lunedì 26 maggio 2014

1893 - DE FABRICZY, Il Codice dell’Anonimo Gaddiano (Cod. magliabechiano XVII, 17) nella Biblioteca nazionale di Firenze


Il manoscritto, del quale ci proponiamo di stampare e di corredare di annotazioni nella presente Memoria la parte relativa agli artefici moderni, fu per la prima volta fatto conoscere al mondo degli eruditi dal comm. Gaetano Milanesi, il quale, traendone e pubblicandone nell’Archivio storico italiano (Ser. iii, t. xvi, p. 219 seg.) la biografia di Lionardo da Vinci, agli infiniti meriti che esso ha nella illustrazione della storia artistica del Tre, Quattro e Cinquecento ne aggiunse uno di più[1]. Egli, negli appunti premessi al testo della biografia testè citata, giustamente caratterizzò il manoscritto in discorso come minuta di una raccolta di materiali, che lo scrittore del medesimo riunì con intenzione di comporne un’opera sistematica, e bene egli osservò che le notizie dell’anonimo autore il quale scrisse nei primi cinquant’anni del Cinquecento, per quanto siano brevi sono spesso notabili e nuove. In quanto, poi, alle fonti del nostro compilatore, il Milanesi giustamente rilevò «ch’egli quanto a’ maestri del secolo xiv copia per lo più dal Commentario del Ghiberti, e che rispetto agli artefici del secolo posteriore tiene innanzi un libro che egli chiama ora l’antico, ora l’originale, e più spesso col nome del suo possessore che fu un Antonio Billi vissuto negli ultimi anni del Quattrocento»[2]. Più tardi, il Milanesi nella recentissima e tanto meritevole sua edizione delle Vite del Vasari ebbe ripetutamente occasione di ricorrere alle sue indicazioni rilevandone l’importanza. Anche da parecchi altri eruditi, cioè dai professori Grimm, Janitschek, Frey, Strzygowski e Wickhoff, questo manoscritto fu studiato e rammentato, ma lo fu soltanto alla sfuggita e incidentalmente, quando essi trattavano della soluzione di altri problemi. Noi stessi nella monografia nostra sul Brunelleschi abbiamo dovuto occuparcene, visto che una delle sue notizie, ed è essa fra le più distese, tratta del celebre architetto. Vi abbiamo commentato questa e parecchie altre delle sue notizie, per poter trarne le conclusioni che abbiamo ivi esposte in succinto, riguardo alla persona, alle fonti, al tempo dell’autore, e che avremo l’occasione di stendere più particolarmente nelle pagine che seguono.[3] Per ultimo il prof. Frey in un’opera voluminosa ha stampato e commentato di recente tutto il testo del nostro manoscritto.[4] Sembrerebbe, dunque, un lavoro superfluo quello intrapreso ora da noi, di ripubblicare una parte del medesimo. Se non che, oltre all’aver anche noi meditato e preparato una tale pubblicazione da parecchi anni, oltre al non averla noi per i primi data alla luce per questa sola ragione che eravamo occupati a preparare la surricordata monografia, possiamo addurre come ragione d’essere di questa nuova edizione il discostarci in punti essenziali dalle opinioni emesse dal Frey. E siccome la direzione di questo Archivio ha voluto concederci gentilmente lo spazio richiesto dalla mole del materiale che abbiamo raccolto, non c’è ragione perchè noi nelle pagine seguenti non diamo effetto a una intenzione da lungo nutrita.

Il nostro manoscritto è contenuto in un codice già magliabechiano che porta la segnatura CI. xvii n. 17 ed il titolo di data posteriore: «Anon. Notizie di Pittori, Scultori ed Architetti autografe». Proviene dalla biblioteca della famiglia de’ Gaddi, nella quale non si sa quando e donde capitò, ed ove era segnato col n.o 564; passò nell’anno 1755 insieme con una parte dei tesori contenuti in quella raccolta nel luogo dove si custodisce oggi.[5] Per questa ragione noi lo designeremo d’ora in poi colla denominazione di «Codice Gaddiano» oppure «Anonimo Gaddiano» (poichè, come vedremo, non ci fu dato di scoprirne l’autore). Esso è cartaceo, legato in mezza pelle (molto probabilmente fin da quando era nella biblioteca Gaddiana; dallo stesso tempo o forse anche da tempo posteriore data pure la numerazione delle pagine, in nissun caso però essa proviene dall’autore stesso), e si compone di 128 fogli in quarto grande, scritti da una sola mano, tranne due soli passi. Contiene una raccolta di materiali tratti da diverse fonti per un’opera che doveva comporsi su essi, e abbracciare le biografie dei principali artefici dell’epoca antica e anche di quella moderna. In corrispondenza a questa loro origine, e a questo loro scopo non tutti i fogli sono empiti di scrittura. Alcuni sono lasciati vuoti per metà per dar luogo a luogo a supplementi da aggiungersi nel corso della compilazione; su altri non si trovano che parecchi nomi di artefici tramezzati di spazio vuoto, evidentemente per esser riempito con notizie raccolte più tardi; altri ancora sono rimasti affatto in bianco (specialmente il verso di molti fogli, ma anche alcuni fogli fra le singole parti principali del manoscritto). Il contenuto in particolare n’è il seguente:
a fol. 1-37 si trovano riunite le notizie sulla vita e sulle opere degli antichi pittori e scultori.
i fol. 38-42 sono rimasti in bianco.
i fol. 43-94r (94v è bianco) contengono le notizie sugli artefici moderni da Cimabue a Michelangelo.
i fol. 95-98 sono in bianco.
sui fol. 90-103 seguono indicazioni sopra opere d’arte esistenti in alcuni palazzi e chiese di Roma e nella Certosa di Val d’Ema presso Firenze.
il fol. 104r è occupato di parecchi nomi d’artisti; il verso n’è in bianco.
i fol. 105 e 106 sono rimasti in bianco.
sui fol. 107 e 108r (108v è in bianco) si trovano registrate da altra mano notizie su alcune delle opere d’arte e delle reliquie custodite in parecchie chiese di Perugia, Assisi e Roma, colla data 1543 (st. com. 1544).
il fol. 109 ha riferenza alle notizie biografiche sui fol. 43-94, e contiene le ultime quattro righe della prima minuta della biografia di Donatello, la quale ora è stata rimessa a fol. 64 e 65 (dove stava originalmente), dopo esser stata staccata (forse dall’autore stesso) dal suo posto primitivo, e inserita sotto i numeri 123 e 125 alla fine del manoscritto.
i fol. 110 e 112r (112v è in bianco) contengono una copia del capitolo del Proemio al Commento della Divina Commedia scritto da Cristoforo Landino, e stampato nel 1481 a Firenze, che è intitolato: «Fiorentini excellenti in pictura et sculptura»: vi sta innanzi un indice dei nomi degli artefici rammentati dal Landino.
il fol. 111 è occupato da notizie su parecchi artisti antichi, tolte da Plinio, dal Landino ec. Esso non è scritto dalla mano del nostro autore, e fu messo nel suo presente posto, erroneamente, quando il manoscritto fu legato; e ciò prova che non era certo lo scrittore di quest’ultimo che lo fece legare, perchè allora ci avrebbe guardato meglio.
sul fol. 113v (di formato più grande, e che perciò dovette esser piegato; il recto è in bianco) si trovano notizie di mano dell’autore stesso circa le pitture della cappella Sistina.
i fol. 114-128 sono riempiti (parecchi ne sono lasciati in bianco) di diverse notizie e note destinate per servir da materiale per la compilazione del testo, come sarebbero: estratti da Giov. Villani e dal Ghiberti; elenchi di nomi di artefici antichi da Plinio, e di pittori e scultori moderni su cui il compilatore si proponeva di raccogliere notizie; le prime minute per alcune parti del testo stesso delle sue biografie; aneddoti artistici e letterari, e via dicendo. Qui si trova pure sul verso di un foglio senza numerazione, fra i fogli 116 e 117, (però non inserito posteriormente, quando il volume fu legato), sotto l’intestazione: «ex libro antonij belli» una parte dell’elenco di nomi di artefici, che abbiamo rincontrato pure sul primo foglio del cosiddetto Codice Strozziano, e di cui avemmo già occasione di parlare.[6] Ne tratteremo più particolarmente nel corso delle presenti ricerche (cfr. la nota 228 più avanti).
Benchè, come si è detto già più sopra, non abbiamo l’intenzione di riprodurre in stampa quella parte del nostro codice che si occupa degli artefici greci e romani, visto il suo poco anzi nessun valore per le cognizioni o l’erudizione archeologiche, nondimeno crediamo necessario di far conoscere in poche parole l’indole anche di questo brano di esso. Il nostro autore per compilarlo ricorse esclusivamente ai relativi capitoli della «Historia naturalis» di Plinio, di cui forse conosceva anche l’originale, ma della quale egli anzitutto mise a profitto la traduzione del Landino stampata nel 1473. Così si spiegano i tanti errori, spropositi, malintesi di cui ridonda la sua compilazione, e che per una parte hanno la loro origine nella tradizione sfigurata, corrotta sulle opere d’arte e sugli artisti antichi, per la massima parte però nelle scorrettezze e nei malintesi del traduttore. Oltre questa fonte principale il nostro compilatore trasse singole notizie e indicazioni dal «Chronicus Canon» di Eusebio da Cesarea (di cui avrà avuto sotto gli occhi la traduzione fattane da s. Girolamo e stampata la prima volta nel 1475 a Milano), dal Commentario del Landino alle opere di Orazio, stampato nel 1482, e dal Proemio dello stesso autore al Commento della Divina Commedia, come si manifesta sia in alcune note marginali nelle quali si nomina la prima delle fonti soprindicate, sia in qualche passo di testo, qualche notizia tratta dalle ultime due, e che si trova fra i materiali raccolti negli ultimi quattordici fogli del suo manoscritto. Dalla forma esteriore della parte contenuta sui fogli 1-37 apparisce chiaro che essa non può esser la prima minuta, ma che n’è piuttosto la copia, e ne fanno testimonianza non solo le poche correzioni, le scarse emendazioni e cambiamenti nel testo, ma in maniera ancora più convincente le postille nelle quali l’autore aggiunge dati cavati da Eusebio o note riguardanti la disposizione del suo testo (p. e. «vedere di porlo al luogo suo più indreto», «ritrovarla in Plinio et porla fra l’opere che non si trova gli arteficj», «credo habbino andare un poco adreto», ed altre simili). Paragonato al lavoro analogo di G. B. Adriani, tratto anch’esso da Plinio, e che possediamo nella ben nota lettera diretta al Vasari e da lui pubblicata in appendice alla seconda edizione delle Vite, il testo del nostro compilatore è più ricco di notizie e più esatto nelle sue indicazioni; ma, invece, non ha la forma accurata, lo stile limato, e in generale la facilità nel maneggiare la lingua, di cui fa prova lo scritto dell’Adriani. E questa differenza non gli sarebbe probabilmente stata tolta, anche se il nostro Anonimo nella redazione definitiva avesse avuto l’occasione di rimediar a quelle mancanze, poichè esse derivano appunto dalle facoltà, dall’indole dello scrittore.

Passando ora a quella parte del nostro codice che contiene le notizie sugli artefici moderni, e che forma il soggetto speciale della presente pubblicazione, convien dire anzi tutto, che essa come la possediamo non è la redazione definitiva del materiale raccolto, ma non è neppure una congerie di notizie accumulate senza alcun nesso o ordine, e neanche la prima minuta fatta in vista di questo scopo. Alcuni brani dell’ultima, pertanto, si sono conservati negli ultimi fogli del manoscritto, e ne dovevano esser esistiti altri che lo scrittore avrà lasciato da parte riunendo il materiale in un volume. Da queste prime notizie raccolte, estratte, ordinate e compilate dalle diverse fonti letterarie in istampa ed in iscritto, ch’egli tenne innanzi, l’autore mise insieme il suo testo che si proponeva, prima di dargli la forma definitiva, di confrontare, dove gli paresse necessario, sul luogo colle opere stesse, di correggerlo e di aggiungergli i supplementi richiesti da quell’esame. E ciò si deve inferire da una parte dallo stato e dalla forma esteriore del nostro manoscritto, in quanto esso non mostra abbastanza sbagli, correzioni, modificazioni per ravvisarvi proprio un primo abozzo (anzi nel riordinar il suo materiale secondo certi punti di vista tradisce già uno stato di evoluzione più avanzato); dall’altra, da parecchie note che lo scrittore per suo proprio ricordo mise in margine, disseminate qua e là, e che dicono: «Dire dove è», «Vedere dove è» (fol. 55r), «Dire meglio et vedere che cosa è» (fol. 76v), «Vederle» (fol. 79r), «Vedere dove vi sono» (fol. 80v). Anzi, per lo stesso scopo egli aveva pure l’intenzione d’informarsi di viva voce presso amici o conoscenti ch’egli credette o meglio istruiti oppure in grado di fornirgli più ampie notizie in uno o altro punto, che non lo facessero i suoi originali scritti. Ed anche ciò si desume dalle sue note marginali: «Domandar dellj errorj di detta chiesa» (fol. 61v), «Informarsene....» (fol. 64v bis), «Dimandarne» (fol. 85 r), «Dimandarne Jacopo da Pontormo» (fol. 87 r), «Dimandarne Giorgio Jacopo da Pontormo» (fol. 87 v). Non furono però messe in effetto (almeno nei casi a cui si riferiscono le postille citate) nè quella informazione personale sul luogo, nè le domande orali; sicchè pare che il testo, come ci si presenta ora, derivi con poche eccezioni - e questo sarà provato più avanti, dove ne tratteremo in particolare - da fonti in iscritto. In due soli passi del testo, ed in un supplemento ad esso esiste una prova che provengono di certo da informazione orale. Ed è il primo quello, dove nella biografia del Brunelleschi per l’attribuzione di un quadro al maestro si cita a piè del fol. 61 l’colle parole: «me lo disse B. Cav.» l’autorità del testimonio orale; il secondo si trova sulla fine della biografia di Donatello a fol. 66 v dove l’autore per alcune sculture esistenti a Padova si richiama colle parole: «che lo sa Lorenzo torniaio» alla fonte donde ne attinse la notizia (cfr. le note 71 e 89 nel Commentario da noi aggiunto al testo del nostro codice); il terzo, infine, è quel racconto staccato dal testo proprio, spettante alle biografie di Lionardo e Michelangiolo sul fol. 121 v, a cui il nostro autore diede l’intestazione: «Dal Gav(ina)», indicando così la fonte a quanto pare essa pure orale, dalla quale ebbe le relative notizie (cfr. quanto viene esposto su essa nella nota 205 del testè citato commentario). Con questo, però, noi non vorremmo negare, che altre informazioni orali siano state fuse qua e là nel testo, come nè anche vorremmo sostenere che il suo compilatore non abbia messo a profitto per esso le sue proprie conoscenze e ricordi su artefici e loro opere, ed in ispecie su alcuni ch’egli o aveva ancora conosciuto vivi, o su cui poteva procurarsi notizie da chi li aveva praticati mentre erano in vita. Così si spiega nel modo più persuasivo la relativa prolissità di parecchie delle sue biografie su artisti vicini alla sua propria epoca, come sarebbero nominatamente quelle sul Botticelli e su Andrea del Sarto (cfr. le note 161 e 184 del nostro sopracitato commentario).
Dallo stato di evoluzione nel quale l’opera del nostro compilatore ci è pervenuta, si spiegano anche benissimo le disuguaglianze, ripetizioni e mancanze, gli errori e sbagli, anzi pure qualche sproposito del testo. Secondo la ricchezza delle fonti che erano a sua disposizione, alcune delle vite sono elaborate con abbastanza cura; altre non sono se non una enumerazione arida di opere; per altre ancora l’autore non ha potuto raccogliere nessun materiale, e per ora doveva contentarsi di segnare il solo nome dell’artefice accennando così alla intenzione di supplire più tardi con nuove fonti che gli sarebbero forse capitate nel corso del suo lavoro, alla mancanza di materiale. Si spiegano colla cagione sopraccennata le spesse modificazioni stilistiche, sia ch’esse si limitino a singole parole o sentenze, sia che abbraccino più o meno estesi brani del testo; si spiegano certe inesattezze e superficialità nelle espressioni, certe scorrettezze e goffaggini nel maneggiar della lingua. Tutto questo sarebbe sparito nella redazione definitiva del testo, la quale - come si desume da tante postille marginali che almeno indirettamente accennano a essa (p. e. coll’assegnare un altro posto di quello occupato ora nel manoscritto ad alcune delle notizie, colle parole: «Mettere Filippo innanzi a Lorenzo», «Metterlo doppo Masaccio et Masolino», «harebbono a essere innanzj al Biccj», «mettere qui Lippo»; coll’additar alla sua intenzione di riveder alcune delle opere enumerate sul loro posto, o di informarsene presso altri; vedi più sopra) - era nell’intenzione del nostro scrittore, il quale in seguito, forse impedito dalla morte o da altra cagione che non conosciamo, non potò darvi compimento.
Riguardo all’estensione non solo ma anche all’importanza del contenuto, il lavoro in discorso è il più cospicuo che sia stato composto prima delle Vite del Vasari. L’autore di esso, fra tutti gli scrittori che nel corso del Quattrocento e sullo scorcio del Cinquecento si occuparono di simile soggetto (cioè, Landino, Manetti, Billi, e tanti altri di cui non conosciamo il nome) è il primo, dopo il Ghiberti, che - seguito poi in ciò dal Vasari - si proponga di trattar non solo, come facevano essi, degli artefici fiorentini, ma anche di quelli delle altre parti d’Italia. E ne fanno fede così le notizie da lui riunite ai fol. 68v-72v sugli scultori e pittori senesi, su alcuni artefici pisani, e perfino su qull’enimmatico maestro Gusmin di origine tedesca, come anche i nomi di artisti di diverse Provincie dell’Italia segnati sui fogli 104r e 117 r, indubitatamente col proposito di inserir anch’essi nella sua opera, dopo che sarebbe riuscito a raccoglierne notizie sufficienti. Anche lui al pari de’ suoi predecessori non intendeva di trattar se non di artefici già morti; però, come alcuni di essi (Billi), e come anche il suo successore Vasari, fa eccezione per Michelangelo. Circa l’ordine consecutivo nel quale egli avrebbe schierato lo singole notizie nell’opera definitiva, non si può stabilire nulla. Dal modo in cui si seguono ora nel manoscritto non c’è da inferire, ch’egli abbia tenuto di mira certi argomenti di classificazione, se si eccettuino le prime notizie fino a quella sul Ghiberti, e quelle sugli artefici senesi, le quali le une e le altre si seguono o quasi nell’ordine cronologico, e le ultime cinque o sei, che difatti trattano anche dei maestri più recenti fra quanti ne sono riuniti nel manoscritto nostro.
All’opposto l’autore in generale tenne un certo metodo (suo proprio, che non lo trovò nei suoi originali) nel comporre ognuna delle sue notizie, metodo dal quale non si discostò se non nei casi in cui la mancanza del materiale gli vietò di attenervisi. Anzi tutto egli si adopera di riunire dalle diverse fonti di cui poteva prender conoscenza, l’intiero materiale su ognuno dei singoli maestri. Dapprima riunisce i dati dispersi riferentisi alla persona dell’artefice e al carattere, alla maniera dell’arte sua in generale; li fa seguire dalle notizie sulla vita di lui, e ci aggiunge l’uno e l’altro aneddoto l’una o l’altra burla cavata dai novellieri dei quali, come vedremo, egli conosce e compendia le novelle del Boccaccio, non però quelle del Sacchetti. Si chiude questa parte per così dire generale della notizia coll’elenco dei discepoli nei pochi casi che il nostro autore li conobbe o li potè cavar dalle fonti (in uno caso, però, egli mette l’elenco in discorso alla fine della sua notizia). A questo proemio segue l’enumerazione delle singole opere, nella quale egli, riordinando il materiale recato dalle sue fonti che per lo più (eccettuato per parte il solo Ghiberti) non hanno nessun ordine, osserva il seguente ordine: in primo luogo enumera le opere esistenti a Firenze e fra queste prima le pitture e dopo le sculture, e nell’enumerazione così delle prime come delle seconde egli fa precedere (almeno in generale, che ce se ne trovano anche molte eccezioni) quelle eseguite pei pubblici palazzi o altri monumenti alle altre collocate nelle chiese e nei conventi. In secondo luogo poi aggiunge le opere esistenti fuori di Firenze in Toscana o altrove, ed anche per queste si attiene al medesimo ordine che per quelle di Firenze (per la sola eccezione che vi s’incontra vedi la nota 207 del nostro Commentario al testo).
Dalla maniera colla quale il nostro compilatore adempie a questo suo compito, si può trarre qualche conclusione sulla sua personalità letteraria. Era egli un’uomo di molta coltura e di erudizione abbastanza estesa, dacchè - come si vedrà - conosceva non solo quasi tutti gli autori che prima di lui si erano occupati d’un simile lavoro, ma inoltre era pratico anche di altre opere della letteratura fiorentina. Che possedesse anche la conoscenza della lingua latina egli stesso ci somministra una testimonianza irrefragabile in un passo della sua opera tradotto parola per parola da un’originale latino (cfr. la nota 74 del nostro Commentario). Inoltre era dotato di una certa destrezza e facilità nel maneggiar la penna, e ne fanno testimonio in ispecie le introduzioni alle sue notizie, nelle quali egli, raccogliendo le sparse e brevi note delle sue fonti, riesce quasi sempre a comporre un ritratto giusto della persona e del carattere dell’artefice in discorso. Per contro non possedeva quasi nessun giudizio critico indipendente nel raccogliere il materiale dalle prime fonti, nel trovarlo per così dire da sè. Per questo le sue conoscenze, nominatamente delle opere d’arte che lo circondavano, non erano affatto sufficienti. Egli da compilatore abile, da erudito abbastanza versato e da lavoratore coscienzioso si contenta di comporre il materiale somministratogli da scrittori anteriori; egli ci si attiene strettamente, senza critica, e senza aggiungere - almeno per la più gran parte della sua opera - nulla di suo proprio. Le pochissime eccezioni a cui abbiamo già accennato più sopra, e nelle quali egli dirimpetto all’autorità delle sue fonti esprime qualche lieve dubbio o l’intenzione di procurarsi informazioni migliori, invece di derogare anzi confermano la regola del suo procedere. Così si capisce p. e. che quando egli si trova in apparenza in realtà dinanzi a contradizioni fra uno e un’altro de’ suoi originali, si contenta di accettar l’asserzione di ambedue; si capisce che cade in sbaglio, se qua e là si adopera di mettere in accordo i dati discrepanti fra loro delle sue fonti; si capisce che da diversi originali registra due volte la medesima opera, non accorgendosi per la poca sua conoscenza delle cose, che nonostante la differenza nella loro denominazione sono una stessa cosa; si capisce, infine, che in due diversi luoghi copia da differenti fonti la biografia del medesimo artefice, invece di fonder le relative notizie in una sola.
Tutto questo si spiega col non esser, apparentemente, stato molto sviluppato il suo giudizio critico, il suo gusto e intendimento artistico; sicchè non si avventura che ben rade volte a dargli sfogo in contradizione alle indicazioni delle sue fonti con un modesto «credo» aggiunto nel margine (p. e. a fol. 86r, alinea 5 della notizia su Ghirlandaio, e a piè del fol. 72 r alla fine di quella su Andrea Pisano). Con tali scarsi e timidi tentativi viene esaurita l’indipendenza del suo giudizio al quale evidentemente mancava la facoltà di apprezzare un’opera d’arte, e più ancora quella di svelarne i pregi. Ed è lecito di arguire da questo ch’egli stesso non era artefice; perchè, se lo fosse stato, ben altre e ben più copiose dovrebbero esser riuscite le sue notizie almeno su quei maestri che riguardo al tempo gli erano i più vicini. Anzi, appartenne egli molto probabilmente alla schiera di quei letterati di cui Firenze ridondava già nella prima metà del Cinquecento, di quei letterati i quali senza pretendere di far professione delle loro occupazioni letterarie, le esercitavano piuttosto come dilettanti per la loro propria istruzione, pel proprio loro divertimento.
E ciò si deve arguire dalle spesse correzioni di singole parole, dalle trasposizioni di intiere sentenze, da ripetuti tentativi di redazione di più o meno lunghi brani di testo, che non accennano proprio a uno scrittore versato, a un letterato per mestiere. E tradisce ciò pure il suo modo di scrivere non abbastanza limato e castigato per uno che ne faccia professione, anzi non scevro dall’una parte di forme dialettali e di modi di dire usati nella lingua popolare, - ma serventesi pure dall’altra parte con predilezione di certe espressioni superlative, ripetute sempre, e sempre senza distinzione, di certe frasi usate nel gonfio parlare del Cinquecento. In generale, però, egli dice quanto ha da dire in modo semplice e chiaro, in sentenze per lo più brevi, senza curarsi di comporre periodi lunghi e ben elaborati. Ne’ moltissimi casi, specialmente nell’enumerazione delle singole opere, egli segue con lievi modificazioni, con qualche aggiunta parola per parola il testo de’ suoi originali, cambiandone però la distribuzione secondo i criteri da lui sempre adottati, e che abbiamo esposto più sopra. È vero pertanto, (e ciò segue da quanto abbiamo detto or’ ora sul modo col quale il nostro autore s’attiene strettamente a’ suoi originali non solo per la forma ma anche per l’essenza del contenuto) che, oltre quanto ci narrano le sue fonti (perchè, come si vedrà più avanti, ne possediamo anche oggi almeno le due principali) ben poco impariamo dalla sua compilazione sia riguardo all’evoluzione delle arti del disegno in generale, sia riguardo a nuovi dati sulla vita o sulle opere de’ singoli artefici. In quanto all’evoluzione delle arti figurative egli ripete quanto ne avevano esposto i suoi predecessori, i quali fanno risorgere la pittura con Cimabue e la fanno svilupparsi in modo straordinario con Giotto, e poi fanno seguire alle notizie su questi due iniziatori altre sui pittori e scultori che vennero dopo loro, e disseminati fra essi, su uno o due dei più rinomati architetti, sia osservando più meno fedelmente l’ordine cronologico, sia non serbando neppure questo. In quanto poi alla vita o alle opere dei singoli maestri, c’è da osservare che il nostro compilatore da fonti oggi smarrite ci ha pure trasmessi alcuni dati che non si trovano in quelle anteriori fino a noi pervenute, nè, almeno in parte, si trovano neppure nella fonte principale posteriore, cioè nelle Vite del Vasari. Di quanto concerne l’autenticità, la credibilità di questi dati tratteremo in particolare, quando ci troveremo dinanzi a loro commentando il testo del nostro compilatore. Ma è d’uopo accentuar fin d’ora in generale l’importanza di questi dati, perchè col loro aiuto diviene possibile di discernere le diverse fonti del nostro scritto, di determinare la loro relativa estensione e il loro valore, e di stabilire pure in che misura esse siano state messe a profitto ancora da altri scrittori, e specialmente dal Vasari.

Avendo noi potuto così ricomporre, almeno nei suoi tratti principali, l’indole letteraria del nostro autore, ci piacerebbe ora di saper anche qualche cosa sulla sua persona. Ma scarsissimo sarà sotto questo rispetto il risultato delle nostre indagini. Ne da alcun cenno, da alcuna indicazione nel testo stesso, nè dal confronto della scrittura di esso con quella di altri autori, nè da qualsiasi segno esteriore o interiore è pur possibile di trarre il minimo schiarimento per saper chi mai egli fosse. L’unica cosa che si può fissar con certezza, è ch’era fiorentino, e che compilò a Firenze verso la metà del Cinquecento la sua opera. Sulla data di quest’ultima tratteremo subito più particolarmente; che il suo autore fosse fiorentino si desume da certi modi di dire, da certe singolarità della ortografia o piuttosto della grammatica del parlare fiorentino, quali sarebbero l’uso del «eh» invece di «e», quello di forme come «habbiàno (abbiamo), hebbono (ebbero), hare’ (avrebbe), hauto (avuto), feciono (fecero), sua (suoi), dua (due), agnoli (angeli),» ecc. Ma è ancora argomento più irrefragabile il fatto che il nostro scrittore dice «nostro cittadino» il Brunelleschi, «nostro poeta fiorentino» il Dante, e che parla di «glorie fiorentine». Che, infine, avesse anche scritto la sua opera a Firenze è da inferire quasi con assoluta certezza dal mettere egli nel primo luogo le opere d’arte esistenti in questa città, e dal non enumerare quelle di altri luoghi se non dopo; ed è da arguire pure dall’aver esso in alcune note marginali accennato alla sua intenzione di chieder schiarimenti su parecchie cose al Vasari e a Jacopo da Pontormo ambedue abitanti a quel tempo in Firenze.
Circa la sua persona sono state emesse diverse supposizioni. Il Baldinucci lo credeva identico col Vasari (cfr. la nota 1 alla prima pagina di questa memoria); ma errò, poichè nè la scrittura del manoscritto è quella dell’Aretino, nè dal contenuto di quest’ultimo, confrontandolo con quello delle Vite si può dedurre il minimo argomento per tale identificazione (ved. In generale le note del nostro Commentario). Del resto, come il compilatore nostro avrebbe potuto richiamarsi in una nota marginale al Vasari, se egli proprio fosse stato lui stesso? Il comm. Milanesi opinò che fosse G. B. Adriani, traendone la ragione dall’aver egli nella ben nota sua lettera al Vasari riunito notizie quasi analoghe sugli artefici antichi a quelle contenute nella parte prima del nostro codice. Ma abbiamo già esposto più addietro dove ci occupammo brevemente di questo brano del nostro manoscritto, le ragioni che non permettono di accettare l’ipotesi del tanto benemerito storiografo degli artefici toscani. Ed è da aggiungere a quanto fu detto un argomento assolutamente decisivo. Avendo noi per la cortesia dell’erudito or ora nominato, e del conservatore dei manoscritti nella Biblioteca Nazionale, sig. barone Podestà, avuto l’occasione di confrontar insieme col nostro amico sig. Alessandro Gherardi, tanto competente in cose di simil genere, la scrittura del nostro codice con quella di alcune lettere autografe dell’Adriani, ci siamo convinti che non c’è verso di poter ravvisare in ambedue scritture la stessa mano. E la medesima cagione deve pure allegarsi contro l’identificazione del nostro scrittore con Giov. Batt. Gelli.[7] Non migliore successo ebbero i tentativi fatti dal prof. Frey, di stabilire l’identità del nostro compilatore con uno degli altri rinomati autori che circa la metà del Cinquecento si occuparono di cose d’arte, nominatamente con Paolo Giovio, Benedetto Varchi, coi due Borghini e pure con don Miniato Pitti e don Silvano Pazzi, i due collaboratori del Vasari; sicchè per ora dobbiamo confessar che manca non che ogni certezza ma persino qualche congettura plausibile riguardo alla persona del nostro Anonimo.

Con più successo potremo rispondere alla questione, quando fosse composto il nostro codice. Prima di tutto bisogna stabilire che dal carattere della scrittura, almeno di quella parte di esso di cui ci occupiamo, appare chiaro esser il testo delle notizie biografiche stato compilato tutto insieme, benchè il suo autore poi non cessasse di completarlo con appunti o intercalati fra le righe o aggiunti alla fine delle singole notizie, a misura ch’egli potò procurarsene in seguito da altri o anche supplire alle lacune delle sue fonti dalla propria esperienza. Da due dati positivi contenuti nel testo siamo in grado di determinare certamente, fin d’ora i limiti di tempo fra i quali questo dovette esser compilato. Nelle notizie su Giottino, Bicci e Lippo fiorentino si fa menzione di alcune fabbriche come non più esistenti, le quali furono demolite durante o prima dell’assedio del 1530 (S. Gallo, S. Benedetto fuori a porta Pinti, S. Antonio alla porta a Faenza). Nella biografia di Andrea del Sarto il nostro Anonimo per procurarsi dei ragguagli più particolareggiati sulle pitture di Poggio a Cajano mette in margine la nota: «Dimandarne Giorgio (Vasari) o Jacopo da Pontorno». Siccome questi morì il 1.° di gennaio 1557, i limiti estremi pella compilazione del nostro codice sono fissati dagli anni 1530 e 1556. Ma la prima di queste date viene portata innanzi di dodici anni, rammentando il nostro scrittore nella vita di Michelangelo il Giudizio della cappella Sistina, scoperto sulla fine del 1541, con parole tali da non lasciare dubbio che l’opera fosse allora tutta terminata.[8] E similmente la seconda data viene ristretta di almeno sei anni, se si pensa che la prima edizione delle Vite del Vasari, nella quale egli già parla a diverse riprese (pag. 756, 840 e 841) delle pitture di Poggio a Cajano, fu stampata nel 1550 e che il nostro autore, se avesse scritto dopo quest’ anno, per aver notizie esatte su esse non avrebbe avuto bisogno di rivolgersi al Vasari personalmente, poichè le avrebbe potuto trovare nelle Vite stesse.
Il nostro testo, pertanto, ci somministra anche altri argomenti, - è vero soltanto «ex silentio» - che ristringono fra limiti ancora più stretti l’origine di esso. Nella biografia del Brunelleschi l’autore indica il palazzo Pitti sotto questo suo nome e non accenna che fosse stato acquistato dalla duchessa Eleonora, sicchè pare potersi inferire che scrivesse prima di quell’acquisto, cioè prima del 3 febbraio 1550. Nella biografia di Michelangelo non si fa menzione degli affreschi nella cappella Paolina eseguiti fra il 1542 e il 1550; non si accenna all’esser stato il Maestro da Papa Paolo iii nominato architetto di S. Pietro (1.o gennaio 1547), e non si fa nemmeno cenno del monumento di Giulio ii in S. Pietro in Vincoli, il cui collocamento ebbe fine nel 1545. Ambedue le ultime notizie si trovano, percontro, in quell’elenco delle cose più notabili di Roma, composto nell’ottobre del 1544, che il nostro Anonimo copiò da un originale d’altri e unì al suo manoscritto ai fogli 99-102, e che anche noi pubblichiamo in appendice alle sue biografie (cfr. la nota 229 del nostro Commentario). Ed è da notare che proprio la notizia sulla nomina di Michelangelo ad architetto di S. Pietro secondo ogni probabilità non deriva dall’autore dell’elenco in discorso, ma fu posteriormente (cioè dopo il 1.° gennajo 1547) aggiunta al testo dal nostro Anonimo. Se questi, dunque, avesse composto la vita di Michelangelo poco dopo l’ultima data, da quell’elenco ch’egli molto probabilmente, anzi di certo già possedeva da qualche tempo, avrebbe potuto supplire in essa se non tutte e due le notizie in questione ma certo quella sul sepolcro di Giulio ii (supponendo anche che la sua propria aggiunta circa la morte del Sangallo e la nomina di Michelangelo sia di data alquanto posteriore). Con questi ragionamenti, quindi, il tempo della composizione del nostro codice ci pare determinato sicuramente fra gli anni dopo il 1542 e prima del 1548.

Per condurre a fine il presente studio non ci resta ora altro che di esporre quanto abbiamo potuto chiarire circa le fonti alle quali attinse l’autore della nostra compilazione. Alle due principali additò già, come abbiamo detto sul principio di questo saggio, il comm. Milanesi, e noi nel commentario che segue più avanti procureremo di stabilire quanta parte di ciascuna delle singole notizie biografiche sia tolta dal Libro di Billi, quanta dal Commentario del Ghiberti, e se siano copiate quasi letteralmente, o in che modo i singoli brani siano stati trasformati dal nostro compilatore. In questo luogo, quindi, basterà di chiarire alcune questioni d’indole generale.
L’Anonimo accoglie in generale tutte le indicazioni recategli da ambedue le fonti in discorso, senza tralasciarne una. Per quella parte delle vite che tratta di artefici del Trecento egli sembra aver dato la preferenza alle indicazioni che trovò su essi nel Ghiberti, Ciò si deve arguir dalla circostanza, che egli in generale comincia sempre coll’estrarre o copiare quanto quest’ultimo autore gli reca sull’artefice in discorso, e che completa poi il materiale colle indicazioni rispettivo del Billi. Anzi, dove egli potò supporre l’essere il Ghiberti la sola fonte che meriti fiducia, come p. e. nella biografia del maestro stesso, tralascia del tutto le notizie contenute del Billi, e compone il suo testo addirittura su quell’unica fonte. - Per la parte che si occupa dei maestri del Quattro e Cinquecento, egli - non porgendogli più il Ghiberti notizie su essi - dovette giovarsi in primo luogo di quelle somministrategli in modo più particolareggiato e più copioso dal Libro del Billi, completandole però, come vedremo più sotto, pure con tali cavate da altre fonti che intanto sembrano esser state meno ricche.
Del testo del Commentano Ghibertano il nostro Anonimo tenne innanzi a so un esemplare diverso da quello della Biblioteca Nazionale di Firenze oggi solo esistente. Era il medesimo di cui si servì il Vasari che, come si sa, in parecchi luoghi delle sue Vite si richiama direttamente a questa fonte.[9] E ciò si manifesta per l’analogia di alcune delle informazioni prese da ambedue gli scrittori dal Ghiberti, informazioni che si discostano dai passi corrispondenti dell’esemplare della Nazionale. Così p. e. in questo nella vita di Giotto si parla delle sue pitture nella «sala del re Uberto», mentre l’Anonimo ed il Vasari lo designano più correttamente fatto per la «sala del re Ruberto» (ultimo alinea, fol. 45v); nella notizia su Stefano lo Scimmia la copia della Nazionale, dove si tratta delle pitture eseguite per S. Maria Novella, rammenta la tavola per una cappella, e descrivendo nell’arco di quest’ultima certi affreschi, omette per errore la parola «scorci» («ove sono angeli cadenti in diverse forme et con grandissimi |scorci|, son fatti maravigliosamente»), mentre che l’Anonimo ed anche il Vasari non ne sanno nulla della tavola d’altare, invece fanno elogio addirittura degli «artificiosi schorcj» (alinea quarta, fol. 46v). Nella medesima notizia la copia della Nazionale rammenta una «gloria» cominciata dal Maestro a Assisi, mentre l’Anonimo e il Vasari parlano di una «historia» (ultimo alinea, fol. 16v). Sulla fine della notizia su Giovanni Pisano la copia della Nazionale scrive: «ella fonte di Perugia di maestro Andrea da Pisa, fu bonissimo scultore», il nostro Anonimo per contro la dà giustamente a Giovanni Pisano scrivendo: «è di sua mano anchora la fonte di Perugia (al. 4, fol. 72v). Ma straordinariamente frequenti sono le discrepanze fra il testo della Nazionale da una parte, e fra quello messo a profitto dal nostro autore e dal Vasari dall’altra, nell’autobiografia del Ghiberti stesso. Ed è da notare, che le lezioni del testo della Nazionale sono le giuste. Così l’Anonimo parlando della prima porta del Battistero dice che le storie raffiguratevi siano del «vecchio» testamento (la copia della Nazionale scrive bene: «nuovo»); asserisce esser una delle lastre sepolcrali in S. Croce quella di Lodovico degli «Albizj» (così anche il Vasari; la copia della Nazionale ha rettamente: «Obizi»); descrivendo la corniuola col giudizio di Marsia parla di «Giove» che in una mano tiene una «littera» (invece di «uno giovane», ed una «citera», come si legge giustamente nella copia della Nazionale); parlando della mitra di papa Martino dice esservi state adoperate libre cinque e mezza di «perle», ed aver essa costato «trenta» mila fiorini (così anche il Vasari, invece di «pietre» e «trentotto» mila fiorini nella copia della Nazionale); infine, accennando ai rilievi della porta del Paradiso, dice che il maestro s’ingegnasse di imitarvi la natura con «grechj» componimenti (invece di «egregi» nella copia della Nazionale). Che queste coincidenze fra l’Anonimo ed il Vasari non abbiano la loro origine nell’essersi forse quest’ultimo servito del testo del primo, si vedrà da quanto diremo più avanti sul doversi in generale escludere la supposizione che uno o l’altro dei nostri scrittori abbia conosciuto l’opera del suo collega. Dagli sbagli che nell’esemplare del Commentario messo a profitto dall’Anonimo occorrevano precisamente nell’autobiografia del Ghiberti, bisogna concludere ch’esso non poteva esser l’originale stesso, scritto dalla mano dell’autore suo. Ma che anche questo originale fosse stato conosciuto dal nostro compilatore, che egli, anzi, se ne fosse pure veramente servito, viene messo fuor d’ogni dubbio da due note marginali, una nella vita di Giotto (fol. 45v, al. 9)» l’altra in quella del Berna (fol. 70r, al. 2), nelle quali egli fa richiamo all’«Originale» che noi nel commento al suo testo dimostriamo non poter essere altro se non l’originale del Commentario del Ghiberti (cfr. più avanti le note 16 e 97), Come accadesse che niente di meno egli con questo originale non emendasse e correggesse gli sbagli entrati nella sua compilazione dalla copia poco esatta di cui egli si era principalmente servito, non siamo in grado di darne una spiegazione plausibile.
Anche del Libro di Billi il nostro Anonimo nel compilare il suo testo non pare aver avuto dinanzi a sè l’originale, perchè, se fosse così stato, sarebbe difficile di spiegare le modificazioni benchè lievi occorrenti in alcuni passi del suo testo, pei quali possediamo proprio il testo originale del detto libro in parecchie postille marginali al nostro codice (vedi più in giù). Egli invece si giovò di una copia del detto originale affatto completa ed esattissima. Che essa sia stata affatto completa, si desume dal ritrovarsi anche nel testo dell’Anonimo tutte le indicazioni contenute nel Codice Petrei, la copia la più completa benchè la meno curata, che finora possediamo del Libro del Billi; che fosse anche esatta, bisogna concluderlo dal raffronto del testo del nostro Anonimo con quello del Codice Strozziano. Tutti i brani conservati dell’originale del Billi in quest’ultimo in forma molto più esatta del Cod. Petrei si trovano pure parola per parola o quasi nel testo del nostro Anonimo, e invano cercheremo in esso uno degli spropositi di cui è tanto ricco il testo del Cod. Petrei.
I soli brani che indubitatamente risalgono all’originale del Libro di Billi stesso, ci si presentano - come abbiamo testè osservato - in parecchie note marginali sparse qua e là per tutto il manoscritto, e che per le loro parole di proemio, come: «del lib.° di Ant. ° Billj dice» (fol. 44v), «dell 1.° dant.°» (fol. 45 ), «dice nell 1.° dant.° » (fol. 46r), «secondo il 1.° dant.°» (fol. 68r), e via dicendo, si svelano manifestamente come estratte addirittura da quell’originale. Nella nostra pubblicazione del Libro di Antonio Billi noi, seguendo in ciò le orme del comm. Milanesi e degli altri eruditi che se n’erano occupati, abbiamo espresso l’opinione che le postille in discorso derivino proprio dalla mano dell’Anonimo, e per spiegar il motivo per cui egli, dopo essersi servito della medesima fonte già nel compilare il suo testo, sia di nuovo ricorso ad essa per postillar quest’ultimo, abbiamo emesso la supposizione ch’egli al principio non avesse avuto innanzi a sè che una copia dell’originale in discorso, e che essendogli questo stesso capitato nelle mani, dopo che aveva compilato il suo testo, ne avesse approfittato per riveder la sua minuta e notare nel margine di essa le discrepanze trovate (l. e. pp. 299, 310 e 311). Ora dopo ripetuto e minuto esame della scrittura di quelle note marginali siamo giunti alla convinzione, che così esse, come anche parecchi supplementi al testo in parte intercalati fra le righe segnate originalmente sui fogli del manoscritto, in parte aggiunti sulla fine del testo delle relative notizie, non siano scritte dalla mano del compilatore del nostro codice ma bensì da quella di altra persona. La scrittura di quest’ultima si distingue da quella del nostro Anonimo in modo spiccante, riconoscibile facilmente per la forma acuta dei singoli caratteri in generale, ed in particolare per la diversità di alcuni di essi dalla loro forma corrispondente nella scrittura dell’Anonimo. Anche la penna molto più fina o appuntata, ed il colore dell’inchiostro più chiaro e che dà sul giallo, sono diversi da quelli di cui si servi l’autore del codice. Ora, l’esistenza delle postille in discorso ce la spieghiamo in questo modo. Essendo il nostro manoscritto capitato più tardi, forse dopo la morte del suo compilatore, nelle mani di qualcheduno che prendeva interesse al contenuto di esso, anzi forse intendeva di pubblicarlo, questi, avendo potuto procurarsi pure per qualche tempo l’originale del Libro di Billi, raffrontò al testo di esso quello della minuta dell’Anonimo, e trovando qua e là discrepanze e lacune, notò in margine le prime, e aggiunse o intercalò al testo di essa le seconde.
D’altronde agli argomenti esteriori testè esposti in appoggio della nostra ipotesi si aggiungono pure tali di valore essenziale, per così dire intrinseci. Nella notizia su Giotto a fol. 44v di fronte al passo del testo che comincia: «Dipinse nell palazzo dell podestà di molte cose...», si trova, scritta senza alcun dubbio dalla stessa mano che aggiunse le postille tratte dall’originale del Libro del Billi, la seguente nota marginale ch’è però cancellata: «e a riscontro nel testo dice el palagio della parte guelfa». Evidentemente il successore dell’Anonimo non avendo trovato nel Libro del Billi nessuna menzione di quelle pitture nel palazzo del Podestà (perchè infatti l’Anonimo aveva tolta la sua notizia dal Ghiberti) credè sbagliato il passo di esso, e quasi come correzione mise la sua postilla, richiamandosi in essa a quanto l’Anonimo stesso aveva scritto sulle pitture nel palazzo della Parte Guelfa nell’alinea precedente, perchè proprio a quest’ultimo è solo possibile di riferire la parola «testo» della postilla, come pure il «dice» si deve riferire all’Anonimo stesso (è vero che invece di «a riscontro» avrebbe dovuto mettere «sopra»). Più tardi, essendosi accorto che la notizia da lui messa in dubbio derivava non dal Billi ma dal Ghiberti, e che non era uno sbaglio dell’Anonimo, egli cancellò la sua postilla divenuta inutile. - Nella vita di Buffalmacco (fol. 49v) di fronte al passo in cui l’Anonimo narra le burle di Calandrino, troviamo scritta dalla stessa mano che la precedente, la postilla: «levare tutte talj fagiolate vere, ma dirle con brevità e allargharcj in altre istorie non dette per li altrj cosj in Buonamico come nellj altri». Ora noi domandiamo che ragione avrebbe avuto il nostro autore, il quale aveva cavato proprio questo brano della sua notizia su Buffalmacco da altra fonte che dal Billi (cfr. la nota 40 del nostro Commentario), e che in generale per tutto il suo manoscritto si gode di notar simili burle, motti, aneddoti, - che ragione avrebbe egli avuto di cambiare opinione e di esprimer qui in margine la sua intenzione di levarli tutti? Ma per questo non gli fu davvero d’uopo andare a cercarli e raccoglierli da tutte le fonti attendibili! Ben si spiega, all’opposto, la ragione della nostra postilla, se la supponiamo aggiunta da altri che, a quanto pare, prendeva poco piacere in simili racconti.
Ed anche tutte le postille tratte direttamente dal Libro del Billi (non come le due di cui parlammo or ora, soltanto scritte colla medesima scrittura di quelle postille) si spiegano in modo molto migliore, molto più naturale, se le supponiamo aggiunte da altro, non dall’Anonimo stesso. Così p. e. dove questi nella vita di Giotto (fol. 44v al. 2) aveva fatto uno sproposito coll’aggiungere al testo del Billi (cioè della copia da lui tenuta innanzi) un «dove», il suo successore per toglier ogni equivoco o dubbio copia sul margine il testo esatto dall’originale (mentre che se fosse stato l’Anonimo stesso che confrontava il testo di quest’ultimo col suo proprio, gli sarebbe bastato di cancellare la sola parola «dove» per togliere lo sproposito commesso prima. (Cfr. la nota 11 del nostro commento). - Così dove il successore nella medesima vita di Giotto (fol. 45r al. 1 e 2) trovò nel testo dell’Anonimo una indicazione non abbastanza precisa (almeno a suo parere), e una tale che non era nell’originale del Libro del Billi, egli, cancellandole ambedue nel testo, per la prima aggiunse nel margine il testo autentico, e per la seconda notò: «non è nel libro d’Anto.o» Se l’Anonimo stesso fosse stato quello che correggeva il proprio manoscritto, non avrebbe egli rimediato più semplicemente inserendo al primo alinea le sole due parole «dell’altare», e cancellando il secondo alinea? (cfr. la nota 12). - Così dove l’Anonimo nella stessa notizia (fol. 46r, penultimo alinea) un dubitativo «dicesi lo richiese» (così si legge pure nello Strozziano) cambia arbitrariamente in «lo richiese», il suo successore nella sua postilla restituisce la lezione originale del Libro del Billi; e al contrario dove egli nella notizia su Pietro del Pollaiuolo (fol. 85v al. 2) un «fu disegno di Antonio» della sua fonte (così si legge pure nel Cod. Petrei) muta in «si dice esserne...», il successore lo emenda mettendo in margine: «et dellib.o dant.o dice essere stato il disegno alfermo d’ant.o suo fratello»; correzione che l’Anonimo stesso avrebbe potuto evitare, se l’avesse voluto, col copiar esattamente la sua fonte. - Nella notizia sull’Orcagna (fol. 51v al. 6) l’Anonimo attribuisce al Maestro, seguendo l’asserzione del Ghiberti, tutto il tabernacolo in Orsanmichele; il suo successore però lo corregge dal Libro del Billi, notando nel margine che secondo esso l’Assunzione di Nostra Donna, sola, sia opera sua. Ora questo, se l’avesse voluto, l’Anonimo lo avrebbe potuto notare egli stesso dalla copia di esso libro (del testo della quale egli si servi pure componendo l’alinea in discorso, come abbiamo mostrato nella nota 47 del nostro Commentario), e perciò pare molto più verosimile la supposizione, che la nota marginale provenga non da lui, ma da altri, - Nella biografia dello Starnina (fol. 53v al. 2) si trova aggiunta dal Libro del Billi una postilla riguardo ai discendenti del pittore. L’Anonimo, come soleva far in generale dinanzi a simili particolari, (cfr. la nostra nota 49), aveva omesso la relativa notizia, benchè si trovasse senza dubbio anche nella copia del Billi da lui adoperata (esiste almeno nelle due copie del Petrei e dello Strozziano). Qual motivo, ora, l’avrebbe potuto indurre a supplirla dall’originale del Billi? Per contro, si spiega benissimo che il suo successore, non avendola trovata nel testo dell’Anonimo, e ritenendola abbastanza importante, gliel’aggiungesse nella sua postilla. - Nella vita di Masaccio (fol. 68r al. 3) l’Anonimo cancellò, crediamo posteriormente (vedine la ragione nella nostra nota 92.a), la notizia presa proprio dalla copia del Libro del Billi relativa alla processione nel chiostro del Carmine; il suo successore, invece, la restituì al maestro, notando in postilla: «è detta processione di sua mano secondo ill.o danto.o». E si capisce benissimo un simile procedere da parte sua, mentre da parte dell’Anonimo stesso sarebbe stato addirittura una sciocchezza (tanto più che nello stesso tempo egli non cancellò nella vita ai Paolo Uccello la notizia relativa a fol. 80v al. 3; cfr. la nota 150). - Nella biografia di Michelozzo l’Anonimo aveva tralasciato la notizia del Billi che dice opera sua il S. Matteo posto in uno dei pilastri di Orsanmichele, perchè, seguendo l’indicazione dell’autobiografia del Ghiberti, lo aveva nella notizia su esso assegnato a quest’ultimo (cfr. la nota 108 del nostro Commentario). Che ragione, ora, avrebbe potuto indurlo a supplire a questa lacuna con una nota marginale tolta dall’originale del Billi, e che non dice altro se non quanto egli avrebbe potuto anche cavare dalla sua copia, se non avesse appunto voluto ometterne la notizia di cui si tratta? Ma si spiega benissimo la ragione d’essere della nota marginale se la supponiamo scritta da altri.
Anche le poche aggiunte al testo, intercalate o messe in fine delle relative biografie, che hanno la stessa scrittura delle postille tratte dall’originale del Billi, si spiegano in maniera molto più persuasiva, se si suppongono scritte non dall’Anonimo stesso, ma da altro. - Nella vita di Giotto (fol. 45r al 6) troviamo così intercalata colle stesse parole del Libro del Billi, (dunque tolta da questo) la sentenza: «In Roma la tribuna dipinse in s.to Pietro». Ma due alinea più avanti l’Anonimo aveva già notato lo stesso dal Commentario Ghibertiano, dando - è vero - alla tribuna il nome di cappella (cioè maggiore). Che ragione c’era ora per lui, il quale sapeva bene che il Ghiberti sotto «cappella» intendeva lo stesso che «tribuna», e che, se avesse voluto, avrebbe potuto già copiar quella prima indicazione dalla copia del Billi, di intercalarla ora posteriormente al suo testo? Per contro bene si capisce, che uno che non conosceva così intimamente il suo manoscritto come egli stesso, poteva far lo sbaglio di supplire dall’originale del Libro del Billi a quanto credette una lacuna, ma che invero non lo era. - Nella vita di Sandro Botticelli (fol. 83v al. 5 ed ultimo) si trovano intercalate posteriormente colle stesse parole del Libro del Billi, e proprio sul posto che occupano lì fra le altre opere enumerate, due notizie su due quadri, uno in S. Spirito, l’altro in S. Maria Novella, scritte ambedue colla ben nota penna e mano delle note marginali cavate dall’originale del Billi. Ambedue queste inserzioni sono superflue, dacchè i quadri, a cui esse si riferiscono, sono già registrati nel testo più sotto. Ora non è più ragionevole di supporre, che queste aggiunte siano state fatte coll’aiuto dell’originale del Dilli da chi non era così pratico del testo del nostro codice come l’autore stesso di esso, e chi perciò potò non ricordarsi pel momento, che le opere in questione vi si trovavano già rammentate, - che di imputarle all’Anonimo stesso, per il quale sarebbero stati proprio gravi sbagli (cfr. nel nostro commentario le note 162, 164, 167 e 170). - In fine della vita del Ghirlandaio (a piè di fol. 86r) troviamo aggiunti posteriormente tre capoversi dei quali i due primi colle medesime parole e colla stessa scrittura delle note marginali del Libro del Billi (tolti dunque da questo) enumerano pitture rammentate già nel testo precedente di essa notizia. Ora, non è più probabile la supposizione che questo sbaglio sia stato commesso non dall’Anonimo stesso che doveva ben conoscere il testo della sua minuta, ma da altro non tanto versato in essa? (cfr. anche la nota 177 del nostro Commentario).

Oltre le due sue fonti principali - il Commentario del Ghiberti e il Libro del Billi - il nostro autore per compilare il suo testo ebbe ricorso anche ad altre. Senonchè una sola siamo in grado di additare con assoluta certezza, ed è quella a cui egli stesso in due note marginali poste nelle biografie di Donatello e di Nanni di Banco, accenna colle parole: «Informarsene che nel primo testo dice» e «dice nel primo testo» (fol. 64v bis, al. 5 e fol. 75r al. 6). Ma anche qui, in quanto al contenuto, alla estensione, all’autore, al tempo in cui fu scritta questa fonte, dobbiamo contentarci di emettere delle sole ipotesi. Certo è soltanto, che sotto il nome «primo testo» non si può intendere nè il Ghiberti nè il Billi. Pel primo ciò risulta semplicemente dall’essere rammentati nelle due postille artefici di cui egli nemmeno trattò nel suo Commentario; pel secondo, dall’accennarsi in dette postille ad opere che non si trovano affatto ricordate, o in altra maniera, dal Billi.[10]

Concludendo dal fatto che il nostro compilatore abbia copiato nel suo scritto il testo intiero così del Ghiberti come del Billi, si potrà supporre che abbia pure dal «primo testo» raccolto tutto quanto non ne aveva già cavato dai due autori testè nominati, e che, quindi, almeno una parte delle informazioni, che nella sua compilazione non derivano nè dall’uno nè dall’altro, si debba attribuir ad esso. Dalle due note marginali in cui si rammenta quest’ultimo, e che si riferiscono ad opere d’arte del Quattrocento, parrebbe potersi arguire, che quel «primo testo» abbia contenuto di preferenza notizie sugli artefici e sulle loro opere spettanti a quell’epoca. Diciamo: «parrebbe», poichè anche fra le notizie spettanti a’ maestri del Trecento, che il nostro Anonimo ha raccolto nelle sue notizie, se ne trovano tali che non derivano nè dal Ghiberti nè dal Billi, la cui fonte, quindi, potrebbe essere così il «primo testo» come anche qualche altro originale di cui egli si avrebbe potuto servire. (Per tali dati sono da vedere le note 3, 6, 8, 14, 15, 16, 21, 23, 28, 40, 50 e 52 del nostro Commentario). Per la cagione sopr’accennata noi incliniamo a riconoscer la fonte del «primo testo» specialmente anche nelle informazioni, più particolareggiate di quelle del Dilli, che troviamo accanto alle ultime nella biografia del Drunelleschi, e sulle quali scriviamo più lungamente nelle note 67, 68 e 76 più sotto. Se così è, il tempo quando fu composto lo scritto in questione si dovrebbe fissar al secondo o terzo decennio del Cinquecento (cfr. nota 68). Vorremmo pure riconoscer il «primo testo» nelle notizie non provenienti dal Billi nelle vite di Luca della Robbia (nota 91), Ant. Pollaiuolo (nota 92), Bicci di Lorenzo e suo figlio Neri (nota 115 e 118), Fra Filippo Lippi (n. 135, 137, 139 e 140), Andrea Castagno (n. 144, 145), Paolo Uccello (n. 150, 151) e Domen. Ghirlandaio (n. 175).
Si potrebbe anche pensare alla identificazione del «primo testo» col Ricordi del Ghirlandaio, dei quali, come apparisce da un passo nel Vasari (i, 452) questi pure si servì. Un solo argomento, che i detti Ricordi potessero esser conosciuti anche dall’Anonimo, abbiamo trovato, ed esposto nella nota 23 del nostro Commentario. Ma prevalgono gli argomenti in contrario; e sono gli stessi (eccetto quello che si trae dal dato spettante alla parentela fra Giotto ed il Giottino) i quali abbiamo allegato per lungo nella Memoria premessa alla nostra pubblicazione del Libro del Billi (l. e. pag. 313 segg.; ved. anche la nota 174 al testo dell’Anonimo). Ad altra origine risalgono alcune notizie della vita di Donatello, le quali, abbiamo dimostrato nelle nostre note 80 e 81, non derivano dal Billi, nè possono nemmeno esser tolte dal «primo testo». E resta indeciso se non siano pure attinte alla medesima fonte piuttosto che al «primo testo» le notizie spettanti a’ maestri del Trecento (che non si trovano nel Billi nè nel Ghiberti), e quelle su alcuni artefici del Quattrocento testè enumerati, che più sopra ipoteticamente abbiamo opinato poter provenire dal detto «primo testo». Non abbiamo almeno potuto scoprir nessun segno caratteristico, nessun dato, nessun punto d’appoggio che decidesse in modo certo la loro provenienza.
Ad un’altra fonte, infine, anch’essa probabilmente diversa da quelle che abbiamo finora trovate, accennano le notizie riunite nei fogli 70 recto e verso e 71 recto che spettano a parecchi artefici senesi. Quanto il nostro compilatore su di essi potè raccogliere dal Ghiberti (il Billi non ne ha affatto trattato), egli compendiò nei fogli 68v e 69 recto e verso. Ma volendo saperne più lungamente su questi e sopra altri ricorse a fonte diversa. A quanto abbiamo detto nella nota 97 del nostro Commentario aggiungiamo qui, che essa doveva essere degli ultimi anni del Quattro o dei primi del Cinquecento, poichè rammenta le opere del Vecchietta; e che doveva esser composta non da uno scrittore senese, poichè più dotto assai avrebbe dovuto essere su gli artefici di quella città, ma piuttosto da un fiorentino, dacchè del Barna, del Lorenzetti e del Bartoli non enumera le opere esistenti a Siena, bensì quelle che si conservano a Firenze ed altrove. Si potrebbe dunque credere che questa fonte fosse identica al «primo testo», o a quell’altro originale testè accennato, ambedue di origine fiorentina, imperocchè (a quanto pare) di preferenza contenevano notizie su artisti fiorentini. Del resto nulla di positivo si può affermare su questo punto.
Delle fonti letterarie secondarie, quelle cioè che non a proposito, ma solo incidentalmente si occupano di cose d’arte, il nostro Anonimo conobbe le principali, e si servì pure di alcune di esse. Conobbe la Cronaca di Giov. Villani, e ne abbiamo una prova in un estratto di essa copiato a fol. 115r. Conobbe il Decamerone del Boccaccio, e ciò si desume non dagli aneddoti estrattine nella vita del Buffalmacco, perchè questi pei molti spropositi contenutivi si rivelano di esser copiati non dal Boccaccio stesso ma da fonte secondaria; ma si accerta per quel brano del testo messo a piè del fol. 43, la cui origine viene addirittura indicata dalla intestazione: «Del Bocc’(accio),» e che infatti è copiato parola per parola dal Decamerone. Non pare, per contro, aver conosciuto il nostro scrittore le novelle del Sacchetti, almeno non approfittò nel suo testo dei tratti piacevoli che vi si raccontano su parecchi artefici. E non troviamo in esso nemmeno qualche notizia che ci condurrebbe a credere, ch’egli si sia servito di alcune delle notizie rispettive del «Liber de civitatis Florentiae famosis civibus» di Filippo Villani, Gli erano, invece, ben note le notizie sui «Fiorentini excellenti in pictura et sculptura» nel Proemio al Commento della Divina Commedia, composto da Cristoforo Landino e stampato nel 1481, che anche il Billi aveva messo a profitto per le sue biografie. E questo si deve arguire non tanto dall’aver anch’egli raccolto nella sua compilazione i rispettivi brani tolti da quell’originale dal Billi, quanto dall’averli aumentati nella vita di Cimabue con una sentenza presa direttamente dal Proemio (cfr. la nota 2); viene, del resto, provato in modo da non ammettere nessun dubbio dall’aver egli copiato parola per parola tutto il testo relativo del Landini nei fogli 110 e 112 r del nostro manoscritto.
Delle informazioni orali che il nostro autore avrà potuto ricever da artefici, scrittori, eruditi contemporanei, suoi amici, abbiamo già parlato più sopra, e inoltre rinviamo il lettore a quanto abbiamo chiarito sulla parte che in ispecie il Vasari, il Pontormo e forse il Landino avevano in tali informazioni, alle note 72, 161, 172, 187, 191 e 229 del Commentario nostro.
Se finalmente vogliamo accennar gli autori di cui il nostro Anonimo non si giovò nel compilar il suo testo, bisogna dir anzitutto che non gli furono noti gli scritti di Antonio Manetti. Per quanto spetta alla Vita del Brunelleschi di questo autore alle ragioni allegate nelle note 68 e 69 del nostro Commentario in appoggio della nostra tesi possiamo aggiungere che alcune delle opere attribuite al maestro dal Manetti non si trovano nemmeno ricordate dal nostro scrittore, come sarebbero gli edifizi costruiti nella sua gioventù prima ch’egli partisse per Roma, i busti sull’altare nel duomo di Pistoia, l’acquaio per S. Felicita, la cappella in S. Jacopo oltr’Arno, il palazzo della Parte guelfa, le fortificazioni di Pisa (egli invece ha notizia di altre opere che il Manetti non rammentò, p. e. della cappella de’ Pazzi, dei palazzi dei Medici e dei Pitti, della casa dei Busini, della Sapienza, delle fortificazioni per Milano e pel porto di Pesaro). Riguardo, poi, a quella quasi continuazione del «Liber de famosis civibus» di Filippo Villani, che si conosce sotto il titolo di «Huominj singhularj»[11], e di cui probabilmente fu autore lo stesso Manetti, adduciamo nelle note 91, 127.a e 140 del nostro Commentario più avanti parecchi argomenti i quali provano che nemmeno questo scritto fu conosciuto, o che almeno di certo non fu messo a profitto dall’Anonimo.
Ed abbiamo dimostrato pure nelle note 28, 83, 91, 92, 115, 139, 141, 146 e 216 del medesimo Commentario, che lo stesso ebbe luogo anche riguardo al «Memoriale» di Francesco Albertini, stampato a Firenze nel 1510. - Non siamo neppure riusciti a rilevar nel testo del nostro autore nessuna traccia dell’essersi esso servito dei dati spettanti sia alla vita sia alle opere degli artefici, contenuti nei diversi scritti o trattati dei più rinomati scrittori di tal genere, come sarebbero Leonbattista Alberti, Antonio Averlino il Filarete, Pomponio Gaurico, Paolo Giovio, Giov. Batt. Gelli ed altri. - In quanto, finalmente, alle Vite del Vasari abbiamo stabilito in modo da non lasciar il minimo dubbio, in tante e tante delle note del nostro Commentario che è impossibile di enumerarle qui tutte, essere stati ambedue gli scrittori affatto indipendenti l’uno dall’altro nella compilazione delle relative loro opere. Invece non cade dubbio che entrambi si conoscevano di persona, ed è probabile che il nostro Anonimo (come abbiamo esposto più sopra) abbia avuto qualche informazione orale dal Vasari.
Ed ora, avendo chiarito per quanto ci fu possibile le questioni generali che si connettono col nostro codice, ne pubblichiamo nello pagine seguenti il testo, corredandolo colle opportuno annotazioni.

Stuttgart.                                                     Cornelio de Fabriczy.



Notizie sugli artefici moderni contenute
nel Cod. magliabechiano xvii, 17 (Codice dell’Anonimo Gaddiano).

[fol. 88 r] Lionardo da Vincj[12] cittadino fiorentino, quantunche fussj legittimo (sic, invece di: illegittimo) figiuolo di ser Piero da Vincj, era per madre nato di buon sangue. Fu tanto raro et universale, che dalla natura per suo miracolo essere produtto dire si puote, la quale non solo delle bellezze dell corpo che molto bene gli concedette volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro, Assaj valse in mathematica, et in prospettiva non meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lungha tutti li altrj. Hebbe bellissime inventioni, ma non molto colorì le cose, perchè maj a se medesimo satisfaceva, et però tanto rare si truovano le sue opere. Fu eloquente nel parlare, et raro sonatore di lira, et fu maestro dj quella d’Atalante Migliorittj. Attese et dilettosj de semplici, et fu valentissimo in tirarj, et in edifizij d’acqua, et d’altrj ghiribizj, nè maj con l’animo suo si quietava, ma sempre cose nuove con l’ingegno fabricava. Stette da giovane col Magnifico Lorenzo de Medicj, et dandolj provisione per se il faceva lavorare nel giardino sulla piaza di san Marcho dj Firenze, et da luj (le ultime due parole cancellate) haveva 30 annj, che dal detto Magnifico Lorenzo fu mandato al duca di Milano a presentarij insieme con Atalante Migliorottj una lira, che unico era in sonare tale extrumento.[13] Tornò di poi in Firenze dove stette più tempo, et di poi o per indignatione che si fussj, o per altra causa, in mentre che lavorava nella sala del consiglio de Signorj, si partì, et tornossene in Milano dove al servitio del duca stette più annj. Et di poi stette col duca Valentino, et anchora poi in Francia in più luoghj, et tornossene in Milano.[14] Et in mentre che lavorava il cavallo per gittarlo di bronzo, per revolutione dello stato tornò a Firenze, et per 6 mesj si tornò in casa Giovan Francesco Rustichi scultore nella via de Martellj. Et tornossene a Milano, et di poi in Francia al servitio di re Francesco,[15] dove portò assaj de sua disegnj dequalj anchora ne lasciò in Firenze nell’spedale di santa Maria Nuova con altre masseritie, et la maggior parte del cartone della sala del consiglio, del quale il disegno del gruppo de cavallj che hoggj in opera si vede, rimase [fol. 88 v] in palazo. Et morse presso a Ambosia, città di Francia, d’età d’annj 72 a uno suo luogho chiamato Cloux, dove haveva fatto le sue habitationj. Et lasciò per testamento[16] a Ms. Franc.o de Melzio, gentile homo milanese tuttj i danarj con tutti pannj, librj, scritture, disegni, et instrumentj, et ritrattj circha la pittura, et arte, et industria sua, che quivj si trovava, et fecelo executore del suo testamento; et lasciò a Battista de Villanj, suo servitore la metà di un suo giardino che haveva fuorj di Milano, et l’altra metà a Salaj, suo dicepolo. Et lasciò 400 v (ducati) a sua fratellj. che haveva in deposito in Firenze nello spedale di santa Maria Nuova, dove doppo la sua morte da loro non fu trovato più 300 v (ducati).
(Lo spazio rimanente del fol. 88 v, e tutto il fol. 89 sono lasciati in bianco).

[fol. 90.r] Lionardo di s (ser) Piero da Vincj ciptadino fiorentino, fu tanto raro et universale, che dalla natura per miracolo essere prodotto dire si puote (dirimpetto sul margine: non solo delle bellezze del corpo, le qualj molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma d’infinite -virtù volse farlo posseditore). Valse assaj in mathematicha, et in prospettiva non meno, attese et dilettosj de semplicj, et operò di scultura, et fu raro sonatore di lira (tutto questo capoverso è cancellato).[17]

Lionardo di s (ser) Piero da Vincj ciptadino fiorentino, fu tanto raro et universale, che dalla natura per miracolo essere produtto dire si puote, la quale non solo delle bellezze del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma d’infinite virtù volse anchora farlo maestro. Valse assaj in matematicha, et in prospettiva non meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lungha tuttj gli altrj; hebbe bellissime inventionj, ma non colorì molte cose, perche si dice maj havere a se medesimo sattisfatto, et, però sono tanto rare l’opere sue. Fu nel parlare eloquentissimo, et raro sonatore di lira della quale insegnò Atalante Migliorottj (le ultime cinque parole intercalate); attese et dilettossi de semplicj, et fu valentissimo in tirarj, et in edifizj d’acqua, et d’altrj ghiribizj, nè mai con l’animo si quietava, ma sempre con l’ingegno fabricava cose nuove.
 [fol. 91 v] (Il verso del fol. è rimasto in bianco; soltanto a piè della pagina si trovano le seguenti righe:)[18]
Hebbe piu discepoli, tra qualj fu Salj (sic) milanese, Zeroastro da Peretola, il Riccio fiorentino dalla Porta alla Croce, Ferrando spagnuolo, mentre lavorava la sala in palazo de Signorj.
[fol. 91 r] Ritrasse in Firenze dal naturale la Ginevra d’Amerigho Bencj, la quale tanto bene finì, che non il ritratto ma la propria Ginevra pareva.[19]
Fece una tavola di una Nostra Donna, cosa excellentissima.
Dipinse anchora un san Giovannj.
Et anchora una Leda (le ultime due parole cancellate; sopra sta scritto, aggiunto posteriormente: dipinse Adamo et Eva d’acquerello), hoggi in casa Mess. Ottaviano de Medicj.[20]
Ritrasse dal naturale Piero Franc.o del Giocondo (intercalato).
Dipinse a.... una testa di Medusa (l’ultima parola cancellata, sopra sta scritto: megera) con mirabilj et rarj agruppamenti di serpi, hoggi in guardaroba dello Ill.mo et Ex.mo signor duca Cosimo de Medicj.[21]
Fece per dipingnere nella sala grande del consiglio del palazo di Firenze (le ultime undici parole intercalate) il cartone della guerra de fiorentinj, quando ruppono a Anghiarj Niccholo Piccino (sic) capitano del duca Filippo di Milano, il quale comminciò a mettere in opera in detto luogho come anchora hoggi si vede, et con vernice....[22]
Cominciò a dipignere una tavola nel detto palazo, la quale di poi in sul suo disegno fu finita per Filippo di fra Filippo.[23]
[fol. 91 v) Dipinse una tavola d’altare al signor Lodovico di Milano, che per intendentj che l’han vista s’è detto essere delle più belle et rare cose che in pittura si vegghino, la quale dal detto signor fu mandata nella Magna (sic) allo imperatore.[24]
Dipinse anchora in Milano uno cenaculo, cosa excellentissima.
Et in Milano similmente fece uno cavallo di smjsurata grandezza suvj il duca Franc.o Sforza, cosa bellissima, per gittarlo di bronzo, ma universalmente fu giudicato essere impossibile, et maximo per che si diceva volerlo gittare di uno pezzo, la quale opera non hebbe perfectione.
Fece infinitj disegnj, cose maravigliose, et infra li altrj una Nostra Donna, et una santa Anna ch’andò in Francia, et piu notomie le quali ritraeva in nello spedale di (le ultime tre parole intercalate posteriormente sul margine) santa Maria Nuova di Firenze.
(Il seguente supplemento alla notizia su Lionardo si trova nel fol. 121 v :)
[fol. 121 v]                          Dal Gav (ina?) [25]
Lionardo da Vinci fu nel tempo di Michele Angelo, et di Plinio cavò quello stuccho con il quale coloriva, ma non l’intese bene. Et la prima volta lo provò in uno quadro nella sala del Papa, che in tal luogho lavorava, e davantj a esso, che l’haveva appoggiato al muro, accese un gran fuoco di carbonj, dove per il gran calore di dettj carbonj rasciughò et secchò detta materia; et di poj la volse mettere in opera nella sala, dove giù basso il fuoco agiunse et seccholla, ma lassù alto per la distantia grande non vi aggiunse il calore, et colò.[26]
Era di bella persona, proportionata, gratiata, et bello aspetto. Portava un pitoccho rosato, corto sino al ginocchio, che allora s’usavano i vestiri lunghi; aveva sino al mezzo in petto una bella capellaia, et inanellata, et ben composta.
Et passando ditto Lionardo insieme col G. da Gavine da santa Trinita dalla pancaccia dellj Spinj, dove era una ragunata d’huominj da bene, et dove si disputava un passo di Dante, chiamaro(n) detto Lionardo, dicendogli che dichiarassj loro quel passo. Et a caso a punto passò di qui Michele Agnolo, et chiamato da uno di loro rispose Lionardo: Michele Agnolo ve lo dichiarerà egli. Di che parende (sic) a Michele Agnolo l’havessj detto per sbeffarlo, con ira gli rispose: dichiaralo pur tu che facestj un disegnio di uno cavallo per gittarlo di bronzo, et non lo potestj gittare, et per vergogna lo lasciastj stare. Et detto questo, voltò loro le rene et andò via; dove rimase Lionardo che per le dette parole diventò rosso.




[1] E vero che già al Baldinucci era noto il nostro codice, il che si desume dal testo della notizia su Nanni di Banco tolta da esso e pubblicata da lui nella ben nota sua opera (t. iii, p. 108, ediz. fiorent. 1707-71). Se non che egli vi ravvisò - falsamente, come vedremo nel corso della nostra dissertazione - le prime notizie olografe del Vasari per le sue Vite.
[2] Su questo libro da noi ritrovato in due copie cfr. la nostra Memoria: Il Libro di Antonio Billi e le sue copie nella Biblioteca Nazionale di Firenze stampata nell’Archivio storico italiano, Ser. v, t. vii, anno 1891, pag. 299 a 368. D’allora in poi questo Libro è stato pure pubblicato dal prof. Frey sotto il titolo: Il Libro di Antonio Billi esistente in due copie nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Berlino Herz, 1892. L’introduzione e le note sono scritte in lingua tedesca. L’autore in più luoghi della prima (pag. iv due volte, pag. vi n. 1) sostiene, ch’io abbia fatto la mia scoperta con aiuto del comm. Milanesi. Non so su quale fondamento egli dica questo. Io, all’opposto, tengo a constatare, che sono giunto ai risultati del mio lavoro in discorso affatto indipendentemente, senza l’aiuto e senza la collaborazione di chicchessia. Se ho potuto giovarmi degli aiuti del tanto venerato erudito, era per alcune delle annotazioni di cui ho corredato il testo dei due codici Petrei e Strozziano, come l’avevo dichiarato, porgendogli le mie più sentite grazie, nella nota 1 a pag. 315 della detta mia pubblicazione.
[3] Cfr. Filippo Brunelleschi. Sein Leben und seine Werke, von Cornel von Fabriczy. Stuttgart Cotta, 1892, e specialmente quanto è esposto nella seconda Appendice. Ivi sono anche riferite le opinioni degli eruditi sopra nominati.
[4] Il Codice Magliabechiano Cl. xvii, 17, contenente notizie sopra l’arte degli antichi e quella de’ Fiorentini da Cimabue a Michelangelo, scritte da Anonimo fiorentino. Herausgegeben etc. von Carl Frey. Berlin Herz. 1893. - Eccetto il testo, tutto il rimanente è scritto in tedesco.
[5] Ved. Bandini, Catalogus Codicum Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae. Florentiae 1776, t. iv, p. xxxiv; e Novelle letterarie, Firenze 1756.
[6] Ved. il sopracitato nostro studio sul Libro di Antonio Billi, l. e. pag. 311.
[7] Non avendo noi potuto confrontare il codice Gaddiano con quello contenente le vite degli artefici fiorentini da Cimabue al Verrocchio scritte dal Gelli, che ora è in possesso del chiar. Girolamo Mancini bibliotecario della Comunale di Cortona, e perciò non avendo neppure potuto trarre da simile raffronto argomenti di sostanza contro l’identificazione delle persone degli autori de’ due codici, era mestieri il limitarci all’argomento formale addotto di sopra.
[8] «Michelangelo.... con nuova et miraculosa opera del judizio della cappella di Roma ha voluto a tutto mondo mostrare egli essere unico». Il prof. Frey non accetta questo argomento, sostenendo che l’opera in questione sia generalmente stata conosciuta molto prima che avesse compimento, e ne adduce come testimonianza la ben nota lettera di Pietro Aretino ed il sonetto del Martelli (p. 376 del suo libro sopracitato). E non si lascia pure smuovere dalla sua opinione preconcetta dalla sentenza che si trova notata a fol. 128v (cfr. la nota 208 più avanti), di questo tenore: «... del juditio della cappella di Roma, come si vede...». A noi le espressioni di cui si serve l’Anonimo paiono di provar in modo stringente che, quando egli le scrisse, l’opera in discorso era proprio compiuta. Basta, all’opposto, allo stesso critico per provare che il nostro manoscritto era terminato pochi anni dopo il 1534, la sentenza che si legge sul medesimo fol. 128v: «et hoggi non più fiorentino ma romano chiamato». Come se questo detto non si avrebbe potuto applicar a Michelangelo anche dopo il 1542, e proprio con maggior ragione! E così gli basta pure il non accennarsi agli affreschi della cappella Paolina, cominciati a dipingere nel 1542, per fissare il compimento del nostro codice prima di quell’anno!
[9] Parrebbe che il Vasari si sia servito dell’esemplare della Nazionale posseduto già da Cosimo Bartoli, poichè in un passo della sua Vita di Ghiberti accenna direttamente ad esso (ii, 223), Ma da quanto diremo subito segue che non era così.
[10] Questa opinione l’avevamo già emessa nella nota 63 del nostro commentario al Cod. Petrei (ved. Il Libro di A. Billi, ec. pag. 341). Il prof. Frey nella sua edizione del Cod. Gaddiano a pag. 337 ci mette in bocca appunto il contrario, tacciando il nostro lavoro di superficialità. Ma noi facciamo appello a chiunque sa leggere italiano, se dalle parole della nota citata si possa trarre una simile supposizione? Ricade, quindi, sul signor professore quel rimprovero ch’egli in questo come in altri luoghi del suo libro ci scaglia tanto liberalmente quanto - qui come pure altrove - ingiustamente.
[11] Furono stampati dal comm. G. Milanesi nella sua edizione delle Operette istoriche di Antonio Manetti. Firenze, Le Monnier 1887.
[12] Il seguente brano sulla notizia di Leonardo contenuto sul fol. 88.r ed una parte sul fol. 88.v non è la prima bozza della biografia del maestro, ma tale è bensì quello scritto su i fogli 90.r, 91.r e 91.v. Per esso l’Anonimo mise a profitto anzi tutto i dati fornitigli dal Libro del Billi, mentre pel primo brano a fol. 88 recto e verso, eccetto il proemio preso da quella prima bozza, egli reca notizie affatto diverse. Che questo brano sia posteriore a quell’altro si deve inferire dai seguenti argomenti. La scrittura della notizia dei fogli 90 e 91 rassomiglia assolutamente nel carattere, nel tratto di penna, e nel colore dell’inchiostro, a quella degli antecedenti fogli del manoscritto fino al fol. 88; quella, invece, sul fol. 88 è molto più accurata che il resto del manoscritto, è priva o quasi di correzioni ed aggiunte intercalate, ed è scritta sulla carta senza lasciar vuoto un margine largo, come in tutti gli altri fogli del manoscritto, sicchè a chi l’esamini fa l’impressione che sia la copia di una prima minuta. Alcune modificazioni, poi, del testo del primo capoverso a fol. 90.r, il quale dal compilatore fu quasi letteralmente riassunto nella redazione posteriore del testo a fol. 88.r, provano pure che quest’ultima fu infatti la versione definitiva. Così le “infinite virtu” a fol. 90.r sono mutate in “molte rare virtu” a fol. 88.r; “non colorì molte cose” in “non molto colorì le cose”; “si dice maj avere se medesimo satisfatto”, in “maj a se medesimo satisfaceva”; “sono tante rare” in “tanto rare si trovano”; “della quale insegnò Atal. Migliorotti” in “et fu maestro di quella d’A. M.” Fimalmente anche la carta dei due fogli 88 e 89 è più forte di quella del resto del manoscritto, sicchè di tutto quanto abbiamo detto appare chiaro essere questi fogli col loro contenuto stati scritti dopo che il resto del manoscritto ai fogli 90 e 91 fu terminato, e poi inseriti all’attuale loro posto. - Donde l’Anonimo abbia preso le notizie contenute (all’infuori di quelle del proemio, le quali, come testè si è detto, derivano per lo più dal Billi) in questo primo brano della sua biografia di Leonardo, non sappiamo dire. Ma buonissime dovevano esser le fonti a cui attinse, imperocchè quasi tutti i dati da lui riportati sono avvalorati dalle testimonianze de’ documenti. Anche qui il Vasari non era la sua fonte; ma neppure lui attinse al nostro Anonimo, come sarà manifesto da quanto osserveremo nelle seguenti note. Dalla menzione che in un luogo nel testo si fa di Gianfrancesco Rustici allievo ed amico del maestro, il prof. Frey vorrebbe arguire ch’egli avesse potuto somministrar al nostro scrittore le notizie in discorso; ipotesi che potrebbe ben corrispondere al vero, ma anche no. Dal Billi non son tolte se non le seguenti frasi: “Cittadino fiorentino”; “in disegno passo di gran lunga…. si truovano le sue opere”; “fu valentissimo in tirari et in edifizi d’acqua”; “né mai con l’animo…. con l’ingegno fabricava”.
[13] Che Leonardo stesse con Lorenzo de’ Medici, il Vasari non lo dice; racconta poi in altro modo la prima andata di lui a Milano (iv, 28), cioè senza l’intervento del Medici e di Atlante Migliorotti (su cui vedi Vasari, iv, 53).
[14] Anche della dimora di Leonardo presso il duca Valentino non dice niente il Vasari, benchè sia accertata da’ documenti (Vasari, iv, 72). Invece non rammenta neppure il viaggio in Francia che difatti non ebbe luogo, e non sa pure niente della dimora in casa Rustici.
[15] Di qui fino alla fine del primo brano della biografia di Leonardo l’Anonimo racconta cose sconosciute al Vasari (eccetto che anch’egli dice esser rimasti i disegni di anatomia del maestro in possesso del Melzi), ma bensì tutte confermate da’ documenti. Nel dar l’età di 72 anni a Leonardo egli erra; erra pure il Vasari che lo dice di 75 anni, poiché morì all’età di 67.
[16] I seguenti dati corrispondono pienamente a quanto Leonardo stabilì nel suo testamento; furono dall’Anonimo o presi proprio da questo documento, o attinti alla tradizione che, di certo, se ne aveva in Firenze.
[17] Era questa, come abbiamo dimostrato nella nota 192 [qui: 12], la prima bozza della notizia su Leonardo, interrotta e cancellata dall’Anonimo dopo che ne aveva composte poche righe. La rifece e continuò nel seguente paragrafo, della cui composizione abbiamo già parlato nella nota testè citata.
[18] Al fol. 90, verso, lo scrittore voleva senza dubbio continuare a riunire i ragguagli biografici generali, e perciò lo lasciò in bianco. Ma siccome poi a fol. 88 recto e verso raccolse questi dati, non gli fu più mestieri colmare questo vuoto. Soltanto a piè della pagina, probabilmente al tempo stesso che scriveva il principio della notizia a fol. 90r, egli notò i nomi dei discepoli del maestro, e poi a fol. 91r si mise a riprodurre le notizie del Libro del Billi. Il Vasari dei discepoli enumerati dall’Anonimo non ricorda se non il Salaino solo (iv, 37); sugli altri c’è però da vedere la nota 3 a pag. 52 del t. iv delle sue Vite.
[19] Questo ed i due seguenti paragrafi sono tolti letteralmente dal Libro del Billi. Circa le pitture ricordatevi cfr. le note 166 e 167 al Cod. Petrei.
[20] Di quest’opera dà più particolari il Vasari, iv, 23; di una Leda dipinta da Leonardo parlava il Lomazzo nel Trattato della Pittura, ed a Weimar si conserva un disegno dello stesso soggetto attribuito al maestro. Non c’è dubbio che nel seguente alinea si tratti del famoso ritratto di Mona Lisa, oggi al Louvre di Parigi. Erra dunque il nostro compilatore, cambiandolo nel ritratto del marito e dando a questo il none di Pierfrancesco invece di Francesco solo (Vasari, iv, 39).
[21] Il Vasari parla (iv, 23 e 25) di due opere di simile soggetto: un dragone sopra una rotella e una medusa in un quadro a olio. Il primo pervenne alle mani del Duca di Milano, il secondo in quelle del Duca Cosimo, e vorrebbe, ma senza fondamento, riconoscersi nel ben noto quadro degli Uffizi.
[22] Proviene quasi letteralmente (eccetto la sentenza intercalata nella prima riga) dal Billi; cfr. la nota 171 al Cod. Petrei.
[23] Questa notizia dell’Anonimo è provata dai documenti (vedi Vasari, iv, 27, n. 3 †; G. Milanesi, Documenti inediti su Leonardo da Vinci nell’Archivio stor. ital., ser. iii, t. xvi, p. 219 seg.; e Memorie della Cappella di S. Bernardo, nel Prodromo della Toscana illustrata dal Gori, Livorno 1752). Il Vasari nella Vita di Leonardo non ricorda il quadro in discorso, ma ne parla bensì in quella di Filippino Lippi (iii, 474), senza però far motto della collaborazione di Leonardo. E ciò solo basta per provare ch’egli non tenne innanzi il manoscritto del nostro Anonimo.
[24] Il resto delle notizie del nostro manoscritto, a cominciare dalla presente, è tolto dal Billi serbando il suo ordine consecutivo e copiandolo fedelmente, tranne qualche modificazione di nessuna importanza, p. e. nel primo capoverso: “per intendenti che l’han vista s’è detto essere” invece di: “ha nome” del Billi; nel terzo l’aggiunta in fine: “la quale opera non hebbe perfectione”; nell’ultimo quella: “et più notomie le quali ritraeva nello spedale di S. Maria Nuova di Firenze” (anche il Vasari parla delle: “notomie” senza però far menzione dell’Ospedale di S. Maria Nuova). Circa le opere enumerate vedi le note 168-170 del Comment. Al Cod. Petrei.
[25] Il seguente brano, contenente qualche notizia e aneddoto su Leonardo, pare scritto posteriormente alle notizie biografiche dei fogli 88, 90 e 91, poiché sta separato su uno degli ultimi fogli del manoscritto. L’intestazione indicante l’autore delle notizie contenutevi è spiegata dal prof. Frey: “Dal Cav(aliere)”, volendo egli intendere sotto questa denominazione Baccio Bandinelli, cavaliere di S. Pietro e di S. Iacopo. E, per provare questa sua interpretazione, egli dice che da quanto si narra scaturisce un sentimento ostile a Michelangelo, il che si capisce bene supponendone come autore il Bandinelli; e che poi a fol. 107v nell’elenco di alcune opere d’arte esistenti nelle chiese di Perugia, Assisi e Roma, si trova un richiamo alla persona stessa del Bandinelli nelle parole: “dimandi Baco Bandinelli,” dal quale bisogna inferire ch’egli era conosciuto dall’Anonimo. Se non che qui c’è uno sbaglio di lettura, imperocchè nel luogo indicato si deve leggere: “In la Minerva di man(o) di Baco Bandinelli, in la chapela magore”! (È vero, d’altronde, che nell’altro elenco delle principali opere d’arte a Roma al fol. 101r forse compilato, e certo scritto dal nostro Anonimo, il Bandinelli, a proposito dei monumenti di Leone x e Clemente vii nella Minerva, si trova distinto collo stesso nome di: “Cavaliere”.) Del resto la forma dell’iniziale del nome in testa al presente alinea esclude ogni possibilità di vedervi un “C” invece di un “G”, se pure si vuol tenere il minimo conto del modo tanto differente l’uno dall’altro, in cui il nostro autore scrive queste due lettere. A noi quindi, per l’ipotesi del Frey, non pare da rifiutarsi la lezione del Milanesi che spiegò l’intestazione in discorso come: “Dal Gavina,” appoggiando la sua spiegazione coll’esser rammentato il medesimo Gavina nel contesto stesso come chi assisteva alle cose narrate, e perciò poteva darne una relazione esatta più di qualsiasi altra persona. Circa questo G. da Gavina noi non siamo in grado di dar alcuni particolari, se non che il suo nome si trova registrato dal nostro Anonimo fra quelli d’altri pittori fiorentini a fol. 117r (vedi più addietro il testo al foglio citato).
[26] Anche il Vasari (iv, 41) racconta che Leonardo disegnò il suo cartone nella cosiddetta Sala del Papa nel convento di S. Maria Novella. Del modo di fare, però, che il maestro, secondo il racconto dell’Anonimo, aveva adoperato per eseguirlo in pittura egli non sa nulla, anzi, ne accenna un altro (l. c. p. 43). Non ha neppure conoscenza di quanto segue nel testo, e ciò prova che non abbia conosciuto il nostro manoscritto. Del resto, dell’aneddoto narrato, non si trova menzione in nessun altro autore.

1 commento:

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