lunedì 5 agosto 2019

1890 - UZIELLI. Leonardo da Vinci e le Alpi


Riedizione dello scritto pubblicato sul Bollettino del Club Alpino Italiano per l'anno 1889, volume XXIII, numero 56, Torino 1890, pp. 81-147.
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domenica 19 maggio 2019

1810 - BOSSI. Le vicende del Cenacolo


Del Cenacolo di Leonardo da Vinci libri quattro di Giuseppe Bossi pittore. Milano, dalla Stamperia Reale, mdcccx. Libro quattro, pp. 197-201.

VICENDE DEL CENACOLO.

Accennato il modo con cui il Cenacolo fu dipinto, dirò ora la serie delle sue sventure. Primieramente parmi non dover lasciare senza ricordo la spaventosa inondazione che afflisse la Lombardia l’anno che precedette la venuta di Carlo VIII in Italia. Vedemmo nel 1800 solo per grandi piogge allagarsi le porzioni basse della città ed in ispecie i contorni delle Grazie e il refettorio stesso del convento, dove l’acqua alta più di tre palmi stagnò lungamente, e non v’ebbe esito se non per evaporazione, per imbevimento del suolo, e cedendo a poco a poco col disseccarsi del luogo esternamente. Dunque è da credere che la pioggia tempestosa e continua che fe’ straripare tutti i fiumi dell’Italia superiore, e che è descritta dallo storico Bugati come un prodigio che annunziava prossima l’inondazione militare de’ Francesi, non facesse danno minore mentre Leonardo dipingeva il Cenacolo. E sebbene i frati che in allora abitavano il convento avranno più prontamente posto riparo a tanto disastro, non è possibile che giungessero ad impedirlo del tutto; poichè se la situazione del convento è di già notabilmente bassa, il piano poi del refettorio è inferiore a quello dei vicini cortili ed anche de’ terreni che il convento stesso circondano. Quindi io credo che fino da quella lontana epoca la parete del Cenacolo abbia contratta una maligna umidità, alla quale avrà contribuito la cattiva natura e struttura della parete stessa. Imperocchè tutto il convento fu fabbricato assai male, e sembra che i primi fondatori di esso non amassero quel lusso a cui pare che Lodovico il Moro li volesse in appresso quasi costringere. Guardinsi in fatti gli antichi cortili, e si vedranno misere e mal lavorate colonne, archi grandi misti a piccioli, mattoni ineguali e tristi, e materiali in fine di vecchie demolizioni. Dal vedere anzi tali materiali impiegati ne’ luoghi esterni, sospetto che di peggio per povertà si sia fatto ne’ muri interni che si dovevano intonacare di calce; e se di vecchi mattoni già nitrosi fu costruita la infelice parete del Cenacolo, essa assai più che le altre avrà assorbito l’umido della detta inondazione.
Accrebbe anche la infedeltà del muro la sua posizione esterna a tramontana, l’aver prossima la cucina e l’esservi annesso un luogo da riporre le vivande fumanti e da lavare. Con sì miseri principi e coll’apparato dell’intonaco che già abbiamo descritto, non è da farsi stupore se si presto cominciò ad annebbiarsi il Cenacolo, privo, com’era, del giuoco salubre dell’aria e quotidianamente profumato dal vapore delle minestre e dagli effluvj d’una cucina destinata a pascere una numerosa comunità.
Pochi lustri dopo finita questa pittura una peste terribile afflisse la nostra città, e al tempo di sì fatti disastri nulla è la cura de’ pubblici monumenti, pensandosi per ciascuno alla propria salute. E facile il credere che poco ai domenicani importasse la pittura del lor refettorio, forse a quel tempo abbandonato del tutto. Ciò che fu cagionato dalla peste, fu parimente da poi cagionato dalla guerra e da mille altre disgrazie che desolarono la Lombardia nella prima metà del secolo decimosesto. Lasciata quest’opera in abbandono tanti anni senza riguardi o cautele, la notata pessima natura del muro, congiunta a qualche vizio nella preparazione del dipinto o nel dipinto stesso, ne affrettò la perdita prima che il riparo vi potesse esser utile.
Intorno pertanto alla metà del secolo si dee porre, come nel primo libro abbiamo osservato, il passo dell’Armenini che dice il Cenacolo mezzo guasto. Non molto dopo si può tenere scritto il passo del Lomazzo che accenna essersi staccate dai muri, pel troppo assottigliamento degli olj e per la cattiva imprimitura, le due famose pitture di Leonardo, la Cena delle Grazie e la Battaglia della Sala del Consiglio di Firenze. Nel 1566 il Vasari non vide nel Cenacolo se non una macchia abbagliata. Finalmente era ormai scorso più d’un secolo di guai per la infelice pittura di Leonardo e di vane lamentazioni de’ buoni artefici per la sua decadenza anzi rovina, quando la pietà del cardinale Federico Borromeo le apportò quell’unico soccorso che l’arte potea somministrare, col farne fare, come già vedemmo, una copia lucidata e graticolata da accurato pittore.
In quale stato fosse a quest’epoca il Cenacolo, il possiam leggere descritto dallo stesso Borromeo. Gli autori posteriori seguitano a compiangerlo come cosa perduta. Bartolommeo da Siena dice che appena e male al suo tempo poteva vedersi. Lo Scannelli lo dice inutile del tutto. Lo stesso più o meno in varj tempi dicono gli altri scrittori del secolo decimosettimo.
Intanto il danno andava aumentando, e per portarlo al colmo, i domenicani, mal contenti di entrare in refettorio per una porta bassa alquanto e stretta sulla quale stava il Cenacolo, e volendo un più maestoso ingresso in luogo di tanta importanza, tagliarono, senza pietà nè di Cristo nè del pittore, le gambe di alcuni apostoli e di Cristo medesimo, in ciò più crudeli degli Ebrei che pure a Cristo non osarono rompere le gambe, tocchi dalla sua tanta maestà e bellezza. La porta fu fatta grande più del bisogno, e maggiore d’assai fu certamente la rottura della parete onde costruirvi la volta. A quest’epoca d’infame memoria, posta dal Pino intorno all’anno 1652, comincia la vera totale rovina dell’opera. La costruzione della porta occasionò i primi ritocchi, e l’urto dei martelli nel muro dovette fare staccare gran parte delle croste del dipinto già cadenti fin dal tempo del cardinal Federico. Al guasto della porta si aggiunse in appresso quello d’inchiodare alla parete le armi imperiali tanto grandi che, per testimonio del Richardson, toccavano quasi la testa del Redentore.
A questo tempo dovettero nascere i varj progetti onde risarcire l’avanzo di sì grand’opera; e al 1726 fu finalmente presa dai frati la fatale determinazione di concederla all’arbitrio di Michelagnolo Bellotti, pittore povero d’arte, quindi ricco al solito di presunzione. Questi vantava, come sogliono i ciurmadori, un suo singolare segreto, col quale avrebbe richiamato da morte a vita l’incadaverita pittura. Ne fece un piccolo esperimento, e chi sa come ingannò la facile inesperta credulità de’ frati! indi avuta l’opera in sua balia, la chiuse con un assito, e ridipintala da capo a piedi, dopo molto tempo la scoperse e fece meravigliare i frati ignoranti della potenza del suo segreto. Per giunta a tanta impudenza lasciò ai frati stessi il segreto che sarà stato probabilmente una delle solite vernici con cui si rinfrescano i quadri. Intanto la pittura vera di Leonardo era estinta del tutto: la sola porzione che non è stata coperta interamente, fu il cielo che il ritoccatore rispettò in parte, non sentendosi da tanto da poterne imitare co’ suoi empiastri la vivezza e lo splendore. La nuova pittura del Bellotti conservò qualche tempo un tal quale effetto dovuto alla stupenda composizione, e in quell’epoca di grossi giudizj presso i mal informati scrittori, si trovano nuove lodi non solo della pittura, ma ben anche del risarcimento.
Ma a poco a poco un nuovo annebbiamento universale la ricoperse, nè so bene se i frati osassero impiegarvi il prezioso deposito del segreto del Bellotti. Certamente qualche nuovo ritocco vi ebbe luogo, e questo fu a tempera, come in qualche parte ancora si può scorgere. In appresso, dopo nuovo e maggiore decadimento, si mosse un’altra volta discorso di risarcire la tormentata pittura, e furono molti e grandi i dispareri fra gli artisti non meno che fra quelli che dovean commettere sì fatta operazione. Il pittore De Giorgi, uomo mediocre nell’arte, ma onesto ed estimatore degli antichi, sebbene più volte a ciò fosse richiesto con instanza, vi si rifiutò mai sempre, protestandosi indegno di porre le proprie mani ove Leonardo avea poste le sue. Dopo varj dibattimenti, per raccomandazione del conte di Firmian nel 1770, fu dato ad un Mazza l’incarico dell’ultimo strazio di questo infelice monumento dell’arte. Il Mazza eseguì la sua commissione con mano maestra. Le poche antiche croste originali che ancora rimaneano, quantunque deturpate dal forse doppio risarcimento, erano un inciampo alla libertà del suo pennello. Egli le raschiò con ferri, e così fece un letto liscio su cui distendere la sua leggiadra fattura. Anzi per averlo migliore, vi distendeva da prima una mestica di terra d’ombra e d’ocria, e il nostro professore Levati, valente dipintore di prospettive e di ornamenti, si ricorda benissimo di aver vedute varie teste in tal modo sacrilegamente impiastrate. Lo stesso mi assicurano avere udito i professori Zanoja ed Aspari. Intanto non v’era artefice di buon senso nella città nostra che non disapprovasse altamente il Mazza e chi lo pagava e chi lo proteggeva. Il Londonio, uomo di vivace e bizzarro ingegno, ne menava più degli altri romore, e il fermento era divenuto generale. Intanto il Mazza che aveva cominciato a ridipingere alla destra del Salvatore, aveva inoltrata l’opera a segno che non mancavangli ormai che gli apostoli Matteo, Taddeo e Simone, onde tutto coprire il lavoro del Bellotti e dividere seco lui la fama d’Erostrato. Volle in questo mezzo la sorte che il priore di quel tempo, padre Giacinto Cattaneo, il quale, per aderire cortigianescamente al Firmian, aveva permesso al Mazza di rifare il Cenacolo, venisse dal re di Sardegna chiamato in Torino per leggervi teologia, ed ebbe il suo posto un Paolo Galloni, uomo di buon ingegno in varie cose ed erudito anche un poco in pittura, nella qual arte era stato allievo del Lazzarini di Pesaro. Appena il Galloni vide l’opera del Mazza, che senza por tempo in mezzo gli impedì di proceder più oltre, tanto più che al romore che da ognuno di sano giudizio già se ne faceva per la città, sebben tardi, pur si trattava ad ogni modo di sospenderla.
Per questa sospensione che dispiacque forte al Mazza, rimasero salvi dal suo pennello i nominati tre apostoli, e perciò corse voce che tre apostoli ancora rimanessero intatti da ogni ritocco; voce però che non ebbe credito se non presso coloro che ignoravano la prima rovina del Bellotti o pure che non intendevano affatto le cose dell’arte: talchè mi fa meraviglia di trovare fra questi anche il Bianconi che pure aveva qualche pratica delle cose pittoriche. Dal Mazza in poi non vi furon ritocchi; e sebbene ne fosse talora mosso consiglio, non se ne fece però nulla, e sarebbe stato un imbalsamare un cadavere di tre secoli.
Nel 1796, allorchè l’esercito francese scese vincitore in Lombardia, il giovane Generale Bonaparte che per propria virtù correa fin d’allora all’imperio, tratto dalla fama di Leonardo visitò il Cenacolo ed ordinò che quel luogo fosse rispettato nè vi si desse alloggio militare o vi si facesse altro danno. Ei ne lasciò decreto che sottoscrisse sul ginocchio innanzi di rimontare a cavallo, presenti varie persone, fra le quali il padre Porro cui debbo questo ragguaglio. Ma poco dopo un altro Generale, facendosi beffe di quel decreto, fece abbattere le porte e fe’ del refettorio una stalla. Il raffazzonamento del Mazza aveva già cominciato a perdere la sua vivacità, allorchè la traspirazione della cavalleria, sostituita al vapore delle vivande e certo più abbondante e permanente, la ricoperse d’una nuova muffa, e l’umidità vi si attaccava in tanta copia che poi colava a strisce lasciandovi una impressione biancastra. Da poi fatto il refettorio or magazzino or fienile, sempre ad uso militare, il Cenacolo, quantunque dopo il Mazza non vi fosse alcun nemico da temere, ebbe pur sempre nuovi danni e fino forti colpi di mattoni slanciati contro le figure, de’ quali si veggono tuttavia le tracce.
Riuscì finalmente all’Amministrazione della città di far chiudere, anzi murare quel luogo, e per molto tempo chi voleva vedere l’opera di Leonardo, dovea discendere con una scala a piuoli da un pulpito che servì già al tempo de’ frati pei lettori durante la mensa. Nel 1800 vi fu la di già accennata inondazione che accrebbe notabilmente l’umido del luogo. Nell’anno 1801, sopra dimanda fatta da me come segretario dell’Accademia delle belle arti, l’Amministrazione fece fare una porta e promise cure ulteriori. Finalmente nel 1807 il Vicerè d’Italia ordinò che si rimettesse questo luogo in onore e si ristaurasse, e vi si fecero le finestre, e parte del pavimento, e vi si eresse un ponte onde poter esaminar l’opera da vicino, e riconoscere se si poteva tentare qualche nuovo risarcimento. Vi si fece in oltre un’altra porta in miglior situazione, sulla quale fu posta la seguente iscrizione dettata dall’egregio Stefano Bonsignori ora vescovo di Faenza:

ANNO RECGI ITALICI III. EVGENIVS NAPOLEO ITAL. PROREX
LEONARDI VINCII PICTVRAM FOEDE DILABENTEM
PARIETINIS REFECTIS EXCVLTIS AB INTERITV ADSERVIT
MAGNA MOLITVS AD OPVS EXIMIVM POSTERITATI PROROGANDVM.

Da quel tempo in poi, quantunque appaja alquanto più annebbiato quel qualsisia dipinto che si vede, pure non vi si scorge alterazione notabile, e quell’annebbiamento ora è maggiore ora è minore secondo lo stato dell’atmosfera, come ebbi par troppo occasione di osservare per circa due anni che passai con grave danno di mia salute in quel tristo refettorio.
Intanto per cura del Governo questo luogo è custodito come si deve e come suggeriva il rispetto dovuto da una città colta alla memoria di tanta opera. Così sarà, spero, custodito anche per l’avvenire; e benchè dell’antico dipinto del Vinci non si scorgano ora che pochi minutissimi frammenti, la memoria di tanto autore farà riguardare il poco che rimane con quella venerazione colla quale si custodiscono, quantunque inutili, le ceneri o le reliquie degli uomini grandi; giacchè questo rispetto, oltre che nelle persone amiche delle arti è un sentimento, è anche un avviso a chi possiede o custodisce opere insigni, di non trascurarle o guastarle; ed agli artefici è un utile stimolo a prodarne di tali che meritino altrettanto dalla posterità.