C’era una volta il Cenacolo
Due denunce alla magistratura - una dell’ex-consigliere
comunale Maria Bonatti, l’altra della Lega Ambiente - stanno per la prima volta
rompendo il muro di silenzio che da anni circonda un dramma della cultura
milanese: il restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Il turista che ci capita
trascinato dalle guide quasi per caso resta deluso davanti al capolavoro
illeggibile, disastrato e rappezzato come un patchwork. Ma probabilmente illuso
dalle impalcature e dagli attrezzi scenograficamente disposti attorno ai piedi
del dipinto: qualcosa, pensa, stanno facendo, prima o poi il Cenacolo tornerà
al suo splendore. Ma chi conosce il Cenacolo e la storia del suo restauro,
quando torna lì, davanti a quella parete, è preso dallo sconforto. E dalla
rabbia. Per quella specie di sfregio verticale, di cicatrice, che non è né
sfregio né cicatrice, ma un semplice confine: il limite tra la vita del dipinto
e la sua morte.
Coinquilino del Cenacolo, nel
senso che vive nello stesso edificio, con l’incarico di conservatore dell’opera,
è un lucido ottuagenario che è stato soprintendente e ha diretto importanti
restauri in Lombardia e in altre parti d’Italia, l’architetto Gisberto
Martelli. Basta leggere quanto ha scritto, o andare a parlargli, per scoprire
come stanno le cose: “Il restauro è ormai fermo da tre anni. La restauratrice,
Pinin Brambilla, ha ancora il suo studio a Santa Maria delle Grazie, ma ormai
lavora ad altre opere affidatele dalla Soprintendenza e non viene nemmeno più.
Soltanto quando viene annunciata la visita di qualche autorità, lei e i suoi
collaboratori infilano il camice e salgono sull’impalcatura. Ma è solo scena.
La verità è semplice: non è più possibile restaurare oltre. Procedendo in
questo modo, non resterà che la nuda parete”.
Siamo dunque sull’orlo di un
abisso. E di un disastro senza precedenti. Come se per consolidare la torre di
Pisa si decidesse di demolirne metà. Imprevidenza? No, una scelta deliberata.
Perché tutto era stato previsto e scritto con chiarezza e lucidità. Molto prima
di quando, nel 1978, l’allora soprintendente Carlo Bertelli diede il via al
restauro. Quasi tre secoli fa, all’inizio del Settecento, il pittore inglese
Jonathan Richardson - che esaminò il Cenacolo prima di una serie di restauri -
scrisse: “Il dipinto è oltremodo rovinato e tutti gli Apostoli alla destra del
Cristo sono completamente cancellati; Cristo e coloro che stanno alla sua
sinistra si vedono abbastanza bene, ma i colori sono alquanto sbiaditi e in
molti punti è rimasto il nudo muro; la figura che incrocia le mani sul petto è
quella meglio conservata e ha un’espressione meravigliosa”.
C’è da rabbrividire: è la
puntuale descrizione di quanto il restauro ha riportato alla luce nei primi
anni di lavoro - eliminando di fatto le ripitture sovrapposte all’originale dal
Settecento in poi - e di quanto ora minaccia di distruggere. A cavallo della
frontiera tra la Cena bianca e la Cena nera, c’è la testa del Cristo, che all’artista
inglese era apparsa “parzialmente intatta”. E infatti le ultime fasi del
restauro ne hanno riportato alla luce alcuni tratti originari.
Come si sa, la tecnica adoperata
da Leonardo per la Cena (non l’affresco ma la tempera e in parte l’olio
direttamente sul muro) è stata la prima causa della rovina del dipinto, che
aveva cominciato a guastarsi molto presto. Dopo che Richardson descrisse il
Cenacolo come era visibile alla sua epoca, intervennero massicci restauri che
consistettero nel ridipingere le parti scomparse: quello del Belletti nel 1726,
del Mazza nel 1780, del Barezzi nel 1821, e altri ancora. Sono loro che ci
hanno tramandato il Cenacolo nella sua interezza, e così come ci era sempre
apparso, fino al restauro del Pelliccioli negli anni ’50, che si limitò a una
ripulitura e a un consolidamento.
La decisione di strappare via
tutto quanto non era stato dipinto direttamente dal pennello di Leonardo fu
presa da Bertelli, che si guardò bene, però, dal chiarire pubblicamente che
cosa avrebbe significato un intervento tanto radicale. E non sentì il bisogno
di chiedere un consenso prima di iniziare. Anzi, nelle interviste ai giornali
italiani dichiarò sempre che presto il Cenacolo sarebbe tornato tutto intero
come nuovo.
Nel 1980, Bertelli (che si dimise
poco dopo) promise il completamento del lavoro “entro tre anni”. Ne sono passati
più di dieci e mancano ancora due terzi dell’opera.
Nel 1983, lo studioso (e anche
lui ex-soprintendente) Cesare Brandi chiarì la teoria della “costellazione”: i
resti originari del Cenacolo erano pochi e sparsi frammenti di pittura che -se
riportati alla luce - si potevano collegare gli uni agli altri solo con delle
linee di disegno. E una volta, una sola, Bertelli, nel novembre di quello
stesso anno, ammise di avere sempre saputo che cosa sarebbe successo: ma lo
fece a un giornale americano, la rivista National Geographic. Spiegò che la sua intenzione era precisamente
quella di avere poco Cenacolo ma tutto autentico. “Non importa se andrà perduta
una parte, a me interessa recuperare la pittura di Leonardo”. È la
rivendicazione dell’assassinio del Cenacolo, quel Cenacolo che conoscevamo e
che il mondo custodiva con affetto (l’Unesco, che lo proclamò patrimonio dell’umanità,
non è tuttavia mai intervenuta nella vicenda del restauro). Abbiamo, in cambio,
un Cenacolo puro ma dimezzato.
Bertelli, dopo di allora, non ha
più voluto parlare. La restauratrice tace anche lei, e del resto la sua parte è
stata soltanto quella di eseguire il lavoro che le era stato assegnato dalla
Soprintendenza.
L’attuale soprintendente, Rosalba
Tardito, che ha ereditato da Bertelli la patata bollente, ha scritto in un
articolo che “anche nella parte sinistra sarà possibile rintracciare e
recuperare alla lettura altri brani originali del capolavoro di Leonardo”. Ma
quanti? Di quali dimensioni? E quando proseguirà il restauro? Le denunce, in
realtà, non serviranno a salvare il Cenacolo. E forse nemmeno a punire i
responsabili. Perché nulla è imputabile a Bertelli, che ha soltanto scelto una
tecnica di restauro: ne ha taciuto le conseguenze, ma per la legge non è reato.
Niente, a maggior ragione, può essere attribuito alla restauratrice: ha
soltanto fatto il suo mestiere, e a regola d’arte.
Possiamo invocare una sola cosa:
che si ponga fine alle sofferenze del Cenacolo e si stacchi la spina del
restauro. Si potrà discutere se pulire la parte scura per renderla meno
dissonante o lasciarla così per ricordare com’era oppure, al limite, procedere
a fondo con la stessa tecnica fino a cancellarla e affidando alle fotografie la
memoria del dipinto intero. Ma questa agonia che dura ormai da quasi tredici
anni deve avere fine. Se alternative serie non ce ne sono, basta, è inutile
fingere, è scandaloso insistere per salvare la faccia di qualcuno. Il Cenacolo
nel polmone artificiale non lo sopportiamo più.
Federico Bianchessi
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