La vigna di
Leonardo da Vinci fuori di Porta Vercellina
[in]
Archivio storico lombardo
Giornale della Società storica lombarda
Anno xxxvi,
Vol. xii, Fasc. xxiv, 1909
pp. 363-396
«O fosse per
un giusto salario della grand’opera del Cenacolo o un compenso per ciò di che
gli era debitore e per sollevarne l’esposta miseria, un generoso dono fece nel
1499 il duca Lodovico a Leonardo, dandogli sedici pertiche di una vigna, che
comperata dianzi aveva dal monastero di S. Vittore presso porta Vercellina con
pieno diritto di proprietà». Così commentava l’Amoretti[1]
il transunto da lui rinvenuto nei registri Panigarola,[2]
delle lettere-patenti, spedite in data 26 aprile 1499 per far fede della
donazione. Non diversamente l’atto munifico di Lodovico il Moro venne
interpretato dal Calvi[3]
e dall’Uzielli[4] che ripublicarono il
documento, dal Müntz,[5]
dal Solmi[6]
dal Milanesi[7] e finalmente dal Seidlitz.[8]
Possiamo
convenire che alla determinazione dello Sforza abbia contribuito il proposito
di dare al grande artista un segno della propria compiacenza per la dipintura
del Cenacolo che aveva suscitato l’universale ammirazione, e di rendergli meno
disagiata l’esistenza. Ma a questi motivi generici, che avrebbero domandato
piuttosto un donativo in denaro, dovette accompagnarsi un intento particolare,
riflettente la destinazione che, secondo le intelligenze passate fra il duca e
Leonardo, si voleva dare a parte di quel terreno.
Col
sussidio di alcuni documenti venutici casualmente sotto gli occhi, noi ci
proponiamo di determinare questa speciale destinazione, precisando insieme
l’ubicazione della vigna ed aggiungendo qualche dato ed indizio sull’attività
di Leonardo nell’ultimo anno della sua prima dimora a Milano.
Il
materiale documentario sulla vigna di Leonardo fin qui conosciuto è così
costituito:
1.°
1498, 2 ottobre; atto di permuta stipulato fra gli agenti della camera ducale
ed Elisabetta Trovamala ved. Crotti. La camera cede da sei a sette pertiche
della vigna chiamata la vigna grande di S. Vittore, fuori di porta Vercellina,
compresa fra due appezzamenti della stessa vigna donati dal principe, l’uno al
monastero di S. Girolamo, l’altro «magistro Leonardo de Vincio pictori», e
riceve in cambio un pezzo d’orto o «zardino» fuori della stessa porta, in
parrocchia di S. Martino al corpo, avente per confini: il duca, Stangellino
Canetario, «mediante redefosso», quei da Vimercate e a «magistro Leonardo
pictori».[9]
Sebbene non venga indicata l’estensione di questo secondo terreno, è a
ritenersi fosse presso a poco pari al primo, o forse alquanto superiore, attesa
la sua maggiore distanza dalla strada del fossato della città.
2.°
1499, 26 aprile; lettere-patenti di Lodovico il Moro portanti la donazione a
Leonardo da Vinci di sedici pertiche della vigna testè ceduta alla camera
ducale dall’abbazia di S, Vittore, nel suburbio di porta Vercellina. Nelle
premesse il principe esalta l’eccellenza nell’arte della pittura di Leonardo, a
giudizio suo e dei più competenti, non inferiore a qualsiasi antico pittore;
accenna alle svariate e meravigliose opere alle quali ha posto mano dietro sua
commissione, che, portate a termine, faranno fede ai posteri del suo genio;
esprime quindi un concetto che ci riserviamo di chiarire più innanzi. Avverte
infine che farà conoscere le ulteriori sue disposizioni per scorporare dalla
grande vigna di S. Vittore le sedici pertiche concesse a Leonardo.
3.°
1501, 29 luglio; Leonardo con istrumento, dove è detto pittore e scultore,
fatto in Firenze, dichiara di aver ricevuto da Pietro di messer Giovanni da
Oreno milanese il canone di un anno del fitto di un pezzo di terra posto presso
porta Vercellina di Milano.[10]
4.°
1507, 20-27 aprile; ordine dato dal luogotenente generale del re di Francia in
Lombardia, Carlo d’Amboise, ai maestri delle entrate straordinarie, di
reintegrare Leonardo nel possesso della vigna com’egli l’aveva «inante che gli
fusse tolta per la camera», in modo «chel non ne habia a patir spesa pur de un
soldo». Il decreto in data 20 aprile è inserto nella provvisione presa il successivo
giorno 27 dal suddetto magistrato per eseguire l’ordinata restituzione del
pezzo della vigna di S. Vittore, «apud fossa urbis», donato a Leonardo dal duca
Lodovico Sforza, che la camera regia aveva assegnato a Leonino Biglia, altro
dei componenti lo stesso magistrato, in esecuzione di una donazione regia.[11]
5.°
1510, 6 marzo; convenzione passata fra il monastero di S. Girolamo e Pietro da
Oreno in proprio e a nome e nell’interesse di Leonardo da Vinci per il
regolamento della comunione del muro costruito da Pietro sulla linea di confine
dell’orto di Leonardo con quello dei frati.[12]
6.°
1519, 23 aprile; testamento di Leonardo che lega il «iardino che ha fora a le
mura de Milano», metà al servo Battista de Villanis, e metà a Salai, già suo
domestico, per modo che nella parte di quest’ultimo sia compresa la casa dal
medesimo erettavi.[13]
7°
1519, 29 agosto; procura rilasciata dal Villanis a Girolamo Melzi perchè
addivenga con Salai alla divisione del giardino, indi alla vendita della sua
quota.[14]
8.°
1535; atto citato dall’Amoretti, richiamante la vendita che Gerolamo Melzi fece
della quota del giardino assegnata al Villanis, parte ai frati di S. Girolamo e
parte a Lorenzo dei Capiroli.[15]
Coordinando
le risultanze di questi atti, si ricava che la vigna donata da Lodovico il Moro
a Leonardo era posta lungo la via di circonvallazione esterna, già via S. Girolamo,
ora via Carducci, oltre il fossato della città, fra la porta Vercellina e la pusterla
di S. Ambrogio, presso il monastero di S. Girolamo, al quale verso il 1520 venne
in parte incorporata. Sebbene nei documenti non si dica se la vigna fosse a
destra del monastero, verso la pusterla di S. Ambrogio, ovvero a sinistra,
verso la porta Vercellina, la stessa disposizione del monastero che aveva la
chiesa all’estremità della propria fronte, verso porta Vercellina, da cui
distava appena cinquanta metri, mentre dal lato opposto, lungo la strada dei fossato
ed oltre le fabbriche dello stesso monastero, vi era ancora al momento della
sua soppressione un buon tratto di ortaglia, fa comprendere che la vigna di Leonardo
si trovava a destra del monastero verso la pusterla. Qualche difficoltà presenta
la cronologia dei primi due atti, non perchè dalla permuta dell’ottobre 1498
appaia che Leonardo era già al possesso del terreno, prima che gli fossero state
rilasciate le lettere-patenti, essendo abbastanza frequente il caso di concessioni
date verbalmente dal principe o a suo nome e tosto registrate dagli ufficiali
della camera, incaricati di provvedere alla loro esecuzione, salvo a regolarizzare,
con ritardo anche di più mesi, la pratica mediante la formazione ed il rilascio
delle lettere-patenti; ma perchè, dichiarandosi nell’atto di permuta che
ciascuno dei due appezzamenti confinava da un lato con terra di proprietà di Leonardo,
parrebbe che fino da allora la confinazione dell’appezzamento a lui concesso
fosse già avvenuta, e riesce così incomprensibile la riserva contenuta nelle lettere
dell’aprile dell’anno successivo, di provvedere in avvenire alla designazione
dei confini. Inoltre: se il pezzo di vigna ceduto dalla vedova Crotti alla camera
raggiungeva il Redefosso ed aveva l’estensione di sei a sette pertiche o poco
di più, ammesso che i confini dei due appezzamenti, oggetto della permuta, si
riferissero ad un unico possesso di Leonardo, costituito da un sol corpo di
terreno con la fronte sulla strada del fossato, sorge spontanea la domanda
intorno alla configurazione di questo possesso diviso dal Redefosso, scorrente
nel suburbio fra la porta Vercellina e la pusterla di S. Ambrogio, alla distanza
media di settecento metri dal fossato, mediante un appezzamento di sole sette
od otto pertiche.
Fra
le carte dell’archivio di Stato provenienti dal monastero di S. Lazzaro fuori
di porta Romana, abbiamo rinvenuto un primo gruppo di documenti[16]
che gettano qualche sprazzo di luce su queste e su altre questioni riflettenti le
vicende della vigna grande di S. Vittore, di cui era parte il terreno assegnato
a Leonardo, e la probabile destinazione di questo terreno, quando gli venne
offerto dalla generosità del principe.
Il
Latuada,[17] seguendo il racconto
attribuito ad un padre maestro Ambrogio Taeggio, del convento delle Grazie, da
altro padre maestro dello stesso convento, Giovanni Alberto Bianchi, nella Vita della venerabile signora Suora Colomba
Trocazzani, milanese, seconda monica dei monastero di S. Lazzaro in Milano,[18]
narra di un «nobile medico, Valentino Melegari» che, avendo stabilito di
fondare un monastero di monache dell’ordine di S. Domenico, dette di Penitenza,
in onore di S. Caterina da Siena, acquistò per ottocento scudi dall’Ospedale
maggiore, con atto del 21 maggio 1497, un terreno fuori di porta Vercellina,
alla località detta «la Maddalena», ove avrebbe dovuto sorgere il nuovo
chiostro. Morto poco appresso il Melegari, si riconobbe che il luogo non era
adatto per un monastero di monache, perchè troppo discosto dall’abitato, e lo
si sostituì con le case già occupate dall’antico ospitale dei lebbrosi fuori di
porta Romana; ove avvenne nel 10 novembre 1498 l’introduzione della prima monaca,
Margherita da Lodi, eletta superiora del nuovo monastero dedicato a S.
Caterina. Alla sua vestizione seguirono le monacazioni «di altre civili
donzelle, provvedute (aggiunge il Latuada) di convenevole sostentamento dalla
liberalità del duca Lodovico il Moro, sotto i cui auspici fu fondato; e si
reggeva quella religiosa famiglia con la direzione dei padri domenicani del
ducale convento di S. Maria delle Grazie».
Questo
accenno alla generosità di Lodovico il Moro verso il nuovo monastero, il
Latuada deve aver desunto non dalla vita di suor Colomba, ove non se ne fa
parola, ma dalla storia del convento delle Grazie del padre Monti, il quale,
come si rileva da un transunto del suo libro, depositato dal padre Gaetano
Mancini dello stesso convento nell’archivio del monastero di S. Lazzaro, riferì
avere il Moro fatto donazione a quelle monache «di un fondo più comodo, situato
fuori della porta Vercellina, acciochè ivi si fabbricasse il loro monastero»,
ma essersi poi «deposto il pensiero di trasferirlo al luogo donatogli dal duca,
stante la di lui prigionia».[19]
Fra
le carte provenienti dal monastero di S. Lazzaro vi è una copia dell’atto 23
(non 21) maggio 1497, relativo all’acquisto fatto da Valentino «de Melegaris», di
un sedime con un molino a tre ruote e trenta pertiche di terra fuori di porta
Vercellina, «inter corpora sanctorum», nella parrocchia di S. Martino, al corpo
«ubi dicitur ad Magdalenam», per costruirvi un convento di suore dell’ordine di
S. Domenico dell’osservanza, sotto il patronato dello stesso Melegari, nonchè
di Francesco Mantegazza, di Roberto dei Quarterii e di uno dei deputati dell’Ospitale
maggiore. Ad essa è unito l’abbozzo, colla sola data dell’anno 1498, dell’atto di
retrocessione di quella possessione e della consegna, in sua vece, delle case dell’ospitale
di S. Lazzaro.[20] Ma ciò che più richiama
la attenzione, è la copia delle lettere-patenti di Lodovico il Moro in data 12
luglio 1499, relative alla donazione fatta alle monache di S. Lazzaro di una
porzione della vigna di S. Vittore, con una serie di atti di una lite svoltasi nel
1505 e 1506 per la rivendicazione di questo terreno. Nelle lettere-patenti il
duca premette che la sua devozione per la religione dei frati predicatori dell’osservanza
lo aveva indotto a fondare un monastero per le suore di S. Caterina da Siena,
pure dell’osservanza, che allora dimoravano nelle case di S. Lazzaro,
assegnando per la fabbrica del nuovo convento la somma di quattromila ducati.
Avendo l’anno prima acquistato, mediante permuta, dal monastero di S. Vittore
una vigna, destinava per il nuovo convento una porzione della vigna stessa,
dell’estensione di venticinque pertiche, di cui faceva donazione a quelle
monache, accettanti a mezzo di frate Vincenzo da Castelnuovo, il noto priore
del convento delle Grazie, indicando come confini dell’appezzamento: la via
lungo il fossato della città, il monastero di S. Vittore e la parte della
vigna, «quam donavimus Leonardo florentino pictori versus Jesuatos», ossia
verso il convento di S. Girolamo appartenente all’ordine dei Gesuati.[21]
La
lite dei 1505-1506 vertiva fra le monache di S. Lazzaro e gli eredi di tal
Beniamino da Intra, detto Franzosino, già proprietario di un magazzino di
legname da lavoro e da fuoco presso S. Ambrogio. Promossa dalle monache la
causa era stata portata avanti il senatore Giacomo Filippo Simonetta, a ciò delegato
con regie lettere del 22 settembre 1505.[22]
Negli articoli probatoriali proposti dal patrono del monastero si espone quanto
segue: più e più volte durante l’anno 1498 il duca Lodovico Sforza, mosso da particolare
affetto per la religione dei frati dell’osservanza di S. Domenico e delle suore
di S. Caterina da Siena, aveva «viva voce» fatto donazione alle monache di quest’ordine,
dimoranti a S. Lazzaro, di un appezzamento di venticinque pertiche di vigna per
costruirvi il loro monastero, e questa sua volontà aveva manifestato così nel
convento delle Grazie, come nel castello di porta Giovia ed altrove, alla presenza,
fra le altre persone, di frate Vincenzo da Castelnuovo; le monache erano state
subito immesse nel possesso della vigna, e la donazione era poi stata
confermata da lettere-patenti del 12 luglio 1499; dopo la partenza del duca per
l’Alemagna (2 settembre 1499), le monache furono spogliate del possesso dei
terreno per opera di Bernardino da Intra, il quale arbitrariamente lo occupò e
lo godette fino al giorno di sua morte, come arbitrariamente continuava a goderlo
il figlio ed erede; il reddito annuo della vigna si aggirava fra le quaranta e
le sessanta lire.
In
difesa dell’erede di Franzosino si obbiettava: il pezzo di terra in questione,
parte della vigna grande di S. Vittore fuori di porta Vercellina, è stato
ceduto al defunto Bernardino a nome del duca Lodovico Sforza in pagamento di un
suo credito verso la camera ducale, con istromento del notaio Antonio dei Bombelli
del 30 agosto 1499; il Franzosino, immessosi subito nei possesso del terreno,
io aveva trovato incolto ed abbandonato; da allora in poi egli e dopo la sua
morte il figlio ed erede lo tennero ed usufruirono ininterrottamente,
respingendo un primo tentativo di spoglio per parte di Scaramuccia Visconti,
accampante una pretesa donazione fattagli da Luigi xii al suo primo ingresso in Milano (6 ottobre 1499), e di
poi un secondo simile tentativo per parte dei francesi Roberto «de Stino» e
Gabriele d’Amboise, invocanti essi pure una donazione regia; il pezzo di vigna
concesso al Franzosino misurava trentatre pertiche, comprendendo così otto
pertiche in più delle venticinque rivendicate dalle monache di S. Nazzaro.
La
sua confinazione era la seguente: dal canto od angolo presso la strada del
fossato della città andando da un lato verso porta Vercellina e dall’altro
lungo il corso o strada nuova dividente in due parti la vigna di S. Vittore,
per una tratta di eguale lunghezza da ambedue i lati; dalle altre due parti il
residuo della medesima vigna.
Si
hanno le deposizioni di sei testimoni fatti sentire dalle monache sui propri
articoli di prova. Sono tre maestri da muro e tre garzoni muratori, che
abitavano fuori di porta Vercellina, nella parrocchia di S. Martino al corpo,
in prossimità alla vigna di S. Vittore. Le deposizioni sostanzialmente concordi
confermano la verità delle allegazioni del monastero. I testimoni precisarono meglio
i confini dell’appezzamento oggetto della rivendicazione; da un lato la strada
del fossato, dal secondo lato il corso o strada nuova, dal terzo lato Leonardo,
fiorentino, pittore, e dal quarto Donato de Prata.[23]
Maestro Giacomo dei Marinoni accennò che il terreno confinante, indicato come proprietà
di Leonardo, era invece tenuto, come dicevasi, per conto di Leonino Biglia. Un
altro teste riferì di essere stato presente alla misurazione del pezzo di vigna
destinato alle monache di S. Lazzaro, fatta da maestro Giorgio da Bellinzona,
allora architetto ed ingegnere ducale.[24]
Tutti deposero che fra il marzo e l’aprile 1499 maestro Ambrogio da Castello,
dietro invito di frate Gregario dei Spanzotti del convento delle Grazie e di
ser Francesco Mantegazza, aveva preso possesso dell’appezzamento a nome delle monache,
con l’intelligenza ch’egli avrebbe goduto quel fondo durante il tempo
necessario per la costruzione del nuovo monastero che veniva a lui commessa,
salvo a computare sulla sua mercede il compenso per il godimento del terreno.
Questa convenzione aveva provocato dallo stesso maestro Ambrogio nei colloqui
coi suoi garzoni il commento ch’egli avrebbe furbescamente tirato in lungo il
più possibile la fabbrica per sfruttare nel frattempo la vigna, nella speranza
di avvantaggiarsi nel futuro regolamento dei conti. Avvenne che maestro Ambrogio,
il quale credeva di avere trovato con la commissione della fabbrica del nuovo
convento la propria vigna, si affrettò a far lavorare e seminare a miglio il
terreno, ad acconciare le viti e a costruire una siepe od un assito lungo la
strada o corso nuovo; ma non appena il miglio era venuto a maturanza, pochi giorni
dopo la partenza del duca Lodovico per l’Alemagna, capitò la comitiva degli
stipendiari regi, comandata da Francesco Triulzio e da Emanuele degli Avogadri,
i quali posero il proprio campo coi cavalli nella vigna delle monache, del pari
che negli orti vicini e nello stesso giardino ducale del castello, recando
dovunque gravi danni; sì che del miglio il testimonio aveva potuto ricavare
appena cinque staia e dell’uva salvata dalla devastazione aveva fatto al
torchio di S. Vittore un po’ di vino che quegli armigeri, senza chiedergli il
permesso, si erano creduti in dovere di bere sino all’ultima goccia. Il risultato
di quel primo anno di conduzione era stato così sconfortante che maestro
Ambrogio non volle più saperne della vigna che abbandonò al suo destino.[25]
Ulteriori
ricerche istituite nei fondi provenienti dai monasteri delle Grazie, di S.
Vittore e di S. Girolamo e nelle imbreviature di alcuni notai, ci pongono in
grado di tentare una ricostruzione cronologica dei provvedimenti della camera
ducale che si connettono in qualche modo con l’assegnazione delle sedici
pertiche di vigna a Leonardo da Vinci.
Il
Beltrami riporta un documento che dimostra come nel 1497 ai sia provveduto ad
un nuovo incorporamento di proprietà private nel giardino del castello;[26]
nuovo, perchè già nel 1495 erano state allo stesso scopo acquistate e distrutte
parecchie case, cassine e colombare.[27]
L’acquisto del 1497 comprendeva una «casa da gentilhomo con pertiche sedici de
giardino, situate fora de porta Vercellina», di proprietà della «nobile
Samaritana Frixiana», stimate da «maestro Antonio Homodeo, ingegnero della
alhora ducal Camara» lire 2108 e soldi 11. A noi risulta che lo stesso anno, previa
stima in data 16 agosto dei maestri Gio. Antonio Amedeo, Ambrogio dei Ferrari e
Antonio da Casorate, venivano incorporate nel giardino del castello altre due
case, l’una con diciannove pertiche di vigna, di Ambrogio da Gallarate, e l’altra
con pertiche venticinque di terreno, di Antonio da Vimercate. L’erezione dell’istromento
d’acquisto ritardò, com’era costume dei notai della camera ducale,
sovraccarichi di lavoro, fino al 25 agosto 1498.[28]
Anche
l’occupazione, per parte della camera, della vigna del monastero di S. Vittore,
chiamata la vigna grande di S. Vittore, risale all’agosto 1497. In attesa di
compiere le lunghe pratiche occorrenti per la regolarizzazione della cessione
dell’immobile nei riguardi della venditrice abbazia, che allora aveva per titolare
e commendatario perpetuo Cesare Borgia, si stipulò nel 2 agosto 1497 fra l’abbazia
e la camera ducale un provvisorio livello perpetuo (sic) sul terreno, che potè così passare tosto nel definitivo
possesso della camera. L’atto di vendita della proprietà fu celebrato il 9
agosto dell’anno successivo, essendosi a nome del principe date al monastero,
in cambio della vigna, pertiche 814 di terreno in parte irriguo, situato nel
territorio di Cussago, il cui reddito era stato calcolato in annue lire 564, soldi
17 e danari 9.[29] Malauguratamente l’imbreviatura
dell’istromento di vendita si riporta per brevità, quanto alla descrizione
della vigna, all’atto di livello che non abbiamo potuto rintracciare. Del
terreno dato dal monastero alla camera se ne parla come «predicte vinee
iacentis extra portam Vercellinam prope muros civitatis M.». Da quanto si è
detto sulla confinazione dei due appezzamenti assegnati l’uno a Leonardo, l’altro
dapprima alle monache di S. Lazzaro, indi a Bernardino da Intra, si può
argomentare che l’area ceduta dal monastero di S. Vittore alla camera ducale
avesse per confini da un lato la strada del fossato, dall’angolo con l’attuale
via di S. Vittore fino a poca distanza del monastero di S. Girolamo, e da un
secondo lato la stessa via di S. Vittore. Meno agevole è il determinare gli
altri due confini.
Da
un decreto di re Luigi xii del 17
marzo 1506 si rileva che il duca Lodovico il Moro aveva stabilito di aprire una
strada destinata a porre in diretta comunicazione la chiesa delle Grazie con
quella di S. Vittore.[30]
La strada non aveva potuto essere aperta a causa di una «domuncula» che ne
ostruiva l’imbocco in faccia alla chiesa delle Grazie. Aderendo ad una
petizione degli interessati, il re assegnò per l’acquisto e demolizione di
questa casetta un censo livellario spettante alla camera sopra «quoddam spacium
terre» della vigna già acquistata dal duca Lodovico, situato «iuxta predictam
viam construendam». Di qui si scorge come la vigna ceduta alla camera ducale
raggiungesse indubbiamente l’attuale via Bernardino Zenale, già delle Oche, che
è appunto la strada aperta verso il 1506.
Nello
stesso giorno 2 ottobre 1498 dell’atto di permuta fra la vedova Crotti e i
procuratori della camera ducale, si può credere in uno stesso contesto, furono
stipulati, a mezzo del medesimo notaio camerale Antonio dei Bombelli, altri sei
atti di vendita alla camera di case ed attigui terreni nel circondario esterno
di porta Vercellina, parrocchia di S. Martino al corpo, per essere incorporati
nel giardino del castello. Le case e i terreni appartenevano a maestro Ambrogio
da Castello,[31] a maestro Battista degli
Aliberti, due dei testimoni della causa del 1505-1506, a maestro Ambrogio da S.
Ambrogio (altro maestro da muro), agli eredi del fu Bernardino da S. Ambrogio,
a Stangellino Francesco e ad Enrico da Lazzate. Quest’ultimo ebbe in cambio due
pertiche della vigna di S. Vittore. Tutti gli altri dovettero accontentarsi di
ricevere in pagamento un’annua rendita della camera, garantita sopra i dazi
della città.
La
confinazione delle varie case e del terreno ceduto dalla ved. Crotti dimostra
che si trattava di possessi compresi in una stessa zona di superficie, disposti
lungo una medesima via ch’era destinata a scomparire insieme alle case ivi
esistenti. Si è già veduto che col pezzo di orto della Crotti si toccava da un
lato il Redefosso e dall’altro l’appezzamento donato a Leonardo. Lo stesso
terreno della Crotti e la casa di maestro Ambrogio da S. Ambrogio confinavano
rispettivamente con possessi «illorum de Vicomercato» e di Ardico da Vimercate.
Ciò induce a ravvisare negli acquisti del 2 ottobre 1498 la continuata
esplicazione dello stesso piano d’ampiamente del giardino del castello, per il
quale si era fatta l’espropriazione delle case e terreni dell’agosto 1497, regolarizzata
nel 25 agosto 1498. A meglio riconoscere la probabile ubicazione di queste case
e terreni servono alcuni documenti relativi al palazzo con giardino di Marolo
dei Guiscardi, «camerario» di Lodovico il Moro, che, come narra il Corio, non
era ancora terminato, quando nel giorno 31 agosto 1499 il popolo, levatosi a rumore,
lo devastò insieme alle case di Galeazzo Sanseverino e al giardino di Bergonzo
Botta.[32]
Il palazzo con quindici pertiche di giardino aveva per confine: il borgo di
porta Vercellina, la strada che conduce dal borgo al Redefosso, indi a S.
Giovanni alla Vepra, gli eredi di Filippo Ferufino e il Redefosso.[33]
Nella strada che dal borgo di porta Vercellina conduceva al Redefosso ed
oltrepassato il canale proseguiva verso S. Giovanni alla Vepra si riconosce
agevolmente l’attuale via Matteo da Bandello, già via delle Ochette, che taglia
il quartiere a sinistra del corso di porta Magenta superiormente alla via B.
Zenale, e attraversata la via di S. Vittore prosegue obliquamente fino al
bastione ora demolito.
In
una «nota de beni et rendite» del monastero di S. Vittore, del primo o secondo
decennio del sec. xvi troviamo
indicati «un sedime a S. Vittorello (S. Vittore all’Olmo) con pertiche cento
parte vigna e parte campo, petia una de campo di pertiche trentasei e pertiche
dodici di terra quale e nel giardino del castello».[34]
I primi due appezzamenti dovevano formare un unico corpo di terra, che nella
carta catastale della città dell’anno 1722, esposta nella raccolta cartografica
dell’archivio Storico Civico, portante i nomi dei possessori dei giardini e
delle ortaglie, si scorge segnato come vigna ed ortaglia del suddetto
monastero, compresa fra la via S. Vittore, l’ospedale di S. Ambrogio verso la
strada del fossato, alcune ortaglie e vigne che andavano a raggiungere i
bastioni verso S. Vincenzo in prato, i padri cappuccini di S. Vittore all’olmo
e la via Ochette, La stessa «nota dei beni et rendite» reca una serie di fitti
livellari sopra case e annesse corti e giardini «in borgo de porta Vercellina».
Fra i possessori di queste case figura «Dona da Prata», il cui nome si è veduto
che segnava il quarto confine dell’area assegnata alle monache di S. Lazzaro.
Questi
dati ci inducono a ritenere che la vigna grande di San Vittore ceduta alla
camera ducale nel 1497 formasse in origine un sol corpo con la vigna chiamata
di poi di S. Vittorello e con l’ortaglia, che il monastero continuò a possedere
sino al tempo della sua soppressione. I confini di questa pingue possessione
dovevano essere da un lato la via che da S. Giovanni alla Vepra, attraversando
il Redefosso, metteva al borgo esterno di porta Vercellina, dal secondo lato lo
stesso borgo di porta Vercellina, dal terzo la strada del fossato fino all’ospitale
di S. Ambrogio, dal quarto le ortaglie e vigne aventi accesso sulla via di S.
Vincenzo. Come era avvenuto dalla fine del sec. xii
in poi negli altri borghi esterni della città, la zona della vigna prospettante
il borgo era stata da gran tempo divisa in lotti e data a livello perpetuo a
famiglie del popolo minuto che vi avevano costruite le proprie case.
La
pusterla di S. Ambrogio, come altre pusterle della città, non faceva capo ad un
borgo esterno. Uscendo dalla pusterla sulla strada del fossato, per andare a S.
Vittore bisognava fare un lungo giro per il borgo di porta Vercellina e la via
di S. Giovanni alla Vepra, donde doveva staccarsi una strada privata di accesso
alla chiesa e al monastero. Il borgo nuovo indicato nei documenti dei 1498 e
1505 corrisponde all’attuale via di S. Vittore che deve essere stata aperta fra
il 1497 e il 1498, nell’occasione appunto della cessione fatta dal monastero
alla camera ducale di quella parte della grande vigna che con l’apertura della
nuova via veniva staccata dalla parte adiacente al monastero. Acquisto della vigna,
apertura del borgo nuovo, che per la strada del fossato metteva alla pusterla
di S. Ambrogio, ed apertura, rimasta allora allo stato di progetto, di una via
traversale dal borgo di porta Vercellina all’altezza, della chiesa delle
Grazie, al borgo nuovo, facevano parte di un vasto programma di sistemazione
edilizia, il cui scopo principale era l’ampliamento del giardino annesso al
castello, determinato, è a credersi, più che dal bisogno di svago della corte,
dalle esigenze della difesa dello stesso castello e della città.
L’incorporazione
nel giardino ducale delle tre case con circa sessanta pertiche di vigna ed
ortaglie stimate nell’agosto 1497 e delle sei case cedute il 2 ottobre 1498
insieme al pezzo di terra della vedova Crotti che raggiungeva il Redefosso, fa
pensare che si volesse intercludere, all’altezza della nuova via in fianco alla
chiesa delle Grazie, il borgo esterno di porta Vercellina. Di qui la necessità
di procurare un’altra arteria stradale per il movimento della popolazione fuori
di porta Vercellina. L’espediente doveva essere l’apertura del nuovo borgo di
S. Vittore che allacciandosi da un lato alla via conducente attraverso il
Redefosso a S. Giovanni alla Vepra, raggiungeva dall’altro la strada del fossato
innanzi alla pusterla di S. Ambrogio e, mediante la progettata traversale, si
sarebbe collegato al punto estremo del borgo di porta Vercellina.[35]
La quasi immediata caduta di Lodovico il Moro e le vicende politiche che
seguirono di poi, impedirono l’attuazione completa di questo piano grandioso.
Il borgo esterno di porta Vercellina non venne intercluso e la traversale fra
il borgo e la nuova via di S. Vittore attese ancora parecchi anni prima di
essere aperta.
Si
comprende come la notizia dell’acquisto, per parte della camera ducale, della grande
vigna di S. Vittore prospettante la strada del fossato con la contemporanea
apertura del nuovo borgo attraverso la vigna, abbia destato in molti il
desiderio di ottenerne una porzione maggiore o minore per costruirvi qualche
edificio. I funzionari della camera, la quale aveva fatto un ottimo affare,
trattandosi di terreno che, in seguito alle progettate trasformazioni stradali,
acquistava qualità e valore di area edilizia, avranno fatto del loro meglio per
contrastare l’azione dei postulanti che premevano per avere gratis le porzioni migliori. Ma già l’intervento
nell’atto 8 agosto 1498 di permuta fra la camera e l’abbazia, del priore delle
Grazie, Vincenzo Bandello da Castelnuovo, personaggio molto ascoltato a corte,
lascia comprendere come si fossero fino da principio posti gli occhi su quel terreno,
più particolarmente sull’appezzamento d’angolo fra le due vie, il miglior
boccone della vigna, per trasferire colà le monache di S. Lazzaro. Nella causa
del 1505-1506 il teste maestro Giacomo dei Marinoni riferì che una parte di
quell’appezzamento, tredici pertiche, era stata a lui promessa da maestro
Ambrogio dei Ferrari, soprastante ai lavori ducali, in pagamento del suo
credito per avere fatto costruire «unum terratiurn in citadella quam fieri facere
intendebat (il principe) extra portam Vercellinam prope viridarium d. Bergonzii
Botte»;[36]
ma più tardi lo stesso maestro Ambrogio gli aveva fatto sapere che era mente del
duca di assegnare quell’area alle monache di S. Lazzaro; ed egli, sebbene a
malincuore, aveva umilmente risposto che la volontà di «sua dominatio» era pure
la sua. Si è veduto che due mesi dopo il rilascio delle lettere ducali,
attestanti la donazione del suddetto appezzamento alle monache, e alla vigilia
della catastrofe, la camera, per turare la bocca ad un creditore che avrà fatto
chissà quale rumore e quali minacce, gli assegnò in pagamento la stessa area
insieme a parte del terreno attiguo.[37]
Una porzione era stata donata al monastero di S. Girolamo, il quale avrà fatto
valere il bisogno di allargare la propria sede.[38]
Altri appezzamenti, come quelli dati alla vedova Crotti e ad Enrico da Lazzate,
avranno servito per sistemare con opportune permute il terreno destinato per il
giardino del castello e l’area occorrente per la costruzione della nuova
cittadella che si voleva erigere in quella località, probabilmente oltre il
Redefosso verso S. Giovanni alla Vepra. Qualche altra porzione della vigna fu
concessa a livello contro pagamento di un annuo canone, come appare dal
surricordato decreto del 17 marzo 1506.
Fra
questa folla di postulanti vi fu Leonardo da Vinci, il grande artista; al quale
Ludovico il Moro, dopo avergli tenuto per alcun tempo il broncio a causa di
certo scandalo attribuitogli, quando cominciò a dipingere «i camerini» del
castello (giugno 1496),[39]
e poi per gli indugi della pittura del Cenacolo,[40]
aveva restituita la propria grazia in seguito all’entusiasmo sollevato da quell’opera
meravigliosa. Compiuto il Cenacolo sulla fine del 1497, Leonardo era stato
chiamato a dipingere nel castello la sala delle assi e «la camera negra».[41]
I termini più che deferenti della lettera che Leonardo si proponeva di
indirizzare al duca,[42]
come crediamo, nell’estate 1496, dopo l’incidente dei camerini che gli aveva
fatto perdere la relativa commissione, e prima d’avere quella del Cenacolo,
escludono ch’egli due anni dopo nel sollecitare la concessione di un pezzo
della vigna a titolo gratuito, abbia fatto valere la sua qualità di creditore
della camera per stipendi arretrati. Rimarrebbe inoltre a sapersi se, almeno
dopo compiuto il Cenacolo, Lodovico il Moro non abbia disposto perchè Leonardo
fosse soddisfatto dei suoi onorari. Il momento era certo favorevole per l’artista.
Un indizio che le sue condizioni finanziarie negli ultimi tempi della sua
dimora a Milano erano sensibilmente migliorate da quando scriveva il noto
abbozzo di lettera, ci è dato dalla rimessa di seicento scudi, fatta sull’ospitale
di S. Maria nova di Firenze nel 14 dicembre 1499, alla vigilia della sua
partenza da Milano con Luca Paciolo.
Nella
indagine sui particolari motivi che possono avere determinato Leonardo a
sollecitare e il duca Lodovico a concedergli le sedici pertiche di vigna sulla strada
del fossato di porta Vercellina, è mestieri anzitutto avere riguardo ai termini
delle lettere-patenti. Oltre alle solite frasi di stile degli atti translativi
di proprietà immobiliari sulla facoltà accordata al donatario di costruire
fabbriche, di coltivare il terreno ad uso ortaglia o di farne un altro uso
qualsiasi, vi è nelle premesse la seguente proposizione che il Calvi prima,
indi l’Uzielli hanno riportato inesattamente e di cui nessuno, a nostra
notizia, ha avvertito il preciso significato: «Igitur ut etiam sedis et mansionis
apud nos suae, quam nos[43]
hactenus gratam gratiorem etiam futuram in dies confidimus, initium faciamus;
tenore praesentium ecc. eidem Leonardo ecc. damus, concedimus et donamus ecc.».
Con
queste parole il principe ha voluto far sapere che scopo della donazione era
anche di fornire all’insigne artista con la concessione gratuita dell’area l’opportunità
di costruirsi una casa per la propria abitazione, destinata a rinsaldare i vincoli
che già ne legavano a lui la persona.[44]
Giova considerare la situazione di quel terreno a breve distanza dal castello,
a pochi passi dal convento delle Grazie, i due maggiori centri di attività di
Leonardo, in relazione alla destinatone che si voleva dare all’area contigua,
verso la nuova grande via di S. Vittore, con la costruzione di un nuovo monastero
a spese dello stesso principe, una specie di figliale femminile del convento delle
Grazie, e alla esistenza, dall’altro lato, delle fabbriche del convento di S.
Girolamo. Il terreno donato a Leonardo, che avrebbe impedito il contatto, considerato
sempre pericoloso, fra i due monasteri di sesso diverso, veniva ad assumere
anche per questa duplice vicinanza carattere e valore di area eminentemente
edilizia. Doveva colà formarsi un nuovo quartiere in continuazione ed
ampliamento del sobborgo di porta Vercellina anche per soddisfare il bisogno di
numerosi funzionari e provvisionati della corte, di avere la propria abitazione
nei pressi del castello.
Ove
fosse stata fino allora l’abitazione di Leonardo è ignoto.[45]
Matteo Bandello che, nato nel 1480, entrò nell’ordine dei domenicani dell’osservanza
presso il convento delle Grazie verso il 1499, dopo avere fatto colà il proprio
noviziato sotto la direzione dello zio priore, frate Vincenzo,[46]
c’informa che il cantiere del grande monumento equestre sul cui modello
Leonardo lavorava da parecchi anni, era «nella Corte vecchia», ossia nel
palazzo dell’Arengo, vicino al Duomo.[47]
Il Bandello narra delle corse affannose che faceva talvolta Leonardo in pieno
meriggio di estate, per portarsi dalla «Corte vecchia ove quel stupendo cavallo
di terra componeva» al refettorio delle Grazie, ed ivi «asceso sul ponte
pigliare il pennello, ed una o due pennellate dare ad una di quelle figure e di
subito partirsi».[48]
L’area lungo la strada del fossato, vicino alla chiesa di S. Girolamo, doveva
apparire a Leonardo la più adatta per costruirvi la propria dimora ed insieme
il proprio cantiere di scoltura; quanto meno per erigervi, accosto all’uno o
all’altro dei due monasteri, una tettoia o rimessa ad uso di studio per i suoi
lavori di scoltura.
Quando
l’area gli sia stata consegnata non si può dire con sicurezza. Si potrebbe
credere che l’apparente contraddizione fra l’atto di permuta della ved. Crotti
del 2 ottobre 1498 e le lettere-patenti del 26 aprile 1499 sia stato l’effetto
di una svista della cancelleria, la quale, dopo avere ritardato per molti mesi
di provvedere alla formazione delle lettere-patenti, incalzata dal lavoro, in
conseguenza delle complicazioni politiche del momento, stese l’atto sopra una minuta
ch’era stata compilata prima dell’ottobre 1498, quando ancora la camera non
aveva stabilito il piano di esecuzione delle varie assegnazioni disposte dal principe.
Certamente nel 2 ottobre 1498 l’area assegnata a Leonardo, come quella concessa
al monastero di S. Girolamo, era stata scorporata, ed egli ne aveva il
possesso.
Ma
qui dobbiamo aprire una parentesi per chiarire la questione relativa al
contatto del terreno posseduto da Leonardo con quel pezzo di orto ceduto il 2
ottobre 1498 dalla Crotti alla camera, che giungeva al Redefosso. Come si è
dimostrato superiormente, la porzione della grande vigna di S. Vittore venduta
dall’abbazia alla camera ducale occupava la superficie compresa fra la strada
del fossato, le attuali vie di S. Vittore e Matteo Bandello, ed una linea
interna, parallela al corso Magenta, oltre la quale vi erano i sedimi di case
con annessi cortili ed ortaglie livellarie dell’abbazia. Si può calcolare la
lunghezza di questa superficie circa metri cinquecento, e la larghezza media
metri duecento. Le sedici pertiche assegnate a Leonardo per attraversare la
vigna nella sua lunghezza avrebbero dovuto ridursi ad una sottile striscia
larga appena venti metri. A parte l’assoluta inverosimiglianza che si sia
prescelta una configurazione adatta soltanto per fare di un terreno una strada,
non si spiega ancora come per mezzo del fondo della Crotti si pervenisse dalla
vigna di San Vittore al Redefosso senza attraversare l’attuale via Matteo
Bandello, che se allora si aveva in animo, per le esigenze del giardino del castello,
di sopprimere nel primo tratto dal borgo di porta Vercellina alla nuova via di
S. Vittore, non per questo cessava di costituire per sè stessa una superficie
dividente la vigna da quell’isola di case e di ortaglie che arrivava al Redefosso,
della quale è probabile facesse parte il pezzo di orto della Crotti. Non
sappiamo escogitare altra spiegazione a questo problema se non pensando ad una
prima determinazione del principe di assegnare a Leonardo, oltre ad un pezzo
della vigna, prospettante la strada del fossato, sufficiente per costruirvi la
sua casa, un secondo appezzamento compreso nella suddetta isola, nel tratto della
via di S. Giovanni alla Vepra oltre il nuovo borgo di S. Vittore. Le vicende
dell’appezzamento donato alle monache di S. Lazzaro, che prima era stato
promesso a maestro Giacomo dei Marinoni e poi venne dato in pagamento al Franzosino,
denotano una continua fluttuazione nelle assegnazioni ducali dei vari lotti
della vigna, oggetto di tante cupidigie. Leonardo avrà fatto presente il
desiderio suo di avere riunito in un sol corpo colla fronte sulla strada del
fossato il terreno a lui destinato, e Lodovico il Moro avrà promesso di accontentarlo,
arrotondando nella parte interna il pezzo assegnatogli vicino ai Gesuati di S.
Girolamo. La riserva contenuta nelle lettere-patenti starebbe a significare che
ancora non si era provveduto a scorporare dall’interno della vigna la porzione
necessaria per portare l’appezzamento assegnato a Leonardo alla misura
stabilita di sedici pertiche.
Non
solo il motivo determinante della concessione fu il proposito di Leonardo,
gradito dal principe, di erigere colà la propria abitazione ed il cantiere di
lavoro. Crediamo si possa, in via di congettura, argomentare che in realtà
Leonardo, avvito il possesso dell’area fra il settembre e l’ottobre 1498, provvide
alla erezione del cantiere e vi trasportò il gesso del cavallo.
Si
sono riferite più sopra le deposizioni dei testimoni assunti nella causa del 1505-1506
intorno alla devastazione della vigna delle monache di S. Lazzaro, delle vigne e
terreni circostanti e del giardino del castello, ad opera degli stipendiari regi
ivi accampatisi pochi giorni dopo la fuga di Lodovico il Moro, ossia nella
prima decade del settembre 1499. Il racconto coincide con l’ordine degli avvenimenti
esposti dal cronista Gio. Andrea de Prata intorno alla prima venuta dei francesi
a Milano.[49] Nel giorno otto settembre
Giangiacomo Triulzio ridusse l’esercito «in campo fuori di porta Vercellina
verso la Maddalena»; il giorno nove «i Guasconi vennero ad alloggiare nel borgo
di porta Ticinese e nel borgo della Chiarella... occupando fino alla giesa de
Santo Victore al corpo facendo ogni gran male»; il giorno dieci «entrorno in
Milano», e presero stanza nei Monasteri di S. Ambrogio ad nemus e di S. Simpliciano, fuori di porta Comasina, e in città a
S. Ambrogio maggiore e a S. Francesco, «et quali fossero i loro portamenti sallo
Iddio et li loro pacienti ospiti». È noto che il milanese Sabba dei
Castiglioni, rammentando i sedici anni di lavoro di Leonardo intorno «alla
forma del cavallo», lamenta che «una così nobile et ingegnosa opera» sia stata
vituperosamente rovinata, perchè «fatta bersaglio a’ balestrieri guasconi».[50]
Quanto riferisce il cronista da Prata sulle gesta dei Guasconi, prima nei
dintorni della città, indi nei luoghi loro assegnati per alloggio, nonchè sulla
severità verso di essi spiegata dai Triulzio e sulle misure di rigore adottate
perchè la città e la popolazione non fossero soverchiamente molestate, sta
contro la ipotesi che i guasconi balestrieri abbiano piantato il loro bersaglio
nella corte vecchia, ove era la sede della camera già ducale e di altri uffici
dello stato e del comune. Nulla invece di più verosimile che se Leonardo aveva
già portato il gesso del cavallo nel nuovo cantiere fuori di porta Vercellina,
i Guasconi «con la ignorantia di coloro che si come non conoscono le virtù così
nulla l’estimano», come si dilettarono a devastare il miglio e le viti di
maestro Ambrogio da Castello e a dare il guasto ai giardini e alle ortaglie
vicine, tanto più abbiano trovato di loro gusto tirare a bersaglio contro il
modello del grande cavallo; esercitazione quest’ultima che aveva più del
soldatesco.
Nè
la ipotesi che la forma del monumento fosse ancora in qualche locale terreno
della corte vecchia, appare più fondata se gli atti vandalici dei Guasconi si
pongono in relazione con la seconda occupazione francese, dopo la battaglia di
Novara dell’otto aprile 1500. Narra il de Prata che l’esercito giunse alle
porte di Milano il giorno 11, ma «gli fu proibito di entrare per timore del saccheggio».
Quattro giorni dopo faceva l’ingresso in città Giangiacomo Triulzio per porta
Vercellina «et non senz’ira». La collera del vincitore sì sfogò sui più noti partigiani
dello Sforza. Tutto induce a ritenere che se vi furono atti individuali di
violenza per opera della soldatesca, si sia ad essa dai suoi capi impedito di penetrare
in massa nelle sedi degli uffici dello stato e di commettervi disordini L’Uzielli,[51]
il quale ritiene che i guasti del cavallo vadano riportati alla seconda
occupazione, si richiama alla risposta che diede il cardinale di Rouhen,
governatore di Milano per il re di Francia, nel settembre 1501 alla richiesta
fattagli a nome del duca di Ferrara per avere «la forma di terra del cavallo». «Il
modello», aveva osservato il duca nella sua richiesta, «ogni di sì va guastando
perchè non se ne ha cura». Il cardinale aveva risposto che «avendolo veduto la
maestà del re», egli non si arbitrava di disporne senza la sua autorizzazione.
Ma la conclusione che si ritrae da questo carteggio, si è questa sola: che, siensi
i guasti del modello verificati nella prima o nella seconda occupazione
francese, certo non erano stati tali da distruggere o deformare completamente l’opera
tanto celebrata di Leonardo. Se le ingiurie dei balestrieri guasconi, aggravate
dalle conseguenze del difetto di cura deplorato dal duca di Ferrara, non
distoglievano costui ancora nel settembre 1501 di interessarsi del modello e di
tentarne il trasporto da Milano a Ferrara, a più forte ragione si può ammettere
che, due anni prima, non ostante i recenti guasti perpetrati dalla soldatesca,
fosse stato in condizioni tali da richiamare l’attenzione di Luigi xii. Dal convento delle Grazie, ove ammirò
il Cenacolo, il re non avrebbe avuto da fare che pochi passi per portarsi alla
vigna di Leonardo. Il difetto di custodia lamentato dal duca sì può spiegare
per lo stato di abbandono in cui era lasciato il cantiere di Leonardo dal
conduttore del terreno. Ripetiamo però che questa per noi è una semplice
congettura fondata sopra una supposta correlazione e concomitanza dei casi
della vigna delle monache di S. Lazzaro con le gesta vandaliche dei balestrieri
guasconi sulla forma del cavallo. Non ci dissimuliamo l’importanza che assume
nella questione l’ispezione del modello per parte di Luigi xii nell’ottobre o novembre 1499;
ispezione per la quale egli non aveva che ad alzare gli occhi, se il modello si
fosse trovato ancora sotto qualche portico del palazzo dell’Arengo.
Leonardo,
dopo aver posti al sicuro i suo risparmi ed affittato il terreno a Giovanni
Battista da Oreno,[52]
partì il 14 dicembre 1499 da Milano, ove il governo tirannico del Triulzio e la
prepotenza francese cumulavano odi e rancori forieri di nuovi rivolgimenti e di
forse maggiori disordini. Proprio in quei giorni l’avvocato fiscale Girolamo
Morone osservava che «i più beneficati dagli Sforza ambirono officii dai
francesi».[53] Uno dei primi a voltare
casacca fu Leonino Biglia, il quale aveva per parecchi anni coperto l’importante
e lucroso ufficio di maestro delle entrate straordinarie presso la camera
ducale.[54]
Si sono conservate le lettere-patenti di Luigi xii,
che addì 19 ottobre 1499, aderendo alla preghiera del Biglia, gli conferiva il medesimo
ufficio presso la nuova camera regia, in contemplazione della sua devozione e fedeltà
verso il sovrano.[55]
La provvisione presa dal suddetto magistrato nel 27 aprile 1507, in obbedienza al
decreto del regio luogotenente, ci fa sapere che Leonino Biglia aveva avuto la vigna
che era stata di Leonardo, dalla camera regia «pro parte solutionis donationis
sue regie», dopo che il re aveva conquistato il ducato e lo stato di Milano. Mettendo
in relazione le lettere-patenti del 19 ottobre 1499 a favore del Biglia con la
notizia di una donazione fattagli dal re sui beni della camera, sì può argomentare
che la donazione stessa sia stata determinata dai servizi resi allo stato dal
Biglia nell’esercizio delle funzioni a lui demandate. Il Biglia, il quale aveva
una parte importante nella gestione della camera, non avrà indugiato a farsi
assegnare dai suoi colleghi in pagamento la vigna tolta a Leonardo. Si è veduto
con quanta disinvoltura gli stessi ufficiali della camera ducale, alla vigilia della
catastrofe, disposero del terreno già assegnato con lettere ducali alle monache
di S. Lazzaro, cedendolo ad una terza persona in pagamento di un suo credito.
La
mancanza, nelle carte dei monastero di S. Lazzaro, di altri documenti sul
possesso della vigna, oltre le lettere-patenti e gli atti istruttori del
processo del 1505-1506, dimostra che o la causa fu decisa a favore degli eredi
del Franzosino o fu lasciata cadere, perche si era compreso che l’esito sarebbe
stato contrario alla rivendicazione. Nel conflitto fra una donazione precedente
di pochi mesi la caduta del principe che si considerava usurpatore, ed una
successiva «dazione in soluto» per un credito liquido ed esigibile, la
decisione a favore di questo secondo titolo non poteva essere dubbia.
Il
caso di Leonardo era un po’ diverso. Sebbene non si conoscano disposizioni d’ordine
generale intorno agli atti di liberalità sui beni della camera, di Lodovico il
Moro, non mancano indizi per ritenere che sia stato adottato il principio di
considerare nulle e revocabili tutte le donazioni degli ultimi sei mesi del suo
dominio. Il principio venne accolto nelle condizioni di resa del castello rispetto
a Gualtiero da Bescapè, già giudice dei dazi e maestro delle entrate ordinarie,
e a Giangiacomo Ferufino segretario ducale, i quali vi si erano rinchiusi, a guardia
il primo di quel poco che poteva essere rimasto nel tesoro e dei relativi registri,
il secondo della cancelleria.[56]
L’insistenza, nella causa delle monache di S. Lazzaro, per provare che la donazione
era stata fatta e ripetuta «viva voce» dal principe ed accettata in nome delle
monache dal priore delle Grazie sino dal novembre 1498, denota che, per salvare
dalla nullità la donazione, occorreva retrodatarla oltre il semestre precedente
la fuga di Lodovico Sforza. Nessuna meraviglia dunque che si sta con un tratto
di penna annullata con tutte le altre donazioni posteriori al febbraio 1499,
quella a favore di Leonardo, risultante dalle lettere ducali del 26 aprile.
Constando che nel 1502 fu eseguita da alcuni ufficiali deputati dal cardinale
di Rouhen una generale revisione delle alienazioni fatte dagli agenti della camera
ducale, è probabile che l’avocazione della vigna di Leonardo alla camera regia sia
avvenuta appunto in quell’anno.[57]
Tentò
di resistere Leonardo per mezzo del conduttore Battista da Oreno; e portò
costui i comuni reclami ai nuovi reggitori? Dubitiamo assai che se vi fu allora
qualcuno che agì in difesa dei diritti di Leonardo, gli abbiano prestato
ascolto. Sì trattava di una disposizione generale che non doveva patire
eccezioni. In fondo a questo provvedimento vi era la riprovazione per tutti coloro
che avevano tentato di avvantaggiarsi a danno dello stato, sfruttando l’amicizia
o la debolezza di un principe intruso, usurpatore. L’odio contro il Moro, che
si riverberava sui suoi beniamini, era ancora troppo vivo per poter sperare
indulgenza.[58]
Trascorsi
parecchi anni Leonardo credette giunto il momento di risollevare la questione.
Molte ire si erano smorzate; molti profughi e ribelli erano stati graziati ed
avevano riavuti i loro beni. Ora il re aveva bisogno di lui e desiderava
vivamente ch’egli, liberatosi dagli impegni con la signoria di Firenze, si
stabilisse nuovamente a Milano. Leonardo, persuaso in seguito a certe pratiche
avviate presso il magistrato di provvisione,[59]
e fors’anco dalla notizia dell’esito negativo dell’azione giudiziaria tentata
dalle monache di S. Lazzaro, che non avrebbe potuto riavere la vigna nelle vie
legali, avrà fatto sapere che ne attendeva la restituzione dalla grazia del re,
considerando che gli era stata concessa quale tenue ricompensa di quelle opere
per le quali tanta fama si era raccolta intorno al suo nome, destinato insieme
alle opere medesime all’immortalità. Solo un atto d’impero dei sovrano o di chi
ne aveva i pieni poteri avrebbe potuto richiamare in vita una donazione resa
caduca in forza di una legge generale dello stato, togliere gli effetti
giuridici ad una successiva assegnazione fatta in base ad un atto di liberalità
del principe. L’atto, che aveva valore di legge ed appunto perciò fu riportato
nei registri Panigarola, venne perchè il postulante era Leonardo da Vinci e si
aveva bisogno dei suoi servigi. Leonino Biglia sarà stato indennizzato su altri
cespiti della camera.
Leonardo
così riebbe la sua vigna. Ma i tempi erano mutati. Intorno al castello di porta
Giovia e al convento delle Grazie non ferveva più la vita febbrile degli ultimi
anni del dominio di Lodovico il Moro. Il programma di trasformazioni edilizie,
appena iniziato nella zona fra il castello e il monastero di S. Vittore, era rimasto
sospeso. Le case erette nel borgo esterno di porta Vercellina, dai favoriti del
Moro, devastate dal popolo tumultuante, saccheggiate dalle milizie francesi nel
settembre 1499, erano divenute ricovero della poveraglia.[60]
L’erba doveva crescere rigogliosa nel largo e deserto borgo di S. Vittore.[61]
Il terreno ricuperato da Leonardo non era più idoneo per costruirvi una casa d’abitazione
od un cantiere di lavoro. Non c’era che da affittarlo come si trovava, ad uso
di vigna ed ortaglia. Perciò intorno al valore venale della vigna di Leonardo
conviene distinguere i due momenti della donazione e della restituzione.
Si
è dimostrato che, fra il 1498 e il 1499, la parte del terreno prospettante la
strada del fossato, poteva considerarsi come area edilizia, sia per la speciale
destinazione che le si voleva dare, sia in relazione alle altre fabbriche che
stavano per sorgere sulla stessa linea e lungo la via di S. Vittore e alla
formazione di un nuovo quartiere signorile nel vicino borgo esterno di porta
Vercellina, determinato dalla vicinanza della corte ducale. Un criterio sul prezzo
dell’area ci è dato dalla cessione al Franzosino dell’appezzamento di trentatre
pertiche (ettari 2.159), facente angolo con le due vie, stimato in ragione di
lire duecento la pertica. Questo secondo lotto era forse in condizioni edilizie
più favorevoli di quello assegnato a Leonardo, perchè disponeva di una fronte
stradale con uno sviluppo complessivo di circa duecentonovanta metri; mentre è
assai probabile che il lotto di Leonardo, della superficie di sedici pertiche
(ettari 1.053), fosse configurato in forma di un lungo rettangolo avente sulla
strada del fossato una fronte non maggiore di una cinquantina di metri.
Considerato come vigna od ortaglia il valore di questo terreno sarebbe stato
assai minore. Nell’agosto 1497 l’Amodeo aveva stimato lire duemilaquattrocentottanta
il sedime di casa con diciannove pertiche di vigna, di Ambrogio da Gallarate, e
lire milleottocentosettantasette altro sedime di casa con venticinque pertiche di
terreno, di Antonio da Gallarate. Compresi i fabbricati, il terreno a vigna era
stato calcolato in ragione di lire centoventi la pertica, quello a campo in
ragione di lire settantacinque. Ma appunto perchè nel prezzo non si distinse la
quota spettante ai fabbricati da quella dei terreni, non si possono trarre da
queste cifre sicure induzioni. Più concludenti sono i dati relativi alla
espropriazione di ottantasette pertiche di terreno alla cassina della Baitana
entro i Corpisanti di porta Vercellina, di ragione di Marsilio da la Croce,
incorporate nel giardino ducale nel 1495 e stimate parte lire quaranta la
pertica e parte sole lire ventuno.[62]
Un altro criterio ci viene fornito dal reddito della parte di vigna (venticinque
pertiche) rivendicata dalle monache di S. Lazzaro, ch’esse nella causa del
1505-1506 facevano ascendere da lire quaranta a sessanta, e che i testimoni
indicarono in lire due circa la pertica. Tenuto conto di questi dati e di altri
che per brevità omettiamo di esporre, crediamo che, il valore della vigna di
Leonardo quando gli fu donata, si aggirasse intorno a lire imperiali duemila,
pari a cinquecento scudi. La caduta dello Sforza, avendo tolto al terreno la
qualità di area edilizia, il suo valore dovette scemare d’assai, per
ragguagliarsi al reddito normale come vigna ed ortaglia. Nel 1507, quando egli la
riebbe, non poteva valere più di mille lire.
* * *
Come
si è già accennato, i testimoni fatti sentire dalle monache di S. Lazzaro erano
maestri da muro e garzoni muratori, ed uno di essi, maestro Ambrogio da
Castello, aveva avuto la commissione di costruire il nuovo monastero di S.
Caterina da Siena. Dell’importanza che doveva avere la costruzione del
progettato monastero, si ha un criterio nella cospicua somma di quattromila
ducati da Lodovico il Moro assegnata come primo contributo, oltre l’area, nella
spesa relativa. Ad altre opere murarie di un ceno rilievo cui maestro Ambrogio
attendeva fra il 1498 e il 1499, accennarono i garzoni Cristoforo da Rhò e Bernardino
da Arluno; il primo disse che lavorava «pro operario» con maestro Ambrogio nella
costruzione del palazzo che Marolo camerario ducale faceva erigere «per dictum
magistrum Ambrosium in burgo porte Vercelline foris»; il secondo riferì che,
intorno allo stesso tempo lavorava «cum certis famulis magistri Ambrosii de
Castello cementarii» nella fabbrica di una casa che Donato da Prata stava costruendo
nel borgo di porta Vercellina. Questi lavori, in particolare la fabbrica del palazzo
che Marolo, dopo averlo venduto nel 6 settembre 1498 per la cospicua somma di
lire trentaduemila al duca suo signore per il cardinale Ippolito d’Este, aveva
tosto ricuperato e fatto abbattere, allo scopo di ricostruirlo con grande dispendio,
dimostrano che Ambrogio da Castello era uno dei più reputati capo-mastri della
città. Che verso gli anni medesimi egli avesse avuto parte nei lavori della chiesa
e del convento delle Grazie, risulta dall’atto 2 ottobre 1498 di vendita della
sua casa alla camera, la quale nella stessa occasione estinse un debito di lire
trecent’ottanta che aveva verso di lui; debito che un decreto del 7 maggio 1501
degli abbati del collegio dei notai, inserto nella imbreviatura dello stesso
istrumento di vendita, dichiara essere stato comune con tal Zanino da Carcano,
allora defunto, «pro certis laboreriis per ipsos factis in ecclesia seu
monasterio sancte Marie de gratiis de mandato prefati principis (Lodovico il
Moro), ad quorum solutionem prefatus princeps tenebatur». È notevole che, come
prova della causale di quel debito, non si richiamano i registri della camera
già ducale, ma i «libri dominorum prioris et fratrum S. Marie Gratiarum, ex
quibus ipsi quondam Zaninus et Ambrosius sunt et apparent creditores ipsarum libr.
389». Questo richiamo conferma quanto appariva di già dalla nota relativa alla
spesa del 1497: «per lavori facti in lo refectorio dove depinge Leonardo li
apostoli», ricavata dal padre Monti da «un libro del capo-mastro del predicto
Duca», esistente ancora ai suoi tempi (1765) nell’archivio del convento delle
Grazie;[63]
che cioè la registrazione delle spese per la fabbrica della chiesa e del convento
veniva tenuta dal monastero, il quale per i pagamenti rimandava i creditori
alla camera, munendoli probabilmente di apposite bollette. La camera, ritirando
le bollette, se aveva denari, pagava; in caso diverso, rilasciava al creditore
una carta di debito.
Dobbiamo
ritenere che causale analoga avesse avuto il credito di lire trecento verso la
camera professato da altro dei testimoni, maestro Battista degli Alberti da Abbiate,
estinto con lo stesso atto 2 ottobre 1498; con cui cedette alla camera la propria
casa. La conferma ne è data indirettamente dalla sua stessa deposizione.
Interrogato se sapeva della donazione fatta verbalmente nel novembre 1498 dal
duca Lodovico alle monache di S. Lazzaro, maestro Battista rispose che negli
anni 1498 e 1499, mentre era occupato nei lavori per la costruzione della
sacristia e di altri edifici nel convento delle Grazie, aveva udito più e più
volte da molte persone, delle quali ricordava solo «Leonardo fiorentino
pittore» e «Andrea da Ferrara», che il duca aveva donato alle monache il
terreno del quale lo si interrogava, allo scopo di costruirvi un nuovo
monastero.
Questa
notizia permette di fissare all’ultimo anno del dominio di Lodovico il Moro il
compimento della parte muraria della sacristia e dell’attiguo chiostrino,
iniziata indubbiamente prima del dicembre 1497, perchè ricordata nel diploma
rilasciato dal duca al convento delle Grazie nel giorno quattro di quel mese.
Segnano questi lavori la fine del periodo di grande attività nelle fabbriche
del convento. La deficienza di alcuni elementi decorativi nel chiostro e la
interruzione nei lavori delle tarsie degli «armaria ad res sacras custodiendas»
della sacristia, pure ricordati in quel diploma, si spiegano con la quasi
immediata catastrofe di Lodovico il Moro, che ne faceva le spese. La frequenza
di Leonardo fra l’ottobre o novembre 1498 e il giugno o luglio 1499 nel
chiostrino e nella sacrestia e i suoi discorsi coi maestri muratori ivi
occupati, intorno alla progettata erezione di un nuovo convento a spese del principe,
vicino all’area ove egli si proponeva di far costruire, forse dagli stessi
muratori, la propria casa, inducono a pensare che in quel tempo Leonardo stesse
lavorando alla volta della sacristia, la cui ornamentazione, a base di viluppi
di corda, riproduce il motivo pochi mesi prima adottato nella volta della
grande sala delle assi del castello, e dirigesse in pari tempo i lavori delle
tarsie. Nè è a credere che la presenza con lui alle Grazie di Andrea da Ferrara
fosse casuale. La circostanza che Battista degli Aliberti, delle molte persone,
dalie quali aveva udito ripetere gli stessi discorsi, non seppe rammentare che
Leonardo ed Andrea, può significare che per chi, al pari del testimonio, aveva
avuto occasione d’incontrarsi di frequente con Leonardo, il ricordo del suo
nome richiamava per associazione di idee quello di Andrea, che gli era sempre
ai fianchi.
Costui
era quel Giacomo-Andrea da Ferrara, che Leonardo nei suoi scritti ricorda come
suo famigliare sino dal 1490 e più tardi come possessore di un «Victruvio», che
aveva prestato a Vincenzo Aliprando;[64]
colui, che fra Luca Paciolo pone come presente allo «scientifico duello»,
tenutosi il 9 febbraio 1498 nel castello di Milano alla presenza del duca e di
molti illustri e dotti personaggi, con l’intervento di Leonardo, del quale
Jacopo-Andrea era, secondo il Paciolo, «quanto fratello .... de le opere de
Vitruvio acuratissimo sectatore»; oltre che perito nell’architettura militare.
La sua permanenza a Milano sino alla caduta definitiva del Moro, nell’aprile
1500, fu la causa della sua rovina. Essendosi compromesso insieme a tal Nicolò
della Bussola nei tre mesi del ritorno dello Sforza per le pratiche da essi
tentate col presidio del castello, affinchè avesse ad arrendersi, furono
ambedue dopo il 15 aprile 1500 fatti prigioni per ordine di Giangiacomo Triulzio.
Processati, e condannati a morte, furono vani gli sforzi del duca di Ferrara
per strappare dalle mani del carnefice il proprio suddito.
Il
cronista da Prata scriveva sotto la data del 12 maggio: «Fu per li francesi
squartato Nicolò de la Bussola et Jacobo Andrea da Ferrara, perchè nel tempo
che era a Milano il sig. Ludovico furono mediatori a vedere di farli rendere il
castello di Milano tenuto da francesi».[65]
[1] Memorie storiche della vita, gli studi e le
opere di L. da V., Milano, 1804, p. 85.
[2] asm, Reg. O, fol. 182. Del documento l’A. pubblicò solo un compendio.
[3] Notizie dei principali professori di belle
arti che fiorirono in Milano durante il governo de’ Visconti e degli Sforza,
parte iii, Leonardo da Vinci,
Milano, 1869, p. 94. La pubblicazione del documento fatta dal Calvi non è
scevra di errori e di omissioni; vi manca fra l’altro la chiusa: «Datum Mediolani, die xxvi
aprilis 1499, subscriptum ‘Ludovicus Maria Sfortia’ et signatum ‘Jo, Ja. Ferunnus’,
cum sigillo ducali in cera alba solito».
[4] Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, Firenze, 1872, p. 161.
[5] Léonard da Vinci, sa vie, son
génie, son oeuvre, Paris, 1899.
[6] Leonardo (1452-1519), Firenze, 1900, p. 108.
[7] Commentario alla vita di Leonardo da Vinci del Vasari, Firenze,
1879, p. 72.
[8] Leonardo da Vinci, Berlino, 1909, to. v, pp. 285 e 445.
[9] A. Caimi, Di un documento in cui è ricordato Leonardo da Vinci, in questo Archivio, 51, ii, 1875, p. 114. Il documento fu comunicato al Caimi dall’egr.
avvocato E. Seletti, il quale lo aveva rinvenuto nell’archivio dei marchesi
Stampa-Soncino.
[10] Milanesi, op. cit., p. 89.
[11] asm, Registro
Panigarola O, fol. 183; pubblicato dal Calvi,
op. cit., p. 103, e dall’Uzielli,
op. cit. p. 178.
[12] Calvi, op. cit., p. 106. Abbiamo cercato
invaso il documento originale nel Fondo
di Religione (asm), ove il
Calvi afferma averlo rinvenuto, senza però indicarne la collocazione.
[13] Amoretti, op. cit., p. 121; Calvi, op, cit., p. 108; Uzielli, op. cit, p. 202. Il Solmi, op. cit., p. 219, dimostrò che la
data scritta «23 aprile 1518 avanti la Pasqua» va riportata al 1519, perchè
l’anno in Francia cominciava dalla Pasqua.
[14] Riassunto
dall’ Amoretti, op. cit., p. 129,
da una nota dell’Oltrocchi, il quale deve avere veduto il documento
nell’archivio del convento di S. Girolamo. Il Calvi
op. cit., p. 111 si limita a riprodurre il compendio dell’Amoretti.
[15] Riassunto
dall’ Amoretti, op. e loc. cit.,
dalla stessa nota dell’Oltrocchi.
[16] asm, Fondo di
Religione, Monasteri di S. Lazzaro, busta 157.
[17] Descrizione di Milano, Milano, 1737, vol. ii, p. 72.
[18] Milano, 1729.
[19] asm, Fondo di Relig.,
Mon. di S. Lazz. cit., busta 157.
[20] asm, Fondo di Relig.,
Mon. di S. Lazz. cit., busta 157.
[21] asm, Fondo di Relig.,
Mon. di S. Lazz. cit., busta 157.
[22] asm, Fondo di Relig.,
Mon. di S. Lazz. cit., busta 157.
[23] 1° teste: «magister Ambrosius
de castello fq. d. Gotardi, porte Vercelline par. S. Martini ad corpus extre
muros M.» - «[ego] eram et sum vicibus strata mediante petie terre vinee post
ista capitula descipte, site extra portam Vercellinam, inter viam que est penes
fossarum civitatis M., cui coheret ab una parte fossatum predictum c. M.
nediante strata publica, ab alia strata nova seu monasterium S. Victoris foris
M.; ab alia Leonardi florentini pictoris; ab alia Donati de Prata».
3° teste: «Christophorus de Raude fq. Johannis - que petia terre
vinee coheret ab una parte fossatum c. M. mediante strata publica, ab alia via
nova seu burgus novus, ab alia Leonardi pictoris et ab alia Donati de Prata».
5° teste: «magister Jacobus de Marinonibus
fq. D. Johannis -
cui petie terre coheret ab una parte strata contigua fossato c. M. ab alia
strata nova, ab alia Leonardi florentini pictoris et tenetur per, ut dicitur,
Leoninum Biliam, et ab alia Donati de Prata».
[24] 2°
teste: «Ambroxius de Blaxono fq. Johannis» - «quam petiam terre ego testis...
vidi mensurare per magistrum Georgium de Birinzona tunc architectum seu
ingenierum duchalem et reperta fuit esse in numero meo iuditio perticharum xxv».
[25] 1°
teste, m.o Ambrogio de Castello, - «et quando milium fuit maturum,
venerunt gentes Mayestatis regie armigere que dicebantur per d. Franciscum de
Trivultio et d. Emanuelem de Advocatis ibi esse reducte, que alogiaverent in
dicta vinea et allis vineis et locis circumstantibus cunt equis et personis ita
quod conculcaverunt dictum milium per modum quod non percepi nisi forte staria
quinque vel circha et collegi eas uvas quod colligere potui et illas conducere
feci ad torcular S. Victoris, ubi dicte gentes illud biberunt et deserui
postmodum coloniam dictorum bonorum».
[26] Il castello di Milano sotto il dominio dei Visconti e degli Sforza,
Milano, 1894, p. 507.
[27] Beltrami,
op. cit., p. 490. A questi edifizi sacrificati per il continuo sviluppo del
giardino ducale possiamo aggiungere gli acquisti fatti fra il luglio e il
settembre 1495 dalla camera «per fare ingrandire el giardino del castello» di
centoventi pertiche di proprietà di Enrico e Gio. Antonio da Vimercate, di
ottantasette pertiche, di proprietà di Marsilio de la Croce, e di una cassina
con cinquantasette pertiche di campo e vigna, alle cassine di Baitana, «intra
Corpora Sanctorum,» di ragione di Bartolomeo da Gallarate; il tutto stimato da
Cristoforo da Abbiate agrimensore e da «m.° Antonio de Sirtori duchale Ingignero»
lire novemilacinquecentosedici (asm,
Atti del notaio camerale Antonio dei
Bombelli, buste 74 e 75).
[28] Asm, Atti del suddetto
notaio camerale cit., busta 105.
[29] Archivio Notarile di Milano, Imbreviature del notaio Francesco da Baggio.
[30] Asm, Fondo di Religione,
Conventi, S. Maria delle Grazie, busta 547.
[31] Asm, Atti del not.
Camer. Ant.
Del Bomb. cit., busta 105.
[32] Historia Mediolanensis, 1503, ad a.
[33] Asm, Fondo di
Religione, Conventi, S. Maria delle Grazie, busta 563; 1498, 6 settembre:
Asm, Atti del not. Camer. Ant.
Del Bomb. cit., busta 105; 1498, 3 ottobre. Il duca Lodovico Maria Sforza
fa vendita «Rev. in Christo patre d. d. Ypolito Extensi S. R. E. Sancte Lucie
montis silve diacono etc. habitanti in dicto Casto (porte Jovis) recipienti et
ementi» della casa e giardino suddescritti per lo stesso prezzo di lire
trentaduemila - «actum in quodam claustro monasterii Ecclesie S. Marie
gratiarum». Che le case e annesso terreno fossero stati retrocessi al camerario
Marolo e che questi avesse abbattuto gli edifici per ricostruirli risulta
indirettamente dalla notizia del Corio sulla loro devastazione, quando la
fabbrica era ancora scoperta, e dalla deposizione di uno dei testimoni della
causa delle monache di S. Lazzaro, il quale accennò che dopo il novembre 1498
si stavano costruendo nel borgo esterno di porta Vercellina le case di Marolo.
Lo si desume altresì da un istrumento del 16 gennaio 1540 con cui la contessa
Barbara Gonzaga, col consenso del nobile Ottaviano «de Viscardis fq. Magnifici
d. Marioli», fece vendita a Castellano dei Maggi, di quindici pertiche di
giardino, fuori di porta Vercellina, parrocchia di S. Martino, «super quibus
alias aderat pallatium seu domus que nunc diructe, salvis muris circumdantibus
dicta bona, quibus coheret a duabus partibus strata, ab alla viridarium quod
appellantur de Boris, ab alla d. Andree de Paderno in parte et in parte, ...»,
per il prezzo di lire duemila (Asm,
Fondo di Religione, Conventi, S. Maria
delle Grazie, busta 563).
[34] Asm, Fondo di
Religione, Conventi, S. Maria delle Grazie, busta 810.
[35] La larghezza
del nuovo borgo tracciato sulla perpendicolare della strada del fossato in
corrispondenza della pusterla di S. Ambrogio mentre muove a ricordare le
massime dettate da Leonardo nei suoi scritti sulla utilità che le città abbiano
vaste piazze e targhe contrade (Solmi,
op. cit., p. 50), permette altresì di argomentare che Leonardo stesso abbia
avuto qualche parte, coi propri consigli, nella formazione del piano regolatore
per un nuovo quartiere tra il monastero delle Grazie e quello di S. Vittore.
[36] Questo giardino che, come si
disse, venne devastato dal popolo tumultuante il 31 agosto 1499, era stato
venduto al Botta dagli eredi di Filippo Ferufino con atto del 7 maggio 1498,
sopra stima degli ingegneri Lazzaro da Palazzo e Gio. Antonio Amodeo. Nella
stima dei due periti lo si descrive come situato nella parrocchia di S. Martino
al Corso, «prope S. Victorellum». Comprendeva una casa con «columbaria,
piscaria, stalle, ecc.» (archivio Notarile cit., Imbreviature del notaio Antonio de Capitani).
[37] asm, Atti del not.
Ant. dei Bomb. cit., busta 106; 1499. 30 agosto. I tre procuratori della
camera ducale, Antonio Landriano, Bergonzo Botta e Gualtiero Bescapè, fanno
vendita a Bernardino Franzosino da Intra «de perticis xxxiii terre vinee site extra portam Vercellinam prope
fossatum que appellatur vinea S. Victoris, accipiendo ipsas perticas xxxiii terre ad cantonum seu angulum
prope stratam fossi M. et eundo versus portam Vercellinam et ab alla parte
versus cursum novum seu stratam novam intermediante dicta vinea et monasterium
S. Victoris ita quod habeat: tantam mensuram ab uno latere seu ab una strata
quantum ab alia, quibus perticis xxxiii
coheret ab una parte strata fossi, ab alla cursus sive strata nova, ab allis
residuum dicte vinee - pro pretio librarum ducentum imperialum pro pertica, que
fuerunt in summa libre sex mile sexcentum - in solutione dictarum libr. sex
mille sexcetium super creditis que ipse Bernardinus habet cum ducali Camera
.... actum in castro porte iovis M.» È questo l’ultimo atto della camera
ducale, in cui compare il tesoriere generale Antonio Landriani, che lo stesso
giorno 30 agosto, nel far ritorno in castello, venne aggredito e ferito a morte
dai fautori del re di Francia.
[38] Sappiamo che nel 1496
dovevano eseguirsi nella chiesa o nel monastero di S. Girolamo notevoli opere
di scultura da un atto del dicembre (8) 1495, con cui «Paulus de la Porta fq.
d. Petti par. S. Protasii in campo» locò la propria opera per il periodo di un
anno «in arte tagliaprede in figuris et in allis quibus fuerit necesse» a
favore del suddetto monastero, con la mercede di ducati due al mese, oltre al
vitto e all’alloggio nel convento (archivio Notarile, Imbrev. del not. Ant. dei Capit., cit.).
[39] Beltrami, op. cit., p. 496.
[40] Solmi, op. cit., p. 97.
[41] Beltrami, op. cit., pp. 511 e 512, e Solmi, op. cit., p. 108.
[42] Beltrami, op. cit., p. 497, e Solmi, op. cit., p. 109. Il Solmi ritiene che l’abbozzo
della lettera sia posteriore alla donazione della vigna. Egli pensa che questo
dono e il grado di «ingegnere camerale» non fossero per Leonardo fonte
sufficiente di lucro. Di qui le sue ripetute richieste al duca per avere
qualche commissione, onde poter compiere «opere di fama per le quali io potessi
mostrare a quelli che verranno ch’io sono stato». Ma non si tiene conto che
nell’estate 1498 Leonardo aveva già le commissioni della camera grande delle
assi e della saletta negra, e che, quanto ad «opere di fama», egli aveva già
dipinto il Cenacolo. Si vedrà più innanzi che nell’autunno ed inverno 1498 e
fors’anco nei primi mesi del 1499 egli attendeva alla pittura della volta della
sacrestia delle Grazie. Il Solmi è inoltre persuaso che il pittore
«improvvisamente scomparso per un certo scandalo» non era Leonardo. Ma nella
lettera del cancelliere ducale Bartolomeo Calco non si parla propriamente di
scomparsa del pittore; si dice solo ch’esso «si è absentato», e si fa presente
la necessità di sostituirlo, proponendo d’invitare Pietro Perugino. L’assenza
dei pittore, interpretata come manifestazione della sua volontà di abbandonare
il lavoro dei camerini, può essere stata di breve durata. Leggendo e rileggendo
l’abbozzo di lettera, vi si scorge un tentativo di Leonardo di rabbonire il
principe del quale temeva lo sdegno per «el mio tacere», e di ottenere qualche
commissione in luogo di quella dei camerini venutagli meno. Ogni congettura
sull’indole dei fatti qualificati per scandalo sarebbe vana, in difetto di
qualsiasi più precisa indicazione.
[43] Il testo, assai scorretto,
del Registro O, Panigarola, reca qui «nobis», che abbiamo creduto di correggere
in «nos», sembrandoci consono al significato della intera proposizione, che si
esprimesse dal duca la fiducia di far cosa grata a Leonardo col procurargli il
modo di costruirsi la propria casa. Però il senso corre anche rispettando il
testo.
[44] L’Uzielli, op. cit., p. 614, così traduce:
«considerando che come avvenne pel passato, Leonardo troverà sempre più gradita
la mansione del suo «servizio». È a notarsi ch’egli riprodusse il testo dal
Calvi, al quale era sfuggita la parola «sedis». A questo primo passo, se il
Moro non avesse fatto naufragio, avrebbe forse tenuto dietro la concessione, a
Leonardo, par grazia del principe, della cittadinanza milanese; che solevasi
subordinare alla condizione che il nuovo cittadino acquistasse la proprietà di
una casa in città per sua abitazione, di valore non inferiore ad una data
somma. Una delle case sul borgo esterno di porta Vercellina, che fra il 1492 e
il 1497 furono acquistate e demolite dal monastero delle Grazie per le
fabbriche della chiesa e del convento, apparteneva a «Rugierius de Geldrop,
dictus Rut, musichus ducalis», il quale l’aveva comperata nel settembre 1491
per il prezzo di lire millenovecento, allo scopo di adempiere la condizione
sotto la quale il duca Gian Galeazzo Maria gli aveva concessa la cittadinanza
milanese con lettere-patenti del 3 agosto dello stesso anno (asm, S.
M, delle Grazie, pergamene).
[45] Quanto narra
C. Cantù (Il convento e la chiesa delle Grazie in questo Archivio, vi, 1879, p.
230) sulla casa che il Moro avrebbe comperato dai Landi di Piacenza per darla
ad uso abitazione a Leonardo, «il quale vi dipinse in una sala terrena
quattordici ritratti sforzeschi» (i medaglioni che ora adornano una delle sale
superiori del castello), e che poi donò «ad una Macedonia sua amica», ha tutta
l’aria di essere un cumulo di erronee congetture affastellate sulla trama di un
documento comprovante la venditi alla camera ducale, per parte di un Landi, di
una casa nel borgo esterno di porta Vercellina e la successiva assegnazione
della stessa essa casa alla Macedoni. È comune opinione che la casa dei
ritratti sforzeschi appartenesse a Giacomo di Atella, camerario e maestro delle
del Moro. I ritratti, di scuola luinesca, sono certamente posteriori alla morte
di Leonardo. Quanto alla Macedonia risulta che una «Laura da Macedonia
napolitana de le citelle de la Ill.ma Madonna Isabella» venne
sposata da Lodovico il Moro nel maggio 1497 al nobile Giorgio Caccia di Novara,
con la dote di milleduecento ducati (asm,
Atti del not. Ant. dei Bomb., cit.).
[46] La prima
volta che Matteo Bandello compare nel capitolo dei frati domenicani professi di
Santa Maria delle Grazie è in un atto dell’8 giugno 1499. Sopra sessantotto
religiosi «fr. Matteus de Castronovo» figura il terz’ultimo; il che dimostra
che la sua professione era di data recente (archivio Notarile di Milano, Imbreviature del notaio Ambrogio Spanzota).
La mancanza del suo nome in un’adunanza capitolare del dicembre (11) 1497
(archivio Notarile cit., Imbreviature del
notaio Nicolò Omodeo) indicherebbe che la sua professione avvenne dopo
questa data.
[47] Beltrami, op. cit., p. 486.
[48] La prima parte delle novelle del Bandello, nov. lviii, Londra, 1792, iii, 414.
[49] De rebus Mediolanensis sui temporis, ediz. Cantù in Arch. Stor. ital., serie i, to.
iii, p. 222.
[50] Ricordi ovvero ammaestramenti, Milano, 1561, c. 114.
[51] Op. cit., to. i, 2a ediz., 1896, p. 610.
[52] Era costui un facoltoso ed
industrioso cittadino che abitava nella vicina parrocchia di S. Naborre (archivio
Notarile, Imbrev. del not. Ant. dei
Capitanei cit., 1496, xi, 14).
[53] Solmi, op. cit., p. 117.
[54] Il suo nome s’incontra spassa
negli atti del magistrato delle entrate straordinarie: «d. Leoninus de Billis
filius Magnifici d. Jacobi porte horient. par. S. Stefani in Brolio foris» (asm, Atti
del notaio camerale Antonio dei Bombelli, busta 97; 1497, 27 aprile).
[55] asm, Registro ducale,
vi, 159.
[56] Beltrami, op. cit., p. 527.
[57] asm, Reg. O,
Panigarola, p. 173.
[58] Da una nota
del Codice Atlantico (fol. 246 a), scritta probabilmente a Venezia,
dopo giunte le nuove della battaglia di Novara (10 aprile 1500) e alla vigilia
della sua partenza per Firenze, parrebbe che Leonardo si fosse proposto di fare
una punta sino a Milano per ricuperarvi le proprie masserizie, nella speranza
di incontrarsi col conte di Ligny, che col Triulzio era l’arbitro dei
componimenti coi cittadini reclamanti la restituzione e il riconoscimento dei
loro diritti (Solmi, Leonardo da Vinci e la Repubblica di Venezia
in quest’Archivio, xxxv, 1908, p. 356 e sgg.), al fine di
ottenere da lui a nome di Luigi xii
la conferma della donazione della vigna. La ricevuta rilasciata a Battista da
Oreno nel 1501 per il fitto della vigna, dimostra che questa materialmente
ancora non gli era stata tolta. Bensì si può credere che, essendo sino dalla
prima occupazione francese stato pubblicato un decreto che pronunciava la
nullità di tutte le donazioni fatte dal Moro nell’ultimo semestre del suo
dominio ed ordinava l’avocazione alla camera dei beni così distratti, Leonardo,
il quale fra l’ottobre e il novembre 1499 aveva avuto dal conte di Ligny
qualche affidamento, saputo del suo ritorno a Milano, abbia formato il
divisamento di recarsi da lui per ottenere con un decreto di conferma e
ratifica della donazione un mezzo di difesa contro le future rivendicazioni del
fisco. Il quasi immediato ritorno del Ligny in Francia avrà poi indotto
Leonardo a mutare itinerario, prendendo la via più breve per Firenze.
[59] Solmi, op. cit., p. 169.
[60] Sì è veduto sopra (p. 375,
nota 2) come del grande palazzo del «camerario» Marolo dei Guiscardi, venduto
nel 1498 per lire trentaduemila, nel 1540 non vi erano che dei ruderi in
un’ortaglia dell’estensione di quindici pertiche, stimata appena lire duemila.
[61] Da un istrumento del 4 settembre
1744 si rileva che l’area compresa fra il monastero di S. Girolamo, sul
Naviglio, e la via S. Vittore, chiamata «il stradone», fino all’altezza del
monastero di S. Vittore, era ancora ad ortaglia con due case per l’abitazione
dei conduttori del fondo, l’una «dirimpetto al Naviglio» l’altra «dirimpetto al
Ven. Monastero di S. Vittore» (asm,
Fondo di Religione, Conventi, S. Girolamo,
busta 398).
[62] Vedi sopra, p. 372, nota 3.
[63] Amoretti, op. cit., p. 65.
[64] Solmi, op. cit., p. 79. Abbiamo identificato questo «Messer
Vincenzo Aliprando» come un notaio della cancelleria ducale, fratello di
Giampietro Aliprando, pure «canzellario» ducale. Ciò risulta da una lettera di
Lodovico il Moro, del 1.o dicembre 1496, con cui il duca nominò « M.
Vincentium Aliprandum scribam nostrum» all’ufficio del molo e della darsena del
lago di Como, in contemplazione dei segnalati servigi prestati dall’allora suo
defunto fratello, e perchè «ipse quoque laboribus dignum se fecit» (asm, Registro
Ducale, rr. 85). Veggasi anche
Solmi, Le fonti di Leonardo da Vinci in Giornale storico della letteratura italiana, Suppl. n. x-xi, 1908, p. 58).
[65] Op. cit., p. 252. - Questa
memoria era già impaginata, quando nel consultare all’archivio di Stato i pochi
documenti relativi a Leonardo, raccolti nella Sezione Storica, pittori, busta iv,
ci capitò sotto gli occhi la minuta originale, senza data, delle lettere-patenti,
con cui Lodovico il Moro donava a Leonardo le sedici pertiche di vigna.
Dobbiamo ora riconoscere che la copia del registro Panigarola è conforme
all’originale anche nella frase «quam nobis hactenus», che per migliore
intelligenza avevamo creduto di correggere cambiando il «nobis» in «nos». Il senso
complessivo della premessa: «Igitur ut etiam» ecc. non muta.
L'intera monografia si può leggere e/o scaricare (Pdf) qui:
Nessun commento:
Posta un commento