sabato 30 agosto 2014

1991 - BIANCHESSI, Sul Cenacolo vinciano



C’era una volta il Cenacolo

Due denunce alla magistratura - una dell’ex-consigliere comunale Maria Bonatti, l’altra della Lega Ambiente - stanno per la prima volta rompendo il muro di silenzio che da anni circonda un dramma della cultura milanese: il restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Il turista che ci capita trascinato dalle guide quasi per caso resta deluso davanti al capolavoro illeggibile, disastrato e rappezzato come un patchwork. Ma probabilmente illuso dalle impalcature e dagli attrezzi scenograficamente disposti attorno ai piedi del dipinto: qualcosa, pensa, stanno facendo, prima o poi il Cenacolo tornerà al suo splendore. Ma chi conosce il Cenacolo e la storia del suo restauro, quando torna lì, davanti a quella parete, è preso dallo sconforto. E dalla rabbia. Per quella specie di sfregio verticale, di cicatrice, che non è né sfregio né cicatrice, ma un semplice confine: il limite tra la vita del dipinto e la sua morte.
Coinquilino del Cenacolo, nel senso che vive nello stesso edificio, con l’incarico di conservatore dell’opera, è un lucido ottuagenario che è stato soprintendente e ha diretto importanti restauri in Lombardia e in altre parti d’Italia, l’architetto Gisberto Martelli. Basta leggere quanto ha scritto, o andare a parlargli, per scoprire come stanno le cose: “Il restauro è ormai fermo da tre anni. La restauratrice, Pinin Brambilla, ha ancora il suo studio a Santa Maria delle Grazie, ma ormai lavora ad altre opere affidatele dalla Soprintendenza e non viene nemmeno più. Soltanto quando viene annunciata la visita di qualche autorità, lei e i suoi collaboratori infilano il camice e salgono sull’impalcatura. Ma è solo scena. La verità è semplice: non è più possibile restaurare oltre. Procedendo in questo modo, non resterà che la nuda parete”.
Siamo dunque sull’orlo di un abisso. E di un disastro senza precedenti. Come se per consolidare la torre di Pisa si decidesse di demolirne metà. Imprevidenza? No, una scelta deliberata. Perché tutto era stato previsto e scritto con chiarezza e lucidità. Molto prima di quando, nel 1978, l’allora soprintendente Carlo Bertelli diede il via al restauro. Quasi tre secoli fa, all’inizio del Settecento, il pittore inglese Jonathan Richardson - che esaminò il Cenacolo prima di una serie di restauri - scrisse: “Il dipinto è oltremodo rovinato e tutti gli Apostoli alla destra del Cristo sono completamente cancellati; Cristo e coloro che stanno alla sua sinistra si vedono abbastanza bene, ma i colori sono alquanto sbiaditi e in molti punti è rimasto il nudo muro; la figura che incrocia le mani sul petto è quella meglio conservata e ha un’espressione meravigliosa”.
C’è da rabbrividire: è la puntuale descrizione di quanto il restauro ha riportato alla luce nei primi anni di lavoro - eliminando di fatto le ripitture sovrapposte all’originale dal Settecento in poi - e di quanto ora minaccia di distruggere. A cavallo della frontiera tra la Cena bianca e la Cena nera, c’è la testa del Cristo, che all’artista inglese era apparsa “parzialmente intatta”. E infatti le ultime fasi del restauro ne hanno riportato alla luce alcuni tratti originari.
Come si sa, la tecnica adoperata da Leonardo per la Cena (non l’affresco ma la tempera e in parte l’olio direttamente sul muro) è stata la prima causa della rovina del dipinto, che aveva cominciato a guastarsi molto presto. Dopo che Richardson descrisse il Cenacolo come era visibile alla sua epoca, intervennero massicci restauri che consistettero nel ridipingere le parti scomparse: quello del Belletti nel 1726, del Mazza nel 1780, del Barezzi nel 1821, e altri ancora. Sono loro che ci hanno tramandato il Cenacolo nella sua interezza, e così come ci era sempre apparso, fino al restauro del Pelliccioli negli anni ’50, che si limitò a una ripulitura e a un consolidamento.
La decisione di strappare via tutto quanto non era stato dipinto direttamente dal pennello di Leonardo fu presa da Bertelli, che si guardò bene, però, dal chiarire pubblicamente che cosa avrebbe significato un intervento tanto radicale. E non sentì il bisogno di chiedere un consenso prima di iniziare. Anzi, nelle interviste ai giornali italiani dichiarò sempre che presto il Cenacolo sarebbe tornato tutto intero come nuovo.
Nel 1980, Bertelli (che si dimise poco dopo) promise il completamento del lavoro “entro tre anni”. Ne sono passati più di dieci e mancano ancora due terzi dell’opera.
Nel 1983, lo studioso (e anche lui ex-soprintendente) Cesare Brandi chiarì la teoria della “costellazione”: i resti originari del Cenacolo erano pochi e sparsi frammenti di pittura che -se riportati alla luce - si potevano collegare gli uni agli altri solo con delle linee di disegno. E una volta, una sola, Bertelli, nel novembre di quello stesso anno, ammise di avere sempre saputo che cosa sarebbe successo: ma lo fece a un giornale americano, la rivista National Geographic. Spiegò che la sua intenzione era precisamente quella di avere poco Cenacolo ma tutto autentico. “Non importa se andrà perduta una parte, a me interessa recuperare la pittura di Leonardo”. È la rivendicazione dell’assassinio del Cenacolo, quel Cenacolo che conoscevamo e che il mondo custodiva con affetto (l’Unesco, che lo proclamò patrimonio dell’umanità, non è tuttavia mai intervenuta nella vicenda del restauro). Abbiamo, in cambio, un Cenacolo puro ma dimezzato.
Bertelli, dopo di allora, non ha più voluto parlare. La restauratrice tace anche lei, e del resto la sua parte è stata soltanto quella di eseguire il lavoro che le era stato assegnato dalla Soprintendenza.
L’attuale soprintendente, Rosalba Tardito, che ha ereditato da Bertelli la patata bollente, ha scritto in un articolo che “anche nella parte sinistra sarà possibile rintracciare e recuperare alla lettura altri brani originali del capolavoro di Leonardo”. Ma quanti? Di quali dimensioni? E quando proseguirà il restauro? Le denunce, in realtà, non serviranno a salvare il Cenacolo. E forse nemmeno a punire i responsabili. Perché nulla è imputabile a Bertelli, che ha soltanto scelto una tecnica di restauro: ne ha taciuto le conseguenze, ma per la legge non è reato. Niente, a maggior ragione, può essere attribuito alla restauratrice: ha soltanto fatto il suo mestiere, e a regola d’arte.
Possiamo invocare una sola cosa: che si ponga fine alle sofferenze del Cenacolo e si stacchi la spina del restauro. Si potrà discutere se pulire la parte scura per renderla meno dissonante o lasciarla così per ricordare com’era oppure, al limite, procedere a fondo con la stessa tecnica fino a cancellarla e affidando alle fotografie la memoria del dipinto intero. Ma questa agonia che dura ormai da quasi tredici anni deve avere fine. Se alternative serie non ce ne sono, basta, è inutile fingere, è scandaloso insistere per salvare la faccia di qualcuno. Il Cenacolo nel polmone artificiale non lo sopportiamo più.

Federico Bianchessi

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