domenica 15 febbraio 2015

1904 - BELTRAMI, Una corsa attraverso il “Codice Atlantico”



Cos’è questo Codice Atlantico?
Ecco una domanda la quale - in occasione del recente omaggio, reso da Milano ad Emilio Loubet, colla presentazione del primo esemplare di quel Codice, riprodotto con 1384 tavole di grande formato in eliotipia - venne fatta anche da persone, che si potevano ritenere maggiormente al corrente del patrimonio artistico e scientifico di Milano. A dire il vero, lo stesso titolo concorre ad ingenerare confusione, anzichè a spiegare di che si tratti; poichè il volume che nel mondo degli studiosi è noto col nome di Codice Atlantico, non si potrebbe, a stretto rigore, considerare come un codice, nè per la sostanza nè per la formazione sua, mentre non ha neppure un riferimento col soggetto, da cui prese a prestito la seconda parte del titolo; cosicchè, quando si tenga calcolo che a questo si accompagna il nome di Leonardo da Vinci, che si direbbe fatto apposta per evocare alla nostra mente qualcosa di eccezionale e di misterioso, si potrà comprendere e giustificare altresì il ripetersi di quella domanda, e concludere che la sorte abbia voluto sbizzarrirsi anche nel titolo, dopo di essersi sbizzarrita nelle vicende che condussero alla formazione del volume. Riservandomi di dare più avanti la ragione del titolo, comincerò dal descrivere il volume: per il che non si dovrebbe desiderare documento più adatto della descrizione, in base alla quale or sono quasi tre secoli, il volume entrò a formare parte della Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo, in Milano. Nell’atto della donazione fatta dal conte Galeazzo Arconati di dodici volumi contenenti scritti e disegni di Leonardo da Vinci, trovasi in tali termini descritto il volume, che a quell’epoca non ancora era distinto col nome di Codice Atlantico:
«Il primo è un Libro grande, cioè lungo oncie tredici da legname, et largo oncie nove e mezza, coperto di corame rosso stampato con suoi fregi d’oro con quattro arme d’aquile, e leoni, et quattro fiorami nelli cartoni tanto da una parte quanto dall’altra esteriormente, con lettere d’oro d’ambo le parti che dicono: Disegni di Machine et delle arti secrete et altre cose di Leonardo da Vinci raccolti da Pompeo Leoni: nella schiena vi sono sette fiorami d’oro, con quattordici fregi d’oro. Il qual libro è di fogli trecento novanta trè di carta reale per rispetto allo sfogliato, ma vi sono altri fogli sei di più dello fogliato, si che sono fogli in tutto num. 399, nei quali sono riposte diverse carte di disegni al num. di mille sette cento cinquanta».
Come si vede, l’estensore dell’istromento di donazione si ritenne in dovere di maggiormente diffondersi nella descrizione della legatura, anzichè del contenuto, del che non gli si deve fare eccessivo carico, quando si tenga calcolo della circostanza che Pompeo Leoni aveva fatto stampare, a lettere d’oro sulla legatura, disegni di macchine e di arti segrete, per cui potè il curiale estensore dell’atto notarile ritenersi esonerato dall’obbligo di informarsi del contenuto.
La descrizione materiale del volume potrebbe oggi compiersi in modo più pratico e preciso, in questi termini: volume in fol. grande, legato in cuoio rosso, di carte 393, di mill. 650 di altezza, per mill. 440 di larghezza, contenente circa 1600 fogli di varie dimensioni, di cui molti scritti d’ambo le parti, i più grandi arrivando alle dimensioni di cent. 33 per 47, e con 1750 disegni nella maggior parte a penna, oppure a matita nera o rossa, riguardanti i più svariati argomenti di meccanica, idraulica, ottica, geometria, architettura, costruzione, arte militare, geografia, ecc.: il tutto raccolto e disposto senza alcun ordine o metodo, bensì col procedimento più libero, conforme alla materiale comodità del legatore di potere riunire i foglietti originali a seconda delle loro dimensioni, e riempire quindi colla maggiore apparente economia di spazio le pagine del volume.

In tale condizione di cose, potrebbe riuscire difficile e poco persuasiva qualsiasi descrizione di un contenuto tanto vario ed al tempo stesso così disordinato, quando non si premettessero almeno le notizie riguardo alle vicende che condussero a questa caotica formazione del Codice Atlantico: riassumerò quindi tali vicende, che, già interessanti per il soggetto cui si riferiscono, ancora più lo sono per circostanze veramente romanzesche.
Nell’inverno del 1515-16, Leonardo si era deciso a passare in Francia. Invecchiato, non tanto per gli anni - aveva sessantatrè anni - quanto per l’infaticato lavorio della mente e della mano, egli aveva accettato la ospitalità offertagli da Francesco i, e con tutto il materiale dei suoi scritti, dei suoi modelli e studî , si era stabilito in Cloux presso Amboise, assieme al giovinetto ed allievo suo Francesco Melzi. Quel diritto d’aubaine che a Lawrenee Sterne offriva il tema per avviare le caustiche sue riflessioni del Viaggio sentimentale, avrebbe pertanto sottratto all’Italia il tesoro dei manoscritti vinciani, se coll’assegno annuo e colla ospitalità, il Re di Francia non avesse altresì assicurato a Leonardo la facoltà di disporre in morte dei suoi beni, a suo beneplacito: ed il maestro potè quindi lasciare al Melzi, che aveva confortato gli ultimi suoi anni, lontano dalla patria, tutti i manoscritti, strumenti e dipinti da lui portati in Francia. Il Melzi, dopo la morte di Leonardo, avvenuta ai 2 di maggio del 1519, ebbe a riportare in Italia quel prezioso materiale, ed a raccoglierlo in quella villa paterna di Vaprio, che già aveva ospitato il maestro. Durante 50 anni, vale a dire sino al 1570, epoca della morte del Melzi, quelle preziose memorie dovettero essere custodite con tutta la religiosa cura del discepolo: ma, pervenute nelle mani degli eredi, «molto diversi di studî e di impie­ghi», non tardarono ad essere relegate sotto ai tetti della villa, nel più completo abbandono. Ora avvenne che un giovinetto della famiglia Melzi, trovandosi a studiare in Toscana, approfittasse di un prete, certo Lelio Gavardi che si recava in Lombardia, per pregarlo di recarsi presso la sua famiglia e dare a questa sue notizie. Il prete si recava infatti a Vaprio, e tanto la visita sua riusciva gradita, che i Melzi, avendo avvertito l’interessamento del prete per qualche disegno di Leonardo che ancora adornava le sale, lo incoraggiarono a prendersi quanto avesse bramato di possedere, aggiungendo come di quelle memorie ve n’erano anche nei solai; così il prete si trovò, quasi per cortesia, ad accettare tredici volumi di manoscritti e disegni di Leonardo, coi quali ritornava a Pisa. Volle il caso che qui s’incontrasse col milanese Giov. Ambrosio Mazzenta, più tardi barnabita, il quale suscitò nell’animo del Gavardi gli scrupoli riguardo al legittimo possesso di quei manoscritti, di cui il Mazzenta avvertiva tosto il valore, tanto che si assunse di riportare, tornando in Lombardia, quei volumi alla famiglia Melzi. La restituzione riuscì tanto inattesa ed inesplicabile, che Orazio Melzi si ritenne in obbligo di regalare i volumi allo stesso Mazzenta, in compenso della fatica sopportata: intanto la notizia di quel dono, e dell’esistenza di tante memorie di Leonardo, si era diffusa: ed in breve molti ottennero - al dire dello stesso Mazzenta - «disegni, modelli plastici, anatomie ed altre preziose reliquie delle memorie vinciane». Fra i più ardenti raccoglitori di disegni di Leonardo si distinse Pompeo Leoni, figlio dell’aretino Leone Leoni, lo scultore favorito di Filippo ii re di Spagna, ed autore del monumento funebre di G. G. Medici nel Duomo di Milano, che in questa città si era costrutta la nota casa di via Omenoni, radunandovi una preziosa collezione di oggetti d’arte. Il Leoni essendo riuscito ad avere sette dei volumi che già erano stati donati al Mazzenta, e ad acquistare molti altri disegni vinciani, già dispersi, ebbe l’infelice idea di smembrare i codici originali di Leonardo per formarne due grossi volumi, il maggiore dei quali è appunto il Codice Atlantico.

Già si disse come tale volume non offra alcun criterio d’ordine: qui aggiungerò come si possa considerare la risultante della divisione in due sommarie categorie, fatta dal Leoni colle memorie vinciane da lui possedute, riunendo gli studî attinenti alla pittura nel volume ora conservato a Windsor: mentre di tutto il resto degli scritti e disegni, riguardanti in gran parte la meccanica ed altri argomenti di carattere scientifico, risultò composto il Codice Atlantico.
Certo, la maggiore simpatia del Leoni dovette essere per il primo dei volumi che costituiva, diremo così, la sezione artistica della sua raccolta: mentre l’altro, sebbene più copioso, dovette mediocremente interessare lo scultore, come appare, del resto, da quell’improprio riferimento alle arti secrete, che nel titolo del volume venne da lui incluso senza ragione, a meno che si voglia ritenere come una confessione dell’ignoranza personale del proprietario, e collettiva dell’epoca, verso gli argomenti da Leonardo trattati all’infuori dello stretto campo dell’arte. Certo, non potè essere che frutto di ignoranza la formazione del Codice Atlantico, per cui qualche disegno si trovò persino diviso in due parti, collocato in distinte pagine del Codice, come risulta ad esempio dal disegno a fol. 21 r, che rappresenta un sistema di fabbricare ponti, la cui continuazione si trova invece incollata al fol. 16 v; mentre non milita nemmeno in favore della coltura del Leoni il fatto di varî disegni inclusi nel volume, i quali non possono essere ritenuti di Leonardo, come quello al fol. 9 v, che è copia del disegno a fol. 9 r, quelli a fol. 15 r, 15 v, 33 r che sono copie dei disegni a fol. 132 v, ed a fol. 27 v: come falsi debbono ritenersi altri disegni a fol. 39, 55 v, 285 v.
Il Leoni era riuscito ad avere questi disegni vinciani fra il 1587 e il 1589, prima di recarsi all’Escuriale per ultimarvi le tombe reali: ed è in Spagna forse che venne compiuto questo barbaro lavoro di smembramento e di ricomposizione; certo la raccolta fu portata dal Leoni a Madrid, poichè alla sua morte, avvenuta verso il 1610, si ha notizia della vendita di uno dei volumi, quello che oggi è a Windsor, contenente specialmente studî di pittura: il Codice Atlantico era forse stato riportato in Italia dallo stesso Leoni verso il 1604, ed alla morte dello scultore pervenne «hereditario jure» in possesso di Cleodoro Calchi, che per la somma di 300 scudi lo cedette al conte Galeazzo Arconati. Questo volume era stato oggetto di particolari ed insistenti richieste per parte di re Giacomo d’Inghilterra, che, avendo potuto assicurarsi l’altro dei volumi formati da Pompeo Leoni, ambiva di completare la già ricca sua raccolta vinciana col possesso del Codice Atlantico: il Re aveva nel 1630 incaricato Giac. Ant. Annone di aprire trattative di acquisto, offrendo «un donativo regio di mille doppie d’oro» corrispondenti a 3000 ducati d’oro di Spagna, somma a quell’epoca cospicua; ma l’Arconati aveva dato una nobile risposta «dicendo che non voleva privare la patria sua d’un tesoro tale, e quando ciò non fosse stato, ne haverebbe, senz’altro interesse, fatto dono a quella Maestà». Così si legge nella dichiarazione fatta dallo stesso Annone e confermata con giuramento che si trova allegata all’atto della donazione Arconati: nella quale dichiarazione si legge altresì come il Re d’Inghilterra non si fosse acconciato a quella risposta, ma avesse fatto riprendere le pratiche «per lettere et in voce da un agente di quella Corona»: e riconosciuto impossibile il conseguire l’intento «coll’offerta di qual si sia somma di denari» ebbe a tentare la via dei favori facendo inviare una lettera del conte d’Arundel al duca di Feria, governatore di Milano, per pregarlo di «usar ogni possibil diligenza a fine di ottenere quel libro tanto desiderato». Ma ogni pratica riuscì vana, e solo contribuì a mettere in evidenza il valore preponderante di uno dei dodici volumi che aveva l’Arconati, e precisamente quello destinato a prendere il nome di Codice Atlantico; tanto che nella lapide, che all’Ambrosiana ricorda quella donazione, si legge come «Angliæ rex pro uno tantum offerebat aureis ter mille hispanicis».
Così il prezioso volume entrava nei 1637, cogli altri minori, a formar parte della Biblioteca Ambrosiana, e fu nel periodo da quell’anno al 1790, ch’ebbe a prendere il nome di Codice Atlantico. Quando precisamente sia stata adottata tale designazione non si potrebbe dire, mentre la origine del titolo è da ravvisare semplicemente nelle dimensioni particolari del volume, che lo distinguevano dagli altri minori; a tale riguardo ricorderemo come, verso il 1790, Stefano Bonsignori, più tardi vescovo di Faenza, ed allora dottore della Biblioteca Ambrosiana, stendesse per la Bibliografia storico-critica dell’architettura civile, edita in Roma fra il 1788 e il 1792, in quattro volumi, l’elenco descrittivo dei codici vinciani dell’Ambrosiana, il quale elenco, sebbene imperfetto, pure contiene qualche notizia sul volume che ci interessa, riferendo come «diligentemente conservasi in Cassa dipinta con varî ornati a color di oro, fatta a guisa di urna» ed aggiunge: «è in f.° atlantico leg. in pelle e sta nella Galleria delle pitture». Cosicchè non può esser dubbio come dal grande formato, ordinariamente adottato per gli atlanti di carte geografiche, abbia avuto origine la consuetudine di distinguere questo codice dagli altri più piccoli, mediante l’espressione Codice di for­mato atlante, sintetizzato poi in Codice Atlantico.
Alla Biblioteca Ambrosiana questo codice non rimase, per oltre 150 anni, «dans l’obscurité» come ebbe a scrivere il Ravaisson Mollien, quasi a giustificare le ulteriori vicende del Codice: il Muratori dava ad Ant. David, sul principio del settecento, notizie riguardo i disegni di macchine che vi erano contenuti: più tardi Baldassare Oltrocchi raccoglieva dal Cod. Atl. le notizie biografiche che servirono poi all’Amoretti per la sua Vita di Leonardo: il Gerli incideva alcuni disegni, sia del Codice Atlantico, che degli altri codici vinciani dell’Ambrosiana. Ed è forse a questo risveglio degli studî vinciani, che si era delineato in Milano prima ancora di altri centri, che si deve ascrivere l’origine della fatale attenzione concentratasi sui codici di Leonardo all’Ambrosiana, quando, quattro giorni dopo il suo ingresso in Milano, nel maggio del 1796, Bonaparte, all’atto stesso di imporre alla Lombardia un tributo di guerra di venti milioni, ordinava di spogliare le città occupate dalle truppe di tutti gli oggetti artistici o scientifici che potevano arricchire i musei e le biblioteche di Parigi: così al 24 di maggio, il commissario di guerra Peignon si presentava all’Ambrosiana coll’elenco degli oggetti di cui doveva impossessarsi, fra cui «le carton des ouvrages de Leonardo d’Avinci (sic)». Il Ravaisson tentò di giustificare questa inclusione, attribuendola ad un interessamento dell’astronomo Lalande: nel fatto, questi si occupò dei manoscritti di Leonardo soltanto dopo il loro trasporto a Parigi, ed in seguito agli studî fattivi da G. B. Venturi.
Le casse contenenti i disegni di Leonardo erano partite da Milano ai 29 di maggio, ma non giunsero a Parigi che ai 25 di novembre, cosicchè per non breve tempo si temette fossero andate smarrite: la cassa n. 19 che conteneva il Codice Atlantico venne destinata alla Biblioteca Nazionale: i dodici codici minori vennero assegnati invece all’Istituto di Francia, e così avvenne quella separazione che diciannove anni più tardi doveva riuscire fatale, poichè, quando in seguito al trattato di pace del 1814 venne ordinata la restituzione delle opere d’arte portate in Francia, il rappresentante incaricato di riavere gli oggetti asportati dall’Italia si recava alla Biblioteca nazionale per ritirarvi i manoscritti di Leonardo, e trovatovi solo il Codice Atlanti­co, non riuscendo a sapere dove fossero gli altri, rilasciava ricevuta «à l’exception de neuf volumes mss de Leonardo, lequels ne seraient point arrivès à la Bibliothèque».
In tal modo, soltanto il Codice Atlantico riprendeva, dopo un esilio di diciannove anni, il suo posto all’Ambrosiana, dove è tuttora uno dei preziosi cimeli di cui può gloriarsi questa biblioteca.

Dare una idea anche sommaria del contenuto del Codice Atlantico non è impresa tanto facile: si rifletta come, alla varietà degli argomenti trattati da Leonardo nei suoi scritti, ed alla facilità colla quale egli passava dall’uno all’altro, di modo che sopra la stessa pagina di uno dei libri ch’egli portava con sè si trovano note e schizzi, di argomenti più disparati fra di loro, sia venuto ad aggiungersi il disordine di una cervellotica disposizione dei foglietti di quei libri smembrati e ritagliati. Così vennero a trovarsi confusi i primi disegni e le prime note di Leonardo, giovinetto a Firenze, cogli ultimi schizzi ed appunti presi negli ultimi suoi anni in Francia: così i 42 fogli di uno dei trattati che Leonardo andava ordinando in distinti volumi, e che riguardava problemi di matematica, si trovano dispersi a partire del fol. 19 sino al fot. 383 del Codice Atlantico, nel quale troviamo gli esempî più variati della scrittura di Leonardo, modificatasi secondo gli anni. Ad ogni modo, ciò che predomina nel Codice Atlantico è l’elemento scientifico, sia per le note che per i disegni, dedicati in gran parte alla geometria, alla fisica, alla meccanica: ed assieme agli altri volumi rimasti in Francia, alla Biblioteca dell’Istituto, il Codice Atlantico ci consente ancora di formarci una idea delle investigazioni di Leonardo nei varî rami della scienza, sebbene scorrendo questo immenso materiale di note e di disegni d’indole scientifica, si sarebbe facilmente portati a sottoscrivere al giudizio che recentemente formulava a Parigi, in una seduta dell’Accademia delle Scienze, il celebre chimico Berthelot; il quale, cogliendo occasione da uno studio sopra «Leonardo da Vinci considerato quale ingegnere», volle sfrondarne la fama come scienziato. A suo avviso, Leonardo sarebbe stato uno spirito semplicemente «curiosissimo» che leggeva molto, e molti appunti trascriveva dai libri consultati; di modo che, per una ventesima parte soltanto, i suoi manoscritti dovrebbero riguardarsi come opera originale, il rimanente essendo costituito da note trascritte dagli autori contemporanei, o del secolo XIV; secondo il Berthelot le invenzioni di Leonardo si ridurrebbero quindi a ben poca cosa, e quanti di lui si occuparono, avrebbero errato coll’isolarne la figura dall’ambiente in cui visse.
Che il fascino esercitato dalle opere e dagli scritti di Leonardo abbia portato qualche studioso ad amplificarne l’influenza esercitata, specialmente nel campo scientifico, non potrà di certo essere negato: si tratta di un fenomeno che, in diverso grado si può riconoscere anche per altre delle figure più complesse che ancora richiamano ed eccitano le indagini degli studiosi: volendo essere equanimi, si dovrà però ammettere che, se ha potuto verificarsi qualche esagerato apprezzamento in favore di Leonardo, il giudizio pronunciato dal Berthelot non è, a sua volta, immune da una esagerazione in senso opposto: e dal riconoscere in ogni appunto dei numerosi manoscritti vinciani una conquista nel campo della scienza, al volervi ravvisare poco più che un centone di materiali trascrizioni, vi è ancora abbastanza margine per fare il posto alla verità.
Non è nemmeno il caso di sentenziare che tutti gli studiosi di Leonardo siano stati fanatici esaltatori del grande artista-scienziato: poichè molti scrittori si potrebbero citare, la cui costante preoccupazione fu quella di sceverare la parte veramente personale degli appunti vinciani e di raffrontarla colle cognizioni già acquisite all’epoca in cui il Vinci operò. Così, trattando or sono quasi vent’anni di Leonardo, per quanto dominato dai fascino dell’opera sua, scrivevo: «il genio inventivo di Leonardo va considerato come l’anello di congiunzione fra un’epoca nella quale il progresso nella scienza era più che altro un risultato essenzialmente pratico ed istintivo, ed un’epoca nella quale il progresso si coordina a leggi e si basa sopra norme stabilite. Si è detto che Leonardo, precursore di Galileo, iniziò il metodo sperimentale, ma ciò non significa che il metodo sperimentale abbia inaugurato il principio dell’osservazione, mentre non ha fatto che coordinarlo, per modo da giungere a mettere in evidenza le leggi della natura: Leonardo passò in rassegna tutto il materiale scientifico del suo tempo, allo scopo di precisare quelle leggi, ed in tale procedimento mise tanto ardore, da applicarlo anche là dove risultava meno opportuno, come nella pittura, che egli quasi volle irrigidire nelle formule di un trattato. Considerata sotto questo aspetto, la figura di Leonardo perderà forse una parte di quel fa scino che le viene dall’indole irrequietamente enciclopedica, non si presterà sempre ad assecondare le bizzarrie ed i capricci del biografo; ma in compenso guadagnerà in quella unità di intendimenti, che assegnerà un aspetto definitivo».

È nel Codice Atlantico che si trova la minuta della famosa lettera che Leonardo diresse a Lodovico il Moro, enumerando le svariate attitudini sue, a partire da quelle di ingegneria militare sulle quali faceva maggiore assegnamento per essere assunto in servizio della Corte Sforzesca: egli infatti comincia col dichiararsi capace di gettare dei ponti leggerissimi e forti, levare l’acqua dei fossati di fortezze nemiche, ed espugnare queste: egli si dice disposto a fondere bombarde ed artiglierie d’ogni genere, facili da trasportare e da adoperare anche per mare, e costruire carri coperti per penetrare nelle schiere nemiche. In tempo di pace Leonardo si dichiara pronto ad occuparsi di architettura e di opere idrauliche, a lavorare in scoltura, sia di marmo che di bronzo, come anche in pittura e tutto ciò mettendosi «a paragone di ogni altro sia chi vuole»; e per il caso si fosse dubitato delle sue affermazioni, Leonardo si dichiarava per ognuna di queste, pronto «a farne esperimento in barco vostro». E si noti che nella sua lettera dice come solo in parte, e sub brevità, accenni alle attitudini di cui si sentiva di poter dare affidamento. Per qualunque altra persona che non fosse stata Leonardo, la lettera avrebbe potuto giudicarsi presuntuosa: un solo esempio io ricordo di altrettanta fiducia incondizionata nelle proprie attitudini, ed è per parte di un individuo che, per la vastità dell’ingegno, ha potuto, a più di tre secoli di distanza, reggere al confronto di Leonardo: basti ricordare le parole di Napoleone, in data 8 marzo 1809: «il n’est rien à la guerre, que je ne puisse faire par moi-même: s’il n’y a personne pour faire de la poudre à canon, je sais en fabriquer: des affûts, je sais les construire: s’il faut fondre les canons je les ferai fondre; les details de la manoeuvre s’il faut les enseigner, je les ensegnerai».
Vi è una strana analogia fra queste affermazioni di Napoleone, e quelle colle quali Leonardo sollecitava di poter servire il Duca di Milano, come ingegnere militare. Eppure a spingere Leonardo trentenne alla ricerca di appoggio e protezione a Milano non potevano essere delle preoccupazioni d’indole militare: l’epoca cui risale quella lettera, che manca di data, ma deve riferirsi ai primi anni del penultimo decennio del quattrocento, non ci ricorda alcuna imminente minaccia all’incolumità del Ducato di Milano; Lodovico il Moro era da poco uscito trionfante dal lungo suo dissidio con Bona di Savoja, e coll’assicurarsi la tutela del giovane nipote si era trovato ad essere duca di fatto, se non di nome: era al fasto della sua Corte, più ancora che alla sicurezza del Ducato contro i nemici, che egli rivolgeva le sue cure. Dovevano essere invece i ricordi non ancora spenti del viaggio di Galeazzo M. e di Bona a Firenze nel 1471, che influirono sull’animo di Leonardo per fargli desiderare l’abbandono di Firenze ed il soggiorno di Milano. Quel viaggio aveva dato occasione al primogenito di Francesco Sforza di spiegare un lusso che aveva meravigliato gli stessi fiorentini per la ricchezza degli abbigliamenti del numeroso corteo, composto di duemila cavalli, duecento muli, cinquecento coppie di cani: Leonardo, giovinetto di diciannove anni, addetto alla bottega del Verrocchio, dovette certamente assistere all’entrata di Galeazzo in Firenze, e da quel giorno potè formarsi la persuasione che in Milano egli avrebbe trovato l’ambiente adatto all’estrinsecazione di quelle attitudini che in lui già tumultuavano. Due anni dopo quel viaggio, Galeazzo Maria decideva di erigere una statua equestre alla memoria del padre suo, davanti al Castello, «dove meglio piacerà» e poichè in Milano non si trovavano artefici che si assumessero tale lavoro, e solo si impegnavano a farla di rame sbalzato, anzichè di bronzo, così il Duca aveva incaricato i suoi ingegneri di far ricerca di artefici a Roma od a Firenze: a Leonardo giunse di certo la notizia di quella richiesta, e davanti all’esempio del suo maestro, che la pittura abbandonava per dedicarsi alla scoltura ed affrontare l’impresa della statua equestre del Colleoni a Venezia, Leonardo dovette provare tutta la tentazione ed il fascino di proporre l’opera sua a Galeazzo Maria; è forse a questo argomento della statua equestre che noi dobbiamo il proposito di Leonardo di fissare la dimora in Milano: la morte violenta di Galeazzo M. e le lotte intestine che ne derivarono per la famiglia Sforza dal 1477 al 1481, per cui rimasero in questo frattempo interrotte le manifestazioni d’arte, dovettero consigliare a Leonardo di differire tale proposito; ma appena Ludovico il Moro accennò a riprendere le tradizioni di fasto e le abitudini da mecenate di Galeazzo Maria, non tardò Leonardo a scrivere quella lettera che segnò il punto più decisivo della sua vita. E molti sono gli argomen­ti che nel Codice Atlantico si richiamano al soggiorno in Milano: primo fra tutti, l’argomento della navigazione interna, che Leonardo trovava già sviluppata in Lombardia, alla quale dedicò tutta la genialità del suo pensiero. Già ebbi, or sono quasi vent’anni, a precisare l’azione sua nella applicazione delle conche, rilevando come, se erroneo sia l’attribuirne a Leonardo l’invenzione, giacchè le conche già esistevano in Lombardia prima ch’egli venisse al mondo, non per questo si debbano disconoscere i perfezionamenti e le più vaste applicazioni che Leonardo apportò nei sistemi di rendere navigabili i canali, frazionandone i dislivelli del percorso colla disposizione delle conche: ed il Codice Atlantico contiene in proposito numerosi schizzi, unitamente a molti altri studî e problemi di idraulica, come pure ci conserva varie note relative al problema di assicurare quella comunicazione per via d’acqua fra il lago di Como e Milano, che doveva formare il naturale complemento del canale della Martesana, aperto nel 1465 da Francesco Sforza, e che dipartendosi dalla sponda destra dell’Adda, fra Trezzo e Vaprio, si allacciava alla fossa interna di Milano mediante la conca di San Marco, ma le difficoltà ed i pericoli permanenti che l’Adda opponeva alla navigazione lungo il tronco fra Brivio e Trezzo, sia per la rapidità della corrente, sia per la natura rocciosa dell’alveo, irto di scogli, non concedevano di ritrarre dal canale della Martesana gli sperati vantaggi come via di trasporto per i materiali e le merci provenienti dal lago: cosicchè non tardò ad imporsi la necessità di migliorare le condizioni dell’alveo in quel tratto dell’Adda, oppure di sostituirvi un tratto di canale navigabile a mezzo di chiuse.
Il tema, per la stessa sua difficoltà, non aveva potuto sfuggire alla mente poderosa di Leonardo; se non che, chi avesse ad affidarsi alle notizie ed indagini sino ad oggi dedicate a precisare l’azione esercitata da quella mente in tale problema idraulico, si troverebbe portato a concludere che, da un esagerato concetto in merito all’intervento di Leonardo nei lavori attinenti all’Adda, si passò all’opinione opposta di una azione secondaria, inefficace. Infatti, scartate le inesatte e fantastiche notizie riportate dal Du Fresne nella vita di Leonardo, secondo le quali questi avrebbe condotto le acque dell’Adda a Milano mediante il canale della Martesana «coll’aggiunta di più di duecento miglia di fiume navigabile sino alte valli di Chiavenna e di Valtellina, superando ogni difficoltà, con cateratte e sostegni, così da far camminare con facilità e sicurezza le navi per monti e valli», troppo scarse ed incomplete sono le notizie sull’opera di Leonardo, riportate dagli scrittori che più recentemente si occuparono delle opere idrauliche nel territorio milanese, e sulla scorta del Pagnano ricostituirono le vicende degli studî compiuti fra il 1516 e il 1518 per rendere navigabile l’Adda sino a Milano: in base ai quali studî nel dicembre 1519 vennero decise le opere di sistemazione del fiume nella tratta, fra la località detta dei Tre Corni, il molino detto del Travaglia, e Trezzo, colla spesa di 6000 ducati.
Da questa intima e diretta corrispondenza fra gli studî di Leonardo, e quelli compiuti dagli ingegneri di Milano a partire dall’autunno 1516, scaturisce una deduzione la quale non parmi arrischiata. Francesco I Re di Francia, entra in Milano con grande pompa agli 11 di ottobre del 1515, e nove mesi dopo assegna alla città diecimila ducati annui, di cui la meta è destinata tassativamente dall’atto di donazione «ad constructionm navilii»: ma nell’intervallo - e precisamente nel gennaio 1516 - il Re, che a Milano aveva avvicinato il grande artista, ammirando in particolar modo il Cenacolo, così da meditarne il distacco per farne quasi una spoglia di guerra, si decideva a ritornare in Francia, e non potendo aver l’opera, conduceva seco l’artista, assicurandogli il largo assegno annuo di 700 scudi. Dall’avvicinamento di queste date e di questi eventi, non è forse naturale il pensare che, inspiratore della donazione regale a vantaggio del problema di render l’Adda navigabile possa essere stato Leonardo, il quale, sia per la grande familiarità di cui godeva presso il sovrano, sia per il fatto stesso che in Francia ebbe tosto ad occuparsi di una importante opera idraulica, il canale di Romorantin, dovette di certo tener parola col Re intorno ai suoi studî sulla sistemazione dell’Adda?
E non sarebbe con ciò spiegata la stretta correlazione fra gli studî di Leonardo e quelli compiuti dal 1516 al 1519, colla circostanza che, assieme all’assegno sovrano, sia stato fatto cenno alle idee già concretate da chi tale assegno avrebbe consigliato?
A tale ipotesi non contraddice alcuna fondata obbiezione: le circostanze tutte concorrono ad avvalorarla. Se così fosse, noi avremmo un nuovo argomento per quella ammirazione fatta di riconoscenza, che ogni manifestazione di quella mente poderosa ci inspira: poichè Leonardo al problema dell’Adda ebbe a dedicare studî concreti, non privi di quel geniale ardimento, cui la mente sua era abituata. Ed ardimento ci appare appunto il proposito di una conca raccordata, mediante pozzo, ad una galleria: soluzione ideata là dove la scienza idraulica dovette per altri tre secoli lottare prima di raggiungere il risultato lungamente vagheggiato, là in quella località di Paderno, che dal genio di Leonardo si direbbe sia stata predestinata a vedere le forze brutali della natura domate ed asservite a quella complessa trasformazione di moto, di luce e di calore, che il secolo XIX, seguendo il precetto vinciano «la scienza è figliuola dell’esperienza», seppe raggiungere, e che Leonardo ha potuto solo intuire, annotando «il moto è causa d’ogni vita».
È specialmente nel Codice Atlantico che abbondano gli studî per la macchina da volare. È noto come Leonardo abbia raccolto una quantità di osservazioni e di appunti sul volo degli uccelli, allo scopo di ricostruire le leggi del movimento delle ali e della coda; queste osservazioni, da lui ordinate anche in forma di piccolo trattato, trascritto e pubblicato anni sono dal dott. Giovanni Piumati, miravano a preparare gli elementi sui quali basare la costruzione di quella macchina per volare, che formò il tema per uno degli episodî nel romanzo di Leonardo, ideato da Demetrio Mereshkowsky.
Come osservava Giuseppe Colombo sin dal 1872 nella pubblicazione del Saggio del Cod. Atlantico, «l’idea di riprodurre quasi identicamente il meccanismo dell’ala degli uccelli o degli insetti volatori, non è certamente nuova, ma all’infuori dei congegni ideati da alcuni inventori moderni, come Kaufmann, e difficile riscontrare in altri casi un concetto così completamente svolto come quello dell’ala meccanica di Leonardo». Certo in questi ultimi anni, gli studî relativi al problema del volare presero maggiore sviluppo, informandosi anche a concetti divergenti da quelli seguiti da Leonardo: ma ciò non toglie che colla scorta del Codice Atlantico, si possa ancora oggidì ricostituire la macchina ideata da Leonardo, così studiata nei più minuti particolari da lasciarci credere sia stata, non solo progettata, m anche eseguita, sebbene non ci rimanga alcuna notizia positiva al riguardo, per cui abbia parvenza di realtà la catastrofe immaginata da Mereshkowsky. Si trattava di ali gigantesche, di seta leggera, della lunghezza di oltre venti metri, sostenute da costole di legno snodate come le ossa di una mano, e manovrate da cinghie e corde di seta, a guisa di tendini: le figure qui riprodotte, scelte fra i numerosi schizzi dispersi nel Cod. Atl., a partire dal fol. 22 sino alla fine, offrono ancora il tema e la materia sufficiente ad una ricostituzione interessante per quel problema del volo, che oggi ancora affatica gli ingegni, e che Leonardo aveva formulato con questa domanda: se l’aquila può sostenersi per mezzo delle sue ali nell’aria rarefatta, perchè non potrà l’uomo, fendendo l’aria, farsi signore dei venti e levarsi vincitore degli spazi?
È nello stesso Codice Atlantico che troviamo una di quelle note che ci autorizzano a riconoscere in Leonardo un precursore del napoletano G. B. Porta (1540-1615), nella descrizione ed applicazione pratica della camera oscura: Leonardo infatti osserva come «in camera fortemente oscura attraverso un piccolo pertusio fatto in piastra sottilissima di ferro» si possa ricevere l’immagine di oggetti esterni sopra una carta bianca sottilissima: le quali immagini, dice Leonardo, «colle lor proprie figure e colori saran sottosopra, per causa della intersegatione dei raggi»; così già nel 1892, rilevando il passo del Codice Atlantico che si distingue per qualche parola di ortografia lombarda, concludevo come, a Milano forse, la camera oscura cominciò ad avere con Leonardo la sua pratica applicazione.

Si disse come nel Codice Atlantico si trovino i più svariati saggi della scrittura di Leonardo, e qui si presentano appunto due esempî fra di loro divergenti; molto si è scritto ed almanaccato sulle ragioni per cui Leonardo scriveva abitualmente a ro­vescio, vale a dire da destra a sinistra. Si volle attribuire il motivo all’intenzione di rendere ad altri difficile la lettura degli appunti quotidianamente annotati dal Vinci; ma ciò non regge, per il fatto che anche le più semplici ed ordinarie annotazioni, non aventi alcun carattere di studio, sono scritte a rovescio: e d’altra parte, questo modo di scrivere non costituiva un vero impedimento a leggere i manoscritti vinciani, bastando ricorrere ad uno specchio per superare la difficoltà causata dall’arrovesciamento delle parole. Si disse che Leonardo scriveva in tal modo essendo mancino, il che ci attestarono il Paciolo, Sabba Castiglioni, il Lomazzo, il Vasari, ma anche questa ragione non è esauriente, per il fatto che, sebbene di rado, pure Leonardo scrisse anche colla direzione normale e con calligrafia regolare: si volle infine trovare la spiegazione in una infermità sopraggiuntagli, di cui si ha memoria, ma che riguarda però solo gli ultimi anni trascorsi ad Amboise, dove Leonardo soffrì appunto di emiplegia, mentre la scrittura a rovescio era adottata da Leonardo fin dagli anni giovanili. Certo, fra queste varie ed insufficienti ragioni, si deve tener calcolo della condizione dell’esser Leonardo mancino, nel senso che aveva una particolare facilità di valersi della mano sinistra, altre che della destra, e per il fatto stesso che egli fu essenzialmente autodidatta ed aveva sviluppato in modo eccezionale il senso visivo, si trovò a valersi istintivamente della mano sinistra non soltanto nella scrittura, ma anche nel disegno, come risulta nei suoi schizzi a penna, colla direzione predominante dei tratti discendenti da sinistra a destra, quali riescono più facili e naturali alla mano sinistra.
Ad escludere, ad ogni modo, qualsiasi ipotesi di imperfezione fisica quale causa dello scrivere a rovescio, basti la circostanza di fatto della facilità dimostrata nel disegno. L’artista che possa simulare Leonardo per la evidenza di un disegno che non potrebbe riuscire più sommario e al tempo stesso più intenso di significato è Rembrandt, che nei suoi numerosi schizzi si è degnato di un unico richiama all’opera di un altro pittore, quello della Cena di Leonardo: la mano che con tanta facilità passava su di uno stesso foglio di carta, dal minuscolo schizzo di una composizione pittorica, ad una figura di geometria, dalle note sulla gravità e sulla luce, agli intrecci per una fascia a ricamo, sospendeva un calcolo per fissare rapidamente la posa del gatto domestico, o la danza dell’orso che forse passava per la strada interrompendo l’applicazione della mente: la mano che i più intricati meccanismi ideati dalla mente traduceva in forma singolarmente evidente, precisandone i più minuti particolari, cosicchè qualsiasi argomento scientifico rendeva facile e persuasivo, quella mano era il degno ed indispensabile strumento di una mente che, per istinto e profondità di osservazione, per ardimento di intuito, e per infaticata genialità di ricerche, rimarrà insuperata. Quando si penetra nelle complesse manifestazioni di questa mente eccezionale, si ha la impressione di una intelligenza sproporzionata all’ambiente in cui visse, ed alle cui varie energie il patrimonio intellettuale dell’epoca sua non potè fornire quel materiale sussidio di strumenti e di mezzi, che avrebbero potuto agevolarne l’esplicazione. Rievocando la figura di Leonardo nel suo ambiente, ci sembra di vedere un uomo che parla in mezzo ad una folla non in grado di ascoltarlo: poichè lo spirito di osservazione delle leggi e dei fenomeni della natura aveva già in Leonardo, la stessa intensità e profondità che caratterizza, a quattro secoli di distanza, le odierne conquiste della scienza, nei nomi di Volta, C. Bernard, Pasteur, Schiaparelli, Marconi, e costituisce un anello isolato, ma pur prezioso, dello svolgimento ormai illimitato del progresso umano.
Luca Beltrami.

Nel 1872, inaugurandosi in Milano il monumento a Leonardo da Vinci, venne pubblicato, coi tipi di G. Ricordi, il Saggio del Codice Atlantico con scritti di G. Govi, G. Mongeri, C. Boito, G. Colombo, e 21 tavole in eliolitografia. Più tardi, l’Accademia dei Lincei veniva dal Ministero della pubblica istruzione incaricata della pubblicazione integrale del Codice, valendosi dei contributi sottoscritti all’uopo da Re Umberto e da varî ministri. La trascrizione del manoscritto venne affidata al dottor Giovanni Piumati, e l’esecuzione delle tavole, iniziata dapprima dalla ditta Martelli di Roma, venne assunta a partire dal fascicolo 5° dal signor Giovanni Beltrami, a mezzo dello stabilimento Arturo De Marchi di Milano. Il primo fascicolo venne nel 1891 presentato dal sen. Fr. Brioschi alle LL. MM. nella seduta solenne dell’Accademia dei Lincei. L’edizione fu assunta dal 1894 dall’editore U. Hoepli e richiese 35 fascicoli comprendenti 1381 tavole e più di 1300 pagine di testo, stampato su carta a mano appositamente fabbricata a Fabriano, dalla tipografia Salviucci della R. Accademia dei Lincei.
In questo breve cenno ai collaboratori dell’edizione mi corre obbligo di ricordare anche il nome del dottor Giovanni Fachini, morto nel 1899, il quale per breve tempo ebbe a collaborare nella trascrizione del testo, dal fascicolo 13° al 17°; la quale menzione mi riesce tanto più doverosa, per il fatto che, dopo la morte del sen. Fr. Brioschi, il lavoro del dott. Fachini non è stato riconosciuto per parte dei varî presidenti che si succedettero all’Accademia dei Lincei, sebbene non sia mancato, da parte mia, l’invito al riconoscimento morale e materiale di quella prestazione. Ma come argutamente osserva Th. Roosvelt «non è difficile di essere virtuosi in forma negativa, restringendo il proprio campo d’azione» e lo stesso Leonardo ci insegna come non sempre si possa ottenere giustizia, poichè «giustitua vuol intelligentia, potentia e volontà».

L. B.

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