martedì 16 settembre 2014

1810 - BOSSI, Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, libro terzo



DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI.
LIBRO TERZO.

DELLE COPIE IN GENERALE

L’uso delle copie che gli antichi chiamavano ritratti, non divenne comune che allorquando, quasi per universale consenso, si acclamò giunta al colmo di sua perfezione l’arte della pittura. Fu allora che si abbandonò il metodo di trarre dal naturale o pur dall’idea le pittoriche imitazioni; e fu allora che gli artefici volgari, veggendo le meravigliose invenzioni de’ sovrani dell’arte, cominciarono generalmente a temere delle proprie forze, e non si credettero capaci d’investigare per sè stessi nella natura quelle originali bellezze che ammiravano nelle opere altrui. La natura cessò di essere la maestra dell’arte, e l’arte maestra di sè stessa fa chiusa in angusto confine e cominciò a ripetere le sue produzioni.
Quella dappocaggine del più degli artefici, che non poteasi nascondere, fu osservata da chi commetteva e pagava le opere, nè sempre si poteva per esse ricorrere ai primi nomi: quindi, anzi che averle di vili e grossi magisteri, si preferirono imitate dalle migliori conosciute, con che si aveva un mediocre bensì ma sicuro esito delle imprese. La fretta e l’avarizia favorivano il nuovo metodo sì per parte del proprietario, come per parte dell’artefice, e la pittura si degradò a copiar per sistema.
Nel secolo decimoquinto e negli antecedenti, checchè si dica dal Boccaccio,[1] il quale dopo l’epoca di Giotto lagnavasi dell’avvilimento della pittura, gli artefici avevano un’opinione abbastanza elevata delle forze dell’arte e di sè stessi, perchè, eccetto qualche ritratto di persona, non si prestassero a ripetere le altrui invenzioni. Quindi di que’ tempi non s’incontrano copie propriamente tali, cosa degnissima d’essere osservata da chi guarda con ragion filosofica la storia dell’arte. E se pur talvolta accadde che alcuna se ne facesse, ciò avveniva per lo più nelle arti minori del niello, de’ vetri, delle terre smaltate e simili. Nè ricercandosi per anche certe finezze dell’arte, se per religione o per altra cagione qualsivoglia vi fu chi esigesse una ripetizione di tale o tal altra opera, qualunque fosse il metodo in cui la volesse eseguita, egli si accontentava di una inesatta imitazione che rappresentasse a un di presso i moti e gli atti dell’originale, senza riguardare per minuto alle forme ed ai colori. Perciò non si vede nelle quadrerie più numerose nessuna vera copia anteriore al secolo decimosesto.
Venne poi l’età in cui da pochi rari ingegni (tra’ quali a niuno secondo di sapere e primo certo di epoca fu il nostro Leonardo) ebbe la pittura un altissimo grado di perfezione in ogni sua parte. Raffinatosi allora il vedere e il giudicare, nacque il desiderio di avere de’ ritratti delle opere eccellenti, scrupolosamente simili agli originali da ogni lato benchè minimo; nè fu difficile il soddisfarlo, specialmente in quelle scuole nelle quali era grande l’affluenza dei discepoli e la ricerca de’ lavori del maestro. Pure anche a quel tempo un tale desiderio limitossi alle opere minori, e non fu esigente di precisa conformità cogli originali se non in quadri piccioli i quali si possono avvicinare e confrontare, e danno grande facilità all’esame ed all’opera di chi giudica e di chi imita. Ne’ grandi dipinti avvenne altrimenti sì in allora come da poi, e perchè gli originali non si possono confrontare colle copie e perchè rarissime sono le occasioni di tali opere. L’arte non meno che la ricerca de’ curiosi si limitò per essi a dei ritratti in piccolo, ne’ quali si concesse molto all’arbitrio del copiatore. Gli arbitrj crebbero a dismisura le poche volte che accadde di fare delle copie in grande, le quali furono quasi sempre copie di copie, perchè tolte da piccioli modelli ed eseguite lungi dall’originale, perchè non di rado tradotte da soli disegni e perchè fatte talvolta fin anche di sola reminiscenza.
Moltiplicatosi il numero de’ pittori dozzinali che lavoravano a vilissimo prezzo, cresciuto il lusso delle pitture e scematone il gusto, le copie crebbero oltremodo ed offuscarono le pareti per sino delle anticamere e delle scale. Gli affamati principianti viveano de’ meschini proventi che ottenevano ritraendo in diverse misure le opere più famose, e molti pittori passarono la loro vita senza far altro che copiare. Ma anche allora in ogni copia si vedeva qualche diversità, fosse capriccio del pittore, fosse talento di chi pagava, fosse pretensione di originalità.
Venne anche il lusso de tappeti di arazzo, ne’ quali la pittura non parea degna abbastanza se l’oro non l’arricchiva; e allora le più mirabili composizioni, perchè gravi e semplici, apparvero meschine e povere, e il copiatore vi aggiungeva architetture e paesi ne’ campi, ornamenti nelle vesti, raggi o diademi dorati alle teste, è capricciosi contorni di putti, animali, chimere, grotteschi ed altre stravaganze, colle quali cose tutte calpestavansi arditamente le leggi del bello per adulare gli occhi ignoranti di chi non vede luce e bellezza se non dove loro risplende sovra moltiplici oggetti accozzati senz’arte a capriccio.
Avvenne similmente che tal pittore che pure si sentiva tanto animo da far del suo era poi costretto a ritrarre opere altrui dall’arbitrio del commettente che diffidava della sua sufficienza. E l’artefice allora, copiando contro voglia, si argomentava di pur mostrarsi originale in qualche parte, cambiando, alterando o aggiungendo secondo la perizia o la vanità sua. Mille altri cangiamenti ed aggiunte erano richieste nelle copie dalle rispettive circostanze di tempo, di luogo e di uso. Vi fu non di rado chi volle servirsi di figure accreditate, appropriandole ad argomenti diversi da quelli per cui l’autore le compose. Così il cardinale Federico Borromeo fece, come avverte egli stesso, copiare molte opere profane di Raffaello, e per mezzo di alcuni accessorj si piacque di nomar martiri ed evangelisti i numi e gli eroi del paganesimo. Accade ancora che l’artista fa per proprio studio ed esercizio qualche figura ritratta da famosa opera di buon maestro, e poscia per fame uso utilmente e trarne lucro vi aggiunge qualche sua invenzione onde compirla. Finalmente uno de guasti della pittura, per avviso di molti, conforme all’espresso dal Lomazzo, fu la scoperta e l’abuso delle stampe[2] le quali ammorbarono l’Italia nel cinquecento, e prestando a tutti gli artefici dozzinali le altrui invenzioni, distolsero le menti dallo studio, e la pittura cadde in tanta bassezza da essere per sino confusa colle arti meccaniche. Ma le stampe stesse erano di già diverse dagli originali, ed anche i copiatori delle stampe rinnovavano altri cangiamenti secondo le ragioni o i capricci or proprj or altrui. E ciò che si faceva delle stampe, si faceva similmente de’ disegni; e gli artefici a centinaja ritraevano in carta le cose principali di Roma o di Firenze, per ripeterle arbitrariamente quando erano tornati alle patrie loro.
Da questo breve prospetto storico delle copie, il quale mi parve necessaria introduzione alla materia di questo terzo libro, ognuno può scorgere quanta diffidenza debbano ispirare queste povere produzioni dell’arte, e quanto sia d uopo essere guardingo in giudicare per esse del carattere e del merito degli originali. Si vedrà non meno facilmente di quanto poca autorità esse sieno tanto negli accessorj, quanto nella maniera generale, allorchè si osservano per farsi idea di un originale perduto. Si avrà anche dalle tante accennate cagioni di arbitrj e varietà nelle copie una facile spiegazione del vedersi in diverse quadrerie infinite ripetizioni, tutte attribuite all’autore di un unico originale e tutte affermate per originali in grazia di piccioli cangiamenti di forme, di colori, di fondi o d’altro. S’intenderà altresì di quanta accuratezza sia d’uopo onde scernere le produzioni originali dalle copiate, alla qual cosa spesso non è sufficiente il gusto ben disciplinato e finissimo, se non è soccorso da una grande memoria e da un lungo e diligente esercizio. Si conchiuderà in fine che non sono vere copie se non quelle nelle quali colla volontà espressa di buono e giudizioso conoscitore che le commetta, si accordi lo sforzo e la perizia dell’artefice copiatore in rappresentare con precisione ogni parte dell’originale.
Laonde è facile l’avvedersi che copie di tal fatta sono rarissime, e allorquando non esistano gli originali con cui confrontarle, appena la storia, la critica e il carattere evidente dell’autore primitivo possono in qualche modo supplire alla mancanza del confronto che sarebbe necessario per rettamente giudicarle. E disgraziatamente una sola copia di questo genere vanta l’elenco che son per dare di quelle del Cenacolo, ed anche questa, oltrechè non è di tutta l’opera, fu fatta in tempo che l’originale era in gran parte perito, ed essa stessa ha sofferto per cattiva esecuzione un tale imbrunimento di colori che diminuisce notabilmente il suo pregio e ne ha distrutto interamente l’effetto.
Premesse queste considerazioni per le quali ogni discreto saprà giudicare e distinguere copia da copia, passo a descrivere, secondo che mi sono proposto, quelle del Cenacolo, unendo alle da me viste la memoria di alcune che per distanza di luoghi o per altre ragioni non mi fu dato di vedere. L’ordine che terrò in queste descrizioni sarà lo stesso che usai nel primo libro per le memorie scritte del Cenacolo, cioè quello de’ tempi ne’ quali le copie per date certe o presumibili si devono credere eseguite. Debbo anche ripetere per queste che potrei chiamare memorie dipinte del Cenacolo, ciò che per le scritte ho di già detto, cioè che non è mio progetto di tutte qui registrarle, ma quelle soltanto che mi parvero atte a fare o per sè stesse o colle altre qualche autorità anche nelle parti di minore importanza ed affatto accessorie, delle quali fosse dubbio il modo o l’esistenza nel perduto originale. Chè se mi accade di ricordarne alcune prive del tutto di autorità e destituite d’ogni nobile artifizio, a ciò fui mosso dall’udire sovente molte simili opere onorate di alti elogi in parole e in iscritti, i quali elogi, se di quelle opere io tacessi, sarebbero una patente accusa del mio silenzio, e si crederebbe da ciascheduno che io avessi trascurato di consultarle.
Pertanto, siccome è impossibile un generale accordo di pareri in queste materie, se vi sarà qualcuno a cui per prevenzione o per altre cause non fossero accetti i miei giudizj di lode o di biasimo, io lo prego a non comparare quanto io dico con ciò che è stato detto da altri, ma solo con l’opera di cui parlo, in faccia a cui, ogni qual volta ho potuto, ho scritto le mie osservazioni. Intorno poi a quelle copie, per giudicare delle quali non ebbi altra scorta che l’autorità degli scrittori, vorrei che si osservassero posatamente le circostanze di tempo, di luogo, di persona e d’opera, secondo le quali dotto o ignorante espone le proprie sentenze chi scrive, e dietro le quali chi ha discrezione, pratica e amor sincero del vero e dell’arte, dee dare maggiore o minor peso agli encomj non meno che alle accuse.

COPIA NELLO SPEDALE MAGGIORE DI MILANO.
(1500 circa)

Questa è, a mio credere, la più antica delle molte copie che ancora si conservano del Cenacolo. Essa debb’essere stata fatta tra il finire del secolo decimoquinto e il principiar del seguente. È dipinta a fresco sulla parete destra dell’antico refettorio degli orfani nello Spedale maggiore di questa città, luogo ove, poco tempo fa, si riparavano le donne attaccate d’oftalmia e che ora serve ad altri usi. Le figure sono alquanto minori del naturale, sebbene il dipinto sia largo poco meno di tredici braccia ed alto più di quattro. Quantunque quest’opera sia eseguita assai diligentemente, mostra poco vigore di disegno, e tiene assai dell’antica maniera diversa dalla leonardesca e prossima a quella del Mantegna, non però sì aspra, comechè nè sì dotta nè sì esatta. La diversità delle distanze, l’alterazione delle attitudini, le fisionomie cangiate e l’inosservanza di molte altre parti la dichiarano, anzi che altro, una servile imitazione della sola composizione. San Pietro ha il solito coltello negatogli stranamente dal Bianconi. Non vi si vede la mano sinistra nè di Tommaso nè di Taddeo. Bartolommeo è imberbe; Andrea è similissimo a Pietro; Filippo a Giovanni. Giuda non è caricato come nelle altre copie e distinguesi dagli altri dal non aver cinto il capo dell’aureola che orna tutte le altre figure.[3] I colori soavi posti a capriccio e senza progetto d’imitare gli adoprati da Leonardo. Cangiato affatto è il campo, anzi mentre la porta di mezzo è di maniera buona, le finestre laterali sono di maniera tedesca. Sono da osservarsi molte cifre e parole ne’ lembi delle vesti. Fra quelle che ho potuto capire, trovansi tali errori che ne scemano a dir vero l’autorità: pure in questi antichi dipinti non sono inutili le minute osservazioni, se non per altro, per le comparazioni con altre opere. All’apostolo Andrea trovai scritto: Post Petrum primi principem Andreas, a Giuda Juda Scariot, a Filippo Jacobus Alpheus e simili. Così lessi sul lembo che circonda il piede di Pietro, Petrus; Mattheus a Matteo; S. Simon a Giacomo il Maggiore; Jac. a quel d’Alfeo; Thomas a Taddeo; o rex gloriæ a Cristo. Non avrei deposto il pensiero d’indagare il resto, se gli errori grossolani di lingua e alcuni nomi evidentemente male appropriati non me ne avessero distolto. Non ho mancato di ricercare diligentemente se v’era scritto il nome dell’autore, ma le mie ricerche furono inutili.
Vi ho notato con piacere che la figura di Filippo in quest’antichissima copia posa, come esige la natura, sul piede destro, perchè si volge a destra; in che variano molte copie seguendo l’autorità di Marco da Oggiono che eseguì le sue, facendo i piedi ad arbitrio.
Senz’alcun ajuto di tradizione e colla scorta unica della maniera io non saprei a chi attribuire questo singolare lavoro se non al Borgognone. Questo artefice che fiorì ed operò molto al principio del secolo XVI, chiamavasi Ambrogio Fossani, e ignoro onde traesse quel soprannome con che segnava spesso le sue tavole. Segnolle però talora anche col primo nome e per sino con entrambi, come si vede in una tavola nella chiesa di san Celso. Egli conservò la maniera vecchia assai tardi, e si vedono sue pitture fino al 1527. E il Borgognone e il Montorfano ed altri seguaci di quel fare, tenaci degli ornamenti d’oro, timidi ed incerti nell’ombreggiare, freddi nel colorire e diversi in tutto dalla nuova maniera che insegnava Leonardo, avranno anticamente composto una scuola a parte che dalla leonardesca si segregava, e a ciò credo alludere Leonardo stesso nel Trattato allorchè dice: E tu pittore dell’una e dell’altra setta ecc.[4]
Questa copia della quale non ho trovato ricordo presso veruno scrittore, fu in pericolo d’essere imbiancata venticinque anni sono. Il dotto amatore delle antichità patrie signor Giuseppe Vailati fu in tempo ad impedire tale disordine. È desiderabile che si trovi un modo onde por freno a simili arbitrj de’ quali sono frequenti gli esempj anche recentissimi.

COPIA NEL REFETTORIO DEL CONVENTO
DI SAN BARNABA IN MILANO.[5]
(1510 circa)

Debbesi il secondo luogo per antichità a questa piccola copia che dovrebbe essere stata eseguita poco dopo il primo decennale del secolo decimosesto. Il carattere, in ispecie delle teste, l’annunzia evidentemente per opera di Marco da Oggiono. È dipinta sopra una tavola larga quattro braccia e mezzo ed alta due in circa. Non si comprende come nel catalogo delle copie del De Pagavo questa sia detta essere grande soltanto l’ottava parte dell’originale, mentre a lunghezza ed altezza ne è più che la quarta, a superficie ne è men che la duodecima. La parte che vi si vede più finita, è quella che è compresa dalla linea delle teste alla linea della mensa. Non v’ è indizio alcuno de piedi, e molte parti, anche fra le importanti, non sono che abbozzate. Da ciò si scorge assai chiaro che questa copia fu fatta sull’originale unicamente per uso dell’artefice, il quale poscia se ne servì per eseguire altre copie di maggior mole. Parmi concorra a provare lo stesso il vedere che questa tavola fu preparata da prima soltanto a chiaro scuro, di che alcuni de’ panneggiamenti tuttavia fanno fede; il qual metodo monocromatico è sommamente comodo per porre a suo luogo ogni parte dell’opera che si prende a copiare, permettendo che si ritocchi in infinito senza pericolo di confusione di tinte. Non è meno opportuno per la rapidità dell’esecuzione, tralasciandosi per esso non solo le misture de’ colori, ma il tempo di meditare le giuste collocazioni delle tinte e di unirle e di fonderle insensibilmente. Era anche un tal metodo comune a tutte le scuole, nè lo sdegnarono i migliori coloritori, come può vedersi in varie opere imperfette, non solo del Vinci e del Frate in Firenze, ma del Correggio in casa Doria a Roma, e del Tiziano stesso a Napoli e d’altri grandi altrove: usavasi però sempre negli abbozzi ne’ quali l’attendere ai colori avrebbe diminuito l’attenzione al disegno ed alla forza dell’espressione. Se dunque questa copia è di Marco, come sembra, debbe aver servito per l’esecuzione di quella a olio della Certosa di Pavia e dell’altra a fresco del convento di Castellazzo.
Vi si osservano teste pesanti e grosse, attitudini impedite, e mani con moti falsi e senza grazia: difetti che si riconoscono nelle altre opere di questo autore. Vi si vede il coltello di Pietro e la mano di Tommaso ch’egli non trascurò in nessuna delle sue copie. Nulla v’è sulla mensa, ed il poco fondo che vi si vede, è di architettura fatta a capriccio.
Poche notizie abbiamo di Marco da Oggiono, da altri detto da Uglon, Oglono e Uggione. Si sa ch’era discepolo del Vinci, e le sue pitture hanno poco merito oltre quello della sua scuola. Il Cesariano nel suo commento a Vitruvio loda la maxima et diligente pratica universale di questo artefice; ma il Cesariano come ognun sa, non è il migliore de’ critici.[6] Generalmente l’Oggiono ha poco disegno, ed il principale suo pregio sta nelle teste, sebbene anche in queste non sia sempre eguale a sè stesso. Quando vi attese a dovere, è fiero, di gran rilievo, di forte colorito, comechè alquanto caricato e monotono. Ripete però sempre le stesse fisionomie copiate dalle migliori teste di Leonardo, che degrada con baffi prolungati per traverso e con capelli triti, minuti, ora tendenti al color rosso cupo, ora bianchi argentini che staccano duramente dalle tinte di carne, vive bensì e calde, ma rustiche sempre e volgari. Nelle figure de’ giovani e delle donne tiene altro sistema, e colorisce spesso assai freddamente e con salto troppo notabile dai colori che suol dare alle figure virili o senili. L’opera sua migliore, se fosse veramente sua, è la Crocifissione che ancora si conserva nell’antico refettorio della Pace e che porta la data del 1510. Ma io credo a gran fatica che questa opera possa dirsi di lui, e se si giungesse a dimostrarlo, bisognerebbe credere più antiche le sue copie del Cenacolo, nelle quali si vede minor possesso dell’arte. Quantunque poi da alcuni siagli attribuita tal opera, gli scrittori più autorevoli, cioè il Vasari e il Baldinucci che di lui citano molte altre cose, nè, se ben mi ricorda, il Lomazzo, non fecero affatto menzione di questa, la quale, come più importante di tutte, non doveva preterirsi. Chè se mai si scoprisse di che poter dimostrare esser essa assolutamente di sua mano, giudicherei ch’egli si fosse servito di cartoni altrui, e parmi vi traluca la maniera di Cesare da Sesto, ricca, pronta e bizzarra, sebbene ineguale e scorretta. Certo vi sono de gruppi mirabili in autore sconosciuto, dalla bellezza e novità de’ quali troppo si dilunga Marco nelle altre opere sue, inventore sempre ignobile o non originale. Le arie di alcune teste hanno qui una grazia ch’egli non ripetè mai: le invenzioni degli abiti, la nobile espressione di alcune figure, specialmente nel gruppo della Vergine svenuta, il modo dolce e pastoso del colorito, sono cose tutte in quest’opera affatto diverse e superiori a quanto di sua mano si vede altrove. Se il cartone fosse stato fatto da Cesare da Sesto, è da credere ch’ei tralasciasse d’eseguirlo per recarsi in Sicilia o a Roma a lavorare nelle opere del Vaticano, probabilmente meglio pagate. Fra le tavole a olio di Marco parmi primeggiare quella che rappresenta la Vittoria dell’arcangelo Michele, ch’era una volta in santa Marta ed ora vedesi nella reale galleria. In questa l’autore che non pose, ch’io sappia, il suo nome altrove, inscrisse seccamente Marcus senz’ altra nota, quasi compiacendosene. Chiunque confronterà il fare di questa opera e delle altre sue tutte che facilmente si riconoscono e che sono in gran copia, vedrà quanta differenza passi tra il suo stile solito e quello assai migliore della citata Crocifissione, la quale se vantasse miglior disegno, potrebbe gareggiare coi primarj monumenti della pittura milanese.

COPIA NEL CONVENTO DI CASTELLAZZO.
(1510 = 1514)

Dopo la copia dello Spedale maggiore e la tavola di san Barnaba cui demmo per ordine di tempo il secondo luogo, non saprei ben dire se a questa o alla seguente debbasi il terzo. Entrambe però sono, almeno in ciò che più importa, di mano di Marco, non meno che la tavola descritta che per esse, come già avvertii, dovette servire. È difficile l’indagare con precisione in qual tempo fossero eseguite queste due copie. Quella che or descriviamo di Castellazzo,[7] luogo de’ frati di san Girolamo, lontano un miglio dalla città, debb’essere stata condotta a fine prima del 1514. La seguente che fu già nella Certosa di Pavia, se noi fu contemporaneamente, dee di poco precederla o di poco venirle dopo. Congetturo l’indicata epoca da una lapida che tuttavia si conserva incastrata esternamente nella parete meridionale del refettorio del convento di Castellazzo. Leggesi in essa che un don Baldassare Sudato da Milano, a quell’epoca priore, ristaurò, ampliò e adornò il convento. Però sembra probabile che fra gli ornamenti di cui il Sudato rese cospicuo il suo cenobio, fosse anche il cenacolo dipinto da Marco per l’appunto nel refettorio, al quale è appoggiata l’iscrizione che copio fra le note.[8]
I girolomini di Castellazzo e i certosini di Pavia invidiarono ai domenicani delle Grazie il famoso ornamento del refettorio, e vollero averne, per quanto si poteva, uno simile dalla scuola stessa del Vinci. Perchè gli uni e gli altri affidassero tale impresa alla stessa mano, parmi si scorga per le seguenti osservazioni. Intorno al secondo decennale del secolo decimosesto, tempo in cui poniamo le due opere, Cesare da Sesto e Bernardino Luino, primi lumi della scuola milanese, dovevano essere assenti, e probabilmente s’eran recati a Roma, dove il Sanzio, direttore di tutte le opere del Vaticano, aveva chiamati con buoni premj ajuti da tutta Italia, ed in ispecie da Lombardia che dava gran pratici ed ottimi coloritori. Il Boltraffio, ch’era ricco gentiluomo e che aveva cure maggiori, non doveva assumersi lavori di molta fatica e di poca gloria, come sono le copie, specialmente allorchè sono tratte da recente originale. Dicasi lo stesso del Melzo che sembra in oltre non essersi dilettato di grandi opere, e che forse unitamente al Salaino era anch’egli già assente col maestro. Dopo questi migliori discepoli o imitatori di Leonardo, nulla sapendosi del Pedrini, viene in ragion di merito il nostro Marco, e l’assenza o le occupazioni de’ cinque nominati soggetti furono motivo che sopra Marco si ponesse l’occhio da più padroni, e ch’egli come solo presente de’ migliori venisse ricercato contemporaneamente per entrambe le commissioni di Castellazzo e della Certosa. Il non poter poi egli allontanarsi dalla città, nella quale doveva avere molti ajuti e molte opere, fu cagione che la copia de’ certosini, contro il costume di que’ tempi per le opere grandi, venisse eseguita a olio; ed anche ciò mi conferma nell’opinione che contemporaneamente l’una e l’altra venissero da lui e da’ suoi discepoli o compagni eseguite.
Questa adunque de’ girolomini che ancora esiste nel detto refettorio del soppresso convento di Castellazzo e che cortesemente si mostra dai presenti proprietarj del luogo, fu eseguita a fresco con molta attenzione e diligenza. È alta sei braccia e once dieci, e larga dodici braccia meno mezz’oncia, compresavi una vecchia cornice alta cinque once e un quarto, probabilmente contemporanea al dipinto, la quale il cuopre alquanto ne’ lati e in alto, non però nella parte inferiore. Tutto vi è fatto con gran precisione ed accuratezza, sebbene in moltissime cose l’autore operasse a capriccio, non secondo l’originale. Il paese è arricchito di fabbriche e d’altre minuzie: la tappezzeria (appesa, non isfondata nelle ricqadrature) è tessuta a fiori che sembrano viole, convolvoli e gelsomini, azzurri, rossi, gialli, violacei, tutti tra foglie di verde chiaro in campo di verde oscuro. La soffitta ha i travicelli decorati all’intorno d’una linea di giallo: ornati a rabeschi sono i fianchi delle porticelle poste tra le tappezzerie: il pavimento è di un rosso vivace interrotto d’alto in basso da cinque strisce verdi. I colori sono distribuiti ad arbitrio, e vi si ripetono in onta de’ precetti di Leonardo. L’azzurro oltramarino, forse per gusto ed ordine de’ frati, vi è usato senza accordo e con tanta profusione che fe’ invito a mani, non so se più ladre o indiscrete, a raschiarlo barbaramente in più luoghi con danno dell’opera. Il cielo, le montagne, i panni di Matteo, di Cristo, di Giovanni, di Pietro, di Bartolommeo sono o in tutto o in parte dello stesso tuono di azzurro senza varietà alcuna e con patente disarmonia. Anche le tinte delle carni sono monotone e pendono in rossiccio in tutte le figure, eccetto il san Giovanni che è d’una tinta assai buona e contrasta assai bene col vicino Giuda di color fosco abbronzato. Il colorito in generale non è nè armonico nè piacevole: le barbe bianche sono ombreggiate da un grigio ferreo, e staccano aspramente dalle tinte fortissime delle guance: i capelli, ove non sono come le barbe, foschi che danno in rosso cupo, secchi ed eguali tutti di colore e di maniera, con onde regolari e minute, non rammentano certo il sistema del maestro che tant’alto portò l’imitazione e la scelta in questa parte sì importante al decoro ed alla grazia delle teste. Ma il peggio sta nel disegno. Le figure sono generalmente tozze: le teste sono pesanti forse più che nella tavola di san Barnaba: le attitudini non sono libere nè facili: le mani, se si eccettuano quelle dell’apostolo Giovanni, sono storpie, or piccole or corte, e generalmente mal fatte e spiacevolissime. Ve ne sono alcune in cui le dita hanno le articolazioni rotte o forzate fuor di misura: altre, come una dell’apostolo Matteo, in cui la seconda falange delle dita fa un angolo minore che non è nella prima, il che è contrario all’operare della natura. Le forme de’ piedi sono barbare affatto. Le orecchie sono talora fuor di luogo e tutte mancanti notabilmente nella parte inferiore. La figura del Salvatore non ha spalle, avendo un collo larghissimo senza muscoli: quasi tutte le altre figure hanno le parti mal corrispondenti fra loro e mancano sopra tutto, come quella del Redentore, nelle attaccature delle spalle e de’ colli.
Non ostante sì enorme numero di difetti, quest’opera va tenuta in pregio per l’autorità della scuola, e per questa ragione io ne ho disegnato tutte le teste e gran numero d’altre parti accessorie; con che ne posso parlare con più cognizione che non farebbero gli osservatori superficiali ne quali il giudizio è spesso travolto dalla seduzione de’ nomi antichi, dall’indisciplinata fantasia e talora anche dall’interesse, iniquo sovvertitore delle opinioni. Ben è gravissima disgrazia che de’ varj discepoli di Leonardo, il solo Marco abbia fino a noi tramandate le sue copie, e però ci manchi una guida onde discernere quanta parte abbia egli in esse trasfuso dell’originale, quanta del fare suo proprio. Quindi il solo mezzo, a mio parere, di ottenere qualche verità ne’ giudizj intorno ad esse, è l’attribuire a Leonardo quanto vi si riconosce di buono, e credere del copiatore quanto vi si vede di contrario sì alle generali discipline dell’arte, come alle speciali di Leonardo. La parte che v’è di più lodevole parmi il carattere di varie fra le teste, ed in ispecie di quelle nelle quali non fu esagerata l’espressione a danno delle forme. Ad ogni modo quest’opera è monumento da farne conto, e si debbe pubblica lode ai presenti possessori del convento, i quali non solo cercarono d’impedirne il deperimento, ma ne lasciano libero l’accesso a chi vuol vederla o trarne disegni.

COPIA DELLA CERTOSA DI PAVIA.
(1510 = 1514)

Dalle cose dette nell’articolo che precede questo, si può comprendere l’epoca, l’autore e il merito di quest’altra copia, di cui, perchè collocata in luogo famoso per altre opere, si trova menzione presso del Baldinucci che non ebbe notizia dell’antecedente. Essa è all’incirca della stessa grandezza della descritta di Castellazzo, ch’è quanto dire di forse un quinto più piccola dell’originale. Dalla Certosa di Pavia, in occasione di non so quali vendite di oggetti appartenenti a quel convento, passò nelle mani d’un negoziante milanese. È dipinta, come si disse, in tela, ed è sufficientemente ben conservata; solo è annerita di molto ove la biacca non sostenne le tinte. Alcune parti di essa sono d’altra mano, ed in ispecie i piedi che hanno dita enormi, e sono in tutto pessimamente eseguiti. Alcune teste, come nella copia di Castellazzo, sono belle e di molto rilievo: altre sono esagerate assai in ogni parte, e caricate oltremodo nell’espressione: alcune poi sono fuor di disegno affatto, come fra l’altre quella del Salvatore, e più ancora quella dell’apostolo Filippo. O l’Oggiono aveva mano assai ineguale, o si serviva di ajuti o discepoli troppo inesperti. Occorrono a quest’opera varie cose delle notate nell’antecedente, ch’è inutile il ripetere. Non descrivo ciò che si può scorgere dalla stampa che ne trasse il signor Frey, nella quale per altro i piedi sono diminuiti e notabilmente migliorati di forme. Del colore e d’altre cose che la stampa non sa mostrare, non posso parlare a dovere, perchè quantunque allorchè io abitava nella reale Accademia abbia per varj anni vista spesso e considerata molto questa tela, ivi posta presso lo scultore Franchi, ora non ne ragiono che di reminiscenza, stante che l’attuai possessore, ritiratala presso di sè alla morte del Franchi, non mi ha permesso ch’io la vedessi. Me ne ha però proposto l’affitto anche per un anno per dugento luigi d’oro, al che non mi parve dover accondiscendere, soddisfatto, com’io era, d’averla altre volte esaminata; e con ciò mi scuso di non saperne dare più minuto ragguaglio.
Il pittore Santagostino nel suo libercoletto, pubblicato nel 1671, parla di questa copia, e la chiama, bella quanto l’originale: ma quando poi parla dell’originale, dice, come già altrove osservammo, che è tanto guasto, che poco se ne può godere con l’occhio. Come abbia fatto il Santagostino a istituire il paragone fra la tela visibile di Marco e l’originale di cui poco potea godere con l’occhio, è difficile l’indovinarlo: certo è che si cadrebbe in enormi sbagli in fatto d’arti, quando si desse molto valore ai giudizj de’ secentisti.[9] Un giudizio non meno esagerato in favore di questa copia si ha da Bartolomeo da Siena certosino, di cui leggasi il passo nelle note.[10] Dice anch’ egli, al modo del Santagostino, quantunque scrivesse quasi mezzo secolo prima, che vix ægreque si poteva al suo tempo godere del bello dell’originale. E ciò che prova che questo frate poco intendeva le cose dell’arte, anzi non sapeva che fraintenderle, è l’encomio singolare che fa della testa del Salvatore di questa copia, esaltandola come cosa divina sopra l’originale che Leonardo aveva in tal parte lasciato imperfetto: e per l’appunto si combina che, come assai bene mi ricordo e la stampa in parte il dimostra, la testa del Salvatore di Marco, oltre i notati errori di disegno, è dura, affettata, e non solo lontana dall’espressione che ancora in mezzo a tanta ruina si va nell’originale indovinando, ma lungamente inferiore altresì a molte teste dell’opera stessa e tra le altre a quella di Giacomo il Minore. In prova poi dell’entusiasmo affettato di questo buon frate basti il vedere che, sebbene altamente decanti la sua tela, non si prese cura nemmeno d’informarsi dell’autore; la qual cosa non può non cadere in mente a chiunque osserva con amore un’opera d’arte che si crede stimabile. Comunque però esagerati sieno i giudizj del certosino e del pittore, questa pittura, ad onta d’esser opera di più mani e ad onta di molti altri difetti, al pregio dell’antichità unisce, al pari di quella di Castellazzo, l’autorità della scuola. Ma abbiamo per essa un solenne argomento della libertà, di che già ragionammo, delle antiche copie, perchè essendo almeno nelle parti più importanti d’una istessa mano e questa e la descritta di Castellazzo, non pertanto sono fra loro si differenti che se si eccettui la composizione, quasi non si direbbero derivare dallo stesso originale. Con ciò si conferma che Marco le ha tratte entrambe dalla copietta di san Barnaba, nella quale non vi sono nè i piedi, nè le tinte de’ panni, le quali cose furono in gran parte fatte arbitrariamente nell’una e nell’altra copia.

COPIA DI GIOVANNI PEDRINI.
(15..)

Nel manoscritto del Mazzenta, citato dal Venturi, si fa menzione d’una copia del Cenacolo di mano del Pedrini, il quale dal padre Sebastiano Resta è posto fra gli scolari del Vinci. Ignoro se esista e dove esista tale opera. Potrebbesi congetturare che fosse o quella dell’Escuriale, se non fu fatta espressamente per ornare quell’edifizio, o quella di san Germano, le quali da varj scrittori diconsi entrambe indeterminatamente della scuola di Leonardo.

COPIA DI S. GERMANO IN PARIGI.
(1517 circa)

Il magnanimo re Francesco Valese voleva far segare la parete intera del Cenacolo onde trasportarla in Francia, ma non trovò chi s’incaricasse d’impresa di tanto pericolo. Il Bottari dice che se Leonardo ne fosse stato richiesto, vi sarebbe senz’altro riuscito, e cita in conferma le trasportazioni eseguite in Roma dallo Zabaglia. Ma non riflette che queste, oltre che si trattava di moli minori, avvennero in luoghi piani pel corso di due o tre miglia, e che la bisogna sarebbe riuscita altramente, quando con tali macchine si fosse trattato di scorrere le leghe a centinaja varcando il Moncenisio e la Savoja o qualunque altro sbocco in Francia. Che se la difficoltà stava nel richiederne Leonardo, egli fu al servizio del re Francesco in tempo che questi teneva il Milanese, ed è probabile che fra loro ne fosse fatta parola, conchiudendosi essere il taglio dell’Istmo. V’ha chi attribuisce a Lodovico XII questo ardito pensiero, ma per la natura sua e per più gravi autorità storiche appartiene al Valese, il quale non potendolo mandare ad effetto, ordinò una copia del Cenacolo che parrebbe dover essere stata commessa ad artefice di buon nome. Essa fu da alcuni scrittori attribuita al Luino vecchio, ma non v’è intorno a ciò alcuna buona o antica autorità. Fu probabilmente portata in Parigi intorno al 1517, cioè due anni dopo che la vista dell’originale aveva acceso tanto desiderio nell’animo del re. Ivi fu posta in san Germano d’Auxerre, e secondo il Lépicié nella sala d’unione dei fabbricieri, dove stette fino ai disordini dell’ultima rivoluzione, nel qual tempo è da credere sia stata distrutta, non trovandosene ora notizia o vestigio. Così almeno mi fu riferito da più d’uno. Si legge ricordo di questa copia nelle opere del D’Argenville, del Le Comte e d’altri molti che copiaronsi al solito a vicenda. Certo che se fosse stata di mano di Bernardino Luino, e quindi la migliore di quante ne esistono, sembra che se ne sarebbe tenuto conto anche al tempo de’ tumulti di Parigi, nel quale si pensò sempre a porre in salvo le opere importanti dell’arte; talchè la sua perdita mi dà congettura della sua mediocrità.

COPIA D’ESCOFENS.
(1520 circa)

Dalla copia di san Germano fu copiata quest’altra che il contestabile di Mommoransi fe’ fare pel suo castello d’Escovens, ed è strana cosa che da chi ne fa menzione, la nipote dell’originale si dice più bella della figlia donde ha origine, nuovo argomento della poca critica de’ lodatori di tali opere. Nelle giunte del Bottari alla Vita di Leonardo si legge che questa d’Escovens era ancora benissimo conservata al suo tempo. Anche di questa come dell’altra dond’è tratta, s’ignora l’autore. L’esser questa detta migliore pare assicurarci che quella di san Germano, lungi d’essere di Bernardino, fosse di mano mediocre; chè se fosse stata altrimenti, non sarebbe da credere che la copia cavatane la vincesse in bellezza. E se quella era mediocre, mediocrissima sarà questa, e perchè fatta in tempi di nessuna critica e di facile contentatura in questo genere, e perchè destinata a star lungi assai dall’originale, e perchè in fine i Francesi a quell’epoca, secondo che dice il Cellini, in fatto d’arti erano ancora gente grossa, e non godeano che da pochi anni il frutto della protezion generosa con cui il gran re Francesco animò ogni nobile disciplina. Rimane da aggiungere che non si andrà lungi dal vero credendo che quest’opera sia stata mal pagata ed eseguita da artefice di poca fama; perchè se fosse stata ben pagata, sarebbe stata eseguita in Italia sull’originale; e se fosse stata commessa ad artefice distinto, questi non l’avrebbe copiata da un’altra copia.

COPIA DI SAN BENEDETTO PRESSO MANTOVA.
(1525 circa)

Ad onta di lunghe ricerche e di viaggi fatti per veder questa copia, non posso per anco parlarne che sull’altrui autorità. Essa è attribuita a frate Girolamo Monsignore converso domenicano, scolaro di Andrea Mantegna, e fu fatta pel convento di san Benedetto in Polirone. Fu dipinta in tela a olio, e vendutosi, alcuni anni sono, quel convento coi mobili e co’ quadri che l’adornavano, fu trasportata in Sassuolo in casa del compratore. Questi da oltre un anno, per non lasciarla esposta alle conseguenze della guerra e delle sedizioni, mandolla con moltissimi altri quadri in Modena, dove è di presente rotolata e incassata.[11] Senza l’autorità del Vasari, sarebbe quasi da sospettare che questo cenacolo non sia altrimenti copiato da quello del Vinci. Io lo pongo pertanto in serie fra le copie appoggiato a quanto egli ne dice: ma ogniuno sa che questo autore scrisse per lo più di reminiscenza, sempre di fretta, e spesso coll’ajuto altrui e su quanto venivagli da altri asserito. Se frate Girolamo dipinse due cenacoli ne’ due refettorj di san Domenico in Mantova e di san Benedetto in Polirone, questi possono essere stati di sua composizione, e la prima volta che il Vasari fe’ ricordo di tali opere e dell’autore, cioè nella vita di fra Giocondo, non dice altrimenti che l’uno de’ cenacoli fosse copiato da quello di Leonardo; ed ivi certo era il luogo di dirlo, dove di fra Girolamo e di suo fratello Francesco più degno pittore ragiona largamente. Solo poi nella vita di Girolamo da Carpi, ove di nuovo parla delle pitture di san Benedetto, soggiunge: Nel medesimo luogo è di mano di un frate Girolamo converso di san Domenico nel refettorio in testa, come altrove s’è ragionato, in un quadro a olio ritratto il bellissimo Cenacolo che fece in Milano a s. Maria delle Grazie Lionardo da Vinci, ritratto dico tanto bene ch’io ne stupii; della qual cosa fo volontieri di nuovo memoria avendo veduto quest’anno 1566 in Milano l’originale di Lionardo tanto mal condotto che non si scorge più se non una macchia abbagliata, onde la pietà di questo buon padre renderà sempre testimonio in questa parte della virtù di Leonardo. E qui il Vasari credè aver già detto ciò che in questo passo asserisce, ma s’inganna, come in molte altre occasioni; e quel che è più singolare, nè di questo stupendo cenacolo, nè de’ Monsignori si trova ricordo alcuno nella sua prima edizione. Forse accrebbe confusione alla sua memoria l’opera di Francesco nell’altro refettorio de’ francescani pure in Mantova, la quale, dic’egli, rappresenta il Salvatore in mezzo ai dodici Apostoli in prospettiva, che sono bellissimi e fatti con molte considerazioni, fra i quali vi è un Giuda traditore con viso tutto differente dagli altri e con attitudine strana, e gli altri tutti intenti a Gesù che parla loro essendo vicina la sua passione. La quale descrizione rammenta alquanto il Cenacolo vinciano, e può avere avuto parte ad illudere lo scrittore ed a fargli dire quanto abbiamo citato. Aggiungo a queste osservazioni, che il Lanzi (che sembra però parlare anch’egli sull’altrui autorità) dice che la copia del Monsignore è nella libreria, non già nel refettorio, come scrisse il Vasari. Il Cadioli mantovano la dice nel refettorio e cita il Vasari, egli che essendo pure dell’arte potea ragionarne coll’opera sott’occhio e servirsi poi per un di più, se il credea, di quanto il Vasari lasciò scritto. In fine e per memoria di alcuni che videro l’opera sul luogo e per quanto asserirono in addietro gli agenti del presente possessore che ora la tiene in Modena, il cenacolo in tela che fu tolto da san Benedetto, è una imitazione di quel di Leonardo di mano di Camillo Procaccino, eseguita liberamente senz’altro ritenere dell’originale che l’ordine delle figure. Chè se veramente (ch’è pur d’uopo far conto dell’autorità del Vasari) esiste una copia del Cenacolo di mano di fra Girolamo, mi ristora alquanto del non averla vista il leggere che questo sant’uomo trattava l’arte freddamente, e dal Vasari stesso non è chiamato se non ragionevole dipintore: laonde non è da credere che l’opera sua potesse gran fatto somigliare alla vinciana, e perchè egli era d’una scuola diversissima ne’ principi, in particolare del chiaroscuro e del colorito, e perchè fatta soltanto sopra qualche disegno lungi dall’originale. Per ispiegare poi in qualche modo la perdita della copia del Monsignore e la sostituzione di quella del Procaccino, non saprei altro congetturare se non che quella prima sia stata rubata o distrutta nell’orribile sacco di Mantova e de’ contorni, avvenuto nel 1630, e che i frati la facessero rifare in Milano, non già da Camillo che a quel tempo era morto, ma da qualcuno de’ tanti suoi imitatori, le cui opere ne portano il nome, del quale colla ordinaria loro mediocrità hanno diminuita la fama.

ARAZZO VATICANO.
(15..)

Non mi è riuscito di trovare con precisione in qual tempo sia stata fatta l’antica copia in arazzo che credo si serbi tuttavia in Vaticano, assai consunta dal tempo. Se si crede al padre Resta che ne parla nel suo Indice del Parnaso de’ pittori, essa fu fatta eseguire da Francesco I, onde farne dono a papa Clemente, e fu tratta dalla copia di san Germano. Sembra che questo arazzo sia stato anticamente guastato per mala custodia o per altre ragioni, poichè fino al tempo del Bottari, che ciò dice in una postilla ad una lettera del giovane Mariette, era per l’antichità tanto lacero, che non se ne potea più far conto alcuno. Sembra anche che abbia subito varj risarcimenti. Ad ogni modo non può affatto servire per dare idea dell’originale, non solo come copia di copia, ma per le tante alterazioni nelle fisionomie, ne’ panni, ne’ colori e in somma in ogni parte. Il fondo poi, forse per alludere al vino eucaristico, è convertito in un pergolato che campeggia sul cielo, lieta invenzione, ma qui affatto fuor di luogo ed oltremodo contraria alla severità della composizione. Oltre i citati Resta e Bottari, parlano di quest’opera il Lanzi, il Fiorillo ed altri. Il Fiorillo anzi dice che per isbaglio dell’arazziere vedesi in quest’opera una mano di san Giovanni con sei dita, la qual cosa fu detta dal Cochin sull’originale. Io ho visto più volte in Roma questo tappeto, ma mi parve tanto esagerato e difettoso in ogni parte, che non l’ho mai attentamente osservato, nè mi ricorda d’aver visto lo strano errore rammentato dal Fiorillo.

DI GUGLIELMO DELLA PORTA.
(1530)

Nella Vita di Leone Leoni e d’altri, racconta il Vasari che Guglielmo della Porta in Milano attese con molto studio a ritrarre le cose di Lionardo da Vinci che gli fecero grandissimo giovamento. Il Baglioni ne dice altrettanto. Anche il Resta dice lo stesso nell’Indice del suo Parnaso de’ pittori.[12] È da credere che principalmente sul Cenacolo studiasse Guglielmo: ignoro però se esista avanzo di siffatte opere. Io ne volli dar cenno per norma di chi ne trovasse di tali da poterglisi attribuire.

COPIA IN ARGENTO.
(1530 = 33)

Di quest’epoca all’incirca sarà stata eseguita la copia accennata dal Comanini, la quale era probabilmente fatta a bassorilievo cesellato. La pongo in questo tempo, perchè nel 1533 avvenne il matrimonio di Enrico II con Caterina de’ Medici, per errore detta Margherita dal Comanini di cui riveggasi il passo a carte 42. Di queste copie in rilievo esisteva di già un esempio alla Certosa di Pavia, dove il nostro Cenacolo fu imitato in marmo da Biagio Vairone, valente scultore, che morì l’anno 1513.

COPIA A OLIO GIÀ NEL CONVENTO DI CASTELLAZZO.
(1640 circa)

Un’altra copia del Cenacolo si vede in un podere poco discosto da Castellazzo, appartenente ai signori Carli di Milano. È questa in tela a olio, e le figure vi sono grandi poco oltre la metà del naturale. Fu, a quanto apparisce, diminuita alquanto lateralmente ed accresciuta in altezza onde appropriarvi una cornice non sua, e adattarla a luogo più stretto del destinatole da principio. L’opera non è spregevole, ma non vanta autorità alcuna, essendo senza dubbio copia della copia a fresco di Marco in Castellazzo. Essa fu sempre in quel convento finchè alla soppressione de’ girolomini fu venduta con altri quadri e mobili per ottanta lire. Il copiatore non ha tralasciata la mano di Tommaso, nè il coltello di Pietro, nè la saliera rovesciata; solo nella tappezzeria ha fatto un drappo verdastro a suo modo, superiormente ornato d’una frangia male mutante l’oro. Anche le aperture che stanno fra le tappezzerie sono quali nella copia di Castellazzo, e quelle che stanno a dritta del Salvatore, veggonsi illuminate dallo stesso lume che rischiara tutto il Cenacolo, e ciò ancora più evidentemente che non è nell’opera di Marco. Oltre l’indicata tappezzeria introdusse il copista altre cose di suo arbitrio, ma sono di poca importanza, come i piatti e le vivande variate a capriccio, il pavimento ornato di grandi rettangoli gialli e rossi, un cagnolino nel mezzo del quadro ecc. Il tuono generale dell’opera supera in effetto l’opera a fresco per la maggiore armonia, per non avere que’ grigi ferrigni ne’ capelli d’Andrea, di Pietro e di Taddeo, e per aver tinte più accordate ed alquanto meglio variate ne’ panni. I capelli però sono quasi tutti d’un colore uniforme tendente al rosso bruno, tinta prediletta da Marco. La tunica di Giacomo di Zebedeo è di un bel giallo dominante, con ombre tendenti al verde, ed anche ciò prova che se tal panneggiamento si vede talora sì oscuro nelle copie, ciò avvenne perchè inavvedutamente vi fu adoperato il giallo santo o altro caduco colore. Questo lavoro d’ignota mano debb’essere stato eseguito poco prima della metà del secolo decimosesto. Il podere o cascina dove si conserva, si chiama Belcazzule.

COPIA PRESSO IL SIGNOR DAY IN ROMA.
(1540 = 50)

Questa copia a olio in tela è alta poco più di due braccia e mezzo, e poco meno di cinque e mezzo larga. Sembra anteriore alla metà del secolo decimosesto. Nel piatto di mezzo v’è un agnello intero. Matteo è barbato: imberbe è Bartolommeo. Arbitrarie sono le tinte de’ panni: egualmente arbitrario è il fondo e gli accessorj. Vi si vede la mano di Tommaso. Giuda ha i capelli rossi. V’è anche la solita saliera rovesciata. Il pregio principale di quest’opera è il non vedervisi quelle esagerazioni e caricature che in quasi tutte le altre si veggono, sì antiche come moderne. Senza qualche autorità scritta credo impossibile indovinarne l’autore. Dai molti arbitrj, specialmente ne’ colori, si giudicherebbe tratta da un semplice disegno, anzichè da bozzetto o copietta minore fatta direttamente dall’originale.

COPIA NEL CONVENTO DELLA VETTABBIA IN MILANO.
(1 560 circa)

Nel refettorio del convento della Vettabbia a sinistra dell’antico ingresso vedesi una copia del Cenacolo di Leonardo. Il refettorio è assai meno alto di quello delle Grazie, ma è all’incirca della stessa larghezza, che tutta rimane occupata dalla pittura, tranne due piccioli pilastrini dall’un lato e dall’altro. L’architettura vi è dipinta ad arbitrio. Ad onta della tanta indicata larghezza, le figure non sono più grandi del naturale, e sebbene fra loro discostate più assai che nell’originale, sono assai meno facili e pronte nelle attitudini, le quali anzi riescono imbarazzate e false. Non conosco la maniera di questo pittore che debbe aver fatta tale opera prima della rinnovazione della scuola lombarda, nella seconda metà del secolo decimosesto. Egli ha forse creduto di dare espressione maggiore alle figure coll’esagerare le mosse delle teste, tanto semplici a un tempo ed affettuose nell’originale, Giacomo il Maggiore sopra tutti sembra un uomo stranamente cruciato da tormenti. Ma è inutile il dare minuti ragguagli intorno a quest’opera, non essendo tale da fare autorità. Essa conserva bensì in generale il movimento e la disposizione delle figure, ma non v’è neppur l’ombra del fare di Leonardo nel resto. Anche il lume è preso a man destra per servire alla posizione delle finestre, mentre per la stessa ragione nell’originale è a sinistra.
  
COPIA NEL REFETTORIO DEL CONVENTO DELLA PACE
IN MILANO.
(1561)

Il Lomazzo fece in sua gioventù questa copia che debb’essere stata condotta a fine al principiare del 1561. Sembra ch’egli stesso ne facesse poco conto, almeno in età matura, perchè nella Vita che di sè stesso scrisse, avendo circa cinquant’anni, non la tenne degna d’essere noverata fra tante opere minori ch’ivi descrive. Ne’ suoi Grotteschi però ne fa ricordo in un sonetto del libro secondo, nel quale, per ragionare del Chiocca suo allievo e d’altri, prepone le due seguenti quartine:
Pianse mesto Francesco Re di Franza,
Quando il Melzi che morto era gli disse
Il Vinci, che in Milan mentre che visse
La Cena pinse ch’ogni altra opra avanza.
Questa ritrassi anch’io in quella stanza,
Dove mangiano i frati senza risse
Nella Pace, ove da niun mai si misse
Disturbo nella lor amica usanza.
Questi versi debbono essere di poco posteriori all’opera che, a dir vero, pari ai versi, è meno che mediocre, e non fa autorità alcuna, tanti sono gli arbitri e il mal garbo con cui fu condotta. La parete sulla quale è dipinta a fresco, è larga quattordici braccia e mezzo, ed alta sei e tre quarti. Il fondo fatto a capriccio ha due strane aperture divise da un pilastro che fa campo alla testa del Salvatore. Tali aperture sono un rettangolo largo più di due volte l’altezza, bizzarra e mal solida forma. Esse continuano ne’ muri laterali in luogo de’ soliti arazzi, e tra l’una e l’altra avvi un meschino pilastruccio dorico, cui risponde un unico triglifo a piombo nel fregio. Non meno arbitrarj sono i colori de’ panni; sparute assai sono generalmente le tinte delle carni; trascurato il carattere; storpiato in fine malamente il disegno. Il fondo, in mezzo alle strane novità ed alla riprovevole architettura, ha almeno qualche pregio d’esecuzione, e dimostra miglior pratica che non il resto, talchè si direbbe d’altra mano. Mal a proposito il Du-Fresne, che pur era buon critico, lodò questa meschina produzione, e dal di lui giudizio su di questa si può argomentare quanto valga il giudizio del Santagostino e di Bartolommeo da Siena sopra quella della Certosa, e d’altri sopra altre. Il Bianconi nella prima sua Guida fa le meraviglie che il Lomazzo, il quale in quest’opera giovenile fece, come ci dice a ragione, piedi giganteschi da far paura,[13] divenuto cieco indicasse poi accuratamente le proporzioni del corpo umano. Quanto maggiore sarebbe stato il suo stupore, se avesse saputo che i precetti del Lomazzo sono di forse dieci anni anteriori alla sua cecità, e di poco posteriori se non contemporanei alla sua copia, come dimostrai nel primo libro. Da ciò si può dedurre che nelle arti del disegno è più facile il dire che il fare.
Un’altra copia di questo autore pose il De Pagave nel suo elenco delle copie del Cenacolo, e la dice dipinta nel Monastero maggiore; e ciò ch’è più singolare, l’assicura assai bella e conservata. Sulla sua fede il Fiorillo, il Della Valle, l’Amoretti ed altri hanno ripetuto lo stesso; ma la copia di fatto non esiste. Di questo sbaglio stravagante in uno scrittore milanese furono probabilmente cagione le poche figure che in una cappella della chiesa sono state imitate dagli apostoli del Vinci, e stanvi in rappresentazione di spettatori della crocifissione di Cristo. Forse anche il fu un cenacolo d’invenzione dello stesso Lomazzo, dipinto a tempra, che stava altre volte in refettorio, e ch’io, molti anni sono, feci trasportare nell’accademia reale.[14]

COPIA NELLA CHIESA DI PONTE CAPRIASCA.
(1565)

Uno de’ pregi, a mio credere, principali di quest’opera che occupa quasi tutta la larghezza della parete che sta dicontro all’altar maggiore della chiesa parrocchiale di Ponte, è l’avere inscritti i nomi di tutte le figure. L’accordarsi di tal nomi colla storia, come nel secondo libro abbiamo diffusamente osservato, prova la buona origine di questa iscrizione che forse fu copiata da simile anticamente esistente sotto l’originale. Essa è pertanto nell’ordine che qui si trascrive:

S. BARTHOLOMEVS, S. IACOB MI, S. ANDREAS, S. PETRVS,
IVDAS, S. IOHANES, IESVS XPVS, S. IACOBVS MAI,[15] S. THOMAS,
S. FHILIPPVS (sic), S. MATTHEVS, S. THADEVS, S. SIMON.

L’opera che è abbastanza ben conservata, è eseguita a fresco con molta facilità, ma con poca finezza. Le figure sono grandi al naturale. Il pittore la debbe aver tratta da un semplice disegno a chiaroscuro, non vedendovisi ne’ colori molta relazione coll’originale. V’è di notabile, che non vidi altrove, il braccio di Pietro ignudo dal gomito in avanti. Mancavi la mano di Tommaso, e deboli generalmente sono i caratteri delle teste. Non v’è però nulla in esse di dispiacevole o di esagerato. L’autore ha abbandonato, come molti altri, la semplice disposizione del campo dell’originale, ed ha moltiplicati inutilmente gli adornamenti delle pareti. Non istimò oltre ciò opportuno di lasciar campeggiare la testa del Salvatore nel cielo; ma finsevi in vece, con espediente consimile all’adottato dal Lomazzo, due sole aperture lateralmente, tenendo chiusa la parte di mezzo fra quelle. In tali aperture veggonsi effigiati il sacrifizio d’Isacco e l’offerta del calice a Cristo nell’orto di Getsemani. Queste composizioni originali del pittore sono deboli ed alquanto trascurate, e ciò appare essere fatto assai più per generale abito dell’autore che per volontaria trascuranza di cose accessorie. Circa al tempo in cui l’opera fu dipinta e circa chi la dipinse, piacemi qui trascrivere una lettera colla quale il cortese paroco di Ponte ragguagliò recentemente un amico che di tal cose il richiese.

Ponte Capriasca, 12 novembre 1809.
Intorno all’autore della pittura di questa chiesa di Ponte non so dirle altro, solo che fu fatta da uno scolaro di Leonardo da Vinci, del che fui assicurato in occasione della visita qui fatta dalla felice memoria del fu nostro arcivescovo Visconti, per memoria esistente nell’archivio della cancelleria arcivescovile di Milano. Ma il nome non so se vi resti registrato. Noi qui a Ponte non abbiamo altra cognizione di tal autore fuori che dall’antica tradizione pervenutaci dai vecchi di questo comune, ora tutti trapassati, da me con premura da loro indagata e ritenuta in mente, e porta questo: Che era un giovane brillante qui rifuggitosi da Milano, ove per qualche sua bizzarria giovenile o pittoresca era venuto in disgrazia del Governo circa l’anno 1520. Ponte allora era assai più popolato che adesso, e trovando qui ricovero, eccitò gli uomini di questo comune a provvedergli de’ colori, che per non istare ozioso bramava di occuparsi a dipingere qualche cosa in questa sua chiesa. Fu provveduto di tutto, e dipinse il cenacolo sul disegno di quello che Leonardo all’intorno di quell’epoca aveva dipinto o dipingeva sul refettorio del monistero delle Grazie in Milano, ove si tiene che detto giovane lavorasse assieme e sotto la scuola del suo insigne maestro. Oltre il cenacolo nel quale imitò bene il maestro, fece qui altre pitture, ma a sua idea e con fretta, perchè dopo qualche tempo riconciliossi, e ripartì da Ponte. Si ha per costante tradizione, come sopra, che questo comune non gli faceva altro che le spese del vitto, e che all’epoca della sua partenza lo vollero questi uomini pagare, ma ricusò qualunque paga, e dopo molte istanze l’obbligarono ad accettare un donativo di scudi settanta del paese: s’indusse ad accettarlo, ma subito andò in questa piazza di Ponte, e tosto chiamati i più poveri del comune, ad essi tutti li distribuì, ed anzi esso donò a questa chiesa una fascia di seta rossa che usava portare alla cintola, e qui esiste ancora ad uso di Continenza feriale. Tutto questo ho rilevato per fatto certo dai vecchi miei parrocchiani ecc.
Anton Maria Meneghelli,
curato di Ponte Capriasca.

Un ragguaglio a questo esattamente conforme ebb’io, sono quasi tre anni, dallo stesso paroco, e ne scrissi ricordo allorchè mi recai a Ponte per vedere e disegnare quest’opera coll’ajuto dell’ottimo signor Lavelli pittore. Qualunque sia il valore che dare si voglia a questa tradizione, vi è di certo notabilmente esagerata l’antichità dell’opera e vi è confusa l’epoca dell’originale. Per le ricerche che feci fare da persona atta e diligente nell’archivio arcivescovile, non trovai altro che risguardasse l’opera di Ponte, se non un decreto del cardinal Federico Borromeo, col quale ordina che si dipingano le pareti meridionali della chiesa, il che non pare sia stato eseguito.[16] Pure se, dietro la tradizione che contiene sempre qualche parte di vero, e dietro la maniera del dipinto, è permesso di spingere più in là le congetture, io non temerei di asserire che questa copia è di mano di Pietro Luino.
Questo Pietro fratello di Evangelista e di Aurelio, tutti figli del gran Bernardino, male fu confuso dal Lanzi con Pietro Gnocchi discepolo d’Aurelio. Il Lomazzo in un sonetto consacrato a quest’amabile famiglia di pittori poeti, dopo aver portato Bernardino alle stelle per la virtù della pittura, aggiunge:
E vostra fama sale
Ancor più in alto per l’arte del porre
In versi quel che in mente vi trascorre.
E a questa meta corre
Ciascun dei tre vostri figliuol, tra’ quali
Evangelista e Pietro sono uguali
Nel pinger: ma più vali
Tu, Aurelio, la cui mente più alto spira,
Come per l’opre tue si vede e mira.
Oltre che in dolce lira
Dolce canti i pensier e i tuoi disegni,
Dispiegandoli in versi ornati e degni.
E perchè ognun v’insegni,
Tutti tre siete di pel biondo e vago
Qual fu del vostro genitor l’imago.[17]
E qui è da notare che non si parla affatto del valor pittorico di Pietro, ma solo vi si dice che uguagliava nel dipingere il di lui fratello Evangelista, lontani entrambi dal valore di Aurelio; il quale artificioso silenzio prova che il Lomazzo non aveva molto di che lodare, e che questi due non distinguevansi gran fatto con opere originali; e questa copia il dimostrerebbe per Pietro, come opera la quale, sebbene non priva del tutto della grazia di quella felice scuola, non vanta però alcun vigore di disegno nè altra potenza d’arte. Lessi poi inscritto in uno degli archi della chiesa l’anno 1565, che deve certamente indicare l’epoca di qualche risarcimento o riadornamento, e quest’epoca si accorderebbe perfettamente alla età di Pietro che al par de’ fratelli fa amico del Lomazzo.[18] Concorre a confermarmi in questa mia opinione il vedere introdotti in questa copia il Cristo all’orto e il sacrifizio d’Abramo, le quali storie già aveva dipinte Bernardino nel cenacolo che fece per gli zoccolanti di Lugano, e che dietro la paterna autorità avrà Pietro introdotte nel suo. Ma per ultima conferma della mia asserzione osservisi nell’unica cappella della chiesa il quadro che sembra a olio, dipinto su finissima tela, e che rappresenta la Vergine col putto, sedente sulla Santa Casa portata da tre angeletti. Nello spazio al di sopra della Vergine vedesi un Dio Padre, nell’inferiore san Giovanni e santa Caterina. Sebbene non si legga su questo quadro nome o data alcuna, la maniera lo fa giudicare dell’autore del cenacolo. Ma osservato il quadro, osservinsi con diligenza sull’altare dell’istessa cappella due angeli di rilievo intagliati all’antica. Essi tengono da una mano un candelabro, dall’altra una targhetta svelta o scudo gentilizio. Nella parte superiore di essa targhetta vedesi in piccolo la medesima Nostra Donna del quadro che abbiamo descritto; nella inferiore vedesi un piccolo lupo. Se il piccolo lupo che nel paese si chiama precisamente Luin, non è lo stemma di Luini, io non saprei qual altro potesse meglio a quella famiglia convenire. Che per altro il fosse, mei fa credere anche il Vasari che forse per esso chiamò il padre di Pietro, Bernardino dal Lupino: come similmente fe’ il Cesariano che De Lupino lo nomina nel suo commento a Vitruvio sotto il capo primo del terzo libro. Che poi sì il quadro della cappella come la copia del Cenacolo sieno di Pietro anzi che di Evangelista, l’appoggio alle seguenti lettere inscritte in entrambe le targhette PE·LV·, cioè Petrus Lupinus o Luinus. Accordandoci ora colla tradizione che dice che un giovane pittore, senz’altra spesa che del vitto e de’ colori, adornasse di pitture la chiesa, è facile il credere che vi lasciasse anche il dono de’ candellieri col suo stemma, desideroso, secondo l’uso di que’ tempi, che di lui rimanesse ricordo in quella terra. Ma come non si può a queste opere concedere l’antichità che porta la tradizione; così non si accorda troppo quel generoso disinteresse dell’autore col suo esser profugo per ragioni politiche o civili. Con un altro colpo da antiquario si taglierebbe anche il nodo di quest’ultima difficoltà. In un antico disegno che fu già del padre Sebastiano Resta ed ora sta nell’Ambrosiana, e che sebbene di poca importanza, non rappresentando che un piede, pure è certamente opera del Vinci, lessi scritto di pugno del Vinci stesso, oltre più cose che non fanno al caso nostro, il nome di un Bernardo da Ponte di Val di Lugano. Ora perchè non potrebbe questo Bernardo essere il famoso pittore padre di Pietro, che così senza diminutivo è chiamato dal Lomazzo in più d’un luogo? Di lui, come di tant’altri artefici nostri, s’ignora la patria, e dal solo suo cognome, senz’altra autorità, venne creduto di Luino sul Lago Maggiore. Il Ceresio in oltre fu sempre fecondo d’ottimi ingegni nelle arti del disegno, e da secoli manda artefici, non che per tutta Italia, in Ispagna ed in Russia. Roma stessa deve al Ceresio l’elevazione de’ suoi obelischi. Di più il casato de’ Luini nel Luganese più frequente che altrove, l’incertezza della vera patria di Bernardino e la memoria scritta da Leonardo non debbon lasciarsi inosservati del tutto. Se Ponte vantasse sì fatta gloria, diverrebbe in allora naturale che Pietro figlio di Bernardino avesse passato qualche tempo al paese paterno, qualunque fosse la cagione ch’ivi il conducesse: si spiegherebbe facilmente come per amor di patria, sebben forse egli nascesse altrove, gratuitamente vi decorasse la Chiesa di sue pitture: si spiegherebbe finalmente come i suoi paesani volessero ad ogni modo compensarlo il meglio che poteano, e com’egli generosamente distribuisse agl’indigenti il premio a lui destinato.
Ma per uscire una volta dalle sterili campagne delle congetture e per tornare alla copia, conchiudo che la cosa per me più importante che vi ho trovata, è l’accennata iscrizione per la quale ho potuto più facilmente penetrare nelle intenzioni dell’autore, che nel secondo libro ho tentato di sviluppare.

COPIA NELL’ESCURIALE.
(1565 circa)

Se si crede al Carducho, la copia che ancora esiste nel refettorio del collegio dell’Escuriale fu fatta fare da Filippo II; e Francesco De los Santos che copia il Mazzolari, dice nella sua Descrizione dell’Escuriale che a quel re fu presentata in Valenza, e che è sì ben fatta che poco più può essere l’originale. Lo Ximenes che aggiunse alla Descrizione del De los Santos un catalogo de’ più segnalati artefici che abbellirono l’Escuriale delle loro opere, loda di nuovo questa copia ove parla di Leonardo. Don Antonio Ponz nel suo Viaggio di Spagna la dice anch’egli assai buona e meritevole che se ne faccia gran conto. Il Vago Italiano nel tomo secondo delle sue Lettere ne fa pure grande encomio, ed assicura (il che non sarebbe però molto) che sia la migliore delle copie che si conservano all’Escuriale: Tanto rassomiglia, dic’egli, all’originale da me veduto in ogni sua bella parte, e massimamente nella maestà, nella vaghezza e nelle arie nobilissime delle teste. Il qual giudizio senz’altra aggiunta fu copiato dal Conca nella sua Descrizione odeporica della Spagna.
In questa serie di scrittori che si copiarono a vicenda l’un l’altro, non si legge memoria di chi abbia fatta quest’opera, e ignorandosene l’autore, manca, per chi non la vede, la sola scorta onde giudicare del suo merito. Siccome però mi par verisimile ch’essa sia stata fatta espressamente pel luogo dove fu posta, considerata l’epoca in cui il re Filippo mandò ad effetto o il suo voto o l’idea di Carlo V, erigendo il sontuoso edilizio dell’Escuriale di cui pose la prima pietra nel 1563, sembra evidente che non si possa tal copia porre in epoca a quella anteriore; ed è anzi da credere che parecchi anni dopo sia stata eseguita, adornandosi a poco a poco quel magnifico luogo. In allora si tocca ad una età, la quale, tranne il Melzo vecchissimo, non vantava più alcun allievo di Leonardo, e in cui l’originale aveva di già sofferti i danni, di che fanno testimonio gli scrittori citati nel primo libro. Da tali osservazioni non risulta grande autorità per una copia destinata a paese lontano in cui le arti non erano ancora molto elevate e conosciute, e dove trattandosi di un ritratto di sì mirabile e famoso originale, si doveva con poco sforzo ottener grande effetto. Ciò non ostante, il signor Le Brun pittore francese che vidi l’anno scorso in Milano di ritorno dalla Spagna, mi assicura che questa copia, oltre l’essere benissimo conservata, è a molti titoli pregevole e in generale di buon carattere: non seppe però nemmen egli, sebbene esperto conoscitore delle maniere delle varie scuole, indovinarne o sospettarne l’autore. Il signor Giorgio Wallis, valente pittor di paesi, che ha veduto quest’opera in questo stesso anno 1810, mi assicura che è di molto annerita, e che il colore vi sta per cadere a cagione dell’umido grande che domina quel luogo nel verno, e del gran caldo che vi regna l’estate. Un simile danno dic’egli che hanno sofferto quasi tutte le dipinture in tela che sono all’Escuriale, cioè che tutte sono degradate dall’esser loro antico per annerimento e per iscrostamento. La copia però da lui veduta da vicino e da lui asserita ragionevole, non ha avuto verun ritocco. I quali recenti autorevoli testimonj del suo pregio, sebbene non si accordino sul suo stato presente, mi sembrano migliori elogi di quest’opera che non tutti i citati di scrittori poco esperti dell’arte o pregiudicati per altre ragioni.

NEL MONASTERO DI S. VINCENZO IN MILANO.
(1570 circa)

Anche il refettorio del soppresso monastero di san Vincenzo vantava il suo cenacolo. Esso è dipinto a fresco e le figure sono grandi al naturale. La maniera somiglia a quella de’ discepoli di Aurelio Luino. Pietro Gnocchi, forse il più distinto fra loro, aveva dipinta in gran parte la chiesa: si potrebbe credere che sua parimente fosse la pittura del refettorio. Se è sua, non gli fa grande onore, essendo lavoro mediocrissimo per disegno e per colorito. È però molto notabile un nuovo sviluppo che l’artefice diede alle figure in (questa libera imitazione anzi che copia. La figura di san Tommaso, in vece di stare dietro quella di Giacomo il Maggiore, vedesi qui isolata e col braccio e la mano sinistra esattamente nell’atto che la detta mano che in molte copie si vede, fa supporre di che si è di già ragionato nel secondo libro.

COPIA DI SESTO CALENDE.[19]
(1581)

Nell’antica chiesa parrocchiale di san Donato in Sesto Calende, la eguale si chiama anche al presente l’abbadia perchè tale fu anticamente, sulla parete sinistra della cappella detta di san Pietro, vedesi una meschina copia del Cenacolo dipinta a fresco, alta braccia quattro ed once otto, e larga braccia dieci e once sette e mezza. Nel fondo in luogo della porta e delle finestre che l’autore soppresse, si veggono due compartimenti o quadri, l’un de’ quali rappresenta la nascita d’Eva, l’altro il peccare d’Adamo. Colla nascita d’Eva alluse il pittore alla cagione del peccato; col peccar d’Adamo alluse alla cagione del sacrifizio di Cristo. Osservansi in questa copia infiniti arbitrj. È inutile il notare le mancanze che vi si scorgono in varie parti, poichè vi manca nel tutto disegno, colorito ed ogni sana parte dell’arte. Nella disposizione delle gambe assomiglia alquanto alle copie di Marco, con che potrebbesi congetturare che almeno per questa parte la quale al tempo in che la copia fu fatta, era già perduta nell’originale, fosse stata tratta o dalla copia di Castellazzo o da quella della Certosa di Pavia. Da due cartelli dipinti nelle pareti laterali del quadro sappiamo per due iscrizioni chi ’l fece e chi l’ordinò. Sarebbe desiderabile per la storia dell’arte che simili iscrizioni si leggessero in tutte le pitture più importanti; ma sventuratamente abbondano più nelle opere mediocri che nelle buone.
La prima che vedesi a destra di chi legge porta le seguenti parole:
(sic) IOANNES BAPTISTA
TARILLVS DE CVREIA
VALLIS LVGANI PINGE
BAT · ANNO 1581 ·
L’altra a sinistra dice:
SOCIETAS SANCTISSIMI
CORPORIS XPI EX ELE
MOSINIS HOC FIERI
FECIT = ANNO 1581 .[20]
Chi si trovasse ozioso a Sesto e fosse spinto dalla curiosità a vedere questa copia, ristori il tempo che vi perderebbe, coll’osservare la pittura a fresco del battistero, la quale, sebbene abbia molto sofferto, dà ancora sufficiente idea di bella e savia composizione, ed è certamente opera d’un allievo della scuola leonardesca. Un gruppo di dottori che ragionan fra loro, è composto maestrevolmente ed è di ottimo stile.
Questa abbadia è antichissima di forse mille anni, ma fu per la maggior parte modernamente rifatta, non che risarcita. Vicino al battistero vi è un’antica tavola a scompartimenti in fondo d’oro, non senza merito per l’età sua. Sebbene se ne ignori l’autore, può dare idea dell’arte di quattro secoli fa. In una sagrestia della chiesa sotterranea vi sono pure de’ freschi di un’antichità assai remota. Vi è di singolare un angelo sedente che suona un violino tedesco. Sopra la porta poi della chiesa esternamente si vede una Vergine col putto e un san Rocco, opera assai antica della quale è autore un Bernardino Molina.

COPIA DI PIETRO PAOLO RUBENS.
(1600 = 10)

Poco dopo il millesecento dee porsi la piccola copia del Cenacolo fatta dal Rubens. Esiste al presente in Madrid presso il duca di Hijar. Ho udito dire da chi l’ha veduta che è talmente tradotta nella sua maniera, che appena si riconosce donde proviene. Forse è quella che servì per la stampa del Soutman.

COPIA NELLA PINACOTECA AMBROSIANA.
(1612 = 16)

Benedetto Sossago, nel quarto libro de’ suoi Epigrammi pubblicati nel 1616, alluse principalmente a questa copia ordinata dal cardinale Federico Borromeo, allorchè cantò que’ versi:
Dum caput expirans, Pictor Leonarde, reclinas,
Gallorum dominus brachia supposuit.
Ecce tuas tabulas Federicus servat ab ævo;
Hic mentis custos, corporis ille fuit.
E veramente questa copia, quantunque non presenti le figure che dalla mensa in su, è la sola pienamente autorevole e fatta assolutamente all’oggetto di conservare, per quanto in allora si poteva, la memoria del moribondo originale. Il ragguaglio che sono per darne, è tratto da quanto scrisse e pubblicò lo stesso cardinale nel suo libro intitolato Museum.[21] Questo valentuomo che sì bene intendeva il valore di tanta opera, veggendola prossima all’ultima sua ruina, imaginò di trovar modo con che ripararvi. Chiamò a sè un pittore esperto e diligente, e mostrandogli il vicino pericolo di tutto perdere, lo impegnò a trarne copia il meglio che si potesse. Ciò debb’essere avvenuto intorno al 1613 o poco dopo, come si può giudicare dall’epoca in cui furono stampati i versi del Sossago. L’artefice, disperando dell’esito dal vedere le croste dell’intonaco cadenti, e il più delle figure guaste o svanite, deluse da principio la lusinga concepita dal cardinale d’averne un intero ritratto, e solo si offerse di copiarne qualche testa di quelle in cui era minore il danno del tempo e delle altre circostanze. Accontentossi di mala voglia il cardinale, e affrettando non pertanto il lavoro, cominciò ad averne due o tre teste delle quali fu oltremodo soddisfatto, e il pittore, veggendo l’opera riuscirgli meglio che non s’aspettava, prese animo a seguire e accrebbe colle proprie le speranze del cardinale. Così dopo gran tempo, con infinito tedio e suo e d’altri, in molte riprese, tutte le tredici teste furono ridotte come ora si veggono. E perchè il pittore volle poter d’appresso osservare le minute cose di ciascheduna, non si servì già d’una sola gran tela per tutte, la qual cosa l’avrebbe costretto a copiare lungi molte braccia dal modello; ma in tante piccole tele quanti sono i principali gruppi, le dipinse, indi compiuta l’opera riunì il tutto con quell’esattezza che potè maggiore. Della fede ed accuratezza posta in questa impresa non si può dubitare, poichè oltre che il pittore graticolò e lucidò ognuna delle teste, ebbe la sorte di trovare a quel tempo gli antichi dintorni della stessa grandezza, de’ quali ora, per quante ricerche io m’abbia fatte, non ho potuto rinvenire memoria alcuna. In questo modo giunse ad ottenere il suo intento il buon cardinale il quale aveva carissimo questo lavoro sopra gli altri del suo museo, prevedendo di quanta utilità poteva un giorno riuscire, siccome solo vero deposito de’ pochi rimasugli della più grand’opera del Vinci. Egli vi fece inscrivere le seguenti parole che dallo stile si scorgono dettate da lui:

RELIQVIAE COENACVLI FVGIENTES HAC TABVLA EXCEPTAE SVNT
VT CONSERVARETVR LEONARDI OPVS.

Così si può dire col Bosca, Ostendinms item exemplum vinciani Cœnaculi, quod ille (Vincius) pulcherrimum in triclinio dominicani cœnobii ad ædem gratiarum descripserat. E ne abbiam debito alla provida mente del Borromeo, la quale, segue a dire il Bosca, cœnæ illius imaginem pingi jussit in tabula, cum sœvientis aquilonis afflatus dominicanæ cœnationi historiam fere totani abstulerit. Egli è certo pertanto che questa copia, al tempo in che fu fatta, doveva produrre un bonissimo effetto; ma il genere de’ colori che vi furono impiegati, l’ha fatta di tanto annerire che in alcuni luoghi non si giunge a scorgere qual tinta vi si volesse imitare. Questo generale abbassamento de’ colori che tolse tutta l’armonia dell’opera, e l’esser essa collocata in alto in una sala ricca di altre opere insigni, anzi precisamente al di sopra del mirabile cartone originale della Scuola d’Atene, furono cagione che rimanesse a lungo inosservata, e che nessuno degli artefici del disegno che studiarono l’opera di Leonardo, ad essa avesse ricorso. Del ragguaglio con cui il cardinal Federico illustra questo monumento, sebbene fosse stampato al suo tempo, non s’ impresse che una dozzina al più d’esemplari per uso della Biblioteca e Pinacoteca, costume che quel cardinale tenne in tutte le prime edizioni de’ varj suoi opuscoli, per tal ragione quasi del tutto sconosciute. Rara parimente è la seconda edizione del suo Museo procurata in Firenze dal Gori, nè credo che altra ne esista. Oltre ciò nella Pinacoteca non se ne solea tenere nessun esemplare nè della prima nè della seconda, e sarebbe stato, a dir vero, poco utile per le continue mutazioni ed aggiunte, e negli ultimi tempi per le perdite fatali delle cose migliori. Ad ogni modo non si tenne questa copia in quel conto che meritava, e ad onta degli elogi del Borromeo che aveva buon giudizio e senso non volgare per le cose delle arti, appena venne modernamente chiamata non ispregevole. Intanto da questa sola, perchè per testimonio non solo contemporaneo, ma della persona stessa autorevolissima che la commesse, graticolata e lucidata, si ha un’idea giusta e precisa della disposizione esatta e del grado vero de’ moti delle figure. Si vede parimente per essa dove era maggiore, dove meno sensibile il guasto dell’originale. La testa del Salvatore è la men buona di tutte, da che si può congetturare che nel dipinto del Vinci, non solamente era imperfetta, come da più sani storici siam fiuti certi, ma che anche quel primo imperfetto lavoro doveva, più d’altre molte parti dell’opera, aver sentite le ingiurie degli anni, ed esser tale da non potersene avere una ragionevole imitazione. Perciò il copista in questa testa più che altrove si abbandonò alla propria maniera, e non riuscigli opera degna del suo modello.[22] Anche nelle mani del suo san Filippo apparisce ammanierato e licenzioso, e richiama alquanto il fare di Giulio Cesare Procaccino di cui forse fu discepolo. Così trovansi alcuni panni negligentemente eseguiti, e alcune altre parti trasandate con incuria, e tutto ciò probabilmente non tanto per tedio d’una lenta fatica, quanto per la ruina e mancanza totale di dette parti nella parete delle Grazie.
Resta ora a dire dell’autore, ignoto al Fiorillo e agli altri che di questa copia parlarono: e fu un Andrea Bianchi, milanese, soprannominato il Vespino. Ma nulla v’ha fra le opere stampate che ce lo ricordi, tranne alcuni passi del Sormani e del Torre che parlano di qualche suo lavoro, e il Füessly che copiò quegli autori. Egli però fu stimato assai dal lodato fondatore dell’Ambrosiana, il quale non solo ricercollo per affidargli l’opera del Cenacolo, ma lo incaricò di gran numero di altre copie di opere insigni, come si può fra le note vedere.[23] Dai suoi lavori appare assai diligente nell’imitare la maniera leonardesca (chè in quella quasi esclusivamente si esercitò copiando o da Leonardo o da’ suoi imitatori), e si vede, eccetto quanto al di sopra notai, dimentico affatto della propria. Ma a sì fatta precisione nell’imitazione del disegno e del carattere non aggiungeva che una mediocre pratica di colorire, talchè le opere sue sono per lo più annerite e in molte parti presso che perdute, e specialmente in quelle nelle quali il colore non è sostenuto dal bianco di piombo. Le cose sue migliori, oltre alcune parti del Cenacolo, sono alcune teste in tavola tratte da opere distrutte del Luino il vecchio, e forse d’altri della scuola vinciana. In queste ha evidentemente usato miglior metodo, migliori mestiche, e forse imprimiture bianche o almen chiare. S’ignora l’anno in che nacque, e quello in che morì questo pittore: forse fu vittima, come Daniello Crespi e tant’altri valentuomini, della peste del 1630, sì fatale alla nostra città.

COPIA NEL MONASTERO DI S. MICHELE ALLA CHIUSA.
(1626)

Dalla scuola di Camillo Procaccino o pure da quella de’ fratelli Roveri, detti i Fiammenghini, debb’essere uscito l’autore della mediocre copia che ancora si vede nel refettorio del soppresso monastero di san Michele alla Chiusa. Quest’opera è dipinta a fresco: le figure vi sono di grandezza naturale. È arbitraria in ogni parte, e vi sono di più aggiunte varie figure che portano delle vivande. Il fondo imita la continuazione della volta del refettorio e rimane aperto con vedute di architetture e di paese. In un cartello, posto al di sopra di quest’opera, si legge l’anno 1626 in cui pare essere stata eseguita. Nulla in essa si vede che sia degno dell’originale.
  
NUOVA COPIA IN SAN BENEDETTO DI MANTOVA.
(1631)

Se la congettura intorno alla copia del Monsignore e le asserzioni di alcune persone degne di fede da me interrogate avessero fondamento, a quest’epoca può, come vedemmo, collocarsi la copia che venne sostituita all’antica, fosse nella libreria, fosse nel refettorio di san Benedetto in Polirone.

COPIA NELLA GALLERIA DI MONACO.
(1650 circa)

Sono debitore della notizia di questa copia a S. A. il Principe Reale di Baviera, il quale ama molto e protegge generosamente le arti, e allorchè fu a Milano nel dicembre del 1808 onorò più volte di lungo esame i miei studj sopra Leonardo. Nè limitossi la bontà del lodato principe ad informarmi di tal opera che si conserva nella magnifica galleria di Monaco: egli si compiacque di mandarmene una copia in disegno lucidata dal quadro; della quale gentilezza gli conserverò sempre infinita gratitudine. L’opera è attribuita a Niccolò Possino, su di che dalla vista del solo disegno non si può giudicare. Il fondo è arricchito di molte colonne, e gli accessorj sono cambiati ad arbitrio. Cambiata parimente è l’attitudine di Matteo ed alterate notabilmente quelle di alcuni altri de’ commensali. Il quadro è alto un braccio e un quarto circa, e largo poco oltre due braccia.

COPIA GIÀ NEL CONVENTO DELL’OSPEDALETTO.
(1660 circa)

Io vidi, molti anni sono, questa copia in tela a olio, ma altro non so ricordarmi se non che non era tale da farsi osservar lungamente. Le figure sono di grandezza naturale: il disegno debole; il colorito sbiadato e senza vigore. L’ho sentita da alcuni attribuire ad uno de Piola’ di Genova. Esiste ora in Venezia.

COPIA NEL REFETTORIO DI SAN PIETRO IN GESSATE.
(1675 circa)

Agostino e Giacinto figli, e probabilmente discepoli di Giacomo Antonio Santagostino, sono gli autori di questa copia fatta già pel refettorio de’ gesuiti in san Fedele, tolta poi di quivi per esser posta nel refettorio dell’orfanotrofio di san Pietro in Gessate ove al presente si vede. Essa è dipinta a olio sopra una tela d’un terzo circa minore in grandezza della parete sulla quale è dipinto l’originale, essendo la sua altezza di braccia cinque e once tre milanesi, e la larghezza braccia dieci e mezzo.
Desiderosi gli autori di conservare nello spazio stabilito la massima grandezza delle figure, le accostarono fra loro quanto poterono sulla linea orizzontale; ma per acquistar mole, perderono infinitamente dal lato de’ moti che divennero languidi e falsi, perchè fra loro impediti e privi di quello slancio e di quella prontezza per cui è mirabile il Cenacolo vinciano. Il totale anneramento dell’opera, in cui furono impiegati colori non resistenti al tempo e troppo oleosi, la cattiva imprimitura, il fumo e l’umido de’ cibi, cui da quasi un secolo e mezzo sta esposta, sono cagione non solo dell’adombramento d’ogni tinta, ma della perdita totale dell’effetto, sempre debolissimo in ogni opera di questi autori. In mezzo però agli arbitrj infiniti di questa copia che al par di molte altre potrebbe meglio dirsi un’imitazione, non si scorgono le ordinarie caricature degli altri copiatori, e la testa di Giuda specialmente conserva molta espressione senza le stravaganti deformità che si osservano in particolare nelle copie di Marco.
I fratelli Santagostini furono, al pari del padre loro, mediocri pittori di pratica. La loro maniera è una debole mistura di quella di Giulio Cesare Procaccino di cui fu discepolo Giacomo Antonio, e dell’altra più fiacca del cavaliere Del Cairo. Agostino pubblicò nel 1671 il librettino in 16.° che già citammo, in cui diede un catalogo delle più insigni pitture della nostra città, pieno, a dir vero, d’errori, d’inesattezze e di ridicole esagerazioni, ma non pertanto di qualche utilità, per non esservi di meglio a quella infelice epoca. A ragione l’Argelati[24] desidera che quest’opuscoletto venga riprodotto meliore criterio e colle necessarie aggiunte; e più sarebbe ora da desiderarsi e perchè venissero con miglior cura conservate le cose che ci rimangono, e perchè si potesse aver notizia del luogo ove stanno al presente le molte che vennero traslocate.
Questo Agostino Santagostini o di Sant’Agostino non debb’essere diverso dall’incisore dello stesso nome, menzionato dal padre De Angelis nelle Notizie degl’Intagliatori aggiunte all’opera del Gandellini.

VARIE ALTRE COPIE MINORI
(Dal 1550 in avanti)

L’autore del libro intitolato Como ed il Lario, dove ragiona de’ quadri della Gallietta, scrive come segue: Insigne, per esempio, è la copia della rinomatissima Cena di Leonardo, e tiensi fattura di Francesco Monsignore. L’esattezza e l’abilità vi spiccano del copista, e questo dipinto è sull’asse. Mi duole dovermi allontanare dal parere dell’illustre autore cui debbonsi molte notizie intorno alla storia delle arti di Como; ma non pretendendo io mai colla mia distruggere l’altrui opinione, procedo liberamente nella esposizione de’ miei divisamenti anche allorquando si oppongono all’altrui autorità, sul cui valore, come su quanto la pratica e l’amor dell’arte mi fa dire, giudicheranno, quando che sia, coloro che tal cose intendono ed hanno in pregio.
Questa tavoletta adunque, larga due braccia e un quarto circa, e poco oltre un braccio alta, è dipinta assai mediocremente, ed è opera debole in tutte le parti dell’arte. Nel modo generale somiglia alquanto alle note copie di Marco, se non che è un poco meno caricata nelle fisionomie. Anche le tinte somigliano in gran parte alle usate da quell’autore, e i capelli specialmente vi danno in quel solito suo rosso bruno come nella copia di Castellazzo. Le mani e i piedi annunziano la stessa origine, essendo in tutto senza grazia e mal disegnati. Vi si scorge la mano di Tommaso che prende il coltello; la qual circostanza avvalora la mia congettura circa il tipo donde deriva. Tutta l’opera è ritoccata generosamente da mano inesperta, il che contribuisce a scemarne il pregio. Ciò che in essa sarebbe più degno di nota, se l’opera fosse più importante, si è l’iscrizione F. G. M. di carattere antico e originale, la quale vedesi sulla tovaglia a sinistra dello spettatore. Ma nemmeno tali lettere si accomodano alla opinione del citato autore che attribuisce questo lavoro a Francesco Monsignore. Meglio si accomoderebbero a Fra Girolamo Monsignore suo fratello, se l’opera non fosse almeno di mezzo secolo posteriore e se la maniera dell’opera fosse degna di lui. Ma ad ogni modo credo impossibile indovinare dalle indicate iniziali chi fosse l’autore di tal copia, perchè il poco merito di essa lo dimostra oscuro e lo condanna ad essere escluso dagli abbecedarj anche più numerosi.
Chi avesse pertanto occasione di vedere questo quadretto, si pascerà assai meglio la vista osservandone un altro che gli sta collocato al di sopra, rappresentante la Vergine col putto, due angeletti e sei persone benissimo ritratte dal naturale in atto di orare. La composizione ne è semplice e graziosissima. Osservi anche, come opera uscita dalla scuola di Leonardo, un quadro di ricca e bizzarra invenzione che rappresenta Enea che visita Didone in Cartagine.
Assai più pregevole mi parve una copietta esistente in Castelmarte presso il signor Giulio Ferrario. Essa è di pari altezza con la descritta, ma è di circa tre once men larga. Non ha nota veruna onde poterne arguire l’autore: l’epoca dovrebbe di poco eccedere la prima metà del secolo decimosesto. Non vi si vede il solito ornamento delle tappezzerie: vi si veggono bensì le portine laterali da molti copisti soppresse, e qui sono alte come la porta e le finestre del fondo. Non vi si veggono altre cose notabili, ma, ad onta di varj difetti e di molto abbassamento nelle tinte, parmi doversi a questa il primo luogo fra le copie piccole da me viste, eccettuandone però la descritta di san Barnaba, la quale, sebbene non superi questa in disegno, la supera in antichità e in autorità di scuola.
Un’altra simile in grandezza a quella della Gallietta è posseduta in Milano dal signor segretario Masera. Apparisce della stessa epoca delle antecedenti o di poco posteriore. Le tinte vi sono arbitrarie, e vi si vede il solito annerimento de’ verdi e degli azzurri prodotto dall’uso del verderame, del giallo santo, dell’indaco e d’altri colori fallaci che non reggono al tempo. A differenza di molte altre questa copia pare derivare dall’originale delle Grazie: quindi le teste sono moderate nelle forme assai più di quelle che provengono dalle copie di Marco. In generale vi domina una semplicità ed un’armonia maggiore che in altre non si scorge; ma il disegno n’è debolissimo, le figure pesanti e il tutto senza grazia. Non vi manca la mano di Tommaso. Il Salvatore ha il capo poco inclinato come nell’originale. Le teste non hanno aureole. Non credo possibile indovinarne l’autore, non riscontrandovisi alcuna delle maniere conosciute.
Dello stesso tempo apparisce eseguita una copietta in arazzo che si conserva in Milano presso il proposto di sant’Ambrogio. Le figure di poco vi eccedono il mezzo palmo in altezza: sono alquanto tozze, e richiamano un tal poco la maniera di Bernardino Lanino: con che potrebbesi avere qualche barlume di lontana congettura circa la scuola dell’autore. Vi è indizio della solita saliera rovesciata. Manca la mano sinistra di Tommaso. Pietro tiene nella destra il coltello, ma non appoggia il carpo al fianco: quindi l’atto è meno pronto ed espressivo, ma non lascia d’essere naturale. Taddeo non tiene la sinistra appoggiata alla mensa. La testa del Salvatore è stata modernamente mal risarcita. Il fondo antico manca, e fu male restituito in seta bianca. Il complesso del lavoro non è spregevole, e vi ha qualche testa di buon’aria e carattere. Le attitudini però sono stentate e pochissimo serbano dell’espressione dell’originale.
Un’altra copia parimente d’ignota mano, larga ventisei once circa ed alta venti, mi venne comunicata dal signor Commerio pittore. Si accorda in epoca colle tre descritte. Il carattere di varie teste, la molta inclinazione di quella del Salvatore, il paese del fondo, certe righe gialle ne’ travicelli ed altre note facili a riconoscersi la fanno credere derivata dalla copia a fresco di Marco. Le tinte, già alterate a capriccio dal pittore, soffersero anche grave alterazione dal tempo, specialmente negli azzurri e ne’ verdi anneriti al solito per mala scelta e mal uso de’ colori. Il pavimento è fatto a marmi di varie tinte; v’è la mano di Tommaso: le teste hanno le aureole. Anche questa, come il più delle altre grandi e piccole, non fa autorità che dove si accorda colle migliori.
Nell’istesso tempo all’incirca in cui furono fatte queste copie, fu, cred’io, fatto anche il disegno grande che stava per l’addietro presso i conti Casati e che da molti scrittori è attribuito a Leonardo. Esso è alto circa quattordici once ed è largo tre braccia e un quarto. Il suo pregio principale sta nell’antichità, e che che ne dica il Carli nelle note al poemetto latino sull’Intaglio, sembra lavoro eseguito di reminiscenza o pure sopra qualche schizzo in piccolo, cosa usata sovente in que’ tempi. Chi bramasse averne un’idea, vegga la stampa che ne trasse il signor Domenico Aspari, professore dell’accademia reale, nella quale però credette di dover sopprimere i piedi, perchè quelli che vedonsi nel disegno sono di moderno risarcimento, dal De Pagave attribuito al Sassi. Coloro che credettero quest’opera di mano di Leonardo non sapeano che fosse il disegnare, non che il disegnare di tanto uomo.
Per un secolo circa, dopo l’epoca di queste opere, non mi avvenni nè in piccole copie nè in disegni, se si eccettuano due cattive miniature in pergamena, le quali, anzi che copie, possono chiamarsi arbitrarie imitazioni. La copietta poi a olio che si vede nella galleria dell’arcivescovado, alta poco oltre once sedici e larga men di ventotto, sembra fatta dopo la metà del secolo decimosettimo e non ha pregio d’arte che vaglia. Un’altra, fatta forse al finire di quel secolo o al principiare del seguente, esiste presso il signor Marco Cigalini; nè vanta migliore autorità, eseguita, com’è, arbitrariamente in ispecie nel fondo d’infelice architettura, adorno di pilastri e bassirilievi. Non è però che dalla metà del secolo decimosesto alla metà del seguente non siensi fatte copie piccole e disegni in buon numero. Le stesse copie maggiori che abbiamo descritte provano che ne furon fatte varie minori, sulle quali quelle prime grandi soleansi eseguire. Molte altre ne saranno state fatte da pittori per loro studio privato, perchè, sebbene l’opera fosse perduta per l’effetto generale, pure dovea conservare qualche parte sana, e almeno il poco che vi si vedeva, era di mano dell’autore, e dovea bastare per attirare gli studiosi.
Dopo il risarcimento del Belletti che fu del 1726, cominciano di nuovo a vedersi copie piccole, disegnate e dipinte. Sono facili a riconoscersi e alla cattiva maniera e alla mano di sei dita data barbaramente dal Bellotti a Giacomo il Maggiore, creduto Tommaso. Ho veduto, da questo tempo fino al ritocco del Mazza, cinque disegni e alcune copie colorite, il tutto pessimo. Uno di que’ disegni era di mano del padre Gallarati che ne fece anche una copia in miniatura, larga circa due braccia, della quale si trovano elogi nel Giornale di Roma e nella Guida di Milano stampata nel 1778 in francese. Ma ad onta di quegli elogi e ad onta degli ajuti che il Gallarati mendicò da tutti i pittori del suo tempo che proverbiavano la sua opera col titolo di pila dell’acqua santa, la copia riuscì mediocrissima; nè poteva essere altrimenti, non avendo il Gallarati che una meschina pratica senza alcuna scienza. Migliori d’assai furono alcuni disegni fatti da poi da pittori francesi e italiani, per quanto però permise lo stato dell’originale e la maniera di ciascheduno; nè dee rimanere senza ricordo una grande miniatura recentemente eseguita in avorio da una signora milanese, al cui proposito mi si fa luogo di accusare di troppa modestia e ritrosia in mostrare le loro opere, varie gentili e valenti coltivatrici del disegno della nostra città, per lo che a danno del vero, sebbene con apparente giustizia, si crede dagli stranieri che le belle arti sieno fra noi meno che altrove care e pregiate presso il bel sesso.
Ma per chiudere competentemente i ricordi delle copie, e per non lasciare incompiuta la serie cronologica delle autorità che hanno servito per la mia cui serbo l’ultimo capitolo del presente libro, credo non poter senz’accusa tacere delle stampe del Cenacolo, e parmi non debba riuscir discaro che qualche cosa io aggiunga intorno alle imitazioni più notabili di questa celebre opera.
  
DELLE STAMPE DEL CENACOLO.

Cominciando adunque dalle stampe, io son d’avviso che fra gli artefici di primo grido nessuno sia stato dagl’intagliatori trattato meno discretamente di Leonardo. Nel tempo che le opere sue erano in buon essere e facevano la meraviglia del mondo, non vi fu intagliatore di vaglia che pensasse a tramandarcele in modo che di quelle fosse degno: quando poi cadde in pensiero di occuparsene a qualche buono intagliatore, le opere che più importavano, erano spente del tutto. Se il Raimondi che ci serbò qualche pezzo del cartone di Michelagnolo, avesse fatto lo stesso di quello di Leonardo, ben altra idea si avrebbe della battaglia d’Anghiari, di quella che ci serbò l’Edelink copiando una caricatura del Rubens. Che se poi o egli o il Ghisi o il Vico ci avessero tramandato un diligente intaglio del Cenacolo, son certo che si avrebbe per esso più assai dell’opera originale che non si ebbe da tante licenziose copie, esagerate presso che tutte di espressione e di forme, e troppo in generale lontane dall’idea che dell’opera del Vinci ci fa concepire, anche senza riguardarne gli avanzi, la sola tanta sua fama, ottenuta in un tempo si fecondo di opere eccellenti. Ma la fortuna ha voluto altrimenti, e le più antiche stampe del Cenacolo sono di mano debole e sconosciuta, e lungi dal recarci qualche notizia dell’originale, lo storpiano sì malamente che pessime imitazioni anzi che copie si dovrebber chiamare. E s’esse sono pure rarissime, non si dee credere che tal rarità provenga dalla bellezza loro: al contrario ne fu cagione il dispregio in cui furono tenute, siccome opere di rozzo magisterio e inette allo scopo di rappresentare in qualche modo il dipinto di Leonardo.
La prima pertanto che si conosca e che ho potuto osservare nella ricca collezione di stampe antiche e rare de’ signori Maino e Stork, pare fatta prima del secolo decimosesto. Essa è larga circa tre quarti di braccio ed è men d’un quarto alta; intendo l’esemplare da me visto, il quale fu diminuito per alto e per largo, e per alto più notabilmente. Questa stampa, come ho avvertito altrove, debb’essere stata eseguita, lungi dall’originale, su qualche schizzo o disegno scorrettissimo in ogni parte. Le teste si somigliano quasi tutte; le mosse sono alterate; le distanze cangiate; l’effetto nullo. Vi manca la mano di Tommaso: Pietro non ha il solito coltello: Matteo è barbato: Giuda ha bensì la borsa, ma non l’abito stravagante che si vede nell’originale e nelle copie migliori: ha in vece una tunica comune non ristretta alla scollatura da lembo ornato come le altre, ma semplice ed aperta come le tuniche volgari romane. In un cartellone appeso alla tovaglia leggesi con alcune abbreviature: Amen dico vobis quia unus vestrum me traditurus est. Nel fondo vedonsi certe casette di cattiva forma e fuor di prospettiva. Presso l’apostolo Simone vedasi un brutto cagnolino; piedi, panni, mensa, tutto v’è fatto ad arbitrio. Ogni cosa in fine dimostra che quest’opera fu fatta soltanto per una memoria della composizione, e sventuratamente sì fatto progetto cadde in mente ad artefice ignorantissimo, il quale ornò l’opera a suo modo di quegli accessorj che dettogli il capriccio. Fra questi è notabile un gran pesce posto nel piatto che si vede davanti al Salvatore. Se la cattiva maniera e le tante altre licenze dell’opera non dimostrassero che questo pesce vi fu posto dall’artefice a capriccio senz’alcuna erudita veduta, si potrebbe in esso riconoscere il mistico pesce di Tobia, il simbolo di Cristo, quello pel quale i cristiani furono per sino chiamati pescicoli. Può in tal proposito vedersi la Dissertazione del camaldolese Costadoni e l’altra di Pier Tommaso Ansaldi, nelle quali si ragiona a chiare note del gran pesce Cristo, anzi della sua carne cotta sul Golgota: opera lodata da Giovanni Lami nelle Novelle letterarie. Che peccato che que’ dissertatori non conoscessero questa stampa!
Nella stessa collezione ho veduto un’altra stampa che sembra essere stata copiata dall’antecedente ed è in fatti a rovescio. Fanno anche così giudicarla le teste barbate, le fisionomie, le mani, ecc. Nel fondo sono chiuse le finestre e la porta: in vece sono da un lato aperti i quadrati delle tappezzerie. In alto v’è una gran tenda, la qual cosa si vede ripetuta nella stampa del Soutman. Vedesi anche il pesce avanti a Cristo, con che confermasi l’indicata origine di questo meschino intaglio. La parte inferiore manca nell’esemplare da me veduto; quindi non so se vi fosse scritto il nome dell’autore.
Dopo queste che certamente sono le più antiche, avvene un’altra, all’acqua forte parimente, d’autore sconosciuto, la quale non supera in pregio le antecedenti: solo le agguaglia in rarità. Non so poi se debbasi porre per quarta quella intagliata all’acqua forte dal Soutman o un’altra a bulino che sembra di scuola tedesca o fiamminga. Parlando di quella del Soutman, dico riconoscersi meglio la Gerusalemme del Tasso nelle traduzioni in dialetto milanese o bergamasco, di quello si riconosca in questa stampa la maniera di Leonardo. Il Mariette non mostra buon giudizio dicendo in essa ben inteso il chiaroscuro.
L’altra a bulino è pessima per ogni parte ed ha molte capricciose variazioni specialmente nel campo.
Da queste si salta fino alle stampe che diedero il Caylus, il Ryland e l’Aspari, tratte da tre diversi disegni tutti creduti originali. A dir breve passarono ben trecent’anni senza che il povero Cenacolo fosse onorato d’un intaglio ragionevole. Son persuaso che la sua mina fu in gran parte cagione di questa dimenticanza, ma non dubito che vi abbia contribuito non poco anche il mal gusto delle arti che dominò per l’appunto allorchè fiorirono forse i più eccellenti intagliatori. In fatti quando negli ultimi tempi cominciarono nuovamente a salire in istima le belle opere antiche, tosto il Cenacolo, comunque fosse sì mal condotto, fu da varj artisti disegnato in misura da potersi intagliare; e finalmente nel 1800 l’egregio signor Rafaele Morghen ne pubblicò in Firenze una stampa diligentissima, la quale, come può dirsi la prima, così, non dovendosi contare i rintagli che ne fecero il Rainaldi ed altri, è finora l’ultima dell’opera di Leonardo. Dissi l’ultima, presa per quanto poteasi dall’originale, perchè la stampa del signor Frey che apparve alcuni anni dopo, fu fatta sulla copia della Certosa di Pavia.
La finezza pertanto dell’esecuzione e l’eccellenza di alcune parti nella stampa di Firenze la fanno riguardare come una delle più nobili produzioni dell’autore, non meno che dell’arte. A coloro però, gli occhi de’ quali non si lasciano abbagliare dal lenocinio de’ tagli, duole di non trovare in questa insigne stampa espresso il carattere di Leonardo, mentre vi s’incontrano non poche cose estranee del tutto al suo modo di pensare e d’operare. E duole non meno il vedere che non è facile che alcun altro intagliatore tenti per ora lo stesso argomento, sgomentato a ragione dal nome dell’illustre autore che lo ha preceduto, non che dai molti veri pregi dell’intaglio, anch’essi di arduo conseguimento, i quali, uniti alle attrattive della composizione ed alla fama universale dell’opera originale, han renduto la stampa di cui ragioniamo, ricercatissima e preziosa in ogni parte d’Europa. Pure a chi bene osserverà, sarà prontamente manifesto esservi ancora molto a fare onde avvicinarsi alla maniera del Vinci, e mancare fors’anche al già fatto precisamente le parti più squisite dell’opera, e quelle per l’appunto nelle quali più il Vinci si distingueva, come sarebbero la dolce ed equilibrata distribuzione de’ lumi motivata in ogni menoma parte, la mirabile varietà delle parti simili ne’ diversi personaggi, come de’ capelli, delle mani, de’ piedi, ecc.; la finezza e forza dell’espressione, la concinnità delle parti col tutto; la prontezza de’ moti, la grandezza de’ caratteri, la precisione senza minutezza, la grandiosità senza negligenza; quello stile in somma morbido, non molle, deciso, non duro nè aspro, vero sempre, sapiente, profondo; quello in fine che caratterizza il restitutore della greca pittura, il sublime Leonardo. Le quali cose, essendo ora esaurita la prima stampa, qualora per l’esimio autore di quella che pure con lode d’ognuno intraprese due volte la Trasfigurazione di Raffaello, non fossero sufficiente stimolo ad intraprendere di nuovo il Cenacolo, potrebbero accender l’animo di tale intagliatore fra noi,[25] che ha ingegno e mano da soddisfare, ove il voglia, i più sottili ed esigenti conoscitori. Il che se avvenisse, sarebbe avverato quel quasi augurio dell’editore torinese del Baldinucci, che vedemmo nel libro primo, e la nostra città nella quale nacque e perì l’opera originale, le avrebbe in allora resi tutti que’ tributi con cui poteano le arti tramandarne ai posteri la memoria.

DELLE LIMITAZIONI DEL CENACOLO.

Vuolsi ora dar qualche cenno delle imitazioni; che anche per esse si può avere qualche luce intorno l’opera da cui derivano.
La più antica ch’io abbia potuto rinvenire, è quella che già altrove accennammo, di Biagio Vairone, la quale vedesi alla Certosa di Pavia in un bassorilievo di marmo bianco in piccole figure. La varietà de’ panneggiamenti e le tante altre mutazioni farebbero quasi credere che l’autore avesse avuto intenzione di mascherare un plagio, anzichè dichiararsi imitatore.
Ben altramente operò quel plastico che tradusse fedelmente in tredici statue di terra grandi al naturale le tredici figure di Leonardo, e ne ornò la cappella detta del Cenacolo nel tempio di Sarono, famoso per le migliori cose di Bernardino Luino. Dall’operetta che sopra questo tempio che in luce Luigi Sampietro nel 1658, come pure dall’altra di Giambatista suo pronipote, pubblicata quasi un secolo dopo, si ricava che queste statue furono fatte da un Andrea da Milano nell’anno 1529. Camillo Procaccino poi, molti anni dopo, dipinse nel fondo e ne’ fianchi della cappella sopra tele a olio varie figure relative al soggetto con poco buona mistura di genere e di stile. Se il plastico avesse tenuto nelle sue figure la collocazione e l’ordine che hanno nell’originale, la qual cosa vennegli impedita dalla forma della cappella, quest’opera potrebbe piuttosto dirsi una copia in rilievo che un’imitazione.
Fra le imitazioni poi di pittura, non esistendo memoria del come e dove imitasse il Cenacolo Cesare da Sesto, di che si legge ricordo nel Vasari, debbesi il primo luogo al cenacolo di Bernardino Luino che vedesi dipinto a fresco nel refettorio degli zoccolanti di Lugano. Esso fu posto inconsideratamente fra le copie da molti scrittori sull’autorità del De Pagavo il quale scriveva tutto ciò che venivagli riferito.[26]
Le figure che in quest’opera di Bernardino si possono veramente dir tolte al Cenacolo del Vinci, sono il Cristo e gli apostoli Pietro, Tommaso, Bartolommeo e Giacomo il Maggiore. Bartolommeo però è posto alla sinistra di Cristo, mentre nell’opera di Leonardo è alla destra. Le altre otto figure sono tutte di sua invenzione.
Il complesso dell’opera appar freddo e meschino a chi ha in mente il dipinto di Leonardo; ma nondimeno non manca di una dolce, vera, affettuosa espressione, la quale si accresce quanto più l’opera si riguarda, effetto che non succede se non alla contemplazione di quelle opere che hanno in sè qualche verità e bellezza. Artificiosa molto è anche la fisionomia dell’Iscariote, a piè del quale il pittore dipinse un gatto per simboleggiare con volgare allusione il latrocinio, il tradimento e l’impostura. È poi degno d’esser notato da chi osserverà questo dipinto, quanto ingegnosamente il Luino abbia superate le angustie del luogo e la incomoda architettura, accomodandovi e distribuendovi la sua istoria con molta sagacità ed avvedutezza.
Di alcune figure tolte a Leonardo e dipinte dal Lomazzo, probabilmente allorch’ei mosse i primi passi nell’arte, già s’è parlato ove si ragionò della copia da lui fatta nel refettorio della Pace. Altre simili imitazioni d’una o più figure veggonsi in varie dipinture, come pure in istampe, ma non ne conosco di tali che meritino speciale ricordo.
Ben merita d’essere con onore ricordato, ed è degno che si annoveri fra i più bei cenacoli che si veggano, quello del convento di san Salvi presso Firenze, di mano di Andrea del Sarto. Quest’opera ch’è tuttavia benissimo conservata, è ottimamente eseguita a fresco e vanta in generale molta espressione. Ad imitazione di Leonardo vi dispose Andrea le sue figure tutte su di una linea, eccetto l’estreme di profilo. Quel giovine apostolo che si alza con vivacità da sedere, ha una espressione sì viva e vera, che è un danno non sia agguagliata da pari nobiltà nel carattere. È strana la mossa del san Giovanni che sembra spingere la destra nel piatto, mentre Cristo pare allontanamela perchè non si verifichi in lui la profezia con cui voleva accennar Giuda. Questi siede poco opportunamente alla destra di Cristo, e sta per prendere il tozzo di pane che Cristo gli porge; con che rimarrebbe finita l’azione e tolta quella sospension d’animo, la cui bella imitazione valse tanta gloria a Leonardo. In ogni maniera l’idea generale dell’opera di Andrea è imitata dal Cenacolo del Vinci, e la seconda figura a dritta di chi vede, è presa dal suo Giacomo Minore. Rimane a desiderare più legame frale figure e maggior dignità, soprattutto in quella del Redentore che se non fosse nel mezzo, non sarebbe possibile il distinguerlo dagli altri apostoli. Ben variati poi sono gli abiti, bella generalmente la maniera, buono il colorito e l’effetto: solo spiace qualche tuono di color cangiante troppo ardito e affettato.
Finalmente è pur d’uopo annoverare fra le imitazioni anche quel cenacolo di Raffaello, del quale non esiste il dipinto, ma se n’ha una bella e rara stampa del Raimondi. Il modo con cui l’opera è in generale trattata, il somigliarsi di molte teste barbate, ed alcune altre note che dal confronto le persone dell’arte potranno distinguere, fanno giudicare che dalla più antica delle stampe descritte traesse Raffaello la notizia dell’opera del Vinci. L’imitazione però rimase al solito assai lungi dall’originale, ed anche Raffaello, ad onta del divino ingegno e di tutte le rare doti pittoriche che in lui con singolare predilezione riunì la natura, venne meno in questo periglioso cimento d’imitare le invenzioni altrui, quando queste appartengono ad uomini sommi e sono generalmente note. L’imitare un’opera come il Cenacolo, la quale determinò l’epoca della rinnovata perfezione della pittura, non è come il far quadri e gruppi dietro gli avanzi delle antiche pitture greche o romane che Raffaello cercava nelle terme di Tito a Pozzuoli ed in Grecia. Queste anticaglie in parte perivano, appena dissotterrate; in parte dopo disegnate venivano ricoperte, come ne abbiamo testimonio in più scrittori; altre si scoprivano sì logore dal tempo, che, trattane qualche memoria, si distruggevano; e quelle in fine che non erano annichilate dal tempo o dalla propria caducità, venivano disperse dall’ignoranza o distrutte dalla gelosia. Era quindi facile a Rafaele l’abbellirsi di rare antiche invenzioni ed averne il merito, non essendo facile a trovare donde egli le traesse. E ciò si dice non già per iscemare la gloria di quell’elegantissimo artefice, ma perchè, oltre ciò che la storia asserisce, le sue opere provano da per tutto che il suo genio non isdegnava di pigliare qua e là il bello fatto da altre mani, come cosa che fosse di sua ragione. Così spogliò Masaccio delle migliori figure ed in ispecie di quel mirabile san Paolo, manomesse il Ghiberti, fra Bartolommeo, Michelagnolo e l’antico senza riserva. Di fra Bartolommeo in particolare, oltre il san Marco, imitò la disposizione de’ santi intorno a Cristo nella Disputa del Sagramento, traendola dal Giudizio che il frate dipinse a santa Maria Nuova in Firenze.[27] Intanto finchè Raffaello imitò le opere altrui meno note, applicandone le invenzioni in opere maggiori ed adornandole di quella sua grazia inimitabile, egli accrebbesi riputazione e gloria: ma dandosi ad imitare il Cenacolo del Vinci, non sortì lo stesso effetto per la notabile diversità della circostanza. Debbesi però notare in onor suo che ammessa la congettura che il suo disegno ad imitazione del Cenacolo vinciano, sia stato fatto colla sola vista dell’antica stampa, questa, come s’è detto, è tanto meschina che chi non avesse per niun altro mezzo notizia del dipinto di Leonardo, la giudicherebbe derivare da opera inferiore di merito all’originale intagliato dal Raimondi. Queste cose ho voluto avvertire per allontanare gli artisti dall’imitare il modo con cui altri trattarono con fortuna e gloria i dati argomenti, invitandoli in vece ad indagare e svolgere la natura degli argomenti stessi onde trarne de’ modi nuovi, non tentati prima da altri; dai quali modi verranno suggerite alle loro fantasie nuove cose che all’arte incremento, e recheranno a loro onore grandissimo. Ciò ch’io qui dico, lo conferma per tacere degli altri, l’esempio di Raffaello, che imitando il Cenacolo di Leonardo, gli rimase lungamente inferiore; e l’esempio di Leonardo che non imitando nessuna anteriore composizione, trovò nella natura un tal nuovo modo di trattare il tema propostosi, che riuscì a farne la stupenda opera di che trattammo, cui è poca ogni lode, e della quale rimarrà memoria finchè fior di cultura durerà fra gli uomini.
  
DELLA COPIA DEL VICERÈ D’ITALIA.

Sogliono gli accorti scrittori esporre primamente le cose meno importanti e serbare per ultimi i più gravi temi delle loro scritture, onde così nutrire gradatamente e mantener viva sempre l’attenzion di chi legge. L’ordine di questi miei scritti ha voluto per l’appunto il contrario, ed è pur forza ch’io parli di me e dell’opera mia qui dove sarebbe opportuno chiudere questo terzo libro recando soccorso alla debole dicitura con la nobiltà di qualche nuovo ed elevato argomento. Pertanto se l’indulgenza del benevolo lettore mi è necessaria per ogni parte di queste memorie, tanto più caldamente la imploro per questo capitolo, nel quale non posso offerirgli nessuna importante notizia, nè descrivergli cosa alcuna piacevole, ma unicamente gli debbo apparire innanzi prolisso relatore delle mie fatiche. Chè poi, se per accorciare ch’io faccia la narrazione delle diligenze da me usate intorno alla copia commessami, dovrò non pertanto estendermi a molte pagine, me ne sia scusa il dovere che mi sono imposto e che accennai nella Introduzione, di render conto del modo col quale l’ho condotta: mi sia scusa non meno la natura stessa e la difficoltà dell’opera, non che lo stato dell’originale e l’eccellenza del sublime autore: mi sia scusa finalmente l’importanza dell’oggetto pel quale piacque all’ottimo Principe di ordinarmi un tale lavoro, quello, cioè, di farlo tradurre in mosaico grande come l’originale, impresa che supera per mole e per difficoltà tutte le altre di tal genere che finora siensi tentate.
Io aveva veduto le principali fra le copie descritte, allorchè al principiare del maggio del 1807 intrapresi con fervore la mia. Abbandonai primieramente ogni mio lavoro, quantunque ne avessi d’importantissimi fra le mani, e tutto mi diedi a Leonardo, investigando giorno e notte le cose sue, i suoi sistemi, le sue pratiche, i suoi scritti.
Mi risolvetti prontamente di fare un cartone di tutta l’opera, grande come l’originale, onde non aver pentimenti sulla tela. Per tale proposito misi insieme quanti disegni potei, tratti da quell’opere tutte che mi parvero opportune ad agevolarmi la piena notizia della maniera del maestro. Per fortunato accidente io non era del tutto nuovo al mio originale, perchè, oltre che da fanciullo ne aveva copiate, da disegni per altro cattivi, le teste, l’aveva poi sempre esaminato e studiato, ammirandone sopra tutto la composizione, sola cosa che veramente dell’opera antica ci rimanga. Mi giovò anche la pratica del Trattato di Leonardo che mi tenne luogo di maestro, non avendone io avuto altro, non saprei ben dire se per buona o se per mala fortuna. Ne rinnovai però subito una diligente lettura che replicai sovente, estraendone quelle sentenze che mi parvero avere qualche relazione al lavoro che io era per intraprendere. Io mi tenni convinto che Leonardo era tale uomo da eseguire con l’opera ciò ch’ei dava per precetto, e se ne’ suoi scritti non pose mai in esempio nè sè stesso nè altri, ciò avvenne perchè egli sera fatto dell’arte un’idea tanto sublime, che temette di destarla in altri di troppo minore alla sua e vera, qualora agli aforismi tratti dalla natura e dalla filosofia avesse aggiunto la debole ed a sì gran confronto ineguale autorità delle opere dell’arte.
Intanto, mentre io attendeva a queste ricerche delle quali io teneva esatte note, disegnava del continuo varie parti del Cenacolo. Aveva già copiate le teste tutte e qualche altra parte della copia di Ponte Capriasca, non tanto pel merito di quel dipinto, quanto per avere i principali ricordi di un’opera lontana che potea per qualche lato giovare alla mia. Disegnai in appresso diligentemente le teste tutte, molte mani, alcuni panneggiamenti e tutto il di sotto della mensa della copia di Castellazzo. Copiai similmente con molta accuratezza tutte le teste e tutte le mani della copia dell’Ambrosiana. Ripetei sulla stessa copia, con qualche tentativo di cambiamento, la testa di Cristo e quelle di Giuda, di Pietro e di Giovanni, in carta bianca, finite accuratissimamente. Osservai o copiai da per tutto quanto mi venne a notizia che al mio autore appartenesse, e feci pur anche varj disegni d’opere del suo tempo analoghe alla sua maniera.
In questo mezzo le continue inchieste da me reiterate da per tutto avevano in molte parti felice esito. Ogni giorno io scopriva qualche nuova copia che descriveva fedelmente, notando il pregio di ciascuna parte, le forme degli accessorj, le varietà, le tinte d’ogni panneggiamento, ecc. Così pure raccoglieva da varj corrispondenti dentro e fuori d’Italia or note, or libri, ora stampe, or disegni, talchè in poco tempo crebbe notabilmente il materiale del mio lavoro e con esso la lusinga di non condurlo alla cieca. I custodi delle pubbliche biblioteche e i proprietarj delle private che sceltissime vanta la città nostra,[28] favorirono le mie indagini con ogni gentilezza. I chiarissimi Gaetano Marini e Jacopo Morelli arricchirono la mia suppellettile leonardesca con utili notizie d’ogni genere.[29]
Per tal modo, colle note fatte su tutte le copie da me esaminate, coi precetti dell’autore in mente e colla pratica acquistata nell’esecuzione d’un centinajo di disegni che feci per apparato del mio lavoro, mi posi finalmente a cominciare il cartone.
La storia della copia del Bianchi, stesa dal cardinale che l’aveva fatta fare, non mi lasciava nessuna ambiguità nella scelta di quella cui dovessi rivolgermi pel dintorno generale delle figure. Niuna delle altre copie, tutte men grandi dell’originale, era come questa, per irrefragabile testimonio, stata lucidata e graticolata sopra di esso. Niuna dava teste più maestose senza caricatura, mani più semplici ne’ moti e nelle forme; sveltezza e prontitudine negli atti delle figure: niuna in fine, come questa, guidava la fantasia a rappresentarsi l’opera del Vinci in un modo consentaneo ai suoi precetti. A questa adunque mi appigliai, e sebbene ne avessi di già lucidate con cristalli ingommati le teste e le mani onde disegnarle con maggior precisione, la lucidai tutta nuovamente colla esattezza che seppi maggiore e per quanto io vi ho potuto scorgere in mezzo all’annerimento di molte parti ed in ispecie de’ panni. Dopo di ciò feci i confronti delle misure prese da questa copia colle misure dell’originale, e riscontratele corrispondere almeno fin dove dalla rovina dell’originale è permesso il confrontare, intrapresi colla massima cura l’ombreggiamento delle teste. Io mi teneva sempre sott’occhio tutti gli studj disegnati che aveva fatti, e colla scorta di quelli, alla presenza della copia del Bianchi, mi andava sforzando di mettermi in idea ciò che doveva essere l’originale e di avvivare nel mio cartone ciò che mi parea debole e mal reso dal Bianchi o per istanchezza di lavoro[30] o per guasto dell’originale o finalmente per imperizia.
Mentre intanto il lavoro andava progredendo, vedendomi pur costretto a copiar da copie, io mi fermai in mente la seguente massima. Leonardo era grande in ognuna delle parti dell’arte; dunque, deduceva io, ogni qual volta scorgerò nelle copie un errore manifesto, mi terrò per dimostrato che non già a lui, ma all’insufficienza o trascuratezza de copiatori si debbe del tutto imputare. Rifletteva in appresso che fra i copiatori non si novera nessun nome grande, e la copia stessa che mi serviva di scorta doveva il suo pregio alla diligenza ed ai mezzi con cui fu eseguita, ed inoltre al fine per cui fu fatta, ma non di certo alla fama o alla straordinaria perizia dell’artefice il quale, non avendo fatto considerabili opere originali, si rimase mediocre ed oscuro. A chiunque, seguiva io a considerare, dovesse tradurre Euclide o Archimede, non basterebbe di certo il possedere le lettere greche; e se nelle matematiche fosse poco versato o del tutto ignorante, farebbe pessima traduzione. Lo stesso avverrebbe ad un valente latinista che si mettesse a tradurre Vitruvio senza aver notizia alcuna dell’architettura. Dietro tali principi io mi posi ad esaminare quali parti mancavano a tale o a tal altro copiatore, e mi andava sforzando di supplire ai difetti che la successiva pratica e la più intima conoscenza in cui m’inoltrava sì dell’opera come dell’autore, mi facevano riconoscere.
Per esempio in Marco d’Oggiono, oltre le teste, poco mi rimaneva ad osservare; e quel poco versava sull’andamento generale degli oggetti e delle parti loro, non mai sul disegno in lui sempre scorretto e negligentato, sebbene questo autore nell’esecuzione fosse per lo più deciso, accurato e diligente. Parimente anche nelle teste io lo esaminava pel carattere generale e per la forza del chiaroscuro, non già per le parti spesso mal messe insieme e non corrispondenti fra loro e talora false del tutto. Meno poi per l’anatomia, della quale si dimostra affatto ignorante. E in prova di ciò chiunque ha qualche pratica di disegno osservi nelle sue copie le teste del Salvatore e i colli di ogni figura: troverà quelle contraffatte e storte, questi senza muscoli o con muscoli falsi o in falsa direzione. Parimente non troverà un solo orecchio ben fatto: tutti hanno forme strane di traghi e di conche, e per lo più mancan del tutto dei lobi. Non parlo di mani o di piedi, chè gli converrebbe dire con Dante:
Forse per forza già di parlasia
Si travolse così alcun del tutto.
Con gli stessi riguardi procedeva io nell’esame della copia del Bianchi. Nelle cose di Marco vedesi talvolta qualche forza or d’ombre, or d’espressione che rammenta la grande scuola donde egli è uscito. Nulla di simile che da proprio sistema dipendesse, trovava nel Bianchi, il quale, attenendosi timidamente all’originale in molti luoghi scrostato e mancante, nè essendo gran fatto profondo nel disegno, non poteva dare nell’opera sua quelle energiche risoluzioni che caratterizzano con forza le cose, e che sono figlie della pratica ferma e dell’uso della scuola, allorchè s’incontrano in Marco, come lo sono del profondo sapere in Leonardo. Da ciò io giudicava che le cose del Bianchi più vivamente risolute, osservata la debolezza del suo sistema, non solo dovessero essere assai più ferme e decise nell’originale, ma erano in oltre al suo tempo le cose meglio conservate dell’opera, quindi le più genuine e proprie al mio intento.
Con queste e con altre simili riflessioni continuava le tuie ricerche per ogni parte dell’opera in tutte le copie, argomentandomi di sempre segregare ciò che poteva attribuirsi alla maniera, alla negligenza o all’imperizia de’ copiatori, da quello che poteva appartenere al modello originale. E questi studj gli andava ripetendo per ciascheduna parte dell’arte, come disegno, moto, carattere, forme, chiaroscuro, prospettiva, ecc. Colla continua compagnia e guida de’ precetti dell’autore. E per tali mezzi alternando l’osservazione ora delle copie, ora dell’originale di cui mi sforzava d’indagare lo stato antico per quanto dallo stato suo presente si concede, e tenendomi davanti agli occhi le reliquie raccolte dal cardinal Federico, pervenni a compire il mio cartone dalla mensa in su, e, senza quasi avvedermene, più diligentemente assai di quello che da principio mi fossi proposto, tratto a ciò insensibilmente dall’amor dell’opera e dalle finezze artificiose che a poco a poco in ogni parte di essa andava scoprendo.
Fatto questo, recai il mio cartone nel refettorio delle Grazie davanti all’originale. Ivi eseguiti varj cambiamenti che la vicinanza dell’opera e le più minute osservazioni consigliavano, si trattava di fare il di sotto della mensa. Ma questa parte è sì perduta nell’originale, si maltrattata in ogni copia, che io non aveva alcuna ragionevole autorità da seguire. Nel mio caso era doppio il pericolo di perdere la vera strada, o che da solo camminassi senza scorta, o che mi affidassi alla scorta infedele delle copie. Gli antichi, come vedemmo, operavano e giudicavano alla grossa circa il copiare, in ispecie per le parti accessorie e più particolarmente nelle opere grandi. Oltre ciò nessuna copia in grande del Cenacolo fu eseguita davanti l’originale, chè i domenicani non avrebber permesso che il loro refettorio diventasse uno studio da pittore: e se il Bianchi potè farvi la sua, che fu per ordine del cardinale arcivescovo, la fece per disgrazia in tempo che la parte inferiore era perduta, nè incomodò poi gran fatto quei padri, non facendone che una parte e quella stessa in molti piccoli pezzi facili a traslocarsi. Marco, come s è notato, non fece sull’originale che la copietta di san Barnaba, e non curandosi che della composizione ch’era la cosa alla quale sola si badava in allora, non ritrasse che la parte superiore, quantunque anche la inferiore al suo tempo, siccome di fresco eseguita, fosse conservatissima. Da quella copietta trasse le copie grandi; quindi non è meraviglia, se aggiungendo i piedi di reminiscenza, si allontanasse dall’originale e ne facesse la maggior parte a capriccio e male. Anzi nella copia della Certosa, disgustato di ripetere questa parte non piacevole dell’opera, li fece fare da altri, e scelse a caso mano sì inesperta che nessuna delle copie ha piedi peggio eseguiti. Intanto nel dipinto delle Grazie, questa porzione più vicina all’umido del terreno e composta di parti ombrose, quindi non sostenute da colori opachi e resistenti, fu la prima che si perdette; perciò le copie nulla da questo lato vantano che dell’originale sia degno, e quelle tutte che ho esaminate, peccano più o meno secondo la perizia di chi le fece, ma il più delle volte sono scorrette e bizzarre a segno che non si trova modo da combinare le gambe colle figure cui appartengono.
In mezzo a tanto imbarazzo io non aveva per tal parte del quadro altro dato probabile donde partire, se non in quelle cose nelle quali trovava un generale accordo in tutte le copie. Per quanto in molte di esse si veggan ripetuti i diviamenti di Marco, non poteva credere che d’altronde derivasse che dall’originale ciò che riconosceva ragionevole e che da per tutto riscontrava uniforme. Tale uniformità scorgevasi, per esempio, ne’ piedi del Salvatore, in quelli dell’apostolo Bartolommeo, in quelli di Simone e d’altri pochi. Ma i modi delle attitudini non erano le sole cose alle quali io doveva attendere, e se io poneva mente al disegno ed alle forme, non meno che alle altre parti tutte sotto la mensa, rimaneva nuovamente nella massima oscurità.
È egli possibile, io mi andava intanto dicendo, è egli possibile che Leonardo, sì esperto disegnatore, facesse piedi si ignobili e spiacevoli, quali son quelli che si veggono nelle copie del suo Cenacolo? è egli possibile che il legislatore della ponderazione facesse posar Filippo sul piede sinistro mentre con tutto il corpo si volge al lato destro, come si vede nelle copie di Marco e de’ suoi seguaci? è possibile che l’accurato osservatore del decoro facesse i piedi di san Pietro del tutto in profilo, col qual atto, disegnandosi ciò che la mensa toglie alla vista, si mostra Pietro sconciamente seduto sulle ginocchia del vicino Andrea? E pure e queste cose e molte altre simili, autorizzate da molte copie, non riescirebbero nuove, essendo già fatte pubbliche dalla celebre stampa di Firenze che per altri riguardi è ben degna della sua fama.
Fra tanti dubbj e perplessità io che, per giungere a scoprire qualche parte di vero in queste cose, aveva impiegato un maggior numero e forse una scelta migliore di mezzi che alcun altro prima non avesse fatto, mi tenni in qualche diritto di allontanarmi dall’autorità altrui, e risolvetti di seguire piuttosto i precetti del Vinci che l’arbitrio e gli errori de’ copisti. Fermatomi in tal proposito, mi misi ad indagare con nuove diligenze il poco che dal Cenacolo originale può trasparire. La distruzione de’ piedi del Salvatore e delle figure vicine era per me perdita assai men dolorosa del rimanente perito ab antico e impiastrato più volte pessimamente. Per quelli trovava, come già dissi, nelle copie un sistema meno oscuro e più uniforme; ma non avvenivami lo stesso in varie altre figure, e specialmente in quelle che si alzano alquanto dai sedili, come Pietro, più ch’altri, e Filippo. Fui pertanto assai soddisfatto di trovare per l’appunto la figura di Filippo posare nell’originale, come dimanda la natura, dal lato verso il quale si china, cioè sul piede destro: nè credo di aver errato in pensare che il Bellotti, il Mazza e gli altri che sopra pochi antichi frammenti rifecero quel piede, non l’abbiano cambiato di lor testa di sinistro in destro. Così trovai dall’altra parte del quadro qualche avanzo che mi che maggior coraggio di scostarmi dal modo dagli altri tenuto; e finalmente per non accrescere il tedio di sì minuti ragguagli, rinnovati del continuo attenti esami e confronti sui disegni e sulle note da me tratte da ogni copia, riletti gli scritti di Leonardo che a tal proposito hanno relazione, verificati da ultimo gli atti sul naturale, fermai sul mio cartone quanto dal complesso di tali studj ho potuto dedurre.
Non tenni però conto in questo cartone nè del fondo nè dell’apparecchio della mensa. Il chiaroscuro dolcemente degradato, l’espressione degli affetti, il carattere, le movenze, le forme sono le cose alle quali ho atteso colla massima cura. E veramente se, in vece di volger il pensiero a quello che io stesso potrei fare un’altra volta, e a quanto anche ciò che di nuovo facessi, sarebbe lontano da ciò che può far l’arte, io accontentassi l’animo mio del favore che quest’opera ha ottenuto, e delle ricerche di molti grandi e reali personaggi, delle quali fu onorata, avrei certo di che ampiamente confortarmi della fatica che vi ho durata, e de’ pensieri e delle vigilie che vi ho consacrati per molti mesi. Ma quando rifletto alla vera prima fonte di questo favore, che è il merito sublime della composizione e il poco comune uso di vedere disegni tanto grandi e finiti, e che di mio non v’è che qualche pratica del disegnare, e il merito d’aver conosciuta la buona origine della copia del Bianchi, mi tace ben tosto nell’animo ogni lusinga intorno a quanto ho fatto, e non vi rimane che la speranza di far meglio altra volta, fondata sul profitto che da quest’opera credo d’aver ottenuto. Il quale giudizio, se per avventura paresse troppo rigido agli amici miei o a coloro che poco sanno dell’arte, o finalmente a quegli artefici che poco amano lo studio e la fatica (chè parrà certo dolcissimo a quelli che delle altrui fatiche sono invidiosi), io non ho altra appellazione se non alle opere che spero potere in processo di tempo mostrare.
Posto adunque fine al mio cartone con le cure che ho saputo maggiori, e che in parte ho descritte, al finire dell’ottobre del 1807 intrapresi tremando l’abbozzo dell’opera. Aveva a tale effetto fatta preparare una tela d’un solo pezzo con colla dolce e imprimitura di biacca sottilmente replicata sino a quattro volte, col qual mezzo la tela si conserva morbida, e dovendosi rotolare, come delle grandi tele sempre avviene, non va soggetta a screpolature o ad altri danni. Per aver poi da principio una qualche sorta di guida per le tinte, preparai quel poco di cielo che nel fondo si vede, la qual parte non essendo stata, come tutto il rimanente, ricoperta nell’originale, si conserva tuttavia chiara e brillante, siccome impastata di biacca candidissima e di azzurro oltramarino. La biacca anzi vi è quasi pura là dove il cielo rimane interrotto dalla cima delle montagne, se non che è alquanto riscaldata da un attimo di giallo e di cinabro, con metodo che vedesi usato in pressochè tutti i quadri del secolo decimoquinto.[31] Fatta tale preparazione, abbozzai le teste di Cristo, di Tommaso, di Jacopo e di Filippo. Costretto in appresso a colorire i panni delle figure, mi feci legge di prima abbozzare quelli, circa la cui tinta, o per qualche antico resto dell’originale o per autorità delle migliori fra le copie, non poteva aver dubbio. Con tal norma mi parve di poter procedere con maggior sicurezza, mettendo, per quanto io sapea, d’accordo colle tinte note e sicure quelle ch’erano incerte e perdute. Così di mano in mano progredendo regolarmente e con assiduità, copersi la tela, tenendo il colore, fin dove la varia natura de’ colori concede, ricco ed alto uniformemente, e schivando sempre le ineguaglianze ed asprezze, a norma del sistema dell’autore che io aveva da imitare. E se la mala natura del luogo umidissimo e deserto, e l’eccesso delle fatiche non mi avesser tolto la salute per più mesi, proseguendo al modo con cui aveva cominciato, io avrei condotto l’opera a fine un anno prima che per quella circostanza non ho potuto.
Nondimeno quel necessario e tristo riposo mi fu, se non erro, giovevole, dandomi maggior tempo di pensare alla natura dell’opera e di fermarmi nella maniera dell’autore. Impaziente dell’ozio, mi posi in quell’intervallo ad ordinare i disegni, le stampe e le memorie che al Vinci o alla sua opera, o alla sua scuola appartenevano. Feci anche in allora acquisto della famosa Raccolta di disegni che appartenne già al De Pagave,[32] nella quale son molte ottime cose di Leonardo. Contemporaneamente studiai con quali principj procede Leonardo nel comporre il suo quadro, e cercando tutti que’ libri che potei congetturare avergli servito di scorta, mi assicurai che i nomi che aveva trovati sotto la copia di Ponte Capriasca si conformavano assai bene colla storia apostolica quale Leonardo potè saperla, e per conseguenza li ritenni esprimere fedelmente la di lui intenzione. Stesi anche a quel tempo parte di queste memorie, e specialmente i ricordi e le osservazioni di che composi da poi il secondo libro, e indagai, proseguendo, in tutti gli antichi libri stampati e manoscritti che mi vennero alle mani, tutto ciò che al mio autore riguardava, di che a poco a poco mi venne fatto il materiale del libro primo. Copiai in oltre diligentemente varj autografi di Leonardo, parte miei, parte prestatimi gentilmente dagli amici. Così del continuo fra le cose di Leonardo, maneggiando o i suoi disegni o i suoi scritti, mi studiava di sempre più fondarmi nella sua maniera, scrivendo le massime che dalle opere sue mi riusciva di trarre, e specialmente da quelle che di recente aveva scoperte, le quali servirono a darmi luce in varie cose, circa le quali le opere stampate non mi soccorrevano di autorità.
Finalmente potei tornare a dipingere, e senza entrare in nuovi ragguagli dei mezzi da me del continuo impiegati, con quella maggior brevità che dalla natura dell’assuntomi impegno mi verrà permessa, dirò quanto mi resta onde render conto dell’opera mia, tralasciando le cose piccole e minute, intorno alle quali mi procaccerò fede senza difficoltà, se il paragone dello scritto al fatto me la farà nelle cose maggiori ottenere.
Ommettendo adunque di parlare dell’ordine da me tenuto nel lavoro, onde andare per gradi e servirmi dell’opera stessa a fine d’istruirmi nel modo di condurla, parlerò di ciascheduna figura in particolare: e cominciando dall’apostolo Bartolommeo, dico che, attenendomi alla copia dell’Ambrosiana, il feci colla bocca alquanto aperta, quale di chi sta in atto di ascoltare attentamente a qualche distanza dalla persona che parla.[33] Questa espressione è sì naturale e sì consentanea ai principi di Leonardo, che non ebbi riguardo alle copie di Marco e ad alcune altre probabilmente derivate da quelle, nelle quali tutte la testa di questo apostolo si vede a bocca chiusa. Nell’originale sì la testa come il rimanente di questa figura sono interamente perduti: perciò nel disegno che servì per la stampa di Firenze si vede un’imitazione della testa della copia di Castellazzo. Le tinte dei panni sono come le descrissi nel secondo libro, in quasi tutte le copie; se non che in molte sì il verde del pallio come l’azzurrino della tunica sono anneriti in modo da non conoscersi. La mano sinistra l’ho fatta colle dita raccolte, come vedesi nella copia del Bianchi, con atto più pronto e naturalissimo, non ispianata come mostra la stampa e alcune delle copie: la destra poi la feci in atto di attaccarsi ed appoggiarsi alla mensa, ma senza il tovagliuolo che vedesi in alcune copie, e di cui non v’è avanzo alcuno nell’originale, e molto più senza quel ridicolo uovo che vi si vede nella copia di Castellazzo, con che volle forse Marco accennare il principio della cena. I piedi li feci sollevati entrambi alquanto, perchè così dimanda l’attitudine momentanea di questa figura, che provai io stesso più volte e feci da molti provare.
Per l’apostolo che segue, che è Giacomo d’Alfeo, non ebbi da far molte ricerche intorno ai colori, essendo d’accordo quasi tutte le copie, non che l’originale, a farlo vestito di panno rosso. Sono egualmente d’accordo in mostrarlo somigliante a Cristo, al che tutto mi attenni, ritenendo i dintorni della copia del Bianchi e aggiungendovi pel carattere ciò che dal Bianchi mi parve dimenticato. La mano sinistra poi di questa figura non la feci già come nella stampa nella quale mostra il pollice al di qua del braccio di Pietro e di tutta la figura d’Andrea, cosa in natura impossibile; ma la feci dietro del tutto in atto di far insegna col dosso, come espresse Dante un simil atto di accennare. Nella parte inferiore poi non feci vedere nulla affatto de’ piedi, non solo perchè così trovai in varie copie, ma perchè l’un de’ piedi sarebbe caduto nel mezzo del sostegno della mensa, il qual caso si ripete per l’appunto in ciascheduno degli altri tre sostegni. Bensì feci una continuazione della gran tunica rossa.
In Andrea, sempre sulle tracce della copia del Bianchi, tenni i capelli grigi, la fronte rugosa, la bocca incurvata, come Leonardo stesso descrive un vecchio che ascolta un grave oratore, intorno a che riveggasi il secondo libro nel capitolo di questo apostolo. Sul colore della tunica trovai il più delle copie accordarsi; pel pallio, vedendone molte variar capricciosamente, stando al poco che mi parve trapelare dall’originale, mi attenni ad un verdino chiaro e freddo che si diversifica dagli altri varj verdi dell’opera. De’ piedi non mostrai a questa figura che il sinistro, perchè non mi parve secondo le leggi del Vinci il ripetere l’attitudine de’ piedi del Salvatore, come si vede nella stampa ed in alcuna delle copie.
Circa al san Pietro poco mi occorre di notare. Il giallo vivace del pallio e l’azzurro chiaro della tunica si scorge in molte copie ed anche quanto basta nell’originale. I piedi, non senza la scorta di varie copie, quantunque poco io abbia nelle copie contato pei piedi, gli ho posti non già in profilo, con che verrebbe a confondersi l’atto, ma in tale positura colla quale si dimostri che egli prima stava a sedere, e che prontamente alzossi, allorchè il caso a ciò il mosse, come s’è veduto a suo luogo. Nella testa, nell’anticipata canizie, nella robusta virilità, nello sguardo minaccioso, nell’elevamento delle narici, nel ciglio tentai di rendere il Pietro di Leonardo, che Leonardo parve aver imitato da quello di Dante.[34]
Nella figura del vilissimo Giuda ho trovato grandi arbitrj nelle copie. Marco che il fece tre volte, tre volte il variò a suo modo, dandogli sempre forme caricatissime ed espressione mediocre. Dalla testa che potei trarre dalla copia del Bianchi, oltre la viltà del carattere e l’abito ad opere e desiderj ignobili, apparisce anche l’impostura colla quale sembra coprire l’improvviso turbamento d’essere scoperto, e quell’attendere alle parole che fanno fra loro Pietro e Giovanni, che argutamente vi riconobbe il cardinal Borromeo. Parmi in oltre vi trasparisca l’ostinazione, la perfidia, l’insensibilità. Contorsi anche le rughe della fronte al modo che i metopòscopi danno a coloro che a Giuda somigliano. Cercai d’uniformare a tutte queste cose il tuono ignobile del colore, la barba rada ed ispida, l’irta chioma di color fosco rossiccio, che col bruno aspetto ricorda assai bene lo Zoilo di Marziale o il Tersite d’Omero, che credo avesse il Vinci assai più in vista che non il priore del convento. L’abito di Giuda, che per la diversità della forma distinguesi dagli altri, è anch’esso assai variamente colorito nelle copie. Io mi attenni al color cenerognolo per la tunica esterna, e ad un giallo oscuro per l’interna che quasi in ogni copia è cinta da un lembo azzurro alla scollatura, nel quale talvolta, come nella copia di Castellazzo, si legge inscritto il suo nome, aggiuntovi il suo carattere colla parola Tradicor.[35] Al cenerognolo o berrettino mi attenni poi volentieri, avendo letto nel Lomazzo[36] che questo colore significa povertà, inimicizia e disperazione, e allorchè somiglia al color della cenere, travagli e pensieri nojosi che tendono a morti, cose tutte che quadrano a Giuda mirabilmente. Così dietro la scorta dell’istesso Lomazzo gli feci la tunica di sotto di color giallo tirante al fosco, il quale significa tradimento, travaglio, angustia e simili. Per ragioni a queste conformi feci d’un color perso cupo il suo pallio; e giacchè ci accade qui far motto de’ colori, sebbene io avviso che Leonardo non fosse in tali cose così diligente sminuzzatore come in tutte l’altre che hanno un più chiaro fondamento nella natura, non ho mancato d’indagare e ne’ suoi scritti e negli antichi autori le varie opinioni circa i significati de’ colori diversi, onde appropriarli a ciascheduna figura in quel grado che più convenisse, e trovare, s’era possibile, i motivi che mosser Leonardo ad attenersi a tale anzi che a tal altro colore. Gli antichi certo, e specialmente i cinquecentisti, portarono queste allusioni de’ colori a tal punto, ch’erano diventate una specie di nuovo linguaggio, e un amante che non poteva nè parlare nè scrivere alla sua donna, col solo variare i colori degli abiti potea far intendere speranze, lutto, mestizia, cortesia, generosità, altezza d’animo, contentezza, disperazione, abbandono, disprezzo e simili cose. Ciò può vedersi nella Selva del Passi che di tale argomento promise uno speciale trattato, come pure in Sicillo Araldo, nell’Occolti e in altri varj. Ma queste sottigliezze erano meri abusi d’imaginazione, che dovevano svanire colla moda, mentre restarono sempre alcuni significati generalmente ricevuti a certi colori principali, e cert’altri colori furono costantemente adottati per certe tali figure; e a quelli soltanto, perchè nella volgare opinione per natura o per tradizione avean saldo fondamento, avrà Leonardo piegata la ragion dell’arte, siccome ai soli che ne fosser degni. In fatti (per non parlar dei colori consacrati dall’uso alla Vergine, a Cristo, a san Giovanni) che il verde il quale imita la prospera vegetazione lusingatrice di frutti belli e copiosi, alluda alla speranza; che il bianco per la difficoltà di conservarne il candore simboleggi innocenza e purezza; che il rosso significhi splendore e dia magnificenza; che l’azzurro col suo somigliare al cielo figuri nobiltà, gentilezza, altezza d’animo, origine celeste, non sarà difficile ad intendere, e diventa linguaggio universale e volgare, perchè l’esprimere queste differenti cose, con oggetti visibili è un modo naturalmente adatto alle fantasie. Ma quando col discendere a colori subalterni ed a minute modificazioni si assottigliano tal cose per modo che il concepirle, in vece d’essere un pronto giuoco della fantasia, abbisogni il un lungo sforzo dell’intelletto come pure d’una memoria tenace onde ricordarsele, allora escono di necessità fuori del limite della pittura, ed è probabile che Leonardo tenesse quest’arte in quel conto in cui tenea la chiromanzia ed arti simili da lui disprezzate, siccome prive d’appoggio nella sola eterna maestra dell’arte, la natura.
Ma passando all’apostolo Giovanni, vestito, come già si disse, del consueto pallio rosso e della tunica verde, io mi attenni, per la sua testa, al quadro del Bianchi, perchè l’ho trovata senza paragone più nobile d’assai delle altre tutte da me osservate o disegnate. Solo volli indicare alquanto rilevate le tuberosità della fronte onde darle un carattere più maschile di quello apparisca ne’ varj cenacoli da me visti; e mi fu di ciò autorità ed esempio una testa giovanile d’un Batista del Salaino, forse ritoccata da Leonardo, nella quale tali tuberosità sono assai rilevate, sebbene il resto sia di forme delicate e quasi femminili, accompagnate da leggiadro sorriso.[37] Questi rilievi nella fronte sono noti indizj di forza d’ingegno, di memoria e sopra tutto d’imaginativa, cose convenienti all’enfatico scrittore dell’apocalisse. Mi guardai però dal farvi muscoli con aspre diffinisioni; anzi, seguendo il precetto del mio autore, adoprai in modo che li dolci lumi finissero insensibilmente nelle piacevoli e dilettevoli ombre, dal che nasce grazia e formosità.[38] Piedi, mani, tinte di panni, tutto in questa figura è nobile, tutto dolcemente mosso o atteggiato. Una grossa perla nella fimbria della tunica simboleggia, secondo il Lomazzo ed altri, il candore di questo prediletto amico del Redentore.
Volgendo gli occhi agli apostoli dell’altro lato, nella testa di Giacomo il Maggiore serbai alquanto della fisionomia del Nazareno, come notammo nel secondo libro. Tenni la sua tunica più chiara alquanto che non apparisce in molte delle copie, perchè il bel giallo che doveva vedersi nell’originale, essendo stato per lo più imitato con colori falsi e passeggieri, il panneggiamento di questo apostolo suol vedersi fosco ed annerito. In prova che l’imbrunimento di tal tinta fu effetto del cattivo materiale impiegatovi, basti l’osservare che nelle copie in cui la tunica di questo apostolo è di colore verdastro oscuro, non si distinguono affatto le pieghe, e non v’è relazione alcuna ragionevole tra le parti illuminate e le ombrose. Al contrario assai chiaro si trova un tal panno nella copia a fresco di Marco ed in alcune altre nelle quali pe’ colori fu usata maggiore accuratezza. E da notarsi in questa figura l’alterazione con cui, per la difficoltà della sua espressione, fu contraffatta in quasi tutte le copie. In alcuna delle migliori sembra in atto di attento osservatore di un qualsivoglia oggetto visibile; in altre sembra uomo cui si faccia soffrire tale tormento fisico, per cui sia costretto a rammaricarsi con gridi ed altri modi onde sfogare il dolore. L’intenzione di Leonardo fu di mostrarlo inorridito in udire le parole di Cristo e di conservare nelle sue fattezze qualche tratto che richiami la famiglia del Redentore. Dalla quale somiglianza che assai più d’appresso, come s’è detto, serbò in Giacomo d’Alfeo, ebbe poi impedimento a far sì che il Redentore, secondo che si espresse lo Zenale, paresse Cristo fra que’ due apostoli.
In Tommaso mi sono ingegnato di rappresentare zelo onesto e minaccia sincera e magnanima.[39] Sulla sua mano sinistra, colla quale si attiene alla mensa e accenna di prendere un coltello, non vi può esser quistione trovandosi come si è notato, sia in alcuni pochi ma certi frammenti nell’originale, sia nelle più vecchie copie, sia negli sviluppi di questa figura che si vedono nella copia di san Vincenzo e nelle statue di Sarono. Intorno al braccio destro di questo apostolo, nè senza scorta autorevole, mostrai una porzione del pallio e gliel feci scendere attorno al suo piede sinistro, onde meglio dichiarare a chi quel piede appartiene; poichè in alcune copie fu dato al vicino Giacomo, alterandosene per tal modo l’attitudine sconciamente. Accordandosi assai bene colle tinte vicine, tinsi questo pallio di un colore composto di lacca, di bianco e di azzurro, colore dal Lomazzo chiamato morello, forse alla maniera de’ Lombardi del suo tempo, e che secondo lui significa elevazione e morte per amore.[40] Debbo qui ripetere che questi troppo sottili significati de’ colori non credo che entrassero nel sistema di Leonardo; ma a notar questo m’indussi perchè veramente cade in acconcio in modo particolare, non potendo a nessun altro apostolo meglio che a Tommaso convenire, il quale solo fra tutti per amore del maestro profferì quelle famose parole: Exeamus et nos, et moriamur cum eo.
Eccoci al tenero ed amoroso Filippo. Già si parlò del modo col quale posa nelle copie di Marco, contrario al sistema di Leonardo, come alla ragione ed alla natura. Perito l’originale nella parte inferiore, l’errore di Marco fu ripetuto dalla greggia servile de’ copiatori. Ma tali ripetizioni non faranno mai autorità presso coloro che conoscono il disegno, e che hanno meditato le massime e le opere di Leonardo. Anche le mani in questa figura sono pessime in tutte le copie: in quella del Bianchi sono le sole che sentano la maniera moderna; talchè è da credere che essendo del tutto perdute nell’originale, ve le facesse il Bianchi il meglio che seppe di suo. Perciò io ho per esse abbandonata la sua autorità, della quale sono stato seguace finchè col lume delle altre opere di Leonardo, e con quello de suoi precetti ho riscontrato in lui un traduttore esatto del suo modello; ma l’ho lasciata senza scrupolo ogni qual volta ne l’ho trovata in contrasto. I colori degli abiti di questa figura non furono molto variati nelle copie; quindi non ebbi in ciò lunga esitazione.
Bensì n’ebbi pei panni del vicino Matteo che sono in ogni copia alterati a capriccio, e nella sola fedele del Bianchi in modo anneriti da non potersi affatto distinguere. Si accordano però quasi tutte a dargli un pallio azzurro: alcune mostrano un tal pallio foderato d’una tinta tendente al giallo, la qual fodera si vede nel rovesciamento del pallio sul braccio sinistro: altre, come quella di Castellazzo, il vestono tutto intero d’un solo colore azzurro carico, tunica e pallio, il che parmi contrario al modo di Leonardo. In altre vedesi non so bene se una fodera bianca della tunica aperta sul petto o pure parte dell’indusio. Anche nell’unione della manica col resto della tunica attorno al deltoide vedesi un ripiegamento che diversifica questa dalle altre tuniche. In mezzo alle varietà da me osservate in tante copie, e tutte da me o disegnate o descritte, io mi sono attenuto al poco che il guasto del tempo e de’ ritocchi mi ha lasciato giudicare sia nell’originale sia nella copia del Bianchi.
La testa poi di questa figura nella copia del Bianchi, come diversa dalle solite a vedersi nelle altre copie, così mi parve migliore, essendo nobile, grandiosa e di bella e forte espressione, senza molta alterazione delle parti, il che è difficilissimo. La novità però del carattere mi lasciava da principio qualche sospensione; quando ripassando (il che faccio sovente) i miei disegni di Leonardo e della sua scuola, mi venne fatto di osservare la testa che riporto qui incisa, la quale fu tolta dal naturale, e, sebbene in attitudine affatto diversa, ha la fisionomia di questo apostolo a segno, che è facile il giudicare che sì dell’uno come dell’altra fu modello la stessa persona. Tal testa sembra di mano di Cesare da Sesto, ed appartenne già al celebre Giosuè Reynolds. I tratti principali, l’età, i capelli e in sino la forma dell’orecchio si riscontrano per modo colla testa del Bianchi che la loro comune origine ne risulta ad evidenza. Solo nel disegno, come ognuno può qui osservare, non vedesi alcuna di quelle alterazioni che l’espressione esigeva nel dipinto del Vinci; e vedonvisi per cattivo cambio notabili scorrezioni nel collo e in altre parti: ma quel che più importa, cioè il carattere, v’è abbastanza per assicurarci che di questa testa Leonardo ebbe un modello vivo e noto, e che la diversità che in questa testa si riconosce nella copia del Bianchi, deriva non già da suo capriccio, ma dalla sua scrupolosa esattezza in imitare quanto nell’originale rimaneva al suo tempo.[41]
Nella figura seguente non poche varietà trovansi nelle copie. Ora la sua mano sinistra è storpia, e sembra uscirle dal ventre; ora è slogato il collo; ora sembra che il vento le soffj ne’ capelli. Nulla di tutto questo presenta l’antico grave e moderato dintorno; ognuno ammira per esso quanta novità di espressione seppe trovare Leonardo in un’attitudine così semplice.
Lo stesso può dirsi dell’ultima figura che rappresenta l’apostolo Simone. Lo strano lunghissimo naso dato a questo apostolo da varj copisti e specialmente da Marco, ne ha fatto una ridicola caricatura. I tratti originali serbatici dal Bianchi mostrano sì in questa come nell’antecedente figura, che Leonardo sapea dare espressione grandissima senza grave alterazione delle parti del viso, e ciò anche nelle figure senili.
Ma mi chiama ormai a sè la figura principale per la quale sola non mi basterebbero molti fogli, se volessi scrivere le ricerche, le considerazioni e le sperienze che vi feci. Ad ogni modo mi conviene per essa cominciare alquanto più dall’alto che non ho fatto per gli altri personaggi di quest’opera.
Il vedere in tante istorie lo studio infinito che Leonardo pose in comporre questa figura, e lo sforzo ch’ei fece, onde, come disse il Lomazzo, rappresentarvi dentro la divinità, mi rese curioso d’investigare con ogni diligenza, di quali principj si facesse scorta Leonardo per inventarla in modo che all’idea sua, per quanto gli era possibile, adeguatamente rispondesse. Mi persuasi ben tosto ch’egli seguendo il suo costume, sì bene dal Giraldi e dal Rubens descritto, se per ogni figura solca ripetere diligenti e minute investigazioni, tanto più doveva essere accurato e circospetto intorno alla figura del Redentore, la quale e per esser la principale e per la propria sublime natura esigeva tutta intera la potenza della mente e dell’arte. Parvemi pertanto non esser possibile di farsi una giusta idea del modo tenuto da un artefice antico di tre secoli in rappresentare, soprattutto, figure appartenenti alla religione, senza internarsi alquanto non solo nella sua particolar maniera di sentire e di pensare, ma ben anche nella generale del suo tempo, siccome quella che imprime nelle arti d’imitazione quasi a suggello dell’epoche un carattere suo proprio, da cui si desume lo stato più o meno rozzo o civile, molle od energico delle nazioni. Dall’osservare questo carattere, per certa abitudine, senza quasi pensarvi decidono gli antiquari filosofi delle età diverse delle opere di ogni genere, e a tale osservazione converrei senza dubbio ricorrere ogni qual volta si voglia con sana critica ristaurare un’opera d’arte, fatta in epoca dai tempi nostri lontana; perchè le arti d’imitazione, avendo il tipo necessariamente nella natura, sono una necessaria rappresentazione degli uomini non meno che de’ loro costumi e delle loro opinioni. 
Ora è noto a ciascheduno, che sebbene alcune opere ascetiche tendessero a raddolcire le opinioni religiose, il costume universale del decimoquinto secolo che serbava ancora una parte della scorza selvaggia degli antecedenti, si prestava più volentieri ad attribuire alla divinità virtù energiche che non virtù dolci e mansuete, e a riconoscere dalla prima divina virtù della potenza le vendette celesti non meno che le celesti beneficenze. Concorreva a rinforzare si fatto pensare il culto di varie imagini antiche, le quali, perchè le forme che dalle fantasie si danno alla divinità, ritengono necessariamente della natura delle fantasie stesse e del generale costume de’ tempi, erano tutte, quali la ferocia delle età antiche le consigliava, fiere e terribili, e sovente, a più chiaro simbolo di potenza, colossali. E l’esser terribili le faceva esser venerabili; così leggiamo in una lettera di Franco Sacchetti a Jacomo di Conte da Perugia, che, per avviso di certi valenti teologi suoi amici, il brutto Volto Santo di Lucca era venerato per la terribilità dell’aspetto. Così nella lettera apocrifa di Pubblio Lentulo, di qualunque tempo sia stata inventata, leggesi che Cristo aveva faccia venerabile che ispirava amore bensì, ma anche spavento, e che nel riprendere era terribile. Così tutti i Cristi che si vedono dall’epoca in cui si permise l’adorazione delle imagini fino al secolo di Leonardo, sono più atti ad inspirar terrore che amore o speranza, ed anche i meglio eseguiti de’ tempi a Leonardo più vicini sono fieri e minacciosi, e tutti esprimenti potenza piuttosto che altra mansueta virtù.[42] A mezzo il cinquecento sappiamo dalla storia che la critica si andava migliorando circa il modo di rappresentare il Redentore; e il Brunellesco accusò Donato di averlo rappresentato di aspetto ignobile, con che diede occasione al famoso motto: To’ del legno e fa’ tu: ma l’accusa non riguardava che alla ignobiltà del carattere, e il Brunellesco che si mise in fatti a far un Cristo col quale vinse Donato, il fece bensì più nobile, ma noi fece men fiero e terribile. E questa espressione di fierezza era sì voluta e sì praticata, ch’ella si scorge nelle opere degli artefici più lieti e bizzarri, come può vedersi nel detto Brunellesco e più anticamente in Buffalmacco, i cui Cristi imprimono spavento e paura, mentre i loro autori erano uomini faceti e piacevolissimi. Rinforzava sì fatte opinioni l’ermeneutica di quel tempo; nè la critica posteriore avrebbe molto di che opporre. Nel vangelo i primi impeti di Cristo sono di potenza, e il vediamo ora da solo a colpi di flagello discacciare dal tempio i profani venditori: ora con una parola far cader tramortiti gli sgherri che poi, siccome era scritto, dovean prenderlo. Similmente nell’Apocalisse l’agnello celeste da cui Cristo è simboleggiato, rugge come leone, e fa tremare co’ suoi ruggiti il cielo e gli abissi. Per sino le storie apocrife che sebben tali pei fatti, hanno sempre qualche imitazione del vero nella rappresentazione de’ caratteri, e si accomodano alle antiche tradizioni onde riuscire accreditate, si accordavano ad attribuire a Cristo un carattere aspro e severo con replicati prodigi di potenza. Nel vangelo di Tommaso israelita vediamo Cristo ancor bambino far cader morto un fanciullo che l’urta nella spalla; far rimaner ciechi i parenti che di ciò si lagnavano; riprender Giuseppe perchè avesse dato orecchio alle loro querele. Ciò poi che ivi si legge detto dal pedante Zaccheo, esprime in tutto la fierezza di fisionomia che gli antichi gli dettero: Severitatem obtutus illius ferre nequeo: indi, Neque enim hac hora ejus oculos intueri possum.[43] Poco appresso dal medesimo vangelo si scorge che niuno si ardiva di provocare il divino fanciullo, temendo di rimanerne monco o storpio. Dalle quali cose tutte si può agevolmente giudicare che tanto per natura e per costume, quanto per autorità di monumenti scritti e di figurati, la più importante espressione che in antico davasi a Cristo dalle arti del disegno, era quella di una certa fierezza e terribilità atta ad esprimer potenza. E tale espressione, secondo l’intendere di que’ tempi, racchiudeva quella di ogni altra divina virtù; perchè la potenza che, parlandosi di Dio, si estende a tutto l’universo, è madre necessariamente di tutte le altre virtù divine, le quali, quasi da comun fonte, emanano da essa a beneficio e conservazione del creato.
Rivolgendomi da poi ad indagare il particolar modo di pensare di Leonardo, mi venner fatte le seguenti osservazioni. Primieramente al suo tempo l’arte perfezionata poteva con maggior estensione e verità esprimere i concetti delle fantasie; e migliorata la notizia delle forme e de’ moti umani, quell’antica fierezza e severità ch’era quasi una necessità de’ tempi men colti, ancor servi anzi che signori dell’arte, poteva essere posposta alla bellezza che l’arte intendeva e rappresentava a sua voglia assai meglio. Anche gli antichi sapevano che il corpo di Cristo fu perfettissimo, come, oltre a tante sacre autorità,[44] può vedersi nella citata lettera del Sacchetti; ma non avevano idea chiara della perfezione d’un corpo umano, e stavan contenti a quelle loro rappresentazioni, attendendo più air espressione che alle forme. Leonardo che primo portò l’arte al suo vero compimento, debbe aver combinato nel suo Cristo la bellezza delle forme colla forza dell’espressione, operando in modo che l’umiltà della carne da Cristo assunta non gli facesse perdere la dignità della potestà, conforme al detto di sant’Ilario vescovo.[45] Secondariamente avrà considerato Leonardo che la nobiltà della divina natura, mescolandosi colla umana, doveva influire in questa per modo da sublimarne le fattezze; e quand’anche nel fatto fosse stato altrimenti, dovette stimare obbligo dell’arte l’esprimere questa difficile mistura. In oltre mi parve che e pel modo proprio di pensare e per quello del suo secolo ei dovette credere tra le virtù divine prima in Cristo mostrarsi la potenza, come virtù che sola poteva attestare la sua origine, e dopo quella le altre siccome accessorie ed occasionali. Ultimamente (avuto riguardo alla drammatica situazione del Cristo del Cenacolo) giudicai ch’egli, servate le leggi della bellezza, fattane applicazione alle forme di Cristo generalmente riconosciute, e conservata la primitiva espressione caratteristica della virtù della potenza, abbia poi aggiunta l’espressione di tutte le virtù secondarie ed occasionali, della mansuetudine, della rassegnazione, dell’amore. In fine riguardando all’umanità sua e ad un certo naturale orrore ai patimenti, al quale, per testimonio della Scrittura, andò soggetto al pari degli altri uomini, ed oltre ciò allo spirito profetico pel quale doveva antivedere l’effetto del tradimento che gli veniva fatto da un amico, congetturai che Leonardo avrà tentato di dare a questa figura, oltre l’espressioni che notammo, quella profonda contristazione di che parlano i vangeli nella circostanza da lui presa ad imitare, e consentaneamente alle altre dette virtù avrà velato quello stesso turbamento d’una sublime ed eroica moderazione.
Queste mi parvero dover essere state le intenzioni di Leonardo: s’egli poi sia o no riuscito ad esprimere la sua idea, non si può nè per le storie diffinire, nè dallo stato presente dell’opera giudicare. Secondo il Borromeo, sembra che almeno in gran parte egli avesse conseguito il suo intento: secondo il Lomazzo ed altri, si dovrebbe giudicare diversamente. Pare però certo che Leonardo stesso rimanesse assai mal contento dell’opera sua; ma è poi anche facile il credere che il suo giudizio fosse troppo severo, e che forse egli pretese dall’arte più che l’arte non potea mostrare.
Intanto prima che io mi fermassi nell’esposte considerazioni, tratto dall’autorità del Paciolo, stimai doversi nel volto di Cristo, da chi vede, raffigurare quel desiderio dell’umana salvazione, del quale, secondo quell’autore, il Cenacolo di Leonardo è simolacro. Perciò giudicai che vi si dovesse scorgere la mansuetudine dell’agnello divino annunziato dal Batista, bramoso di lavare del proprio sangue le colpe degli uomini; e parvemi che la dolcezza, la carità, la rassegnazione al volere paterno fossero le miti virtù che dalla soave fisionomia di lui dovessero trasparire. E con tali principi mi sforzai di caratterizzarlo nel mio cartone, mal contento di altri tentativi da me fatti con mire diverse. A ciò mi trasse anche l’autorità d’un disegno assai pregevole creduto di Leonardo e posseduto dall’egregio oblato Mussi, ora defunto, nel quale si scorge una dolce mistura di queste mansuete espressioni. Ma penetrando poi nel seguito dell’opera alquanto meglio, se non erro, nella mente di Leonardo, mi sono nella tela sforzato di rappresentare il Redentore come mi parea dovesse risultare per le osservazioni dette di sopra. Io volli in somma che gl’indizj che la fisionomia permette, di potenza e di grandezza, si dimostrassero in lui connaturali e permanenti; e che accidentali e passeggieri apparissero quelli delle altre virtù, non che quelli degli affetti che la circostanza doveva commuovere. Se pertanto nell’arte l’effetto pareggiasse l’intenzione, si vedrebbero meraviglie; ma il fatto va per lo più altramente, e dopo che Leonardo che pur tanto potea, fu mal contento dell’opera sua, mostrerebbesi ardito non solo, ma sciocco ed ignorante chi si accontentasse della propria. Perciò circa questa testa io non dirò altro se non che voleva farci varie correzioni, cambiamenti ed aggiunte, ma il timore di far peggio, e il consiglio di molti me la fecero lasciare quale mi è uscita dal pennello la prima volta che copersi l’abbozzo.
Resterebbe ora a dire qualche cosa dell’atto delle mani, intorno alle quali, come intorno al rimanente dell’opera, mi sbrigherò prontamente. La sinistra non presenta alcuna difficoltà; ma la destra apparisce in attitudine alquanto forzata ed ai più spiacevole. Mi sarebbe stato assai facile il cambiarla o modificarla, ma i pochi avanzi dell’originale e la copia del Bianchi me ne tolsero l’arbitrio. Rimarrebbe a spiegare perchè le desse Leonardo un tal atto; e parmi volesse per esso esprimere la contenzione colla quale il Salvatore reprimeva il dolore profondo da cui era compreso mentre profetizzava il preparatogli tradimento. Fors’anche con quell’abbassamento dell’indice volle accennare le proprie parole del vangelo di Matteo: Qui intingit mecum manum in paropside, ecc. O in fine chi più sottilmente raffinasse, potrebbe in quel lieve alzamento del dito medio che pare rivolto a Giuda, riconoscere tal gesto chironomico, onde mostrare lui essere il traditore; del qual gesto mi fe’ nascer congettura un passo del Bandello che può vedersi nelle note.[46] Ad ogni modo questa mano si trova in tale alquanto forzata posizione in ogni copia più accreditata: bensì è quasi sempre del tutto storpia per la difficoltà di render tal atto con naturalezza. E quantunque simili atti delle mani o accadono di rado o rimangono inosservati in natura, s’incontrano nondimeno sovente e nelle opere del Vinci e in quelle de’ suoi discepoli. Veggasi in prova di ciò, per tacer d’altre opere, il quadro della Concezione del quale si trovano varie copie, il bel ritratto del Morone di casa Scotti e il san Michele di Marco alla Galleria Reale. Per tali osservazioni mi sono sempre più confermato che non altrimenti stesse questa mano nell’originale, e mi sono ingegnato di renderla con quella naturalezza che potei maggiore, combinandola col dintorno determinatomi, come dissi, dalla copia del Bianchi e dall’originale.
Anche l’ordine della mensa lasciava grandi ambiguità per gli arbitrj spesso ridicoli delle copie, non meno che pei ritocchi stravaganti da cui si scorge alterato l’originale. A questo però mi attenni ove ho riscontrato qualche minuto frammento di antico. Un piatto, del pane e un bicchiere per ognuno de’ commensali:[47] un gran piatto voto davanti a Cristo: alcuni taglieruzzi minori: alcune ampolle d’acqua di figura uniforme: due piatti grandi, ne’ quali mezzo per piatto posi l’agnello arrostito; ecco le principali cose con che ho ornata la mensa, seguendo gli avanzi del Cenacolo delle Grazie, e le copie in quelle cose che mi parvero secondo la mente di Leonardo.
Pel campo barbaramente ridipinto alle Grazie ebbi ricorso al Trattato di Leonardo anzi che al suo quadro. Vi ho riconosciuti alcuni arbitrj di prospettiva nella distribuzione de’ quadrati delle tappezzerie ed anche in altre cose; ma tali arbitrj furono cagionati dal vantaggio di far campeggiar meglio le teste con quel principio del Vinci ripetuto infinite volte nel Trattato, che ogni oggetto debbe avere la sua parte luminosa più chiara del campo, come l’ombrosa più oscura. Per tal ragione egli fe’ uscire alquanto di lume dalla porticella nella quale campeggia la testa di Bartolommeo e di Andrea, come similmente fe’ ombrose altre parti, accomodando il tutto all’effetto ed al rilievo, senza ombre forti e sempre con dolcissime degradazioni. Finalmente gli ornamenti della tappezzeria gli ho tratti per le linee generali dall’originale, non potendo credere che il Bellotti si prendesse l’incomodo d’inventare e diminuire in prospettiva un diverso ornamento, essendogli in vece assai facile lo storpiare, come fece goffamente quello che aveva trovato; tanto più che, cangiandolo, oltre la fatica maggiore, egli non avrebbe potuto far credere ai frati di soltanto rinettare, non mai di rifare il dipinto. Gli ho però per lo stile adattati al tempo, studiando i rabeschi di quell’epoca. Per le portine poi o aperture laterali colle quali intese forse Leonardo di far comunicare il Cenacolo colle officine interne e togliere così il bisogno d’introdurre i famigli durante la sacra cerimonia, siccome nell’originale furono cancellate dal Mazza, ho seguito la copia di Castellazzo, in ciò la migliore di quelle da me vedute.
Taccio, per non prolungare il tedio di questo articolo, di altre infinite cose da me osservate con diligenza nel mio lavoro; e mi basti l’avvertire che non v’è minuzia per la quale io non abbia avuta qualche autorità o ragione. Non debbo però tacere che in tutta l’opera ho tenuto alquanto elevati i tuoni delle tinte, e ciò per due ragioni. La prima è perchè all’abbassamento de’ colori pur troppo provvedono gli anni, ed è più sano consiglio l’offendere il presente giudizio di qualcuno e far rimanere le opere armoniche per alcuni secoli che non per la gloriuzza presente far tale impasto di tinte che poi presto s’adombri o vada in fumo. La seconda fu perchè la traduzione in mosaico a cui il mio quadro era destinato, oscura di necessità le tinte e per gli smalti che non le hanno sì vivaci, e per quella rete minuta che risulta dagl’interstizj de’ minuti pezzi di che l’opera a mosaico è composta; i quali interstizj, sebben con arte si colorino delle tinte degli smalti vicini, sempre coll’andar degli anni si oscurano notabilmente, sopra tutto nelle opere grandi, come l’esempio dimostra; ed allora fanno sul totale dell’opera l’effetto quasi d’un velo che diminuisce la potenza generale de’ colori.
Per tal modo in trenta mesi circa mi sono sdebitato il meglio che per me si è saputo, dell’onorevole sì ma difficilissimo incarico addossatomi di richiamare in vita quanta parte si poteva dell’opera di Leonardo: ed il giudizio che in voce o in lettere intorno a tal mio lavoro ho ottenuto da persone altamente autorevoli, ed in ispecie dall’umanissimo Principe che me lo commise, fu tale da larghissimamente compensarmi delle tante sostenute fatiche.[48] Avrei avuto bisogno di molto maggior tempo tanto per giudicar meglio l’opera mia, quanto per meglio condurre alcuni accessorj che ho lasciati imperfetti, come sarebbero fimbrie ed altre piccole decorazioni. In tutte però le parti importanti ho cercato d’impiegare la massima diligenza, imitando, secondo l’ingegno e il poter mio, la maniera del Vinci, nella fusione e degradazione del colore e nella finitezza di ogni particolarità.
Se dovessi pertanto far anch’io palese il mio parere su questa mia qualsisia opera, direi che, confrontandola con quanto potrei fare io stesso una seconda volta, se mi reggesse l’animo a ripetere tal genere di fatiche, la trovo lungamente inferiore all’idea che per li precetti e per le poche vere opere dell’autore mi son fatta dell’originale. Direi in oltre che per quanto questa mia idea stia molto al di sopra di ciò che ho potuto e potrei eseguire, nondimeno io la credo ancora, nelle parti più alte e delicate dell’arte, lontana assai dall’opera di Leonardo; ed oso di più asserire che ai tempi nostri e colle poche reliquie che del Cenacolo ci restano, è impossibile il farsi di esso tale idea che al vero compiutamente si assomigli, quand’anche per prodigio si rinnovasse in alcuno la mente e l’anima dell’antico autore.
Ad onta di ciò, se poi confronto la mia copia colle copie antecedenti, non mi pare d’esser troppo liberale verso me medesimo giudicandola a quelle superiore nelle parti più importanti; e ciò non già perchè io mi creda superiore d’ingegno e di pratica a coloro che le eseguirono, ma perchè, avendo io in vista uno scopo maggiore che gli altri non ebbero, ho impiegato per ottenerlo maggiori mezzi d’ogni genere, anzi credo d’averli tutti esauriti.
E quando a taluno recasse meraviglia ch’io abbia voluto non richiesto esporre il mio giudizio sull’opera mia, dirò che a ciò mi son mosso perchè (oltre che ad alcuno può piacere di sapere ciò ch’io ne pensi) de’ pareri degli altri uomini, sebbene sieno stati finora per me lusinghevolissimi, sono costretto dentro me stesso a non tenere quel conto che pur vorrebbe aver dritto di farne un animo desideroso di vera, onesta e ben meritata lode. Ognuno che ha letto libri o storie di cose di disegno, troverà sovente essersi fatte le meraviglie al nascere di tali opere che coll’andar degli anni caddero nell’obblivione e talor nel disprezzo; e, a vicenda, essere state viste con indifferenza quelle alle quali la posterità preparava applauso e corone. Tale considerazione dovrebbe sola bastare a farci proceder con misura nel prestar fede ai biasimi, non meno che agli encomj de’ contemporanei. E quantunque, a questa difficile e schizzinosa età nostra, la lode che viva oltre un giorno, comechè più ardua da ottenersi, possa riuscire più lusinghiera e parere meglio fondata, essa è per lo più, al pari del biasimo, sospetta, perchè l’ignoranza, la mala fede e l’avarizia corrompono troppo sovente i giudizj. Perciò chiunque ama daddovero e conosce l’arte, non dee troppo dare orecchio alle lusinghe de’ lodatori, nè per altra parte intimidirsi alle punture di chi riprende, giovandosi, invece, de’giudizj di biasimo onde correggersi e farsi migliore, e considerando quelli di lode siccome stimoli a meritarne di più ampj ed universali. E come io volli dire queste cose, non solo per me, ma per ciascheduno che segue con amore la strada dell’arte, debbo aggiungere che que’ voti che più all’artefice importerebbero, difficilmente saranno sinceri, perchè, dovendo egli averli da persone della sua stessa professione, non sarà ben certo se l’opinione che a lui manifesteranno, sia eguale a quella che con gli altri mostreranno d’avere; e anche quando l’opinione gli sarà favorevole, non potrà mai abbastanza assicurarsi se gli verrà detto il vero per animarlo e consolarlo, o il falso per l’invido infame gusto di tenerlo in errore. Dal che tutto è manifesto che l’artefice che ha vigore d’ingegno e costanza d’animo, non dee lasciarsi vincere nè da lode nè da sdegno, ed allora andrà, come già disse il nostro illustre Parini al grande Alfieri,
Lungi dall’arte a spaziar fra i campi.
E tornando al proposito dell’opera mia, augurando alla mia tela più lunga vita che non ebbe il suo originale, la raccomando volentieri ai giudici avvenire, dai quali soli è difficile aver lode o biasimo immeritamente.

FINE DEL LIBRO TERZO.




NOTE



[1] Il Boccaccio dicea guasta al suo tempo l’arte del disegno dall’avarizia degli artefici. Ecco com’egli si esprime nella Vita di Dante, rivolto alla città di Firenze, dopo aver tassata l’avarizia de’ mercatanti: L’arte, la quale un tempo nobilitata fu dagli ingegni in tanto che una seconda natura la feciono, dalla avarizia medesima è oggi corrotta e niente vale. È notabile la frase con cui accenna la perfezion dell’arte, dicendola fatta una seconda natura, la qual frase si trova più d’una volta anche negli scritti del Vinci. Per quanto poi spetta a questa opinione del Boccaccio intorno alla pittura, è bene di osservare che la Vita di Dante è frutto giovenile degli studj suoi. In età più matura egli rifece meglio e più gravemente questo suo lavoro, introducendovi cose e modi nuovi, accorciando molti prolissi periodi, e troncando molte superfluità, fra le quali l’indicata allocuzione a Firenze, e per conseguenza anche il passo in cui accusa la pittura di decadimento. Di tal riforma di questa importante operetta del Boccaccio mi è venuto alle mani un buon codicetto scritto nel 1437.
[2] È degno d’osservazione a questo proposito un passo di Petronio, che anch’egli dice che la Pittura non alium exitum fecit postqnam Ægyptiorum audacia tam magnæ artis compendiariam invenit. Che cosa si fosse questa invenzione degli Egizj, è difficile il chiarirlo; ma doveva di certo in qualche parte assomigliarsi all’intaglio, e comunque fosse, doveva essere un modo meccanico di moltiplicare prontamente de’ mediocri prodotti d’arte: la qual cosa arreca sempre impedimento al progresso dell’arte vera, cui apporta invece certo danno e generale discredito.
[3] L’aureola non è sempre il distintivo della elezione e della santità. Il beato Giovanni Angelico da Fiesole fece più volte Giuda col capo cinto dell’aureola. Veggasi la Tavola XVII del primo volume dell’Etruria Pittrice e varie opere inedite dello stesso amabile pittore, trasportate di recente nell’Accademia di Firenze.
[4] Vedi il cap. L e il cap. LXXVIII.
[5] Prima della copia di san Barnaba dovrebbe porsi in ragion d’epoca una copia che il signor professor Malacarne scrisse al cavaliere Amoretti aver veduto due anni sono in un’antica cappella de’ signori di Saluzzo in Revello. Egli anzi assicura essere quella una ripetizione del Cenacolo di mano dello stesso Vinci, il quale, secondo il detto signor professore, dipinse quest’opera nel 1506, allorchè passò qualche tempo nelle vicinanze di Saluzzo; di che tutto trasse indizio da una noterella di Leonardo, pubblicata dall’Amoretti alla pag. 100 delle sue Memorie storiche. Quella noterella pertanto di null’altro ci fa menzione se non che di certa pietra buona da macinar colori, da Leonardo trovata a Monbracco presso al Monviso, della qual pietra gli è promessa una tavola da un suo compare maestro Benedetto. Come poi questo tesoro sia stato tre secoli sepolto, senza che alcuno scrittore antico o moderno ne abbia dato indizio, io non saprei dirlo: so bensì che per molte lettere scritte e fatte scrivere non potei trarre notizia alcuna di sua esistenza presente o passata.
[6] Veggasi il suo Vitruvio alla pag. XLVIII a tergo.
[7] Il Gault sbagliò circa il luogo di questa copia, dicendola a san Girolamo sul canale.
[8] AD . COEM (Cœnobitarum) VTILITATEM
RESTAVRAVIT . AVXIT . ATQ .
EXORNAVIT . CÆNOBIVM . (sic)
HOC . DON . BALTHASAR .
SVDATVS A’ MEDIOLANO .
DEI . GRATIA PRIOR
EIVSDEM MONASTERII
MD=XIV .
Nel millesimo si scorge una cifra anticamente scancellata, con che venne probabilmente corretto qualche errore dello scarpellino, ignaro forse delle cifre romane.
[9] È certamente grande sventura non solo per la storia e per la critica, ma altresì per lo studio delle arti, che il più de’ libri che ne trattano, siano stati scritti in un’epoca in cui l’arte cominciava a decadere o era decaduta del tutto. I nostri secentisti, da’ quali abbiamo gran numero di scritti, giudicarono assai male delle arti del disegno, come di ogni altra cosa di gusto. Essi soleano per lo più profondere elogi smisurati ad ogni mediocre opera, e con ciò prevennero e corruppero i giudizj, la cui general corruzione accrebbe la corruzione dell’arte. Gli encomj poi che davano ai loro contemporanei, del più de’ quali non rimane opera lodevole, superavano quelli de’ primi luminari della pittura. Il Vasari stesso, che pure appartenea a miglior tempo, merita sovente questa taccia, e si trova ne’ suoi libri profuso il titolo di divino a molti ingegni volgari. Venendo più verso noi, nel noto sonetto pittorico, che si attribuisce ad Agostino Caracci, si pone Nicolino sopra Michelagnolo e sopra gli altri grandi, e non saran pochi quelli che dimanderanno chi sia questo Nicolino. Federico Zuccaro, che in nessuna delle sue rare opere in prosa parla del Vinci, appena ne fa motto in quel suo stravagante Lamento della Pittura da lui composto in cattive terzine; nel quale, dietro l’elogio di Taddeo Zuccaro e del Correggio, dice con poco giudizio, men discrezione e nessuna cronologia,
A questi seguì poi un Parmigiano
Di molta grazia e somma leggiadria,
E poscia un Sarto, un Vinci, et un Romano.
Alla stessa maniera con versi non dissimili dalla critica finisce il Bellori la quinta stanza della sua Oda alla Pittura, dicendo,
E le lor glorie al paro
Andrea, l’Abbate e Leonardo alzaro.
Il Marino chiamava Protogeni ed Apelli que’ pittori che il presentavano di loro opere.
E salendo anche a’ tempi a noi più vicini, il Gori nelle note al Condivi mostra di credere che Michelagnolo non vedesse uomini ignudi. Giampiero Zanotti in que’ suoi prosaici endecasillabi ad Ercole Lelli colloca Leonardo dopo Pellegrino e Giulio Romano; e lo stesso fece in prosa monsignor Bottari. Similmente il padre Fedele da san Biagio preferiva Pietro da Cortona a Raffaello. E di simili grossi giudizj potrei dare lungo elenco, se non temessi di comunicare altrui quella noja ch’io n’ebbi in leggendoli. Volli però darne un saggio, acciocchè coloro che si danno a studiare le cose delle arti, ponderino bene a quali autorità si affidano, non essendo mai abbastanza ripetuto consiglio quello di pesare le opinioni e i giudizj secondo gl’interessi e il sapere degli autori, secondo la natura de’ libri in cui tali giudizj ed opinioni si leggono, secondo l’età in cui que’ libri furono scritti, ed in fine, secondo lo stato nel quale in quella età trovavasi la letteratura e la filosofia.
[10] Veggasi la nota 34 del libro primo.
[11] Il proprietario di questa copia, allorchè mi recai a bella posta a Sassuolo, chiedendo d’ivi vederla presso di lui, si offerse gentilmente di mostrarmela, se io mi fossi trattenuto in Modena alcune settimane; alla qual cosa per imperiose circostanze non ho potuto aderire.
[12] Veggasi a carte 43.
[13] Avvertasi che questo passo della prima edizione della Guida del Bianconi fu malamente troncato ed alterato nella seconda.
[14] Di quest’altro suo cenacolo parla il Lomazzo nella sua Vita coi seguenti versi:
Nel rifettoro poi del Monastero
Maggior pinsi l’historia quando Christo
Fece il miracol de li pani et pesci.
E insieme la sua cena, dove Giuda
Mostrai qual traditor in viso e in gesti.
[15] Alcuni vedendo notato prima Giacomo il Maggiore, indi Tommaso, e vedendo nell’opera la testa di Tommaso prima di quella di Giacomo, hanno creduto che questi apostoli dovessero chiamarsi in modo inverso. Ma è evidente che il nome risguarda il posto stabilito alla figura, non l’accidentale posizione della testa; e di ciò si ha patente argomento in questo istesso quadro, vedendovisi medesimamente nominato prima Pietro che Giuda, quantunque, con caso conforme all’indicato, Pietro porti la testa dopo quella del suo vicino.
[16] Decreta, quæ nos Federicus Card. Borromæus Archiep. Mediolani in visitatione Plebis Capriaschæ Nostræ Med. Diocces. Anno MDEVI. Mense Octobri confecimus. (fol. 21) Pontis = In Ecclesia par. S. Ambrosii Loci Pontis. Nel titolo De Ecclesia, et aliis rebus materialibus, fol. 25 a tergo leggesi:
«Parietes aptis coloribus pingantur meridionales, ut reliquæ Ecclesiæ parti non sint dissimiles
[17] Da questi versi si può aver qualche lume intorno al ritratto di Bernardino Luino. In Sarono si mostra come effigie di questo grazioso pittore quel vecchione bianco per antico pelo, che sta seduto a dritta di chi guarda, nella Disputa de’ Dottori. Quelle dipinture furono condotte a termine nel MDXXV, come prova l’iscrizione di Bernardino nella Presentazione al tempio, che a parer mio è la più bella di tutte quelle opere. Aurelio che era il maggiore de’ suoi figli nacque nel 1530, secondo che apparisce dalla sua lapida sepolcrale conservataci dall’Argelati. Ora com’è egli possibile che Bernardino fosse nel 1515 un vecchione grinzuto nonagenario, e avesse figli molt’anni dopo? Per altra parte quali opere di Bernardino si conoscono anteriori al secolo XVI? Da ciò si conchiude facilmente che quel vecchio non può rappresentarlo; e se mai in Sarono v’è la sua effigie, io crederei riconoscerla in quello de’ Magi che guarda lo spettatore, ch’è una figura vivace e dolce allo stesso tempo, di sguardo penetrante, di pel biondo e vago, come dice il Lomazzo; e in fine d’una età che non discorda dalla storia.
[18] Il Lomazzo era minore di Aurelio di soli otto anni. Se Pietro era minore e di Aurelio e di Evangelista, doveva esser giovine nel 1565, anno in cui probabilmente dipinse ed ornò la chiesa.
[19] Debbo al cavaliere Amoretti la notizia dell’esistenza di questa copia.
[20] Dopo il FECIT vedesi una scancellatura che, osservata attentamente, non dimostra altro se non che prima vi era stato scritto FECERUNT.
[21] Leonardi Cænaculum, sive Triclinium, quod in aulæ hujus summa parte prostat, cogit transire pleraque alia, quæ cujuslibet tenere oculos possint, in primisque exempla Luini operum, quæ cum jam vetustate dilaberentur, exciderentque tectoriis, exprimenda curavimus, atque hinc inde collegimus. Reliquiæ cœnaculi cernuntur adhuc in Urbis hujus monasterio, quod sanctæ Mariæ Gratiarum dicitur. Ibi cum ego olim infidum tanto operi parietem, excidentesque crustas inspexissem, desiderio exarsi conservandi operis, si qua humana ope id assequi possem; ac super ea re probatum mihi pictorem appellavi. Is pieno desperationis sermone corruptas, et evanidas, dilapsasque figuras arguendo, spem primam meam omnem infregit; deinde monitus, ut capita saltem nonnulla Apostolorum, quæ adhuc exstarent, exprimere ne cunctaretur, postquam id fecerat, duoque vel tria capita comparuere, sic desperatione damnata sua, spes meæ ultro crevere. Ita lente, et laboriose, et magno omnium tædio per temporum etiam intervalla opus est absolutum, quale jam exstat; argumentumqne difficultatum istarum esse potest hoc ipsum, quod non lintei unius continuato tenore, sed separatis, interpolatisque linteis hœc triclinii exempla continentur. De artificis fide dubitari non potest, quia et Leonardi ipsius exemplaria in membranis reperta sunt ad hanc eandem formam, et artifex ipse craticula, et dilucidatione singula capita exploravit.
Indi dopo il passo che abbiamo riportato nel libro primo siegue a dire:
Cœnaculum igitur hoc inter præcipua Musei nostri, carum nobis est, cariusque porro quotidie erit jam dilapso, et penitus amisso Leonardi opere, quod thesauri alicujus loco semper habitum est.
[22] Dal passo del cardinale citato nell’antecedente nota si può dedurre che l’autore della copia si sia fatto ajutare, e ciò apparirebbe specialmente nella testa di Cristo di lunga mano inferiore alle altre, e che sembra di maniera diversa dalla tenuta dal Vespino nelle molte opere che di lui ho esaminate.
[23] Ecco quanto ho potuto circa i lavori del Vespino estrarre dall’archivio ambrosiano. Dall’istrumento della donazione fatta dal cardinale Federico Borromeo alla Pinacoteca ambrosiana di molte opere di disegno, nel quale istrumento si legge l’intero catalogo delle dette opere, sotto l’articolo Copie fatte con diligenza, si ricava quanto segue:
Il Cenacolo di Leonardo copiato da quello che si vede nel monastero delle Gratie da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, lungo braccia tredici, et alto un braccio e mezzo.
La Madonna grande di Leonardo copiata da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, sopra una tavola alta braccia tre et once due, e larga due braccia senza cornice.
Una Madonna con S. Anna e Christo bambino che scherza con l’agnello, dipinta da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, non copiandola da altro quadro simile dipinto, ma solo imitandola dal cartone di Leonardo. È senza cornice, et alta braccia due e mezzo, e larga due.
(Da ciò si deduce ch’era tuttavia in Milano uno de’ cartoni fatti dal Vinci su questo argomento, e sarà stato forse quello prima posseduto da Aurelio Luini, e che passò da poi nelle mani del padre Sebastiano Resta).
Due teste d’Apostoli copiate da messer Andrea Bianchi detto il Vespino dalle opere di Leonardo, in un sol pezzo alto un braccio, e largo uno e mezzo, senza cornici.
(Queste non esistono nella galleria. Saranno forse state alcune di quelle fatte da principio per esperimento, e che non essendo riuscite bene, non servirono a comporre il Cenacolo.)
Una Madonna et una S. Elisabetta con Christo e San Giovanni bambini, che abbracciano un agnello, larga braccia tre e tre once, et alta braccia due e mezzo, cavata da messer Andrea Bianchi detto il Vespino da quella che fu dipinta sopra il muro dal Luino vecchio, senza cornici.
Una Madonna col figliuolo nudo in braccio e S. Giosefo, e con un ritratto al naturale, cavati dalle opere del Luino vecchio a Lugano da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alto braccia uno e once otto, e largo un e mezzo, senza cornici.
Le tre Marie con un bambino, copiate dagli originali del Luino in Lugano da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio e once nove, larghe un braccio e tre once, senza cornici.
Tre teste che rappresentano tre Sacerdoti Giudei cavati dagli originali del Luino da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio, larghe uno e due once, senza cornici.
Tre altre teste cavate dall’opera grande della Passione dipinta dal Luino in Lugano da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio, larghe uno e due once, senza cornici.
Due Apostoli dal mezzo in su, alti poco più d’un braccio e poco più lunghi, dal detto messer Andrea Bianchi detto il Vespino, copiati dal Cenacolo del Luino a Lugano.
Due altri Apostoli dal mezzo in su quasi dell’istessa grandezza, copiati dall’istesso Vespino dall’istesso luogo.
Un Crocifisso senza bracci e senza gambe, copiato da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, e l’originale è del Luino, alto un braccio e otto once, e largo nove.
Una testa di S. Caterina grande un palmo, copia fatta da messer Andrea Bianchi detto il Vespino da un altra del Luino, alta sette once e larga sei.
Un giovane rappresentato nell’oscuro vestito di pelle, senza cornice, il quale è copia del Parmigianino, fatta da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alto un braccio e largo tre quarti.
Molte di queste opere, oltre le notate due teste, non si trovano più, e s’ignora come siano sparite.
L’istrumento, che meriterebbe la pubblica luce per intero, è rogato da Giacomo Antonio Cerruti, Notajo Attuario della Cancelleria Arcivescovile, nel 1618.
Si trova nuovamente menzione del Vespino e del suo Cenacolo nell’inventario del 1661 firmato da varj e concordato da Giacomo Filippo Buzzi, Dottore del Collegio Ambrosiano, e nell’altro del 1685 rogato da Tommaso Buzzi il 31 agosto di quell’anno, e in varie altre carte posteriori.
Intanto l’elenco qui riferito delle molte opere del Vespino dimostra quanto egli si fosse esercitato intorno alle cose di Leonardo, e del suo più illustre imitatore Bernardino Luino; con che si aggiunge pregio ed autorità alla sua copia del Cenacolo.
[24] Biblioth. ecc., tom. sec., part. alt., pag. 1909.
[25] Il cavaliere Giuseppe Longhi, il quale attende ora ad incidere lo sposalizio della Vergine di Raffaello.
[26] Ecco l’origine dell’errore del De Pagave. Il 5 agosto del 1781 il signor de Guttenbrunu, pittore tedesco ch’era passato da Lugano, descrisse al De Pagave quelle pitture del Luino. Nel ragguaglio che il De Pagave medesimo scrisse di tal descrizione, dopo aver parlato della grande Crocefissione de’ zoccolanti aggiunge: Oltre questa mirabile e grandiosa pittura, mi dice (il Guttenbrunn) che nel Refettorio dei detti Padri vi abbia pure Bernardino dipinto la cena degli Apostoli desunta da quella di Leonardo nelle Grazie, e che questa opera pur sia bellissima e singolare. Il pittore disse desunta per le varie figure imitate dal Cenacolo vinciano: il De Pagave intese copiata: il De la Valle hebbe l’errore, e da lui fu sparso negli altri che scrisser dopo.
[27] Di quest’opera del Frate mi è riuscito d’avere l’originale disegno a penna, soltanto però della parte superiore. Per esso (che poco dal dipinto a fresco pei danni del tempo si può scorgere) si vede che Raffaello non solo imitò la disposizione delle figure, ma persino l’andare de’ panneggiamenti. Era poi costume di Raffaello, accennato anche dal Vasari, il ritrarre tutto ciò che trovava potergli un giorno servire, ed io tengo un libro tutto di sua mano con circa cento disegni, fra i quali non pochi sono tratti dai più celebri autori del secolo XV, e vi si riconoscono copiate con bellissima maniera e leggiadria singolare varie cose del Pollajolo, del Ghirlandajo, del Vannucci, del Mantegna, del Vinci, ecc.
[28] Sono tra le altre singolari per la squisitezza, copia e rarità quelle de’ signori Gio. Giacomo Trivulzio, Gaetano Melzi e Francesco Reina.
[29] Altri amici mi prestarono cortesemente o delle copie dell’opera, come i signori Cigalini, Masera, Ferrari, Commerio; o de’ libri, come i signori Storck e Maino, Reina, Melzi; o in fine de’ preziosi manoscritti e de’ disegni, come i signori Trivulzj; ai quali tutti, come ad altri, che per esser breve non nomino, professo riconoscenza ed obbligo infinito.
[30] Dal passo citato del cardinale Borromeo abbiam veduto che il Bianchi condusse quest’opera multo et suo et aliorum tœdio.
[31] È osservabile che fino a tanto che è durato lo stile buono nella pittura, gli artefici si sono sommamente dilettati di rappresentare il cielo, e non si sono fatte quasi mai tavole in cui il cielo non si vedesse, sia nell’aperto, sia per finestre, per porte, per architetture e per altri artifizj. All’epoca che la pittura cominciò a decadere, si cessò di rallegrare i campi de’ quadri coll’aspetto del cielo, e nel decadimento totale, per una mal intesa ricerca del rilievo, si sono per sino visti cieli notturni affatto e neri, mentre le figure erano illuminate vivamente da luce aspra e tagliente come nelle più splendide ore del giorno. È facile il vedere quanto gli antichi pensassero meglio; e questo loro genio d’imitare ovunque poteano il cielo, apparisce anco ne’ poeti, che ne moltiplicarono le descrizioni in mille modi; nè sarebbe sembrato all’Alighieri di dar nobile fine alle sue tre cantiche senza toccare delle cose belle, di che il cielo si adorna.
[32] La parte importante della raccolta del De Pagave consisteva in un gran volume pieno di disegni d’ogni maniera in numero di settecento circa, posti senza alcun ordine nè scelta. V’era in oltre un libro con molti piccoli disegni raccolti dal padre Sebiastiano Resta. L’origine di questi disegni può scorgersi dalla seguente iscrizione che il De Pagavo aveva posta nel detto maggior volume.
PICTORUM INSIGNIUM PROTOGRAPHA
QUAE NOBILISSIMAE ARTIS CULTOR EXIMIUS
CARDINALIS S. R. E CAESAR MONTIUS
DIUTURNA CONQUISITIONE COLLEGERAT
ANNA LOAYSIA COMITISSA MONTIA FAMILIAE SUPERSTES
VENANTIO PAGAVIO AMICO ET AFFINI
DONO DEDIT ANNO MDCCLXX.
------------------------------------------
HANC COLLECTIONEM EGO VENANTIUS DE PAGAVE
AUXI ET PERFECI.
[33] Nelle copie di Marco, la testa di Bartolomeo è una delle più ragionevoli, ma standosi a bocca chiosa, ha poca espressione, e figura assai meglio un attento e placido osservatore di un oggetto visibile, che non un perturbato ascoltatore di gravi sentenze, il quale aspetti con ansietà ciò che l’oratore è per soggiungere. L’apertura poi della bocca onde udir meglio, è atto, sì naturale e comune che i pittori non trascurano mai d’imitarlo allorchè accade di rappresentare ascoltatori attenti e commossi. Cagione di tal atto è la comunicazione che anche per la bocca si apre il suono verso l’organo dell’udire. Auricola, dice Haller, non unica via est per quam soni ad tympanum veniunt; est et altera per nares et os et Eustachii tubam semper patula. Certum est hominem qui naturali instinctu regitur, quoties accuratius vult sonos percipere, os late aperire indecoro gestu et rustico, sed ad finem suum non inutili, ecc. In oltre l’aprire la bocca sospende il rumore che fa la respirazione pel naso, da qual rumore l’udire è talvolta impedito o confuso. Simile atto in circostanze simili imitano anche i poeti osservatori della natura. L’Ariosto nell’atto secondo della Cassaria fa dire a Furbo, pregato d’ascoltare:
Aprirò la bocca anco acciocchè m’entrino
Meglio le tue parole.
L’attenzione del vedere al contrario pare chiuda fin anche il respiro non che la bocca: così lo stesso Ariosto:
Trar fiato o bocca aprir o batter occhi
Non si vedea de’ riguardanti alcuno,
Tanto a mirar a chi la palma tocchi
De’ duo campioni intento era ciascuno.
[34] Vedi il mirabile canto XXVII del Paradiso. Ad indizio della pronta mobilità di sangue propria degli iracondi, io accennai nel collo di Pietro la vena che attraversa il mastoideo.
[35] Anche nell’originale si scorge qualche traccia delle lettere che componeano l’iscrizione Juda Traditor. Fino dal tempo però del Bianchi non s’intendeva che volessero significare, perchè certune ch’egli imitò, non s’intendono più che nell’originale. Vedi la nota 41 di questo stesso libro.
[36] Trattato, pag. 465.
[37] Questa mezza figura, della quale vedonsi varie antiche ripetizioni, esiste nella Pinacoteca ambrosiana.
[38] Sono parole del Vinci. Vedi il Trattato, cap. CXCI.
[39] Nella stampa di Firenze la testa di Tommaso viene a coprire co’ capelli la linea perpendicolare della finestra e lascia superiormente aperto un quadrato di cattiva forma. Tanto nell’originale, quanto in tutte le copie da me viste, questa testa campeggia sul cielo con ottimo effetto.
[40] Lomazzo, Trattato pag. 465.
[41] L’essere stata questa testa presa da una persona viva e nota può render in qualche modo ragione del perchè Leonardo scrivesse sul nastro della tunica di Giuda Juda Traditor; mentre nelle figure degli altri apostoli non pare ch’ei ponesse iscrizione alcuna. Colui che avrà servito di modello per l’apostolo Matteo, trovandosi forse proverbiato d’aver servito per l’Iscariote, per togliere l’occasione di tal beffa, avrà dimandato che Leonardo dichiarasse qual fosse il suo Giuda mediante la indicata iscrizione; di che da Leonardo umanissimo e gentile sarà stato di leggieri compiaciuto. Senza questa congettura è difficile lo spiegare il perchè Leonardo mettesse il nome su di una sola figura, e per l’appunto su quella che più facilmente di ogni altra poteva venire riconosciuta.
[42] Si potrebbero eccettuare i Cristi dipinti da fra Giovanni Angelico da Fiesole; ma la natura o maniera di un artefice non fa notabile eccezione alla natura o maniera generale. Fra Giovanni Angelico poi peccava in questo, che faceva fisonomie dolci a tutte le sue figure di qualunque carattere si fossero.
[43] Sembra che a tali tradizioni si attenesse in parte Leonardo nel rappresentare Cristo fanciullo, quale dal Lomazzo è descritto. Vedi il Trattato, pag. 127.
[44] La definizione del terzo Concilio ecumenico costantinopolitano dichiara Cristo perfetto nell’umanità, contro i Monoteliti. Tal perfezione, pittoricamente presa, non può venire espressa che dalla bellezza delle forme. Uomo perfetto è parimente chiamato nel quarto Concilio ecumenico della stessa città. Veggansi in oltre alcuni passi della Scrittura che alludono alla bellezza del Figlio dell’Uomo. Il gesuita Vavassore nel suo libro De forma Christi intese di provare con molte autorità, che Cristo non fu nè bello nè brutto; ma guai al pittore che seguisse la sua opinione: il vero del critico è diverso dal vero pittorico.
[45] Veggasi il libro De Trinitate di S. Ilario vescovo di Poitiers. Avvertasi in oltre che consentaneamente a quanto abbiam detto, anche nel passo di S. Ilario la dignità non è data se non alla potestà.
[46] Il passo di Matteo Bandello leggesi nella LV novella della terza parte. Il frate dopo avere nell’esordio di tal novella disapprovato il Machiavelli per aver chiamate onorevoli alcune scelleratezze, esce a dire de’ malefici: Questi tali dovriano tutti esser senza rispetto veruno mostrati vituperosamente ad ogni gente col dito di mezzo per più loro scorno. Dico col dito di mezzo che era manifestissimo segno appo gli antichi quando volevano mostrare uno scellerato e facinoroso uomo; che complicando nella mano tutti gli altri diti, quello di mezzo distendevano acciocchè ciascuno si guardasse dal praticare con quelli che in tal modo erano notati. Nè per chi volesse in tal modo interpretare quest’atto farebbe difficoltà il vederlo soltanto leggermente imitato colla elevazione del dito medio senza la complicazione delle altre dita. Da ciò anzi si trarrebbe di che lodare il pittore perchè non diede che un lieve cenno di un gesto, che avrebbe deformato comicamente la mano. Così gli antichi allorchè voleano rappresentare il riso, il pianto, il dolore o qualsivoglia affetto che notabilmente alterasse la forma del volto, imitavano tal cose con gran parsimonia, temendo di offendere le leggi del decoro o della bellezza. Parimente sobrj si mostrarono allorchè si diedero ad imitare certi atti destinati a misteriosi significati, come nella figura di Nemesi e in quella di Mercurio, su di che veggasi il Museo Pio-Clementino.
[47] Nella stampa di Firenze rimasero senza bicchieri gli apostoli Pietro e Giovanni.
[48] S. A. I. il Principe Vicerè volle anche acquistare il Cartone da me eseguito del Cenacolo, del quale mi premiò largamente; e di recente, cioè il 22 dicembre del 1810, avendo stabilita a vantaggio de’ più distinti allievi dell’Accademia una scuola speciale di pittura, particolarmente destinata all’insegnamento de’ principj generali dell’arte e delle teoriche della composizione, si compiacque di crearmi Professore di quella, con decreto per me onorevolissimo.




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