SULLA
CONSERVAZIONE DEL
CENACOLO
DI LEONARDO DA VINCI
(Estratto dal Giornale La Perseveranza).
Tanto fu detto e scritto intorno
all’ultima Cena, che il Vinci dipingeva nel refettorio delle Grazie, da rendere
ormai impossibile il tornarvi sopra senza cadere nelle ripetizioni. Fino dai
primi tempi fu tale in tutti una gara per esaltarne i pregi, che da tre secoli
e mezzo non vi fu mai voto così unanime e generale nella storia artistica,
quanto quello che all’opera del Vinci concede la palma d’aver raggiunto l’apice
della pittura religiosa. Ed in oggi l’ammirazione e l’ossequio son lungi da
essere cessati. Quando si pensa infatti che questa pittura è una creazione del
quattrocento, quando si pensa che Leonardo la immaginava, men- tre da un lato
dell’Appennino, dond’egli discendeva, fioriva l’arte del Ghirlandajo e del
Perugino, e dall’altro lato, dove egli veniva a prendere dimora, quella del
Mantegna e del Borgognone; quando si pensa che, circondata com’era da questi
esempii, la sua pittura costituisce colla Disputa
del Sacramento, condotta sedici anni dopo, e col Giudizio finale, sorto dopo quarantacinqu’anni, la somma triade
dell’arte, in cui l’eleganza ed il movimento delle figure, la sicurezza della
mano, tutti gli avvedimenti dell’arte vanno a paro colla potenza creatrice
della mente, quando si pensano, dico, tutte queste circostanze, si è condotti a
conchiudere che anche nell’arte Lionardo ha preceduto di gran lunga il suo
tempo ed ha inaugurato, oserei dire, come nella scienza, lo spirito dell’evo
moderno. Arrestiamo solo uno sguardo su quella vasta pagina delle Grazie, e non
dureremo fatica a persuadercene: nulla invero di quell’ascetismo peritoso, di
quel composto, carattere proprio del proprio tempo; vi si notano nemmanco i
sintomi di quelle pretese allo sfoggiare di pose, alla pantomima classica del
secolo susseguente. Vi ha invece una verità così semplice e spontanea, una così
dignitosa indipendenza, una ponderazione così profonda della parola evangelica
che si direbbe compreso dall’idea cristiana, quale viene in oggi conformandosi
nel libero esplicarsi del pensiero moderno. Certo è che l’artista contemporaneo
non saprebbe levarsi tant’alto.
Ma mentre l’opera del Vinci ebbe
a fare lo stupore fino da suoi tempi, una grave sciagura gli stava sopra;
quella d’una precoce e precipitosa estinzione. Oggimai non havvi chi ignori
questo fatto. Poco meno di mezzo secolo era trascorso dacchè la mano dell’artista
venerando l’ebbe creata, che aveva perduto diggià la primitiva freschezza, e
con essa era venuta meno quella venustà onde traeva tutto il suo valore. Tutte
le relazioni e quelle specialmente degli uomini d’arte, sono concordi nel
lamentare questo decadimento. Il Vasari, fra gli altri, verso la metà del XVI
secolo, la stimatizza, con motto molto laconico, ma pittorico, una macchia abbagliata.
Fino dai primi momenti di cotali
indizii dovette elevarsi, per un’opera così importante e celebrata, una grave
quistione, la questione se era possibile e con quali modi arrestare quel
dissolvimento o, in altre parole, che fare per la sua conservazione. Ma il più
singolare si è che questa quistione intorno alla macchia abbagliata, dopo
essersi protratta con vicende varie e per lo più disastrose, non sia per anco
morta, anzi sia tuttora viva, vivissima: ce ne fa persuasi il fatto che, uscita
non ha guari da una fase, di nuovo, in questi giorni, venne suscitata con
qualche vivezza, non so se dimentichi del passato, o se con speranze nuove e
con propositi che finora non ebbero l’onore della discussione.
La questione è, a non dubitarne
puramente tecnica; ma non può tornare senza interesse per quanti amano l’arte
ed il paese. Oltrecchè si lega alla grande controversia, agitata presentemente
in tutta Europa, sul ristauro dei monumenti pittorici del risorgimento, va essa
complicata colla natura e colla storia di questo, uno, certo, dei sommi tesori
dell’arte italiana. Se così è, le considerazioni che ne possano scaturire nel
trattarla, non dovrebbero riescire affatto superflue ed inopportune: fors’anche
il pubblico criterio potrebbe meglio venire raddrizzato per questa via non poco
cosparsa di pregiudizii e di fallacie.
La conservazione del Cenacolo
implica più d’un quesito. Prima di stendervi la mano, chi non vorrà domandarsi:
possediamo o non possediamo noi nella sua interezza l’opera del Vinci? se non è
intera, quanto e quale il perduto o soltanto l’ecclissato? e per quest’ ultima
parte come scongiurare la potenza infesta che ce ne vela l’aspetto? del
perduto, come assicurarci i frammenti, le traccie, come riparare al vuoto? E
così via, via, una filatessa di interrogazioni minori che da queste
scaturiscono.
Per gli intelligenti porre
schiettamente la questione, vale averla sciolta, o ben poco vi manca. Ma pei
moltissimi, pel pubblico vicino e lontano non è così. Sorgono sempre di que’
cotali che oppongono ai fatti altri fatti, dissimulandone le disparità, che
vincono le ragioni col meraviglioso, che sorprendono la pubblica credulità col
segreto: vi sono poi coloro che hanno per massima che qualche cosa debba pur
farsi, onde non sopportare la responsabilità di negligenza o di inettitudine.
Rispondere alla questione una
volta per sempre, non può essere la pretesa d’alcuno, meno che mai la mia.
Svolgerla però, renderla al livello delle comuni intelligenze, farla chiara per
modo che contribuisca al criterio generale per questo e simili casi, ciò reputo
già tanto da non desiderare dippiù. Non è una polemica adunque che imprendo, ma
una semplice esposizione di fatti.
Il Bossi, anima e mente italiana,
artista e letterato più grande di quanto comunemente oggi lo si estimi, serbava
pel Vinci un culto speciale che lo mosse ad erigere di sua mano al Cenacolo un
doppio monumento. L’uno consiste nella copia a olio che fece del dipinto,
secondo le dimensioni dell’originale, rendendo norma dei dati più autentici
noti al suo tempo; l’altro, che è indubbiamente il più valevole, sta nel libro
dove, con amore paziente e con rara dottrina, ne raccolse le memorie e ne tessè
la illustrazione. Il libro del Bossi, dato in luce coi primi anni del secolo,
riassume tutto quanto sapevasi allora del Cenacolo, ed è impossibile far parola
delle sue vicende senza mettere falce nella messe di lui. Egli è spigolandole
adunque che io le riassumo e le completo.
Il Cenacolo era stato condotto a
termine nel 1497. Gli scrittori che ne fanno cenno nel primo quarto dei secolo
successivo non hanno che ammirazione ed aneddoti, come il Bandello, intorno
alla grand’opera. Un’espressione singolare sfugge, verso il 1530, all’Aduno,
scrittore e famigliare alla corte del Moro, donde parrebbe che un certo
deperimento fosse già incominciato: costui chiama Leonardo, pittore
delicatissimo, le cui pitture vivono ancora. In queste parole trapela il dubbio
della loro successiva vitalità, comunque il Cenacolo dovesse tuttavia apparire
senza minaccia d’offese. Un giudizio più autorevole e deciso è quello di tre
artisti: l’Armenini, il Vasari ed il Lomazzo. Tutti e tre fanno invece parola
del Cenacolo come d’un essere in istato di rovina: ma ad eccezione del Vasari,
il quale fu a Milano nel 1556, non ben saprebbesi determinare a quale epoca
precisa si riferiscano le loro relazioni sullo stato della pittura. Parrebbe
che l’Armenini, dicendolo soltanto mezzo guasto, precedesse il Vasari di cui è
uscita l’espressione più desolante e che inchiude l’opera intera, quella della
macchia abbagliata; e per ultimo sia venuto il Lomazzo. Le parole di quest’ultimo,
che io credo riferibili agli anni tra il 70° e l’80° di quel secolo sono
notevoli tanto più che non escono da un visitatore passeggiero, come furono i
due primi, ma da un artefice milanese, residente sul luogo, e raccoglitore,
comunque sia, delle tradizioni della scuola leonardesca. Or ecco le sue istesse
parole: Leonardo fu quello che, lasciato
l’uso della tempera (intendi nelle pitture murali), passò all’olio, il quale usava di assottigliare con lambicchi, ond’è
causato che quasi tutte le opere sue si sono spiccate dai muri; siccome fra le
altre si cede nel Consiglio di Fiorenza la mirabile battaglia, ed in Milano la
Cena di Cristo in Santa Maria delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura
ch’egli gli diede sotto. Tre fatti risultano da questa preziosa
testimonianza: che la pittura era condotta ad olio; che la si spiccava dal
muro; che cagione del guasto era l’imprimitura sottostante. Ma proseguiamo a
raccogliere le rivelazioni sintomatiche della sua distruzione. Sul 1600 un
padre domenicano, Gerolamo Gattico, lo nota alterato, infracidito perchè dipinto
all’olio. E l’infracidimento doveva essere riflessibile se il cardinal Federico
Borromeo, per conservare almeno la memoria degli avanzi, ne fa trarre dal
Vespino una copia (ora alla Biblioteca Ambrosiana), la quale si limita ad una
lunga zona che comprende le figure all’insù del busto ed appena parte della
tovaglia; locchè induce a credere, comunque quello fosse il secolo delle grandi
e bastarde licenze, che perduta o pressochè perduta fosse la parte inferiore
della Cena, dove si vedono le gambe degli Apostoli. Ne avremmo una conferma
nelle parole dello Scanelli, medico forlivese, che nel 1642 scriveva come poche
vestigia di figure si vedessero, ed in modo così confuso da potere a fatica
distinguere la già stata istoria: poi nel Dufresne, altro più giudizioso
testimonio oculare nel 1651, che ripete l’opera al suo tempo parere tutta
guasta; finalmente nello stesso lavoro murale praticatovi nell’anno successivo
o in quel torno, siccome fu quello d’allargare la porta sottostante alle
pitture, in modo di elevarla fino alla tovaglia, anzi ben oltre, con compiuto
sagrificio dei piedi del Salvatore e degli apostoli Giovanni e Giacomo il
maggiore. La quale operazione, comunque altamente vandalica, e in tutto degna
del secolo che iniziò allegramente le più impronte manemissioni sulle migliori
opere d’arte dei secoli XIV e XV, pure concorre a farci credere che il tratto
di muro rispondente alla pittura fosse spoglio affatto d’ogni traccia di
pittura; imperocchè a giustificare un diverso supposto più che una ignoranza
fratina converrebbe evocare la cecità e la forsennatezza d’un Totila. C’è
dippiù che i viaggiatori sopravvegnenti, come lo Scoto nel 1564, il Richardson
nel 1720, il Wright nel 1722 dicono cancellate per intero alcune figure,
perduta l’antica maestà, il tutto una rovina: nessuno lamenta la perdita d’una
parte del dipinto coll’elevazione della porta, cosa che per lo manco sarebbesi
dovuta attendere dal milanese pittore Agostino Sant’Agostino, testimonio
personale del fatto, come dal Carlo Torre, i quali nelle loro descrizioni dei
monumenti artistici della città nostra, l’una del 1671, l’altra del 1674, fanno
cenno dei danni sofferti, lo qualificano, colle metafore dell’epoca, sole sulle
ultime ore del giorno, ma non avvertono nemmanco l’insulto recatogli dal
martello del muratore. A questo punto la storia del Cenacolo muta d’aspetto: al
marasma senile succede l’eccidio. Compianto ma rispettato, almanco nel suo
essere, egli aveva attraversato l’infelice secolo XVII. Il suo destino non gli
concedeva tanto nel seguente. L’epoca che aveva vituperato di ghirigori
barocchi S. Eustorgio e S. Marco, che metteva in convulsione i marmi e le
fabbriche non volle lasciar immune il capolavoro del Vinci. Si trovò nel 1726
un Michelangelo Bellotti, ripeto le parole del Bossi, pittore povero d’arte, quindi ricco al solito di presunzione, il quale
vantava, come sogliono i ciurmatori, un suo singolare segreto, con cui avrebbe
richiamato da morte a vita l’incadaverita pittura. Ne fece un piccolo
esperimento, e chi sa come ingannò la facile ed inesperta credulità dei frati!
indi, avuta l’opera in sua balia, la chiuse con un assito, e ridipintalo da
capo a piedi, dopo molto tempo fece meravigliare i frati della potenza del suo
segreto. In seguito di che, come non associarsi al Bossi, il quale esclama:
intanto la pittura vera del Vinci era spenta del tutto! La meraviglia dei frati
ebbe compagna quella dei coetanei e dei dotti stranieri che scendevano in
Italia a visitarla, come furono il De-Brosse ed il De-la-Condamine. Tanto era
perduto ogni senso d’arte! Ma il Bellotti doveva essere, più che un
mediocrissimo pittore, ignaro affatto della scienza del ristauro: egli,
profanando con una ridipintura le sovrane vestigia del Cenacolo, non
comprendeva nemmanco che fabbricava sull’arena. Dirò in seguito il perchè.
Fatto sta che quarant’anni in appresso, il Cenacolo non era in migliore aspetto
di prima: come prima annebbiato, come prima sfaldavasi. Ogni verecondia vinta,
dopo lo stupro del Bellotti, non poteva aversi ritegno: si mandò per un nuovo
ristauratore, e finalmente se ne trovò uno nel pittore Mazza, il quale non
valeva meglio del suo antecessore. Nel 1770 cominciò una nuova carnificina,
forse peggiore della prima. Il Bossi, che ne aveva raccolto notizie da
testimonii oculari, freme di sdegno narrando il vandalico suo operare: egli
raschiava dapprima per crearvi una imprimitura a sua posta, su cui ridipingeva.
Il sopravvenire di un nuovo priore, più che il rumore pubblico levatosene, interruppe
il lavoro, ma appena allorquando restavano incolumi soltanto le ultime tre
figure a destra del riguardante. Fin qui il Bossi.
Giova dirlo da lui, dal suo
libro, stillante affetto e venerazione per la straziata pittura, comincia pel
Cenacolo, insieme al secolo nuovo, una nuova éra, un’éra di rispetto, di
ossequio. Sottratto il refettorio, dov’è la pittura, al dominio militare, che,
al tempo dello invasioni delle armi repubblicane di Francia alla fine dello
scorso secolo, ne aveva fatto fin’anche una stalla, esso fu posto sotto il
patrocinio d’un nome caro, quello del vicerè Eugenio, e la responsabilità della
sua conservazione data ad un corpo autorevole, quello dell’Accademia.
Sembra una fatalità, le cose,
come gli uomini, fatte bersaglio delle avversità, non stanno dal soffrirne i
colpi ripetutamente! Chi pensasse che il Cenacolo, sotto la tutela accademica,
dovesse andar esente dalle aggressioni dei pretesi ristauratori, s’ingannerebbe
fortemente. Il lavoro del Mazza non aveva avuto miglior effetto di quello del
Bellotti. Perduta la freschezza dello stato superficiale, ritornava l’antico
appannamento: era il lenzuolo funerario calato una volta per sempre sull’opera
vinciana. La superficie appariva una crosta aspra, interrotta, anzi un
reticolato di croste, di bozze qua e là più o meno sollevate, incartocciate,
per ogni dove cosparse di macchie biancastre, come piaghe aperte che mettevano
a nudo l’intonaco della muraglia, il quale, perduta ogni facoltà adesiva, si
sfarinacciava. Si guardava quella muraglia tremando, e stringendosi nelle
spalle, ma con ben diversa devozione che non la mirassero i reverendi che vi
solevano banchettare davanti. Ma eravamo in un momento, in cui le grandi
soppressioni delle chiese e dei chiostri, come pure la restituzione delle
numerose spogliazioni d’arte fatta dalla repubblica francese, avevano reso
generale e importantissimo l’artificio di trasportare i dipinti da tavola su
altra tavola, o sopra tela, comecchè volevasi. Con metodi analoghi procedevasi
per gli affreschi. In Milano avevasi per distinto in così fatti avvedimenti il
ristauratore Stefano Barezzi di Busseto. E’ lui che sulla fine del 1819 si
presentò all’Accademia, proferendosi di staccare il Cenacolo dalla parete, ed
applicarlo su tavola o tela; la offerta era accompagnata dall’esibizione d’un
esperimento parziale sopra due figure, colla condizione che non approvandosi l’esperimento
egli avrebbe restituito sul muro le figure levate. Davanti allo stato ruinoso
della pittura, all’incognito dell’imprimitura, la proposta parve un miracolo d’ardire,
quando non fosse stato, com’era, una presunzione o fors’anche un tranello. Pure
la Commissione accademica, cui era stato portato l’esame della esibizione del
Barezzi, dibattevasi tra il fare ed il non fare; discuteva a lungo sull’esperimento,
dubitando forte della capacità del Barezzi, e della possibilità d’un rimedio
alla pittura; questi schermeggiavasi sulla parte del dipinto ove operare e sul
modo di attuarlo; alla fine, oltre un anno dopo, nel marzo 182l, pur si decise.
Fu dato al Barezzi, pel distacco di saggio, un pezzo quadrato di metri 1.20 all’estremità
inferiore del dipinto, a sinistra dell’osservatore. Il Barezzi, come il
Bellotti, di malaugurata memoria, vi si era chiuso dentro. Qual meraviglia per
la Commissione vigilatrice il trovare, due mesi dopo, che il Barezzi invece di
tentare il distacco assunto, aveva di suo arbitrio impreso a restaurare, cioè a
dire, a rifare una parte centrale del dipinto con stucchi e paste colorate! L’immediata
sospensione del lavoro fu la conseguenza di quella visita, e con essa il
Cenacolo fu salvo dalla terza e più grave jattura che erasi riuscito ad
iniziare.
Il Barezzi non desistette perciò
da reclami e da istanze per giungere al suo proposito, ristaurare il Cenacolo.
Lasciò trascorre l’onda grossa degli uomini e delle memorie, e trent’anni dopo,
nel 1832, egli ritorna all’assalto per assicurare e rinverginare, come egli
esprimevasi, l’opera vinciana. Ma le memorie sussistevano, e gli uomini eransi
fatti più difficili, più riguardosi, più accorti che non fossero quelli del
1821 e di quanto egli sol credeva. Il Barezzi, come la prima volta, su di alte
e poderose protezioni faceva assegnamento per pulire, raschiare, ritoccare,
rifare fors’anche il Cenacolo, ma trovossi di contro l’opposizione compatta d’una
Commissione accademica e non ottenne d’essere adoperato che per una sola
operazione, il rassodamento generale della crosta, col sussidio d’una sua colla
particolare, operazione che escludeva qualunque mezzo od esercizio artistico e
che, condotta sotto la sorveglianza assidua della Commissione medesima ebbe
compimento con esito commendevole nel 1855.
A questo punto si ferma la storia
dei guasti che fino dai primi tempi mostrò il Cenacolo e di quanto, si in male
che in bene, fuvvi adoperato per rimediare loro fino al dì d’oggi.
Ma qual conto fare di tutti
questi artificii? Quale ne sarà l’esito per l’avvenire? È concessa speranza di
migliori provvedimenti?
Dopo la premessa esposizione, la
risposta dovrebbe essere facile anche ai meno periti. Partiamo dal nodo della
questione. Non v’ha dubbio che il dipinto di Leonardo fosse all’olio. Il
carattere lento, difficile, incontentabile dell’artista non gli permetteva la
pittura a buon fresco: ce ne valgono a conferma le note sue pratiche di purificare,
distillare gli olii, che allora dicevansi vernici, perchè a tal uopo pure
servivano per assicurare le tempere, con chè li alleggeriva del glutine, loro
principale mezzo alla solidificazione delle materie in essi diluite. Quand’anche
ciò non sapessimo, lo farebbero supporre i ritardi, le interruzioni, i ritocchi
improvvisi ed a larghe distanze di tempo, che gli aneddoti contemporanei
novellano circa la sua fattura: e poi ancora hannovi gli scrittori d’arte,
primo il Lomazzo, che la dice espressamente ad olio, e il Bossi non pone la
cosa nemmanco in contestazione. Questo giova dire, perchè negli ultimi tempi
alcuni dubbi furono elevati su questo punto. Se vi hanno dubbi ragionevoli, a
mio credere, non possono circoscriversi che all’imprimitura. È naturale
supporre che Leonardo mirasse a predisporre la faccia del muro, a cui affidare
doveva il suo lavoro, come si preparavano le tavole al suo tempo, un
imprimitura di gesso e di colla animale: ma Leonardo era pur l’uomo che non
poteva non prevedere l’insufficienza di queste preparazioni al contatto della
muraglia e sovratutto della calce. Il Bossi suppone la sostituzione a quest’ultimo
mezzo, la colla, quello d’una mistura di pece e di mastice; egli vi crede
eziandio la sovraposizione d’un altro strato di biacche e terre, amalgame
disposte ad olio. Un esame, dieci anni or sono, portatoci dal Kramer vi ha
confermato la presenza di resine; alcuni vogliono quella della cera. Sia come
si voglia, è certo che la mente scrutatrice del grande artista tentava un problema;
problema ben arduo quello di dipingere sul muro colle comodità che danno le
tavole. Qual meraviglia che l’esito non abbia corrisposto alla aspettazione!
Piuttosto adunque, che all’umido naturale del luogo, più che all’infelice
esposizione verso tramontana, donde gli scende luce ed aria, più che ai vapori
delle vivande, quand’era refettorio, od all’umida respirazione dei cavalli,
allorchè fu stalla, perchè mai alla dissoluzione dell’imprimitura, come osserva
giustamente il Lomazzo, non si dovrà accagionare tanta rovina! La macchia
abbagliata del Vasari altro non era infine che lo screpolarsi generale della
stratificazione colorata, sul fondo mal fermo, al che congiurava pure la
condizione degli olii di troppo assottigliati, i quali avevano perduto ben
presto la facoltà appiccaticcia e scemato il fulgore alle materie: quindi il
loro incartocciarsi, il fendersi, lo sfaldarsi a scaglie, come vedemmo
ripetersi fino agli ultimi tempi, anche dopo le deturpazioni del Bellotti e del
Mazza.
Un cotale sfacelo erasi fatto
spaventoso ad una cert’epoca, circa un vent’anni sono. Lo accresceva, non più l’umidità
ambiente, ma quella immediata; non più sotto forma vaporosa, ma liquida, che la
parete istessa assorbiva dal suolo e da una vicina stalla, ora rimossa. L’opera
del Barezzi opportunamente circoscritta, consistendo, come dissi, di una colla
di sua invenzione, e vantato suo segreto, ebbe la virtù, applicata, per vero,
in modo acconcio ed ingegnoso, di conferire il glutine mancante e di concedere
insieme l’assicurazione e la lisciatura delle croste e delle falde, onde la
superficie della pittura andava scabra, col tristo aspetto d’un’annebbiatura
che toglieva forma alle traccie tuttavia sussistenti. Non può revocarsi in
dubbio che la pittura del Cenacolo, dopo l’operazione del Barezzi, senza
immaginarsi la risurrezione impossibile, cui egli pretendeva, aveva guadagnato
non poco: parve quasi una nuova apparizione: la crosta appianata, fu dato di
meglio distinguere i tratti delle figure: la colla essendo trasparente e
glutinosa, colla solidificazione acquistarono anche una certa lucentezza i
colori. Ma questo stato sarà duraturo? È quanto mi permetto di dubitare.
Malgrado il segreto della composizione, se è vero, come taluno suppone, che
essa consista specialmente di colla animale, nelle variazioni termiche ed
igrometriche dell’atmosfera stanno già le minaccie di un nuovo deterioramento.
Che la dissoluzione non si faccia aspettare, trovasene già un argomento coll’avere
quella pittura perduto ben tosto il lucido de’ primi mesi e quindi insieme la
decomposizione della sostanza glutinosa ed adesiva. Anzi in questi istessi
giorni, mentre io cui scrivo, riveduta la pittura, riconobbi più chiaramente,
per quanto fummi possibile, essere ricominciato l’antico lavorio deleterio generatore
delle croste e delle scaglie. Una forte screpolatura rigonfia si nota già nel
braccio e nella veste dell’apostolo Filippo; in più minute ma numerose squamme
sollevasi il colore nella testa dell’apostolo Taddeo e nella tunica del suo
vicino Mattia. Ma a sicurarsi di tali deplorabili apparenze, vuolsi un esame,
uno scandaglio minuto, il quale non può ottenersi che mediante il contatto
della mano, cosa che ai visitatori ordinarii non è permessa di raggiungere in
mancanza dell’apparato opportuno. Comunque sia non può porsi in dubbio che
anche l’operazione del Barezzi, che pareva avere arrestato per un momento il
discioglimento del capolavoro vinciano, si dimostra negli effetti incapace a
tanta virtù, seppure, secondo il giudizio d’alcuni, non ha fors’anche
accelerato in altra guisa la sua caduta.
Eccoci adunque ancora un’altra
volta dinnanzi a questo colosso che più non si regge, e sempre colla eguale
smania di salvarlo. Però se chi promosse di recente un’ulteriore suo ristauro,
commosso dall’aspetto suo attuale, col solo fine di redimere l’oscurata e
cadente pittura, se chi ne assunse il concetto e ne fece argomento di
consultazione all’Accademia di Milano, se tutti coloro, in una parola, che
ebbero parte nell’appoggiare tale questione, avessero conosciuto, non tutte, ma
alcune soltanto delle cose predette, potrebbesi avere per certo che il quesito
sarebbesi trattenuto per via, e non avrebbe trovato quella risposta che gli fu
fatta, l’unica che giustamente poteva venir resa, da artisti edotti dei fatti e
periti nella materia, cioè che nulla restava ad operare.
È facile immaginare che a molti
tale sentenza potrà sembrare aspra, brutale, avventata, laddove, per essere
giusti, dovrebbesi reputarla la più pietosa e caritatevole verso la già troppo
straziata pittura. Ed invero, a che si mirerebbe col ristauro? Rivedere forse
ancora una volta sulla parete istessa la potenza di quella mano altrettanto
delicata e flessibile, quanto risoluta, ferma, poderosa! Ammirarvi il suo segno
sapiente, il suo sottile e robusto modellare, la profonda espressione delle sue
fisonomie, che tanto gli avevano costato di meditazioni e di indagini! Sono
sogni d’infermo! Basta riflettere che cinquant’anni dopo, per testimonio di più
scrittori, questa pittura era una macchia, una superficie in dissoluzione; che
in questo stato trascorse due secoli, forse assalita da tentativi più o meno
inavvertiti per ravvivarla; che venne il Bellotti a recarle l’oltraggio di una
intera ridipintura ad olio; che costui ne lasciò il segreto ai frati, i quali
non avranno mancato di metterlo alla prova prima di lasciarla cadere nelle mani
del Mazza, il cui lavoro, non ben noto se all’olio o a tempera, offese tre
quarti del campo. Non si dimentichi poi che il Bossi chiamava al suo tempo
questa pittura un cadavere e che fino agli ultimi anni, prima dell’assicurazione
del Barezzi, essa andava sfaldandosi per natura propria e non di rado per l’improvvido
contatto dei visitatori, cui era esposta mediante un palco fisso, ora
avvertitamente tolto, con che concedevasi loro di levarsi fino al livello delle
figure: si metta in conto che il Barezzi, nel 1821, ne deturpò una parte,
benchè ristretta con stucchi e cere: che nel 1834, assicurandone la crosta,
volle far credere d’aver tolto col suo sistema, il ristauro del Mazza e parte
di quello del Bellotti, mentre solo è certo che parte del colore superficiale
staccavasi in quel suo rassodamento. Ora si sommino tutte queste circostanze, e
chi mai potrà asseverare di vedere ancora l’opera originale del Vinci; chi
dirsi sicuro di distinguere soltanto il solo pochissimo che gli potesse
appartenere!
Suppongasi un caso, quello, per
cui ad ogni costo vogliasi fare qualche cosa. Quale sarà il còmpito del ristauratore
messo alla prova? A qual partito appiglierassi in contatto di quella parete?
Due vie sembrano restargli: o ristaurare quello che vede, e sarebbe la
consacrazione di tutte le turpitudini passate e forse la cancellazione delle
ultime vestigia del Vinci: o cercarvi l’originale, tentando di levare gl’
imbratti estranei, operazione saviissima, anzi l’unica richiesta dal caso; ma
questa a traverso di quante difficoltà, in mezzo a quanti pericoli! Un pensiero
solo basterebbe a trattenere il più audace: se sotto alle rifatture dello
scorso secolo altro non trovasse che la nuda e cadente imprimitura, il vuoto,
che farà? rinnovare l’atto vandalico del Bellotti, o lasciarvi più ributtanti
le nuove piaghe; strappare al cadavere fin anche il funebre lenzuolo che ne
concede ancora di intravvedere l’antica membratura! E poi conviene averne
considerato palmo a palmo l’aspetto incerto, annebbiato, avervi notate le
lacune, per credere appena possibile che si faccia avanti un operatore,
comunque versato nel ristauro e artista eccellente, il quale, senz’essere
temerario o folle, osi, di proposito deliberato, assumere un’impegno di così
grande momento. S’immagini l’ombra d’un corpo: i dintorni vi sono affatto
perduti; del chiaroscuro non resta che la macchia, delle carni la larva, delle
vesti la massa, delle figure l’insieme: e su tali orme, domandasi, dove l’artista
fermerà la mano: come crearvi una forma viva e decisa: come e chi simularvi il
fare originale; trarre una bocca dove non havvi che una bizzarra ombrosità,
segnare un occhio sotto un’orbita cavernosa, se costui non è lo stesso
Leonardo? I luminari dell’arte Rafaello, Coreggio, Michelangelo, posti a tale
cimento, non potrebbero uscirne che rifacendosi loro medesimi sul motivo
leonardesco, come è avvenuto al Rubens che trasse copia, in piccola dimensione,
del Cenacolo, allorchè fu in Milano al principio del XVII secolo. Se non ci è
dato di vederne il quadretto esistente a Madrid, si guardi almeno la incisione
che ne trasse il Soutman; in essa non si riconosce più l’opera leonardesca; e
poi basta un semplice studio della testa dell’apostolo Filippo, di mano dello
stesso Rubens, posseduto dal pittore Bertini, dove tale è la licenza di disegno
e di espressione da sorprendere l’artista più esercitato a rinvenirvi l’autore
del dipinto delle Grazie. Chi avrebbe potuto appena tentarne il ristauro
sarebbero stati i suoi scolari: il Salai, il Beltraffio, il Solari che ne
avevano raccolto la tradizione immediata, e ben anche il Luini, tuttochè erede
delle grazie, non della fierezza, del grandissimo Vinci. Maggiormente ci
allontaniamo dal tempo e dalle tradizioni sue, più è difficile il trovare chi
valga a venire in ajuto della rovina. Veggasi, ad esempio, la copia del Bossi,
lombardo, studiosissimo della nostra scuola e del Cenacolo in particolare, e
considerandola, in certo modo, la meno compromettente e la più libera delle
restaurazioni, che vale essa mai? Quale idea insipida e fiacca ci trasfonda di
quella tanto celebrata e solenne rappresentazione! - Ed ora che giudizio, qual presagio
trarre, dopo tante prove infelici, disperate, per un ristauro in mezzo alle
scuole presenti!
L’enumerazione di tanti ostacoli,
la maggior parte dei quali insuperabili, potrebbe lasciar credere nascosta in
fondo alle mie parole la rifiutazione assoluta d’ogni ristauro alle antiche
opere d’arte. Importa che sia smentita questa idea, qualora vi si fosse
intromessa. Altro è una pittura murale, come il Cenacolo, altro una pittura
mobile, tavola o tela ch’essa sia. Queste permettono mille artifizi, moltissimi
modi di riparazioni, di assicurazioni, di trasporti cui quelle si ribellano. Si
è giunto, come fu pel nostro Raffaello, di togliere un pezzo di tavola fracida,
rimettendovi un corrispondente pezzo integro senza scomporre lo strato
colorato. Può essere ciò possibile in una muraglia? Pel Cenacolo poi, dove il
fondo manca od ha perduto ogni qualità adesiva, come potrà essere rifatto, come
sostituita o ricomposta l’imprimitura, quell’imprimitura appunto, che, al dire
del Lomazzo, fu la causa del precipitato suo dissolvimento! E qui il nodo della
questione. Pel Cenacolo c’è ancora un’altra impossibilità: l’ignoranza in cui
siamo delle sostanze ond’era formato il mezzo diluente. Non puossi dubitare
circa l’essere ad olio: ma di quali olii, e dopo quali manipolazioni? Tutto è
mistero adunque circa la tecnica usata da Leonardo. Ma vi si aggiunge ancora la
maggiore delle impossibilità, quella che varrebbe anche per un dipinto
qualunque; voglio dire il guasto generale. Quand’anche si potesse dimostrare il
Cenacolo vergine d’ogni manomissione, nello stato presente esso non presenta
guida alcuna, non traccia cui possa il ristauratore coscienzioso conformare l’opera
propria. Mi si perdoni il raffronto, ma il ristauro può, quanto alle lacune,
ricordare i lavori di maglia: facile portar riparo o rifarne poche, qua e là
sparse, ma se il dissesto si distende od invade tutto il lavoro, chi crederà
prezzo dell’opera l’applicarvi l’ingegno! e con quale risultamento! Nella
pittura le maglie sono altrettanti punti che si connettono col vicino, comunque
originali per sè stessi. Ogni ristauro è adunque un controsenso, allorchè l’opera
del riparatore debba superare gli avanzi dell’originale. Questo nei casi
ordinarii: per la pittura del Vinci cresce fino all’abberrazione, alla
profanaziane.
Quante volte negli ultimi tempi
si è trattato della conservazione di questo capolavoro è venuto in campo una
proposta che l’argomento non mi permette di passare inavvertita. Questa
proposta consiste nell’asportazione del Cenacolo in altro luogo, cosi per una
più onorevole collocazione, come per salvarlo dalla invadente umidità onde il
luogo e la parete istessa sono infestati. Coloro che conoscono i modi usati a
questo intento pel trasporto degli affreschi non hanno bisogno di spiegazioni
per comprendere che sarebbe come infallibilmente compromettere quella onoranda
rovina. Per gli altri basterà il notare che dove si ha, come qui, una
superficie molle e friabile, dove l’intonaco del muro, corroso dal nitro, non
si lascia mantenere nell’originario assetto, ogni cura sarebbe vana per
procedere con felice risultamento a questa delicatissima osservazione. Era
stato questo anzi il primo assunto del Barezzi nel 1819, cui mancò,
protestando, senza argomenti e senza ragione di sorta, che vi aveva dovuto
rinunziare perchè erasi fatto accorto che la pittura del Vinci non era all’olio.
Si adduce per ultimo espediente, il trasporto dell’intera parete, opera meno
impossibile all’arte meccanica, ma assai incerta negli effetti, considerata la
diversa natura dei materiali che la compongono e gli screpoli che vi si notano,
e quelle ben maggiori dislocazioni che possono ascondervisi. E poi concediamoci
per un istante l’ipotesi del Cenacolo, come ora lo vediamo, collocato in più
dignitoso e più ricco santuario, possiam credere che vi avrà fatto qualche
riflessibile guadagno? Per mia parte, siami lecito dubitare. Chi potrà asserire
che l’umidità mentre lo danneggia da un lato non contribuisca a mantenere nel
glutine restante dell’operazione del Barezzi, una certa mollezza e potenza di
adesione, che potrebbe ritirarsi d’un tratto in un luogo secco, con quale
immediato danno è facile immaginare! Chi potrà assicurare, se non forse del
contrario, che l’incompleta e vaporosa apparizione lontana dal raffronto di
quelle muraglie spoglie, lacere, raschiate, dalla desolata vastità dell’aula,
dalla pudica aria del chiostro, dalla luce placida e misurata, che gli piove
dall’alto, dall’arcano tumulto delle memorie suscitato dal luogo stesso, chi
potrà dire che essa giunga a fare di sè mostra più bella ed imponente, a meglio
guadagnarsi quelle simpatie e quell’ammirazione che in oggi tutti le tributano?
Per chi sente anima d’artista, non v’ha dubbio, il Cenacolo, pari ad un grande
colosso, egli è sul campo della sua maestà e delle sue memorie, che vuole
lasciate le sue rovine. Quello che resta a fare adunque, non esito a ripeterlo,
egli è assistere pietosi al suo fine. Mantenere l’ultimo rassodamento, se ed in
quanto è possibile, coi mezzi più innocui che l’arte suggerisce, impedire il
maggiore assorbimento dell’umido che dal suolo ascende a ferire la pittura.
Sventuratamente il Barezzi, da meno in ciò del Bellotti, portò seco il suo
segreto, malgrado la promessa fatta di confidarlo ad un nostro distinto
chimico, il P. Ottavio Ferrario dei Fate-bene-Fratelli. Quanto all’origine dell’umido
saliente, già se ne sono rimosse le cause con operazioni felicemente ideate ed
eseguite. Si è provveduto al più. Tratterebbesi ora di troncare il progresso
all’azione assorbente della parete verticale: diversi progetti da cinque o sei
anni stanno a fronte: ma è preferirsi che si rinunci alla vanagloria d’un’operazione
che ove compromettesse menomamente la solidità della parete portante l’impareggiabile
monumento, tale ne ricadrebbe la responsabilità sui loro autori da relegarli
nel novero dei Bellotti e dei Mazza.
Chiniamo adunque il capo
rassegnati davanti all’irreparabile rovina. Pensiamo piuttosto che questa
infelice condizione non è senza compenso. Nel naturale disfacimento delle umane
cose vi ha alcun che di indefinibile, d’ arcano; vi ha nel loro aspetto una
latitudine più che alla immaginazione alla divinazione; vi ha quello che l’artista
talvolta si affanna di mettere nell’opera propria, ma che il genio solo sa
trasfondervi, la potenza di rendersi comprensibile con poche ombre. Il
Cenacolo, così com’è, forse s’affaccia di certo meno lontano dalle intenzioni
del suo autore di quello che se lisciato, compito, accarezzato finamente ed in
ogni minima parte, da una mano estranea, per quanto valentissima.
Se noi, entrando nel vasto
simposio dei Domenicani, sdegniamo il vicino e soperchio sottilizzare di
indagini e di osservazioni, utili, anzi necessarie ai periti nell’arte, a chi
ha il debito della sua conservazione; se, invece, coi profani ci scostiamo,
indietreggiando ben oltre il mezzo dell’aula a meglio abbracciarne coll’occhio
lo insieme; se ci può accadere di trovarsi colà raccolti nel silenzio e nella
solitudine, uno spettacolo nuovo, meraviglioso, quasi una magica visione ci si
disvela davanti. Si direbbero un’inganno i lamentati guasti. La parete si
sfonda, il cielo su cui campeggia la testa del Cristo, sfavilla nell’oscurità
come un nimbo luminoso; le figure si muovono, si agitano; la soave parola che
annuncia il tradimento ed il traditore vicino, si ripercuote negli atti dei
convitati e desta un moto, un palpito affannoso, un ricambiarsi di parole e di
gesti, ingenuo, spontaneo in tutti, fuori che in quel solo, che come si lascia
nascondere, vorrebbe nascondersi a sè stesso. Certo non è dato di analizzare i
tratti dei personaggi, ma li sentite nell’anima inondarvi di un accoramento
profondo: il velo di malinconia diffuso su tutta la scena è all’unisono col
velo generale che allo sguardo sembra calare su quella parete quasi cancellata.
L’illusione è completa; non cercate dippiù. Il più grande dei sacramenti, come
la più grande delle pitture si confondono in un solo mistero.
G. MONGERI.
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