sabato 30 agosto 2014

1787 - BIANCONI Carlo, Sul Cenacolo vinciano



Passiamo in Refettorio ad osservare il famoso Cenacolo di Lionardo da Vinci; pittura che coll’aver formato l’onore di Milano, mentre era nel fiore di sua conservatezza, supera ogni altra in fama, e facilmente si poteva asserire superiore a tutte in merito, come certamente lo è in ragione di tempo. Occupa essa tutto il lato men degno di quel gran vaso fatto fare da Lodovico il Moro, restandole in faccia un dipinto a fresco, benissimo conservato, rappresentante la Crocifissione del Signore con moltissimo popolo, e veduta di Gerusalemme, fatto, come dice benissimo il Vasari, di maniera vecchia, da un certo Gio: Donato Montorfano, da quello Scrittore non indicato, benchè vi sia sotto il nome, e l’anno 1495.
Ci crediamo in debito di dare su di questa insignissima pittura tutte le notizie, che ci sembrano capaci di piacere agli amanti della Storia della Pittura, mostrando insieme la falsità di alcuni supposti fatti tenuti per certi. Speriamo di non essere ripresi se nel far questo si slontaneremo per un momento dalla propostaci brevità. Lionardo, ed il suo Cenacolo meritano qualche distinzione.
Rappresenta questo dipinto il Redentore nell’ultima cena, quando disse ai suoi Apostoli: Amen dico vobis, quia unus vestrum me traditurus est, momento che dovette essere certamente di commozione grandissima, e varia negli ascoltanti, e però scelto dal più gran talento, che facilmente abbia trattato il disegno, per mostrare quanta fosse la sua abilità nella pittura.
Ritrovando le suddette parole dell’Evangelo scritte nel mezzo della porzione perpendicolare della tovaglia nella rara stampa di esso Cenacolo incisa al tempo di Lionardo, crediamo che vi fossero ancora nella pittura a maggiore chiarezza dell’argomento, e che sieno state levate nell’alzamento crudele di una certa porta, del qual più abbasso, per cui si perdettero ancora le gambe del Redentore, ed altre di alcuni Apostoli. Indichiamo con piacere la detta stampa, perché da essa abbiamo conosciuto i cangiamenti fatti allo sfortunato dipinto.
In mezzo ad una sala a soffitto ne’ muri laterali apparata = C naculum grande stratum, con due finestre, e porta in faccia evvi la tavola lunga rettangola e stretta sopra quattro piedi semplici quasi gottici, posta con uno dei lati maggiori contro i riguardanti, coperta da una bianca tovaglia marcante le sviluppate pieghe, ed aggruppata negli angoli, alla quale stà il Divino Maestro sedente con sei Discepoli per parte. Pronuncia, o ha finito appena di pronunciare il Redentore le dette parole, e colle allargate braccia, e mani aperte pesanti sulla tavola, e cogli occhi bassi mostra insieme il dolore di doverle dire, ed il non voler indicare il traditore. S. Giovanni gli resta alla diritta, ed alzatosi dal seno del suo Signore, su cui riposava, non regge all’annunzio di tanta ingratitudine, onde incrocicchiate le spossate mani con gli occhi languenti lascia cadere il capo sulla diritta spalla, e sviene. Giuda postogli avvedutamente vicino perché spicchi il di lui infame carattere a fronte di tanta delicatezza d’amore, si volge repentinamente verso il Maestro appoggiandosi villanamente col destro braccio quasi in mezzo della mensa, e così manifesta ancora la borsa suo distintivo, che viene con la destra pure, mostrando colla fermezza dello sguardo nel Divino Signore, e colla manca mano, che allarga, la meraviglia d’essere scoperto, e la pervicaccia nella sua intrapresa, e non compita iniquità. Pietro, che viene dopo sempre dallo stesso lato, per indicare il quale nel temerario riattamento gli è stato posto un coltello nella diritta, s’alza da sedere, e sembrandogli Giovanni astratto, gli mette la manca mano sulla spalla come per iscuoterlo, e renderlo inteso delle pronunciate parole. Siegue il quarto che restando a sedere, ma alzando ambe le mani, col tirarle verso il petto, sicchè le palme loro si vedono, e col stringer le labbra, ed inarcar le ciglia mentre fissa lo sguardo sul suo Precettore dà segno della più alta sorpresa. Quasi nello stesso modo il di lui vicino, che coperto in parte da esso resta vario alla vista, benche uniforme nell’espressione. L’ultimo, che occupa la testata diritta della tavola, essendo più lontano degli altri dal Signore, quasi non avendo inteso abbastanza i di lui detti, s’alza da sedere, ed appoggiando le mani sulla mensa, porta avanti la parte superiore del corpo, per disporsi ad intendere meglio gli ultimi accenti del Maestro.
Altri affetti non meno fini, e adattati al fatto manifestano i sei Apostoli dall’altra parte. Si volge il primo senza muoversi da sedere verso Cristo, ed assicurandolo del suo dolore con la testa piegata, occhi bassi, e braccia aperte sembra giustificarsi. Dietro a lui stà uno più caloroso, e quasi imprudente, che avvicinandosi al Signore sembra pregarlo di manifestargli il traditore per farne tostamente vendetta, mostrata col dito indice alzato minaccioso. Viene dopo un giovane sbarbato forse Giacomo il Minore, che postesi ambe le mani al petto, e piegando affettuosamente il capo verso il Maestro sembra accertarlo della sua inalterabile sequela. Gli altri tre ultimi sedendo ragionano fra loro di quanto hanno sentito con sorpresa. Accenna il Signore con ambe le braccia il primo, quasi avesse ripetuto quanto aveva inteso, e non fosse dall’ultimo creduto, il quale sembra con la fermezza dello sguardo nell’Apostolo, con cui ragiona, e con le semisporgenti mani indicare che quasi non lo crede possibile, mentre il terzo che resta nel mezzo fa vedere colla mano che si accosta al petto, ed il doloroso viso la vivezza del suo cordoglio.
Indicata l’espressione degli affetti nel grande dell’opera, ragione vorrebbe che parlassimo del più fino ancora; cioè de’ volti su de’ quali, come sulle parti più delle altre indicatrici delle interne sensazioni, sappiamo che Lionardo fatto avea studj profondi. Dovremmo pure mostrare la giustezza di disegno e le varietà adattate ai diversi caratteri delle estremità: la naturalezza ed intelligenza delle pieghe: la partecipazione nelle tinte per cui l’armonia, massime congiunta all’area prospettiva, sì bene conosciuta dal gran Lionardo, come si vede nel magistrale suo abbozzato trattato di pittura, che animato con figure del Pussino può far tanto vantaggio all’arte pittoresca. Tutto ciò sarebbe da noi indicato se questo dipinto passando per molte procelle non avesse patito moltissimo, e non fosse stato rifatto da cima a fondo crudelmente; sicchè non ritiene del suo Maestro che l’assieme, ed il totale della composizione. Cosa che dobbiamo dire come amanti del vero, ma che sensibili ai danni dell’arte, ed alle disgrazie della nostra Città, indichiamo con vero dolore.
Che se i Lettori amassero sapere la storia di queste sciagure, eccola. Volendo Lionardo mostrare in questo lavoro il suo pittoresco sapere, e temendo di non aver franchezza bastevole per dipingere a fresco, che è, e sarà sempre il modo più fermo d’ogni altro, pensò di dipingerlo ad olio. Così pure egli volle fare nella Sala del Consiglio di Firenze, che non ebbe effetto per una certa mestica che gli venne male, e così pure Lodovico Caracci, ed i suoi scuolari fecero un secolo e più dopo il Vinci a S. Michele in Bosco a Bologna, e tutte quelle pitture sono andate ormai in malora. Asseriamo con fermezza essere ad olio, perché tale l’abbiamo conosciuto osservandolo, ed esaminandolo molte volte, e perché ciò pure è asserito dal Lomazzo, che l’avea copiato, dall’Armenini, e da tutti gli antichi, che indicano il modo, con cui è fatto, benchè modernamente sia stato detto, e scritto il contrario. Essendo poi certamente dipinto, o almeno occupato dal Montorfano il luogo più degno, poiché non questo, ma quello sarebbe stato scelto da Leonardo, gli toccò un muro vicino a luoghi umidi, e però non sano. Sapiamo esservi stata una vasca sotto di lui per comodo della lavanda de’ piatti, come di fuori evvi ancora il luogo per quello delle mani. Si aggiunse la prossima finestra della cucina, su cui si pongono ancora le fumanti vivande nel passarle alla mensa, che unendosi all’umido prestava non sane attenzioni al dipinto. Tutto ciò sarebbe stato dannoso per una pittura a fresco, ma più per quella ad olio.
Non tardò molto il povero Cenacolo al manifestar le sue sciagure. L’Armenini che lo vidde poco più di cinquant’anni dopo che era stato fatto, dice che era mezzo guasto, e lo Scannelli, che espressamente venne a vederlo nel 1642. dice poter attestare che in riguardo d’incontro innaspettato me restasse il gusto in estremo instupidito, scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia nelle figure, e con modo così confuso, che a gran fatica potea distinguere la già stata historia e le teste, come mani, e piedi, ed altre parti ignude con chiari lividi, e mezze tinte, ritrovai quasi affatto annichilate, et al presente (il libro è stampato nel 1657.) stimo non siano, che del tutto estinte, e le figure per lo più dal muro divise (effetto dell’umido, che separava l’imprimitura grossa ad olio dal muro) et in parte fatte oltre modo oscure davano a conoscere le buone reliquie d’opera già resa inutile (questo è un poco troppo) non restando al riguardante hormai, che il credere alla buona fama del passato. Microcosmo pag. 41.
Proseguì la povera pittura di Lionardo nello stato dell’originaria sua sciagura per tutto il secolo passato, e per varj anni del presente, falso essendo, che i Padri l’abbiano mai fatta coprire di bianco, come alcuni vanno dicendo. Siamo accertati di questo dagli Autori, che hanno scritto di essa dal tempo dello Scannelli fino al 1725. in circa, fra quali basta citare il nostro Torri, che scrisse verso il 1670., e li Richardson padre e figlio, che debbono aver fatto il viaggio d’Italia verso l’anno 1725. suddetto, avendo stampata l’opera loro nel 1728., i quali ne danno una descrizione dettagliatissima, indicando la di lei ruina veramente grande, e che in alcuni luoghi non si vedeva, che il solo muro, aggiungendo che il male maggiore era nella porzione dalla parte destra del Salvatore, lo che è conforme alle notabili mutazioni, che ritroviamo nel presente dipinto da quella parte paragonato coll’antica sopraindicata stampa.
Doveva poi avere ai giorni dei Richardson già sofferta la crudele amputazione delle gambe del Salvatore, e de’ vicini Apostoli per alzare la porta, che dal Lavatojo conduce nel Refettorio: porta che si volle far divenire principale; quando anticamente era accessoria, riputandosi per prima quella, che mette nel Chiostro vicino alla Chiesa. Dovea dicemmo aver già sofferto questo infortunio, perché i detti Scrittori indicano restare questo dipinto sopra una porta alta, quando quella del tempo di Lionardo era assai bassa.
Ma la sfortuna più fiere cose ordì, e mandò sopra di lui nel 1726., essendo Priore del Convento il P. Boldi da Castelnovo di Scrivia, per mezzo del nostro Pittore Michel’Angelo Bellotti, che persuase a que’ buoni Religiosi, e ispezialmente al detto Priore di avere esso un segreto per ricavare fuori la rovinata pittura. Quindi lavatala, sicuramente con corrosivi, e di poi ridipinta la fece vedere questi come nuova. Così restò coperto quel poco, che a noi era rimasto di Lionardo, dal pennello, ci sia permesso il dire, dispregevole a fronte del primo, del Bellotti. E fin a quando i Padroni dei dipinti permetteranno simili scempj, e gli Artefici saranno così temerari a tentarli, ed eseguirli? Non è meglio l’avere un pezzo benchè guasto d’uno de’ primi Pittori, di quello che sotto l’aspetto di falsa rinovazione non avere che un empiastro vergognoso, e lontano dall’originale?
Questa crudeltà è sì vera, che un Padre Domenicano bibliotecario anni sono di quel Convento in una sua relazione mandata a Monsignor Bottari, il quale nella sua pingue adizione del Vasari l’ha inserita interamente. Il più bello poi si è che il buon Bibliotecario dice che il Bellotti comunicò a que’ Padri per ogni evento il segreto. Quasi che per ristorare una pittura già scrostata e mancante vi potessero essere segreti, come vi sono polveri, o pillole per le febbri, ed ostruzioni. Ma quello che ci fa maggior sorpresa si è la bonomia di Monsignore, che non ha dato segno di vita a tale stravaganza.
Ci sia permesso il dire che esausta ancora non era la faretra terribile de’ mali contro il povero Cenacolo. Passato quasi un mezzo secolo dopo il Bellottiano eccidio venne in capo ad uno di copiarlo, disse esso, con esattezza. Gli parve il dipinto non so se annerito, o incerto. Ha permissione di farvi porre le mani da un nostro Pittore, che si disse capace di molto. Un intero ponte copre il povero dipinto di Lionardo, ed a nessuno è permesso il vedere i misteri tenebrosi della mano supposta ristoratrice. Va avanti per mesi l’opera, che si sarebbe compita, se un bravo Padre, a cui Milano, e le Arti avranno sempre obbligazione, non avesse usato della podestà acquistata col Priorato, facendo sul momento disfare il ponte, e mettendo con parole decise alla porta l’Artefice. Il Cenacolo per questo mezzo ha tre teste col busto (sono le ultime dalla parte sinistra del Salvatore) quasi come le abbozzò Lionardo, essendo già andata tutta la loro superficie finita nelle varie buccate, e facilmente un poco dell’abbozzo ancora. Ma sempre si verifica che il buon Padre ha fatto che vediamo almeno un poco del dipinto veramente dalle beate mani del Vinci. L’arrabbiato pittore ci narrò la storia per accusare il Priore, e procacciarsi almeno compassione, ma nel metterci sicuramente al fatto della cosa ottenne appunto il contrario.
A quasi eguale sfortuna è stata soggetta quest’opera nelle varie incisioni, da le quali i dipinti sogliono trarre in qualche modo l’immortalità. Copiata, e ricopiata in pittura moltissime volte, e da autori insigni sembrava facile che fosse ancora pubblicata sopra fedele disegno da qualche bravo Incisore. Ma diversamente è andata la cosa. La prima incisione, da noi già citata è, a bulino senza nome dell’Intagliatore, e fatta per quanto crediamo da uno Scolare del Mantegna, non ha di pregio che la diligenza, essendo secca, disegnata miseramente, e priva di chiaro scuro. È alta circa 9. dita, e lunga 17. La seconda è quasi della stessa grandezza, senza nome dell’Incisore, e facilmente copiata dalla precedente, secondo le relazioni avute, non avendola veduta. La terza è fatta sopra un disegno di Rubens che bisogna ne formasse un solo schizzo dalla pittura, e lo finisse lontano da quella; cosicchè non vi si conosce punto la maniera del Vinci. Fu incisa sotto la direzione di Pietro Soutman, e contiene solamente la parte superiore del Quadro.
La quarta a colori fatta l’anno passato da un certo Luigi d’Agey, benchè non finita, ha veduto in pochi esemplari la pubblica luce, e per strane vicende, ad onta di sommi autorevoli presidj, resta nelle tenebre di sua quasi compassionevole mancanza.
Non parliamo dell’incisione del Conte Caylus, e dell’altra del nostro Domenico Aspar, perché fatte sopra disegni posseduti uno dal Re di Francia, e l’altro dall’Illustre Don Giuseppe Casari nostro Milanese, e Re d’Armi.
Veniamo a più liete cose a far vedere probabilmente quanto tempo abbia posto Lionardo in dipingerlo, onde conoscere se possa essere vera o no la storiella del Padre Priore che lamentatosi con il Duca della lunghezza del Pittore, e fatta da esso querela a Lionardo, si sentisse dire che non sapersi da esso ritrovare due fisonomie addattate al soggetto; quella di Cristo cioè, e l’altra di Giuda, e che per quest’ultima poteva quasi servirsi di quella del P. Priore come persona molesta ec. storiella stampata da Gio: Battista Giraldi nel suo Discorso sopra i Romani, e addottata dal Vasari amante di spargere baje nelle sue vite per divertire i lettori, e di poi presa per oro contante da tutti gli altri fuori di Mariette, che hanno scritto di Lionardo, e di questo Cenacolo.
Siccome tutto s’appoggia sopra la lunghezza eccessiva del Vinci, così potendosi mostrare che sia fatta questa pittura in un tempo discreto la storiella svanisce da se.
Essendo il luogo del Dipinto di Leonardo meno degno di quello ove il Montorfano dipinse a fresco la Crocifissione, come si è detto, bisogna credere che il Vinci abbia fatto l’opera sua dopo quella dell’altro; poiché Lionardo avrebbe certamente preso per se il sito migliore. Montorfano ha scritto nella sua pittura l’anno 1495., come abbiamo già indicato dissopra, e Fra Luca Paccioli amico di Lionardo nel suo libro della Divina proporzione composto nel 1498. parla del Cenacolo come di cosa già finita, onde sembra che Lionardo non possa avervi impiegato che tre anni scarsi.

Un tal tempo non è certamente troppo lungo per un sì gran lavoro, massime fatto ad olio; giacchè bisogna primieramente imprimere il muro, lasciarlo asciugare, abbozzare il dipinto, dargli tempo che esso pure si asciughi, e poi ridurlo al conveniente finimento. Il dipingere ad olio tutto compreso è il più lungo d’ogni altro. Scandagliato adunque il tempo per le suddette necessarie operazioni, i mesi freddi ne’ quali difficilmente si lavora, gli studj su la natura indispensabilissimi, chiunque ha cognizione pratica dell’arte converrà con noi, che tre anni scarsi non sono quel tempo da movere un Uomo savio, e dotto, come sappiamo essere stato il Padre Baldelli a ricorrere al Duca, e però dee tenere facilmente questo racconto per una di quelle galanti cose, con le quali il Vasari ha voluto avvivare l’opera sua, delle quali noi potremmo tessere un discreto catalogo, mostrandone l’insussistenza se l’oggetto di quello libro lo permettesse. Del Cenacolo abbastanza.

















Nessun commento:

Posta un commento