Malsio (Mals) dove con Massimiliano hebbe lunghi et secreti ragionamenti esortandolo al venire in Italia». La terza iscrizione, di cui si trovarono poche lettere, doveva essere quella commemorante l’assunzione del titolo di Duca per parte di Lodovico, nel 1495.
Quale avvenimento avrà invece commemorato la quarta delle iscrizioni, che Luigi XII volle fosse cancellata, allo scopo di sostituirvi quella ricordante la fuga di Lodovico il Moro? Si può ritenere che, nella Sala delle Asse, questi abbia voluto fosse ricordata la data del suo matrimonio, oppure la data della morte di Beatrice, avvenuta nel 1497: fors’anco le due date hanno potuto trovarsi associate nella iscrizione, che si presentava nel posto d’onore per chi, levando lo sguardo, vedeva la targa dipinta a modo di serraglia della vôlta, racchiudente lo stemma degli Sforza e degli Estensi. Certo dovette essere col pensiero rivolto alla perduta consorte, che Lodovico si accinse ad accrescere lo splendore della Sala delle Asse: ed il proposito dovette balenargli alla mente fin dal giorno in cui, sullo scorcio del 1496, egli si era recato con Beatrice a Pavia, per incontrarvi l’imperatore Massimiliano, reduce dalla fallita impresa di Livorno, ed offrirgli in quel Castello Visconteo festose accoglienze con sontuosi apparati. Nella stessa circostanza, Lodovico mostrò desiderio di ospitare l’augusto suo parente anche nel Castello di Porta Giovia: ma, come nell’andata a Livorno, così nel ritorno, Massimiliano aveva voluto evitare Milano, forse per quella stessa diffidenza che già l’aveva portato a dare a Lodovico il consiglio di tenere nel Castello di Milano «300 fanti alamanni, li quali sono fidatissimi » e di evitare che « in esso Castello se havessino a tenere donne, quale molte volte sono causa de la perdita de le fortezze». Pertanto, pur non raggiungendo in quell’occasione l’intento, dovette Lodovico decidersi, per ogni eventualità di ricevimenti, ad accrescere lo splendore della ducale dimora di Milano, alla quale nel dicembre del 1496 egli faceva ritorno con Beatrice, che di soli 23 anni, pochi giorni dopo, ai due di gennaio, moriva. Era stata nella stessa giornata a diporto per la città in «carretta»: aveva pregato sulla tomba di Bianca Sanseverino, figlia spuria del Moro, morta pochi giorni prima: la sera aveva danzato. A mezzanotte spirava in una delle sale superiori della Rocchetta.
La morte di Beatrice era stata riguardata come un triste presagio per le sorti del Ducato di Milano: il Corio ebbe a riferire come, pochi giorni prima, «sopra questo Castello apparvero grandissimi fuochi, come presagio della prossima calamità dell’Ill.ma famiglia de gli Sforzeschi». Forse, fu per contrastare questi tristi presentimenti che Lodovico, superata la prima crisi di dolore, si propose tosto di affermare in ogni parte del Castello il suo nome e quello di Beatrice, stendendo un lungo elenco dei ducali da scolpire, o dipingere sulle porte d’accesso e sulle torri, col nome suo, oppure «con l’arma della Ill. duchessa e nome suo».[30] Dovette essere in quegli stessi giorni che il Duca si decise a rinnovare la decorazione della Sala delle Asse, per sostituire ai ricordi di Galeazzo Maria e di Bona, l’affermazione del suo dominio e l’omaggio alla perduta consorte. Un artista si presentava particolarmente indicato per aggiungere alla dimora ducale la più detta espressione d’arte: Leonardo. Attendeva questi, nel 1497, alle due più importanti opere sue, il Cenacolo nel Refettorio della Chiesa di S. Maria delle Grazie cui Lodovico faceva in quell’anno importanti donazioni[31] e la statua equestre di Francesco Sforza: e l’incarico della decorazione nella Sala delle Asse, venendo ad aggiungersi a questi ed a molti altri impegni, dovette richiedere un certo tempo per ideare e per risolvere il partito di una decorazione estremamente complessa ed ingegnosa, adattata alla speciale configurazione della vôlta, che Leonardo si riprometteva di compiere per il mese di settembre del 1498: mentre la frase della già citata lettera di Gualtiero al Duca dell’aprile, annunciante che si stava per disarmare la «Camera de la Torre» lascia supporre fosse stata ritenuta necessaria qualche opera di adattamento nella stessa vôlta.[32]
La nuova decorazione della Sala delle Asse dovette quindi essere deliberata al momento in cui Lodovico il Moro aveva ancora rivolto il suo pensiero verso la perduta sua sposa: e come nel centro dell’ampio pergolato, al fianco del ducale sforzesco, campeggia quello degli estensi, così la iscrizione nella targa fronteggiante il ducale doveva probabilmente commemorare Beatrice: e forse, per la circostanza che tale iscrizione si presentava al posto d’onore, oppure per il fatto che non vi era menzionato Massimiliano, Luigi XII la designò per affermarvi la conquista da lui compiuta del Ducato di Milano.
Completate le due iscrizioni, delle quali si ebbe a trovare buona parte del testo, ripristinato il terzo degli «epigrammi» originali, per singolare fortuna trascritti dal Sanuto, si affacciava il compito di assegnare alla quarta delle grandi targhe la relativa iscrizione. Era il caso di riprodurre il quarto degli «epigrammi» del Sanuto, ricordante la conquista di Luigi XII e la fuga del Moro, oppure di comporre una iscrizione ricordante Beatrice, quale dobbiamo supporre fosse quella che andò sacrificata? Nè l’un partito, nè l’altro parve consigliabile: l’iscrizione fatta collocare da Luigi XII è, per sviluppo, il doppio delle altre tre originali, così da farci ritenere che dovesse occupare un campo ben più ampio di quello concesso dalle targhe: e d’altra parte non sembrava che, al momento di riprodurre un’opera insigne, la quale è da riguardarsi come l’estrema espressione del culto professato da Lodovico il Moro per l’arte, si avesse ad accompagnarvi il facile scherno del vincitore: neppure sembrava che in quel complesso decorativo - di cui volle il caso serbarci gli indizi sufficienti per la fedele ricostituzione - si avesse ad introdurre un particolare qualsiasi che avesse a presentarsi come aggiunta arbitraria, suggerita dal proposito di dissimulare una lacuna. Lo stesso lavoro della ricostituzione dell’ampio pergolato affacciava invece la opportunità di rendere avvertito l’osservatore e di ricordare ai posteri come si tratti di un rinnovamento compiuto in base alle traccie originali, indicando in quale anno, per quale circostanza, per volontà e per opera di chi venne compiuto: e non era forse doveroso affermare altresì il nome del creatore di quella geniale composizione? Ed ecco come queste varie indicazioni le quali, qualora fosse stato possibile di completare le quattro targhe con tutte le iscrizioni originali, avrebbero trovato posto in qualche altro punto della Sala, parvero adatte a colmare la lacuna della quarta targa rimasta senza iscrizione, offrendo così il modo di completare l’opera intrapresa senza ingenerare il menomo dubbio sulla genuinità della composizione, e sulle circostanze che condussero al suo ripristino.

Rimane esaurito così l’assunto di esporre le circostanze per le quali avvenne che uno squallido locale di scuderia, dalle cui finestre informi non si aveva altro prospetto che il monotono fabbricato di caserma, innalzato sul muro della Ghirlanda, abbia potuto riavere parte dell’antico splendore, offrendo il modo di compiere una rivendicazione artistica e storica ad un tempo. Poichè per quasi quattro secoli le pareti e la vôlta della Sala delle Asse hanno custodito le traccie dell’opera d’arte oggi ripristinata, mentre sotto la maschera dei ripetuti intonaci, il nome d’Italia, ripetuto in una delle targhe, vi rimase quale pegno dei futuri destini della nazione, là dove avevano echeggiato gli intrighi che ne prepararono la rovina. Fu appunto nella Sala delle Asse che la smisurata ambizione di Lodovico il Moro riuscì ad imporsi: ottenuta la rinuncia alla reggenza del Ducato, per parte di Bona, ed ottenuto l’allontanamento di questa da Milano, tornò facile a Lodovico il Moro di farsi nominare tutore del non ancora dodicenne nipote, Giovanni Galeazzo; e la solenne cerimonia per redigere lo strumento di tu tela venne celebrata nella Sala delle Asse, «in Arce Castri Porte Jovis mediolani, in Camera majori residentiæ prelibati Ill.mi domini Ducis»[33] alla presenza dei Vescovi di Cremona e di Como, del marchese Pallavicino governatore del Duca, dei Consiglieri e del Segretario ducale, e del Podestà di Milano: il quale, dopo che il fanciullo ebbe rivolto ai consiglieri queste parole «essendosi partita la Ill.ma Madona mia Matre, Io voglio chel sig. Ludovico mio barba sii mio tutore», udito il parere dei Consiglieri ducali e stando in «quadam Cathedra posita in Camera majoris residentiæ Ill.mi dom. Ducis» convenne nella opportunità di affidare la tutela del giovinetto Duca a Lodovico «ex ejus ingenii acumine maximarumque rerum usu et consilio: quem omni ex parte ab hujusmodi onus obeundum dignum putavit».[34]

Non è qui il caso di rievocare il lungo lavorìo col quale Lodovico il Moro, valendosi della tutela in tal modo conseguita, riuscì poco a poco ad impossessarsi del Ducato, prima ancora che la morte del giovane nipote, avvenuta nel 1494 nel Castello di Pavia, sgombrasse interamente il campo a quell’ambizione, che fu una delle cause per cui precipitarono a rovina il Ducato di Milano e l’Italia. Pure ci sia concesso di rievocare l’ultimo episodio della catastrofe svoltasi nel Castello di Milano.
Di passaggio a Milano, ai primi di agosto del 1499, il Moro informava Marchesino Stanga sulle condizioni della resistenza nelle parti del confine del Ducato minacciate dall’avvicinarsi delle truppe francesi: Fontanetto, Novara, Rebbio, Sartirana, Mortara, Vigevano erano state visitate da Lodovico in persona, che così scriveva: «non havemo possuto vedere le forteze che sono de là da Po, alle frontiere de Monferrato et Astesana, come havariemo desiderato»: ma le notizie raccolte lo confortavano, giacchè le rocche di Arugo e di Anono erano state così ben fortificate « che porriano sustenere insulti di tutta Francia quando li venesse ». Tali notizie molto ottimiste inviava il Moro allo Stanga per incoraggiare il re di Napoli, affinchè questi «vedendo che qui si ha a combattere, cossi per la salute sua come per la nostra, acceleri la venuta degli subsidi sui, nè manchi dal canto suo ad esporgere in tempo quello che ha promesso»; e concludeva come, confermato questo aiuto «la Maestà sua condurà le cose ad voto et farà che senza sfodrare spada dall’una et l’altra parte, essi inimici voltarano le spalle». La situazione però non doveva tardare a volgere alla peggio: da una parte i francesi avevano posto l’assedio ad Alessandria, dall’altra i veneziani già invadevano tutta la Ghiara d’Adda, cosicchè il Moro tornava a sollecitare l’aiuto di Massimiliano, disposto a cedere a questi la Valtellina, e persino la città di Como. Senza neppure attendere un assalto, il Sanseverino abbandonava la notte del 27 di agosto la difesa di Alessandria, la quale cadde tosto in mano dei francesi. Avuta notizia di questo rovescio, il Moro rinchiuso nel Castello di Milano cominciò a meditare di rifugiarsi presso Massimiliano; la sorte toccata al Tesoriere ducale Antonio da Landriano che, appena uscito dal Castello dove si era abboccato col Moro, era stato assalito dalla plebe, e riportato in Castello ferito mortalmente, decise il Moro ad affidare i figliuoli suoi ai Cardinali Ascanio e Sanseverino, affinchè col tesoro si dirigessero senza indugio verso la Germania. Dopo di che, Lodovico cedeva Bari col ducato e le fortezze ad Isabella d’Aragona, cui chiese invano di avere il di lei figlio Francesco Sforza, per condurlo salvo in Germania. Ai Borromeo restituiva le terre e rocche di Angera, Arona, Vogogna: ad Alessandro Crivello cedeva Galliate, a Fr. Bernardino Visconti donava la Sforzesca presso Vigevano, ed a molti dei suoi intimi varie altre terre. Concordate le disposizioni occorrenti al governo del Ducato e del Castello durante la sua assenza, abbracciato il Castellano Bernardino da Corte, al tramonto del primo di settembre Lodovico usciva dalla Corte ducale, verso la campagna. Molti credettero si dirigesse verso Como; invece si portò al tempio di S. Maria delle Grazie per pregare sulla tomba di Beatrice, dopo di che ritornava in Castello per passarvi la notte. All’alba, scortato dalle truppe che nel Barco si erano raccolte, abbandonò definitivamente Milano, non senza avere occasione di constatare la facilità colla quale il popolo, e molti dei suoi stessi fidati, si disponevano a parteggiare pei francesi.
Erano nel Castello di Milano - al dir del Corio - mille ottocento macchine da guerra, trentamila ducati, oltre alla suppellettile di Beatrice e della casa ducale: ma dieci giorni appena erano trascorsi dalla partenza del Moro, e da veniva concordato fra il Castellano Bernardino da Corte ed il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, a nome di Luigi XII, il testo della capitolazione del Castello, venendo assicurato a Bernardino da Corte ed agli altri addetti alla difesa, oltre che la loro vita e la roba, laute pensioni e retribuzioni.
Ottenuta la cessione del Castello, grazie al tradimento di Bernardino da Corte, Luigi XII era entrato solennemente in Milano da Porta Ticinese, ai 6 di ottobre del 1499, prendendo alloggio nella Corte ducale, di cui era rimasto meravigliato: di là si portava al Castello, e come riferisce un testimonio «le strade erano coperte de panni bianchi fino al Castello, et se cridava, poco Franza ! E il Re quando fu su la piaza del Castello, si mise a rider, vedendo il Castello, e trar tre slanzi, e subito ritornò soto l’ombrela (il baldacchino d’oro). La festa non era come lui credeva, nè cridi, nè soni, nè bona ciera. Intrato in Castello - continua il cronista Paullo - et quando lo vide così bello et fornito de arteleria, molto restò meravigliato et grandemente improperò quello nuovo Juda de Bernardino da Corte». Del che però è lecito dubitare.
Ad ogni modo, è notevole come, nei pochi giorni nei quali dimorò nel Castello - di cui volle tosto accrescere la difesa verso la città coll’aggiunta di un nuovo rivellino - Luigi XII non siasi dato cura di cancellare gli emblemi e ricordi della Casa Sforzesca, accontentandosi di porre il nome suo in una sola delle targhe della Sala delle Asse, per dichiararsi invictissimo e legiptimo, rispettando le altre iscrizioni, per quanto una fra queste registrasse gli ostacoli frapposti al dominio del di lui antecessore, Carlo VIII. Forse, lo stesso ripetuto vanto dell’alleanza con Massimiliano, rendeva agli occhi suoi più gloriosa la facile conquista del ducato di Milano, da lui compiuta.
Mentre nella Sala delle Asse, come prima conseguenza della catastrofe di casa Sforzesca da cui ebbe inizio la secolare dominazione straniera, si registrava l’ignominiosa fuga di Lodovico il Moro, l’artista che pochi mesi prima aveva dato in quella Sala una nuova prova del poderoso ingegno, annotava melanconicamente sul libro suo di memorie: «il Castellano fatto prigione: il Visconte strascinato e poi morto il figliolo: il Duca perso lo Stato e la roba e la libertà: e nessuna sua opera si finì per lui»[35]: dopo di che prendeva a sua volta la via dell’esilio, allontanandosi da quella città che lo aveva lungamente ospitato, e dove aveva dato le maggiori prove dello straordinario ingegno.
Nel febbraio del seguente anno 1500, Lodovico il Moro, coll’appoggio di truppe tedesche e svizzere, riusciva a riprendere la città di Milano, ad eccezione del Castello, affrettandosi a pubblicare una grida perchè fossero restituiti «dinari, oro, argento, gioye, veste, tapezarie, scripture et altre robe» da lui lasciatevi pochi mesi prima; all’assedio del Castello si accingeva tosto il Cardinale Ascanio Sforza, ma il Moro poco dopo cadeva in mano dei Francesi a Novara, e veniva tradotto in Francia, per finire miseramente i suoi giorni, nel 1508, nel Castello di Loches, in quella cella dalle primitive decorazioni sulle pareti e sulla vôlta, che dovette amaramente ricordare al prigioniero gli splendori d’arte di cui un tempo si era circondato.

Ma, riportando il pensiero agli ultimi momenti del periodo di dominazione sforzesca, durato neppure mezzo secolo e pur così denso di avvenimenti e di intraprese, maggiore è il compianto che inspirano le vittime innocenti della catastrofe: i figlioletti di Lodovico il Moro, e di Gian Galeazzo Sforza. Da questo ambiente saturo d’arte, nel quale colla voce infantile dovettero far echeggiare una nota sincera di allegria, in contrasto coll’alternarsi di adulazioni ed intrighi politici, essi dovettero avviarsi per tempo nell’aspra via dell’esilio. Non si saprebbe immaginare una condizione più privilegiata di quella che la sorte sembrava avesse loro riservato: avevano dischiuso gli occhi in mezzo alle più raffinate manifestazioni dell’arte, ed alle abitudini domestiche maggiormente atte a lasciare nella loro mente le più profonde impressioni; si trattava di dare un libro di preghiere al primogenito di Lodovico il Moro, ed ecco per il piccolo Massimiliano, che ancor non aveva sette anni, apprestato il libro del Jesus, ricco di miniature, che per lungo tempo si poterono riguardare come opera dello stesso Leonardo: si doveva dare al piccolo erede del Ducato una grammatica, ed era ancora ai più eletti artisti che si affidava l’incarico di miniarne squisitamente le pagine, accompagnandovi il ritratto del piccolo Massimiliano, degno ancora di essere attribuito a Leonardo: il secondogenito Francesco era ancora in fasce, e già veniva raffigurato di fianco a Beatrice nella pala d’altare della chiesetta di S. Ambrogio ad Nemus, confinante col giardino del Castello, che fu di certo la meta devota delle passeggiate ducali nel Barco. Quale tristezza c’inspira la loro sorte! Colui, pel quale era stato predisposta una grammatica che è un prodigio d’arte, recante in fronte a guisa di ammonimento,

«Non basta a l’homo sol forza e lo ingegno
Signor mio dolce a governare uno Stato
Ma ancor convien sii docto e letterato
Ad esser di corona et sceptri degno»

era quegli stesso che più tardi così chiudeva una lettera: «io ho scripto la presente a mano mia propria, per non fidarme de personna: V. S. me perdona se ho mal scripto, che a la scola non imparai meglio»; e terminava i suoi giorni in terra straniera, come il primogenito di Giovanni Galeazzo Sforza - a lui sagrificato dall’ambizione di Lodovico il Moro, condotto da Luigi XII in Francia, ed avviato al sacerdozio - che tragicamente finiva i suoi giorni in un accidente di caccia.
Il primogenito di Lodovico il Moro però, prendendo per breve tempo possesso del Ducato, nel novembre del 1513, non dovette frapporre indugio a cancellare la iscrizione ignominiosa per la memoria del padre, nella Sala delle Asse: ma nel frattempo, il patrizio veneto - che giovane ancora si era accinto a quei Diari, che dal 22 marzo 1496 vanno al settembre del 1535 - aveva annotato senza alcuna distinzione le quattro iscrizioni di quella Sala, e queste poterono così giungere sino a noi, registrate in uno dei 58 volumi in foglio che costituiscono i Diari di Marin Sanuto.

*

Nella Relatione generale delle Visita et consegna de la Fabrica del Castello di Milano, stesa nel 1661 dagli Ing.i Richino e Pessina, la Sala delle Asse è così descritta: «Segue la (Sala) quadra con volta a lunette, e dipinte: duoi fenestroni con suoi telaroni di rovere, invedriate a disegno, con suoi telari in quattro ante». Risulta quindi che, un secolo e mezzo dopo la caduta di Lodovico il Moro, la Sala delle Asse conservava ancora le traccie di decorazione nella vôlta: a quell’epoca però doveva esser già stato soppresso il rivestimento in legno alle pareti della Sala, come si può arguire dal fatto che la composizione vinciana si trovò, per qualche tempo, estesa anche alla parte inferiore delle pareti, essendosi trovate le traccie di uno dei tronchi d’albero fino a due metri circa dal pavimento, colle nodose radici disposte per modo da formare decorazione intorno al camino disposto nell’angolo a nord della Sala: tale prolungamento di tronco, sebbene non manchi di un certo carattere, si presenta però come lavoro eseguito durante il periodo della dominazione spagnola: in seguito, col progressivo tramutarsi del Castello in caserma, la Sala delle Asse, assieme alla Cappella ed alle altre Sale della Corte Ducale, venne destinata a scuderia, e ridotta in quello stato da cui prendemmo le mosse per questo scritto; questa trasformazione in scuderia è a credersi sia stata compiuta solo all’epoca della occupazione francese sul finire del secolo XVIII, allorquando il Refettorio delle Grazie potè sfuggire ad una consimile destinazione solo per l’intervento dello stesso Bonaparte. Infatti durante la occupazione austriaca del secolo XVIII, il locale attiguo alla Sala delle Asse conservò la destinazione a Cappella, come risultò dalle tombe di militari austriaci, fra cui quella di un giovane principe di Lichtenstein, ritrovate alcuni anni or sono nell’occasione dei lavori di restauro.

Tre secoli di dominazione straniera - durante i quali in Milano si avvicendarono francesi, spagnoli, austriaci e russi - furono la espiazione, che la funesta politica di Lodovico il Moro impose allo scarso sentimento patrio, sul finire del secolo XV. Le dolorose conseguenze di questa lunga servitù avrebbero potuto giustificare il proposito di cancellarne ogni materiale ricordo, se malgrado le ripetute manomissioni ed i vandalismi subiti, quelle mura che allo straniero si prestarono come minaccioso asilo, non avessero serbato un riflesso d’arte, da cui prese le mosse la rivendicazione del Castello che oggi, sotto il patrocinio di Leonardo, compie un nuovo passo. Non possiamo per verità, sperare di potervi ricomporre la geniale ricchezza d’altri tempi: chi mai si accingerebbe oggi a stendere l’elenco dei tesori d’arte, che solo fra le pareti della Sala delle «Asse» si trovarono or sono quattro secoli accumulati? I dipinti ed i libri miniati che ci permisero di ravvivare queste pagine - oggidì disseminati in pubbliche e private gallerie in Italia e all’estero - sono una piccola parte soltanto del patrimonio d’arte, che in poco più di un trentennio gli Sforza vi avevano raccolto, e che la bufera del 1499 disperse: delle quali memorie molte, per fortuna, si conservano ancora in Milano, nella raccolta del Principe Gian Giacomo Trivulzio dove figurano - non come si potrebbe a primo aspetto credere, quale spoglia di guerra dell’omonimo Maresciallo, cui fu riservata la sorte di impossessarsi del Castello sforzesco poco dopo che il Moro lo aveva abbandonato - bensì quale testimonianza del culto per le memorie cittadine, perdurato in quella famiglia patrizia anche nelle epoche in cui il mutato indirizzo d’arte aveva lasciato cadere in dispregio le squisite eleganze del quattrocento. È il fascino dell’arte che oggi ci muove a ricomporre una pagina del nostro passato, ed a delineare figure storiche le quali, per le loro colpe ed i loro errori, avrebbero altrimenti meritato di rimanere per sempre nell’oblio; è il prestigio del nome di Leonardo che ci sospinge a rianimare questa Sala delle «Asse» coll’eco lontana degli avvenimenti che vi si svolsero. Certo Lodovico il Moro non sospettava che al genio dell’artista, venuto a suoi servigi e malamente ricompensato, anziché al ricordo della sciagurata sua politica, fosse riservato di rivendicare la Sala, che fu il nido delle sue gioje famigliari, e della smisurata sua ambizione: l’ampio e festoso padiglione di vôlta, poetico sogno di un artista insuperato, si direbbe attenda solo di ospitare le due statue giacenti di Lodovico e di Beatrice, per disperdere, col sorriso dell’arte e della passione, efficaci strumenti di quella fatale politica, ogni triste ricordo del passato.






[1] Il Castello di Milano sotto il dominio degli Sforza - Milano MDCCCLXXXV. Colombo e Cordani.
[2] Il basamento della Torre è dell’epoca viscontea: vi si notano ancora gli indizi della vôlta a crociera, che doveva coprire il locale del sotterraneo. Vedasi la sezione della Torre, data a pag. 16.
[3] Questa mancanza dei capitelli pensili non si deve ritenere quale una prova decisiva, giacchè potrebbesi ammettere che i capitelli siano stati levati, essendo d’ intralcio al partito decorativo della vôlta che vedremo adottato nel 1498.
[4] Risulta dal Rendiconto del Ducato di Milano dell’anno 1463, come già a quest’epoca il primogenito di Francesco Sforza, che non aveva ancora 20 anni, avesse una distinta dimora, nel vecchio Palazzo dell’Arengo.
[5] Fin dal tempo dei Visconti, attiguo alla Cittadella di Porta Giovia, si stendeva un giardino che, con ordinanza ducale del 19 nov. 1392, era stato circondato da fossato: Francesco Sforza, mentre rialzava il Castello di Porta Giovia sulle fondazioni ed avanzi viscontei, recingeva il giardino, o Barco, con muro. L’estensione del giardino era ancora calcolata, nel 1633, in 4940 pertiche milanesi, ossia ettari 323.
[6] Archivio di Stato: Milano - Classe Architetti. Lettera 20 maggio 1468.
[7] Archivio di Stato: Milano - Classe Architetti. Lettera 27 novembre 1468.
[8] Archivio di Stato: Milano - Missiva 29 maij 1469, fol. 335 t.o- Doc. XLIX, C. Casati. Vicende del Castello ecc. Di fianco all’ordinazione della Saletta, si legge: Mag.o Vincentio depinga questa Saletta: mentre di fianco alla ordinazione della Sala, si legge: Mag.o Petro depinga questa Sala. Il primo degli artisti era il celebre Vincenzo Foppa, l’altro era il pittore Pietro de Marchesi.
[9] Archivio di Stato: Milano - Missive Reg.o 91, fol. 68.
[10] Pergamena datata da Abbiategrasso 30 Maggio 1469, ora nell’Archivio Bentivoglio d’Aragona, a Ferrara, da cui è ricavata la figura a pag. 18.
[11] Il bianco e il morello (rosso cupo) erano i colori adottati dagli Sforza: chiamavasi a scarlioni la disposizione di bande a zig-zag, alternate di bianco e morello.
[12] Archivio di Stato: Milano - Missive Reg.o 91, fol. 75.
[13] Archivio di Stato: Milano - Missive fogli staccati 1472, fol. 362.
[14] Vedasi la sezione della Torre, coll’indicazione dell’uscio a pag. 16.
[15] Archivio di Stato: Milano - Registro Miss. N.o 105, fol. 95. - Nell’occasione dei lavori di restauro alla Sala superiore della Torre, si rinvenne appunto questa apertura, dal contorno formato con pezzi irregolari di sarizzo, evidentemente adattati a riempimento di una preesistente apertura, molto più grande e riferentesi all’epoca in cui la Torre non era ancora racchiusa fra le ali della Corte Ducale. Tale particolare, che non manca d’interesse per le vicende della Sala in relazione ai citati documenti, venne lasciato in evidenza, come si può constatare nella Sala ora occupata dal Medagliere Municipale, e come si vede indicato nel disegno di sezione della Torre nord.
[16] Archivio di Stato: Milano - Missive, fascicolo staccato. - Classe Belle Arti.
[17] Archivio di Stato: Milano - Sezione storica. Architetti - Lettera 21 sett. 1472.
[18] Archivio di Stato: Milano - Sezione storica. Architetti - Lettera 7 dic. 1473.
[19] Il piumaglio era un’altra delle numerose imprese sforzesche.
[20] Archivio di Stato: Milano - Classe Belle Arti.
[21] Anche l’indicazione di qvintvs, che si accompagna alla qualifica di Duca (vedasi l’incisione), conferma trattarsi di decorazione fatta eseguire da Galeazzo Maria, e non dal Moro.
[22] Archivio di Stato: Milano - Classe Belle Arti. Vedasi il facsimile alla pag. 26.
[23] Alla «commissione del dipigniere i camerini» allude lo stesso Leonardo nel frammento di lettera al Duca, conservato nel Codice Atlantico, a fol. 328 verso: in altro frammento, Leonardo allude all’incarico avuto dal Gualtiero, accennando anche alle cattive sue condizioni finanziarie, con queste parole:
«Assai mi rincrescie d’essere in neciessità, ma più mi dole che quella sia causa dello interrompere il desiderio mio il quale è sempre disposto e ubidir vostra Excellentia: forse che vostra Excellentia non commise altro a messer Gualtieri, credendo che io avessi dinari...».
Alle pitture di Leonardo nella Saletta Negra fa cenno lo stesso Gualtiero nella lettera 21 aprile 1498 al Duca, di cui si da qui di fronte il facsimile.
Esistono di Leonardo vari disegni che si riferiscono al Castello di Milano, e che già segnalai nella monografia di questo edificio, edita nel 1885 e nel 1894: qui interessa di richiamare specialmente l’attenzione sopra due schizzi che riguardano la Torre contenente la Sala delle Asse. Nel Cod. B, all’Istituto di Francia, fol. 15 r, vi sono le indicazioni planimetriche e prospettiche del sistema di incavallature reggenti il tetto della Torre, basato sul partito di quattro incavallature minori, disposte diagonalmente, ed appoggiate a pilastri situati nel mezzo dei lati del quadrato della Torre: disposizione che ancora oggidì si vede sostenere la copertura della Torre (si confronti colla veduta di sezione, a pag. 16). Lo stesso Codice B, a fol. 36 v, contiene l’indicazione prospettica dell’angolo nord del Castello, colla Torre della Sala delle Asse e la disposizione della cortina, detta Ghirlanda.
[24] Nel 1894 ebbi a riferire che la iscrizione in oro della targa campeggiava in bianco; ma, in seguito al ripulimento completo dell’intonaco, risultò in modo non dubbio che il fondo delle targhe era di azzurro cupo.
[25] Trattato dell’Arte de la Pittura di Gio. Paolo Lomazzo milanese scrittore. In Milano, appresso P. Goliardo Pontio l’anno 1584.
[26] Cesare Cesariano: Di Lucio Vitruvio Pollione, ecc. Liber Primus, fol. XXI, verso: «ma Vitruvio intende questa opera como una ponticella, como quelle che sono in la via coperta di la nostra arce de Jove in Milano: et maxime quella che fece fare Bramante Urbinato mio preceptore, quale se traiice da lo mœniano muro de la propria arce ultra le aquose fosse ad lo cripto itinere». Ed. di Como, 1521.
[27] Al restauro di questo interessante particolare del Castello si sta provvedendo, pur munifica iniziativa del Sig. Cav. Aldo Noseda.
[28] Si vegga a questo proposito Gustavo Uzielli: Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, Serie II, 1884.
[29] Menzioneremo il ripristino di vecchie decorazioni nello stesso Castello di Milano, a S. Maria della Pace, nella Casa Borromeo, al Castello di Melegnano, ecc.
[30] Archivio di Stato: Milano - Missive anno 1497, fol. 173.
[31] Sono elencate nel Codice in pergamena, miniato, di cui si presenta il frontispizio alla seguente pagina, interessante perchè ci offre un altro esempio di intrecci di corde.
[32] Infatti, la decorazione ideata da Leonardo per la vôlta già esistente, richiese il partito di arrotondarne le intersezioni colle « voltajole » delle lunette, allo scopo di meglio raggiungere l’illusione di tronchi d’albero formanti pergolato. E che si trattasse di impalcature per adattamenti, e non per rifacimento della vôlta, si può dedurre dal fatto che, in una giornata si potè «disarmare la vôlta»; come risulta dal qui riportato passo di lettera di Gualtiero (Arch. di Stato Milano - 23 aprile 1498):
[33] Instrumentum Tutelle et administrationis Ill.i D. J. Galeaz M. Ducis Med. Imbreviatura Notajo G. Ant.o de Girardis, 3 nov. 1480.
[34] Nella vicina Sala invece, nel giugno di quello stesso anno, era stato ratificato il fidanzamento del giovinetto Duca con Isabella, figlia del Duca di Calabria «in Camera ducatuum audientiæ p.tæ Dominæ Ducissæ».
[35] Cod. L ò.
Qualche mese prima che la minaccia dell’invasione del Ducato, per parte delle truppe francesi si aggravasse, Lodovico il Moro faceva a Leonardo la donazione di una vigna di sedici pertiche fuori di Porta Vercellina. In uno dei Registri Panigarola ( Libro O, fol. 182), si legge: «1499, 26 aprilis. Ludovicus M. Sfortia Dux Mediol.ni dono dedit D. Leonardo Vincio florentino pictori celeberrimo pert. n. 16 soli seu fundi vineæ; quam ab Abate seu monasterio S. Victoris in suburbano portæ Vercellinæ proximæ acquisterat».
È forse ipotesi troppo arbitraria quella di pensare che il Duca di Milano si fosse deciso a ricompensare Leonardo per servigi da questo resi, fra cui la decorazione della Sala delle Asse? Ludovico il Moro aveva dall’abate di S. Vittore acquistato il podere, che poi donò a Leonardo; sembra quindi che nell’intenzione di fare tale dono egli abbia fatto l’acquisto, poco dopo che la decorazione di quella Sala dovette essere compiuta, giacchè meno di un anno trascorsi: dal principio del lavoro alla data di quella donazione.
Si tratta appunto del fondo che Leonardo nel suo testamento menziona, di cui legava una metà al suo domestico Battista de Villanis, giacchè nell’altra metà il discepolo Salaino «ha edificata et constructa una casa la qual sarà e resterà similmente a sempre mai perpetudine al dicto Salai, et ciò in rimuneratione di boni et grati servitù che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori li hano facto da qui inanzi» (Testamento di Leonardo, XXIII aprile 1518).







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