LIBRO TERZO.
DELLE COPIE IN GENERALE
L’uso delle
copie che gli antichi chiamavano ritratti,
non divenne comune che allorquando, quasi per universale consenso, si acclamò
giunta al colmo di sua perfezione l’arte della pittura. Fu allora che si
abbandonò il metodo di trarre dal naturale o pur dall’idea le pittoriche
imitazioni; e fu allora che gli artefici volgari, veggendo le meravigliose
invenzioni de’ sovrani dell’arte, cominciarono generalmente a temere delle
proprie forze, e non si credettero capaci d’investigare per sè stessi nella
natura quelle originali bellezze che ammiravano nelle opere altrui. La natura
cessò di essere la maestra dell’arte, e l’arte maestra di sè stessa fa chiusa
in angusto confine e cominciò a ripetere le sue produzioni.
Quella
dappocaggine del più degli artefici, che non poteasi nascondere, fu osservata
da chi commetteva e pagava le opere, nè sempre si poteva per esse ricorrere ai
primi nomi: quindi, anzi che averle di vili e grossi magisteri, si preferirono
imitate dalle migliori conosciute, con che si aveva un mediocre bensì ma sicuro
esito delle imprese. La fretta e l’avarizia favorivano il nuovo metodo sì per
parte del proprietario, come per parte dell’artefice, e la pittura si degradò a
copiar per sistema.
Nel
secolo decimoquinto e negli antecedenti, checchè si dica dal Boccaccio,[1]
il quale dopo l’epoca di Giotto lagnavasi dell’avvilimento della pittura, gli
artefici avevano un’opinione abbastanza elevata delle forze dell’arte e di sè
stessi, perchè, eccetto qualche ritratto di persona, non si prestassero a
ripetere le altrui invenzioni. Quindi di que’ tempi non s’incontrano copie
propriamente tali, cosa degnissima d’essere osservata da chi guarda con ragion
filosofica la storia dell’arte. E se pur talvolta accadde che alcuna se ne
facesse, ciò avveniva per lo più nelle arti minori del niello, de’ vetri, delle
terre smaltate e simili. Nè ricercandosi per anche certe finezze dell’arte, se
per religione o per altra cagione qualsivoglia vi fu chi esigesse una
ripetizione di tale o tal altra opera, qualunque fosse il metodo in cui la volesse
eseguita, egli si accontentava di una inesatta imitazione che rappresentasse a
un di presso i moti e gli atti dell’originale, senza riguardare per minuto alle
forme ed ai colori. Perciò non si vede nelle quadrerie più numerose nessuna
vera copia anteriore al secolo decimosesto.
Venne
poi l’età in cui da pochi rari ingegni (tra’ quali a niuno secondo di sapere e
primo certo di epoca fu il nostro Leonardo) ebbe la pittura un altissimo grado
di perfezione in ogni sua parte. Raffinatosi allora il vedere e il giudicare,
nacque il desiderio di avere de’ ritratti delle opere eccellenti,
scrupolosamente simili agli originali da ogni lato benchè minimo; nè fu
difficile il soddisfarlo, specialmente in quelle scuole nelle quali era grande
l’affluenza dei discepoli e la ricerca de’ lavori del maestro. Pure anche a
quel tempo un tale desiderio limitossi alle opere minori, e non fu esigente di
precisa conformità cogli originali se non in quadri piccioli i quali si possono
avvicinare e confrontare, e danno grande facilità all’esame ed all’opera di chi
giudica e di chi imita. Ne’ grandi dipinti avvenne altrimenti sì in allora come
da poi, e perchè gli originali non si possono confrontare colle copie e perchè
rarissime sono le occasioni di tali opere. L’arte non meno che la ricerca de’
curiosi si limitò per essi a dei ritratti in piccolo, ne’ quali si concesse
molto all’arbitrio del copiatore. Gli arbitrj crebbero a dismisura le poche
volte che accadde di fare delle copie in grande, le quali furono quasi sempre
copie di copie, perchè tolte da piccioli modelli ed eseguite lungi
dall’originale, perchè non di rado tradotte da soli disegni e perchè fatte
talvolta fin anche di sola reminiscenza.
Moltiplicatosi
il numero de’ pittori dozzinali che lavoravano a vilissimo prezzo, cresciuto il
lusso delle pitture e scematone il gusto, le copie crebbero oltremodo ed
offuscarono le pareti per sino delle anticamere e delle scale. Gli affamati
principianti viveano de’ meschini proventi che ottenevano ritraendo in diverse
misure le opere più famose, e molti pittori passarono la loro vita senza far
altro che copiare. Ma anche allora in ogni copia si vedeva qualche diversità,
fosse capriccio del pittore, fosse talento di chi pagava, fosse pretensione di
originalità.
Venne
anche il lusso de tappeti di arazzo, ne’ quali la pittura non parea degna
abbastanza se l’oro non l’arricchiva; e allora le più mirabili composizioni,
perchè gravi e semplici, apparvero meschine e povere, e il copiatore vi
aggiungeva architetture e paesi ne’ campi, ornamenti nelle vesti, raggi o
diademi dorati alle teste, è capricciosi contorni di putti, animali, chimere,
grotteschi ed altre stravaganze, colle quali cose tutte calpestavansi
arditamente le leggi del bello per adulare gli occhi ignoranti di chi non vede
luce e bellezza se non dove loro risplende sovra moltiplici oggetti accozzati
senz’arte a capriccio.
Avvenne
similmente che tal pittore che pure si sentiva tanto animo da far del suo era
poi costretto a ritrarre opere altrui dall’arbitrio del commettente che diffidava
della sua sufficienza. E l’artefice allora, copiando contro voglia, si
argomentava di pur mostrarsi originale in qualche parte, cambiando, alterando o
aggiungendo secondo la perizia o la vanità sua. Mille altri cangiamenti ed
aggiunte erano richieste nelle copie dalle rispettive circostanze di tempo, di
luogo e di uso. Vi fu non di rado chi volle servirsi di figure accreditate,
appropriandole ad argomenti diversi da quelli per cui l’autore le compose. Così
il cardinale Federico Borromeo fece, come avverte egli stesso, copiare molte
opere profane di Raffaello, e per mezzo di alcuni accessorj si piacque di nomar
martiri ed evangelisti i numi e gli eroi del paganesimo. Accade ancora che
l’artista fa per proprio studio ed esercizio qualche figura ritratta da famosa
opera di buon maestro, e poscia per fame uso utilmente e trarne lucro vi
aggiunge qualche sua invenzione onde compirla. Finalmente uno de guasti della
pittura, per avviso di molti, conforme all’espresso dal Lomazzo, fu la scoperta
e l’abuso delle stampe[2]
le quali ammorbarono l’Italia nel cinquecento, e prestando a tutti gli artefici
dozzinali le altrui invenzioni, distolsero le menti dallo studio, e la pittura
cadde in tanta bassezza da essere per sino confusa colle arti meccaniche. Ma le
stampe stesse erano di già diverse dagli originali, ed anche i copiatori delle
stampe rinnovavano altri cangiamenti secondo le ragioni o i capricci or proprj
or altrui. E ciò che si faceva delle stampe, si faceva similmente de’ disegni;
e gli artefici a centinaja ritraevano in carta le cose principali di Roma o di
Firenze, per ripeterle arbitrariamente quando erano tornati alle patrie loro.
Da
questo breve prospetto storico delle copie, il quale mi parve necessaria
introduzione alla materia di questo terzo libro, ognuno può scorgere quanta
diffidenza debbano ispirare queste povere produzioni dell’arte, e quanto sia d
uopo essere guardingo in giudicare per esse del carattere e del merito degli
originali. Si vedrà non meno facilmente di quanto poca autorità esse sieno tanto
negli accessorj, quanto nella maniera generale, allorchè si osservano per farsi
idea di un originale perduto. Si avrà anche dalle tante accennate cagioni di
arbitrj e varietà nelle copie una facile spiegazione del vedersi in diverse
quadrerie infinite ripetizioni, tutte attribuite all’autore di un unico
originale e tutte affermate per originali in grazia di piccioli cangiamenti di
forme, di colori, di fondi o d’altro. S’intenderà altresì di quanta accuratezza
sia d’uopo onde scernere le produzioni originali dalle copiate, alla qual cosa
spesso non è sufficiente il gusto ben disciplinato e finissimo, se non è
soccorso da una grande memoria e da un lungo e diligente esercizio. Si
conchiuderà in fine che non sono vere copie se non quelle nelle quali colla volontà
espressa di buono e giudizioso conoscitore che le commetta, si accordi lo
sforzo e la perizia dell’artefice copiatore in rappresentare con precisione
ogni parte dell’originale.
Laonde
è facile l’avvedersi che copie di tal fatta sono rarissime, e allorquando non
esistano gli originali con cui confrontarle, appena la storia, la critica e il
carattere evidente dell’autore primitivo possono in qualche modo supplire alla
mancanza del confronto che sarebbe necessario per rettamente giudicarle. E
disgraziatamente una sola copia di questo genere vanta l’elenco che son per
dare di quelle del Cenacolo, ed anche questa, oltrechè non è di tutta l’opera,
fu fatta in tempo che l’originale era in gran parte perito, ed essa stessa ha
sofferto per cattiva esecuzione un tale imbrunimento di colori che diminuisce
notabilmente il suo pregio e ne ha distrutto interamente l’effetto.
Premesse
queste considerazioni per le quali ogni discreto saprà giudicare e distinguere
copia da copia, passo a descrivere, secondo che mi sono proposto, quelle del
Cenacolo, unendo alle da me viste la memoria di alcune che per distanza di
luoghi o per altre ragioni non mi fu dato di vedere. L’ordine che terrò in
queste descrizioni sarà lo stesso che usai nel primo libro per le memorie
scritte del Cenacolo, cioè quello de’ tempi ne’ quali le copie per date certe o
presumibili si devono credere eseguite. Debbo anche ripetere per queste che
potrei chiamare memorie dipinte del
Cenacolo, ciò che per le scritte ho di già detto, cioè che non è mio progetto
di tutte qui registrarle, ma quelle soltanto che mi parvero atte a fare o per
sè stesse o colle altre qualche autorità anche nelle parti di minore importanza
ed affatto accessorie, delle quali fosse dubbio il modo o l’esistenza nel
perduto originale. Chè se mi accade di ricordarne alcune prive del tutto di
autorità e destituite d’ogni nobile artifizio, a ciò fui mosso dall’udire
sovente molte simili opere onorate di alti elogi in parole e in iscritti, i
quali elogi, se di quelle opere io tacessi, sarebbero una patente accusa del
mio silenzio, e si crederebbe da ciascheduno che io avessi trascurato di
consultarle.
Pertanto,
siccome è impossibile un generale accordo di pareri in queste materie, se vi
sarà qualcuno a cui per prevenzione o per altre cause non fossero accetti i
miei giudizj di lode o di biasimo, io lo prego a non comparare quanto io dico
con ciò che è stato detto da altri, ma solo con l’opera di cui parlo, in faccia
a cui, ogni qual volta ho potuto, ho scritto le mie osservazioni. Intorno poi a
quelle copie, per giudicare delle quali non ebbi altra scorta che l’autorità
degli scrittori, vorrei che si osservassero posatamente le circostanze di
tempo, di luogo, di persona e d’opera, secondo le quali dotto o ignorante
espone le proprie sentenze chi scrive, e dietro le quali chi ha discrezione,
pratica e amor sincero del vero e dell’arte, dee dare maggiore o minor peso
agli encomj non meno che alle accuse.
COPIA NELLO SPEDALE
MAGGIORE DI MILANO.
(1500 circa)
Questa
è, a mio credere, la più antica delle molte copie che ancora si conservano del
Cenacolo. Essa debb’essere stata fatta tra il finire del secolo decimoquinto e
il principiar del seguente. È dipinta a fresco sulla parete destra dell’antico
refettorio degli orfani nello Spedale maggiore di questa città, luogo ove, poco
tempo fa, si riparavano le donne attaccate d’oftalmia e che ora serve ad altri
usi. Le figure sono alquanto minori del naturale, sebbene il dipinto sia largo
poco meno di tredici braccia ed alto più di quattro. Quantunque quest’opera sia
eseguita assai diligentemente, mostra poco vigore di disegno, e tiene assai
dell’antica maniera diversa dalla leonardesca e prossima a quella del Mantegna,
non però sì aspra, comechè nè sì dotta nè sì esatta. La diversità delle
distanze, l’alterazione delle attitudini, le fisionomie cangiate e
l’inosservanza di molte altre parti la dichiarano, anzi che altro, una servile
imitazione della sola composizione. San Pietro ha il solito coltello negatogli
stranamente dal Bianconi. Non vi si vede la mano sinistra nè di Tommaso nè di
Taddeo. Bartolommeo è imberbe; Andrea è similissimo a Pietro; Filippo a
Giovanni. Giuda non è caricato come nelle altre copie e distinguesi dagli altri
dal non aver cinto il capo dell’aureola che orna tutte le altre figure.[3]
I colori soavi posti a capriccio e senza progetto d’imitare gli adoprati da
Leonardo. Cangiato affatto è il campo, anzi mentre la porta di mezzo è di
maniera buona, le finestre laterali sono di maniera tedesca. Sono da osservarsi
molte cifre e parole ne’ lembi delle vesti. Fra quelle che ho potuto capire,
trovansi tali errori che ne scemano a dir vero l’autorità: pure in questi
antichi dipinti non sono inutili le minute osservazioni, se non per altro, per
le comparazioni con altre opere. All’apostolo Andrea trovai scritto: Post Petrum primi principem Andreas, a
Giuda Juda Scariot, a Filippo Jacobus Alpheus e simili. Così lessi sul
lembo che circonda il piede di Pietro, Petrus;
Mattheus a Matteo; S. Simon a Giacomo il Maggiore; Jac. a quel d’Alfeo; Thomas a Taddeo; o rex gloriæ a Cristo. Non avrei deposto il pensiero
d’indagare il resto, se gli errori grossolani di lingua e alcuni nomi
evidentemente male appropriati non me ne avessero distolto. Non ho mancato di
ricercare diligentemente se v’era scritto il nome dell’autore, ma le mie
ricerche furono inutili.
Vi
ho notato con piacere che la figura di Filippo in quest’antichissima copia
posa, come esige la natura, sul piede destro, perchè si volge a destra; in che
variano molte copie seguendo l’autorità di Marco da Oggiono che eseguì le sue,
facendo i piedi ad arbitrio.
Senz’alcun
ajuto di tradizione e colla scorta unica della maniera io non saprei a chi
attribuire questo singolare lavoro se non al Borgognone. Questo artefice che
fiorì ed operò molto al principio del secolo XVI, chiamavasi Ambrogio Fossani,
e ignoro onde traesse quel soprannome con che segnava spesso le sue tavole.
Segnolle però talora anche col primo nome e per sino con entrambi, come si vede
in una tavola nella chiesa di san Celso. Egli conservò la maniera vecchia assai
tardi, e si vedono sue pitture fino al 1527. E il Borgognone e il Montorfano ed
altri seguaci di quel fare, tenaci degli ornamenti d’oro, timidi ed incerti
nell’ombreggiare, freddi nel colorire e diversi in tutto dalla nuova maniera
che insegnava Leonardo, avranno anticamente composto una scuola a parte che
dalla leonardesca si segregava, e a ciò credo alludere Leonardo stesso nel
Trattato allorchè dice: E tu pittore
dell’una e dell’altra setta ecc.[4]
Questa
copia della quale non ho trovato ricordo presso veruno scrittore, fu in
pericolo d’essere imbiancata venticinque anni sono. Il dotto amatore delle
antichità patrie signor Giuseppe Vailati fu in tempo ad impedire tale
disordine. È desiderabile che si trovi un modo onde por freno a simili arbitrj
de’ quali sono frequenti gli esempj anche recentissimi.
COPIA NEL REFETTORIO DEL
CONVENTO
DI SAN BARNABA IN MILANO.[5]
(1510 circa)
Debbesi
il secondo luogo per antichità a questa piccola copia che dovrebbe essere stata
eseguita poco dopo il primo decennale del secolo decimosesto. Il carattere, in
ispecie delle teste, l’annunzia evidentemente per opera di Marco da Oggiono. È
dipinta sopra una tavola larga quattro braccia e mezzo ed alta due in circa.
Non si comprende come nel catalogo delle copie del De Pagavo questa sia detta
essere grande soltanto l’ottava parte dell’originale, mentre a lunghezza ed
altezza ne è più che la quarta, a superficie ne è men che la duodecima. La
parte che vi si vede più finita, è quella che è compresa dalla linea delle
teste alla linea della mensa. Non v’ è indizio alcuno de piedi, e molte parti,
anche fra le importanti, non sono che abbozzate. Da ciò si scorge assai chiaro
che questa copia fu fatta sull’originale unicamente per uso dell’artefice, il
quale poscia se ne servì per eseguire altre copie di maggior mole. Parmi
concorra a provare lo stesso il vedere che questa tavola fu preparata da prima
soltanto a chiaro scuro, di che alcuni de’ panneggiamenti tuttavia fanno fede;
il qual metodo monocromatico è sommamente comodo per porre a suo luogo ogni
parte dell’opera che si prende a copiare, permettendo che si ritocchi in
infinito senza pericolo di confusione di tinte. Non è meno opportuno per la
rapidità dell’esecuzione, tralasciandosi per esso non solo le misture de’
colori, ma il tempo di meditare le giuste collocazioni delle tinte e di unirle
e di fonderle insensibilmente. Era anche un tal metodo comune a tutte le
scuole, nè lo sdegnarono i migliori coloritori, come può vedersi in varie opere
imperfette, non solo del Vinci e del Frate in Firenze, ma del Correggio in casa
Doria a Roma, e del Tiziano stesso a Napoli e d’altri grandi altrove: usavasi
però sempre negli abbozzi ne’ quali l’attendere ai colori avrebbe diminuito
l’attenzione al disegno ed alla forza dell’espressione. Se dunque questa copia
è di Marco, come sembra, debbe aver servito per l’esecuzione di quella a olio
della Certosa di Pavia e dell’altra a fresco del convento di Castellazzo.
Vi
si osservano teste pesanti e grosse, attitudini impedite, e mani con moti falsi
e senza grazia: difetti che si riconoscono nelle altre opere di questo autore.
Vi si vede il coltello di Pietro e la mano di Tommaso ch’egli non trascurò in
nessuna delle sue copie. Nulla v’è sulla mensa, ed il poco fondo che vi si vede,
è di architettura fatta a capriccio.
Poche
notizie abbiamo di Marco da Oggiono, da altri detto da Uglon, Oglono e Uggione.
Si sa ch’era discepolo del Vinci, e le sue pitture hanno poco merito oltre
quello della sua scuola. Il Cesariano nel suo commento a Vitruvio loda la maxima et diligente pratica universale
di questo artefice; ma il Cesariano come ognun sa, non è il migliore de’
critici.[6]
Generalmente l’Oggiono ha poco disegno, ed il principale suo pregio sta nelle
teste, sebbene anche in queste non sia sempre eguale a sè stesso. Quando vi
attese a dovere, è fiero, di gran rilievo, di forte colorito, comechè alquanto
caricato e monotono. Ripete però sempre le stesse fisionomie copiate dalle
migliori teste di Leonardo, che degrada con baffi prolungati per traverso e con
capelli triti, minuti, ora tendenti al color rosso cupo, ora bianchi argentini
che staccano duramente dalle tinte di carne, vive bensì e calde, ma rustiche
sempre e volgari. Nelle figure de’ giovani e delle donne tiene altro sistema, e
colorisce spesso assai freddamente e con salto troppo notabile dai colori che
suol dare alle figure virili o senili. L’opera sua migliore, se fosse veramente
sua, è la Crocifissione che ancora si conserva nell’antico refettorio della
Pace e che porta la data del 1510. Ma io credo a gran fatica che questa opera
possa dirsi di lui, e se si giungesse a dimostrarlo, bisognerebbe credere più
antiche le sue copie del Cenacolo, nelle quali si vede minor possesso
dell’arte. Quantunque poi da alcuni siagli attribuita tal opera, gli scrittori
più autorevoli, cioè il Vasari e il Baldinucci che di lui citano molte altre
cose, nè, se ben mi ricorda, il Lomazzo, non fecero affatto menzione di questa,
la quale, come più importante di tutte, non doveva preterirsi. Chè se mai si scoprisse
di che poter dimostrare esser essa assolutamente di sua mano, giudicherei
ch’egli si fosse servito di cartoni altrui, e parmi vi traluca la maniera di
Cesare da Sesto, ricca, pronta e bizzarra, sebbene ineguale e scorretta. Certo
vi sono de gruppi mirabili in autore sconosciuto, dalla bellezza e novità de’
quali troppo si dilunga Marco nelle altre opere sue, inventore sempre ignobile
o non originale. Le arie di alcune teste hanno qui una grazia ch’egli non
ripetè mai: le invenzioni degli abiti, la nobile espressione di alcune figure,
specialmente nel gruppo della Vergine svenuta, il modo dolce e pastoso del
colorito, sono cose tutte in quest’opera affatto diverse e superiori a quanto
di sua mano si vede altrove. Se il cartone fosse stato fatto da Cesare da
Sesto, è da credere ch’ei tralasciasse d’eseguirlo per recarsi in Sicilia o a
Roma a lavorare nelle opere del Vaticano, probabilmente meglio pagate. Fra le
tavole a olio di Marco parmi primeggiare quella che rappresenta la Vittoria
dell’arcangelo Michele, ch’era una volta in santa Marta ed ora vedesi nella
reale galleria. In questa l’autore che non pose, ch’io sappia, il suo nome
altrove, inscrisse seccamente Marcus
senz’ altra nota, quasi compiacendosene. Chiunque confronterà il fare di questa
opera e delle altre sue tutte che facilmente si riconoscono e che sono in gran
copia, vedrà quanta differenza passi tra il suo stile solito e quello assai
migliore della citata Crocifissione, la quale se vantasse miglior disegno,
potrebbe gareggiare coi primarj monumenti della pittura milanese.
COPIA NEL CONVENTO DI
CASTELLAZZO.
(1510 = 1514)
Dopo
la copia dello Spedale maggiore e la tavola di san Barnaba cui demmo per ordine
di tempo il secondo luogo, non saprei ben dire se a questa o alla seguente
debbasi il terzo. Entrambe però sono, almeno in ciò che più importa, di mano di
Marco, non meno che la tavola descritta che per esse, come già avvertii,
dovette servire. È difficile l’indagare con precisione in qual tempo fossero
eseguite queste due copie. Quella che or descriviamo di Castellazzo,[7]
luogo de’ frati di san Girolamo, lontano un miglio dalla città, debb’essere
stata condotta a fine prima del 1514. La seguente che fu già nella Certosa di
Pavia, se noi fu contemporaneamente, dee di poco precederla o di poco venirle
dopo. Congetturo l’indicata epoca da una lapida che tuttavia si conserva
incastrata esternamente nella parete meridionale del refettorio del convento di
Castellazzo. Leggesi in essa che un don Baldassare Sudato da Milano, a
quell’epoca priore, ristaurò, ampliò e adornò il convento. Però sembra
probabile che fra gli ornamenti di cui il Sudato rese cospicuo il suo cenobio,
fosse anche il cenacolo dipinto da Marco per l’appunto nel refettorio, al quale
è appoggiata l’iscrizione che copio fra le note.[8]
I
girolomini di Castellazzo e i certosini di Pavia invidiarono ai domenicani
delle Grazie il famoso ornamento del refettorio, e vollero averne, per quanto
si poteva, uno simile dalla scuola stessa del Vinci. Perchè gli uni e gli altri
affidassero tale impresa alla stessa mano, parmi si scorga per le seguenti
osservazioni. Intorno al secondo decennale del secolo decimosesto, tempo in cui
poniamo le due opere, Cesare da Sesto e Bernardino Luino, primi lumi della
scuola milanese, dovevano essere assenti, e probabilmente s’eran recati a Roma,
dove il Sanzio, direttore di tutte le opere del Vaticano, aveva chiamati con
buoni premj ajuti da tutta Italia, ed in ispecie da Lombardia che dava gran
pratici ed ottimi coloritori. Il Boltraffio, ch’era ricco gentiluomo e che
aveva cure maggiori, non doveva assumersi lavori di molta fatica e di poca
gloria, come sono le copie, specialmente allorchè sono tratte da recente
originale. Dicasi lo stesso del Melzo che sembra in oltre non essersi dilettato
di grandi opere, e che forse unitamente al Salaino era anch’egli già assente
col maestro. Dopo questi migliori discepoli o imitatori di Leonardo, nulla
sapendosi del Pedrini, viene in ragion di merito il nostro Marco, e l’assenza o
le occupazioni de’ cinque nominati soggetti furono motivo che sopra Marco si
ponesse l’occhio da più padroni, e ch’egli come solo presente de’ migliori
venisse ricercato contemporaneamente per entrambe le commissioni di Castellazzo
e della Certosa. Il non poter poi egli allontanarsi dalla città, nella quale
doveva avere molti ajuti e molte opere, fu cagione che la copia de’ certosini,
contro il costume di que’ tempi per le opere grandi, venisse eseguita a olio;
ed anche ciò mi conferma nell’opinione che contemporaneamente l’una e l’altra
venissero da lui e da’ suoi discepoli o compagni eseguite.
Questa
adunque de’ girolomini che ancora esiste nel detto refettorio del soppresso
convento di Castellazzo e che cortesemente si mostra dai presenti proprietarj
del luogo, fu eseguita a fresco con molta attenzione e diligenza. È alta sei
braccia e once dieci, e larga dodici braccia meno mezz’oncia, compresavi una
vecchia cornice alta cinque once e un quarto, probabilmente contemporanea al
dipinto, la quale il cuopre alquanto ne’ lati e in alto, non però nella parte
inferiore. Tutto vi è fatto con gran precisione ed accuratezza, sebbene in
moltissime cose l’autore operasse a capriccio, non secondo l’originale. Il
paese è arricchito di fabbriche e d’altre minuzie: la tappezzeria (appesa, non
isfondata nelle ricqadrature) è tessuta a fiori che sembrano viole, convolvoli
e gelsomini, azzurri, rossi, gialli, violacei, tutti tra foglie di verde chiaro
in campo di verde oscuro. La soffitta ha i travicelli decorati all’intorno
d’una linea di giallo: ornati a rabeschi sono i fianchi delle porticelle poste
tra le tappezzerie: il pavimento è di un rosso vivace interrotto d’alto in
basso da cinque strisce verdi. I colori sono distribuiti ad arbitrio, e vi si
ripetono in onta de’ precetti di Leonardo. L’azzurro oltramarino, forse per
gusto ed ordine de’ frati, vi è usato senza accordo e con tanta profusione che
fe’ invito a mani, non so se più ladre o indiscrete, a raschiarlo barbaramente
in più luoghi con danno dell’opera. Il cielo, le montagne, i panni di Matteo,
di Cristo, di Giovanni, di Pietro, di Bartolommeo sono o in tutto o in parte
dello stesso tuono di azzurro senza varietà alcuna e con patente disarmonia.
Anche le tinte delle carni sono monotone e pendono in rossiccio in tutte le
figure, eccetto il san Giovanni che è d’una tinta assai buona e contrasta assai
bene col vicino Giuda di color fosco abbronzato. Il colorito in generale non è
nè armonico nè piacevole: le barbe bianche sono ombreggiate da un grigio
ferreo, e staccano aspramente dalle tinte fortissime delle guance: i capelli,
ove non sono come le barbe, foschi che danno in rosso cupo, secchi ed eguali
tutti di colore e di maniera, con onde regolari e minute, non rammentano certo
il sistema del maestro che tant’alto portò l’imitazione e la scelta in questa
parte sì importante al decoro ed alla grazia delle teste. Ma il peggio sta nel
disegno. Le figure sono generalmente tozze: le teste sono pesanti forse più che
nella tavola di san Barnaba: le attitudini non sono libere nè facili: le mani,
se si eccettuano quelle dell’apostolo Giovanni, sono storpie, or piccole or
corte, e generalmente mal fatte e spiacevolissime. Ve ne sono alcune in cui le
dita hanno le articolazioni rotte o forzate fuor di misura: altre, come una
dell’apostolo Matteo, in cui la seconda falange delle dita fa un angolo minore
che non è nella prima, il che è contrario all’operare della natura. Le forme
de’ piedi sono barbare affatto. Le orecchie sono talora fuor di luogo e tutte
mancanti notabilmente nella parte inferiore. La figura del Salvatore non ha
spalle, avendo un collo larghissimo senza muscoli: quasi tutte le altre figure
hanno le parti mal corrispondenti fra loro e mancano sopra tutto, come quella
del Redentore, nelle attaccature delle spalle e de’ colli.
Non
ostante sì enorme numero di difetti, quest’opera va tenuta in pregio per
l’autorità della scuola, e per questa ragione io ne ho disegnato tutte le teste
e gran numero d’altre parti accessorie; con che ne posso parlare con più
cognizione che non farebbero gli osservatori superficiali ne quali il giudizio
è spesso travolto dalla seduzione de’ nomi antichi, dall’indisciplinata
fantasia e talora anche dall’interesse, iniquo sovvertitore delle opinioni. Ben
è gravissima disgrazia che de’ varj discepoli di Leonardo, il solo Marco abbia
fino a noi tramandate le sue copie, e però ci manchi una guida onde discernere
quanta parte abbia egli in esse trasfuso dell’originale, quanta del fare suo
proprio. Quindi il solo mezzo, a mio parere, di ottenere qualche verità ne’
giudizj intorno ad esse, è l’attribuire a Leonardo quanto vi si riconosce di
buono, e credere del copiatore quanto vi si vede di contrario sì alle generali
discipline dell’arte, come alle speciali di Leonardo. La parte che v’è di più
lodevole parmi il carattere di varie fra le teste, ed in ispecie di quelle
nelle quali non fu esagerata l’espressione a danno delle forme. Ad ogni modo
quest’opera è monumento da farne conto, e si debbe pubblica lode ai presenti
possessori del convento, i quali non solo cercarono d’impedirne il deperimento,
ma ne lasciano libero l’accesso a chi vuol vederla o trarne disegni.
COPIA DELLA CERTOSA DI
PAVIA.
(1510 = 1514)
Dalle
cose dette nell’articolo che precede questo, si può comprendere l’epoca,
l’autore e il merito di quest’altra copia, di cui, perchè collocata in luogo
famoso per altre opere, si trova menzione presso del Baldinucci che non ebbe
notizia dell’antecedente. Essa è all’incirca della stessa grandezza della
descritta di Castellazzo, ch’è quanto dire di forse un quinto più piccola
dell’originale. Dalla Certosa di Pavia, in occasione di non so quali vendite di
oggetti appartenenti a quel convento, passò nelle mani d’un negoziante
milanese. È dipinta, come si disse, in tela, ed è sufficientemente ben
conservata; solo è annerita di molto ove la biacca non sostenne le tinte.
Alcune parti di essa sono d’altra mano, ed in ispecie i piedi che hanno dita
enormi, e sono in tutto pessimamente eseguiti. Alcune teste, come nella copia
di Castellazzo, sono belle e di molto rilievo: altre sono esagerate assai in
ogni parte, e caricate oltremodo nell’espressione: alcune poi sono fuor di
disegno affatto, come fra l’altre quella del Salvatore, e più ancora quella
dell’apostolo Filippo. O l’Oggiono aveva mano assai ineguale, o si serviva di
ajuti o discepoli troppo inesperti. Occorrono a quest’opera varie cose delle
notate nell’antecedente, ch’è inutile il ripetere. Non descrivo ciò che si può
scorgere dalla stampa che ne trasse il signor Frey, nella quale per altro i
piedi sono diminuiti e notabilmente migliorati di forme. Del colore e d’altre
cose che la stampa non sa mostrare, non posso parlare a dovere, perchè
quantunque allorchè io abitava nella reale Accademia abbia per varj anni vista
spesso e considerata molto questa tela, ivi posta presso lo scultore Franchi,
ora non ne ragiono che di reminiscenza, stante che l’attuai possessore,
ritiratala presso di sè alla morte del Franchi, non mi ha permesso ch’io la
vedessi. Me ne ha però proposto l’affitto anche per un anno per dugento luigi
d’oro, al che non mi parve dover accondiscendere, soddisfatto, com’io era,
d’averla altre volte esaminata; e con ciò mi scuso di non saperne dare più
minuto ragguaglio.
Il
pittore Santagostino nel suo libercoletto, pubblicato nel 1671, parla di questa
copia, e la chiama, bella quanto
l’originale: ma quando poi parla dell’originale, dice, come già altrove
osservammo, che è tanto guasto, che poco
se ne può godere con l’occhio. Come abbia fatto il Santagostino a istituire
il paragone fra la tela visibile di Marco e l’originale di cui poco potea godere con l’occhio, è difficile
l’indovinarlo: certo è che si cadrebbe in enormi sbagli in fatto d’arti, quando
si desse molto valore ai giudizj de’ secentisti.[9]
Un giudizio non meno esagerato in favore di questa copia si ha da Bartolomeo da
Siena certosino, di cui leggasi il passo nelle note.[10]
Dice anch’ egli, al modo del Santagostino, quantunque scrivesse quasi mezzo
secolo prima, che vix ægreque si poteva al suo tempo godere del bello dell’originale. E
ciò che prova che questo frate poco intendeva le cose dell’arte, anzi non
sapeva che fraintenderle, è l’encomio singolare che fa della testa del
Salvatore di questa copia, esaltandola come cosa divina sopra l’originale che
Leonardo aveva in tal parte lasciato imperfetto: e per l’appunto si combina
che, come assai bene mi ricordo e la stampa in parte il dimostra, la testa del
Salvatore di Marco, oltre i notati errori di disegno, è dura, affettata, e non
solo lontana dall’espressione che ancora in mezzo a tanta ruina si va
nell’originale indovinando, ma lungamente inferiore altresì a molte teste
dell’opera stessa e tra le altre a quella di Giacomo il Minore. In prova poi
dell’entusiasmo affettato di questo buon frate basti il vedere che, sebbene
altamente decanti la sua tela, non si prese cura nemmeno d’informarsi
dell’autore; la qual cosa non può non cadere in mente a chiunque osserva con
amore un’opera d’arte che si crede stimabile. Comunque però esagerati sieno i
giudizj del certosino e del pittore, questa pittura, ad onta d’esser opera di
più mani e ad onta di molti altri difetti, al pregio dell’antichità unisce, al
pari di quella di Castellazzo, l’autorità della scuola. Ma abbiamo per essa un
solenne argomento della libertà, di che già ragionammo, delle antiche copie,
perchè essendo almeno nelle parti più importanti d’una istessa mano e questa e
la descritta di Castellazzo, non pertanto sono fra loro si differenti che se si
eccettui la composizione, quasi non si direbbero derivare dallo stesso
originale. Con ciò si conferma che Marco le ha tratte entrambe dalla copietta
di san Barnaba, nella quale non vi sono nè i piedi, nè le tinte de’ panni, le
quali cose furono in gran parte fatte arbitrariamente nell’una e nell’altra
copia.
COPIA DI GIOVANNI PEDRINI.
(15..)
Nel
manoscritto del Mazzenta, citato dal Venturi, si fa menzione d’una copia del
Cenacolo di mano del Pedrini, il quale dal padre Sebastiano Resta è posto fra
gli scolari del Vinci. Ignoro se esista e dove esista tale opera. Potrebbesi
congetturare che fosse o quella dell’Escuriale, se non fu fatta espressamente
per ornare quell’edifizio, o quella di san Germano, le quali da varj scrittori
diconsi entrambe indeterminatamente della scuola di Leonardo.
COPIA DI S. GERMANO IN
PARIGI.
(1517 circa)
Il
magnanimo re Francesco Valese voleva far segare la parete intera del Cenacolo
onde trasportarla in Francia, ma non trovò chi s’incaricasse d’impresa di tanto
pericolo. Il Bottari dice che se Leonardo ne fosse stato richiesto, vi sarebbe
senz’altro riuscito, e cita in conferma le trasportazioni eseguite in Roma
dallo Zabaglia. Ma non riflette che queste, oltre che si trattava di moli
minori, avvennero in luoghi piani pel corso di due o tre miglia, e che la
bisogna sarebbe riuscita altramente, quando con tali macchine si fosse trattato
di scorrere le leghe a centinaja varcando il Moncenisio e la Savoja o qualunque
altro sbocco in Francia. Che se la difficoltà stava nel richiederne Leonardo,
egli fu al servizio del re Francesco in tempo che questi teneva il Milanese, ed
è probabile che fra loro ne fosse fatta parola, conchiudendosi essere il taglio
dell’Istmo. V’ha chi attribuisce a Lodovico XII questo ardito pensiero, ma per
la natura sua e per più gravi autorità storiche appartiene al Valese, il quale
non potendolo mandare ad effetto, ordinò una copia del Cenacolo che parrebbe
dover essere stata commessa ad artefice di buon nome. Essa fu da alcuni
scrittori attribuita al Luino vecchio, ma non v’è intorno a ciò alcuna buona o
antica autorità. Fu probabilmente portata in Parigi intorno al 1517, cioè due
anni dopo che la vista dell’originale aveva acceso tanto desiderio nell’animo
del re. Ivi fu posta in san Germano d’Auxerre, e secondo il Lépicié nella sala
d’unione dei fabbricieri, dove stette fino ai disordini dell’ultima
rivoluzione, nel qual tempo è da credere sia stata distrutta, non trovandosene
ora notizia o vestigio. Così almeno mi fu riferito da più d’uno. Si legge
ricordo di questa copia nelle opere del D’Argenville, del Le Comte e d’altri
molti che copiaronsi al solito a vicenda. Certo che se fosse stata di mano di
Bernardino Luino, e quindi la migliore di quante ne esistono, sembra che se ne
sarebbe tenuto conto anche al tempo de’ tumulti di Parigi, nel quale si pensò
sempre a porre in salvo le opere importanti dell’arte; talchè la sua perdita mi
dà congettura della sua mediocrità.
COPIA D’ESCOFENS.
(1520 circa)
Dalla
copia di san Germano fu copiata quest’altra che il contestabile di Mommoransi
fe’ fare pel suo castello d’Escovens, ed è strana cosa che da chi ne fa
menzione, la nipote dell’originale si dice più bella della figlia donde ha
origine, nuovo argomento della poca critica de’ lodatori di tali opere. Nelle
giunte del Bottari alla Vita di Leonardo si legge che questa d’Escovens era
ancora benissimo conservata al suo tempo. Anche di questa come dell’altra
dond’è tratta, s’ignora l’autore. L’esser questa detta migliore pare
assicurarci che quella di san Germano, lungi d’essere di Bernardino, fosse di
mano mediocre; chè se fosse stata altrimenti, non sarebbe da credere che la
copia cavatane la vincesse in bellezza. E se quella era mediocre, mediocrissima
sarà questa, e perchè fatta in tempi di nessuna critica e di facile
contentatura in questo genere, e perchè destinata a star lungi assai dall’originale,
e perchè in fine i Francesi a quell’epoca, secondo che dice il Cellini, in
fatto d’arti erano ancora gente grossa, e non godeano che da pochi anni il
frutto della protezion generosa con cui il gran re Francesco animò ogni nobile
disciplina. Rimane da aggiungere che non si andrà lungi dal vero credendo che
quest’opera sia stata mal pagata ed eseguita da artefice di poca fama; perchè
se fosse stata ben pagata, sarebbe stata eseguita in Italia sull’originale; e
se fosse stata commessa ad artefice distinto, questi non l’avrebbe copiata da
un’altra copia.
COPIA DI SAN BENEDETTO
PRESSO MANTOVA.
(1525 circa)
Ad
onta di lunghe ricerche e di viaggi fatti per veder questa copia, non posso per
anco parlarne che sull’altrui autorità. Essa è attribuita a frate Girolamo
Monsignore converso domenicano, scolaro di Andrea Mantegna, e fu fatta pel
convento di san Benedetto in Polirone. Fu dipinta in tela a olio, e vendutosi,
alcuni anni sono, quel convento coi mobili e co’ quadri che l’adornavano, fu
trasportata in Sassuolo in casa del compratore. Questi da oltre un anno, per
non lasciarla esposta alle conseguenze della guerra e delle sedizioni, mandolla
con moltissimi altri quadri in Modena, dove è di presente rotolata e incassata.[11]
Senza l’autorità del Vasari, sarebbe quasi da sospettare che questo cenacolo
non sia altrimenti copiato da quello del Vinci. Io lo pongo pertanto in serie
fra le copie appoggiato a quanto egli ne dice: ma ogniuno sa che questo autore
scrisse per lo più di reminiscenza, sempre di fretta, e spesso coll’ajuto
altrui e su quanto venivagli da altri asserito. Se frate Girolamo dipinse due
cenacoli ne’ due refettorj di san Domenico in Mantova e di san Benedetto in
Polirone, questi possono essere stati di sua composizione, e la prima volta che
il Vasari fe’ ricordo di tali opere e dell’autore, cioè nella vita di fra
Giocondo, non dice altrimenti che l’uno de’ cenacoli fosse copiato da quello di
Leonardo; ed ivi certo era il luogo di dirlo, dove di fra Girolamo e di suo
fratello Francesco più degno pittore ragiona largamente. Solo poi nella vita di
Girolamo da Carpi, ove di nuovo parla delle pitture di san Benedetto,
soggiunge: Nel medesimo luogo è di mano
di un frate Girolamo converso di san Domenico nel refettorio in testa, come
altrove s’è ragionato, in un quadro a olio ritratto il bellissimo Cenacolo che
fece in Milano a s. Maria delle Grazie Lionardo da Vinci, ritratto dico tanto
bene ch’io ne stupii; della qual cosa fo volontieri di nuovo memoria avendo
veduto quest’anno 1566 in Milano
l’originale di Lionardo tanto mal condotto che non si scorge più se non una
macchia abbagliata, onde la pietà di questo buon padre renderà sempre
testimonio in questa parte della virtù di Leonardo. E qui il Vasari credè
aver già detto ciò che in questo passo asserisce, ma s’inganna, come in molte
altre occasioni; e quel che è più singolare, nè di questo stupendo cenacolo, nè
de’ Monsignori si trova ricordo alcuno nella sua prima edizione. Forse accrebbe
confusione alla sua memoria l’opera di Francesco nell’altro refettorio de’
francescani pure in Mantova, la quale,
dic’egli, rappresenta il Salvatore in
mezzo ai dodici Apostoli in prospettiva, che sono bellissimi e fatti con molte
considerazioni, fra i quali vi è un Giuda traditore con viso tutto differente
dagli altri e con attitudine strana, e gli altri tutti intenti a Gesù che parla
loro essendo vicina la sua passione. La quale descrizione rammenta alquanto
il Cenacolo vinciano, e può avere avuto parte ad illudere lo scrittore ed a
fargli dire quanto abbiamo citato. Aggiungo a queste osservazioni, che il Lanzi
(che sembra però parlare anch’egli sull’altrui autorità) dice che la copia del
Monsignore è nella libreria, non già nel refettorio, come scrisse il Vasari. Il
Cadioli mantovano la dice nel refettorio e cita il Vasari, egli che essendo
pure dell’arte potea ragionarne coll’opera sott’occhio e servirsi poi per un di
più, se il credea, di quanto il Vasari lasciò scritto. In fine e per memoria di
alcuni che videro l’opera sul luogo e per quanto asserirono in addietro gli
agenti del presente possessore che ora la tiene in Modena, il cenacolo in tela
che fu tolto da san Benedetto, è una imitazione di quel di Leonardo di mano di
Camillo Procaccino, eseguita liberamente senz’altro ritenere dell’originale che
l’ordine delle figure. Chè se veramente (ch’è pur d’uopo far conto
dell’autorità del Vasari) esiste una copia del Cenacolo di mano di fra
Girolamo, mi ristora alquanto del non averla vista il leggere che questo
sant’uomo trattava l’arte freddamente, e dal Vasari stesso non è chiamato se
non ragionevole dipintore: laonde non
è da credere che l’opera sua potesse gran fatto somigliare alla vinciana, e
perchè egli era d’una scuola diversissima ne’ principi, in particolare del
chiaroscuro e del colorito, e perchè fatta soltanto sopra qualche disegno lungi
dall’originale. Per ispiegare poi in qualche modo la perdita della copia del
Monsignore e la sostituzione di quella del Procaccino, non saprei altro
congetturare se non che quella prima sia stata rubata o distrutta nell’orribile
sacco di Mantova e de’ contorni, avvenuto nel 1630, e che i frati la facessero
rifare in Milano, non già da Camillo che a quel tempo era morto, ma da qualcuno
de’ tanti suoi imitatori, le cui opere ne portano il nome, del quale colla
ordinaria loro mediocrità hanno diminuita la fama.
ARAZZO VATICANO.
(15..)
Non
mi è riuscito di trovare con precisione in qual tempo sia stata fatta l’antica
copia in arazzo che credo si serbi tuttavia in Vaticano, assai consunta dal
tempo. Se si crede al padre Resta che ne parla nel suo Indice del Parnaso de’
pittori, essa fu fatta eseguire da Francesco I, onde farne dono a papa
Clemente, e fu tratta dalla copia di san Germano. Sembra che questo arazzo sia
stato anticamente guastato per mala custodia o per altre ragioni, poichè fino
al tempo del Bottari, che ciò dice in una postilla ad una lettera del giovane
Mariette, era per l’antichità tanto lacero, che non se ne potea più far conto
alcuno. Sembra anche che abbia subito varj risarcimenti. Ad ogni modo non può
affatto servire per dare idea dell’originale, non solo come copia di copia, ma
per le tante alterazioni nelle fisionomie, ne’ panni, ne’ colori e in somma in
ogni parte. Il fondo poi, forse per alludere al vino eucaristico, è convertito
in un pergolato che campeggia sul cielo, lieta invenzione, ma qui affatto fuor
di luogo ed oltremodo contraria alla severità della composizione. Oltre i
citati Resta e Bottari, parlano di quest’opera il Lanzi, il Fiorillo ed altri.
Il Fiorillo anzi dice che per isbaglio dell’arazziere vedesi in quest’opera una
mano di san Giovanni con sei dita, la qual cosa fu detta dal Cochin
sull’originale. Io ho visto più volte in Roma questo tappeto, ma mi parve tanto
esagerato e difettoso in ogni parte, che non l’ho mai attentamente osservato, nè
mi ricorda d’aver visto lo strano errore rammentato dal Fiorillo.
DI GUGLIELMO DELLA PORTA.
(1530)
Nella
Vita di Leone Leoni e d’altri, racconta il Vasari che Guglielmo della Porta in Milano attese con molto studio a ritrarre
le cose di Lionardo da Vinci che gli fecero grandissimo giovamento. Il
Baglioni ne dice altrettanto. Anche il Resta dice lo stesso nell’Indice del suo
Parnaso de’ pittori.[12]
È da credere che principalmente sul
Cenacolo studiasse Guglielmo: ignoro però se esista avanzo di siffatte opere.
Io ne volli dar cenno per norma di chi ne trovasse di tali da poterglisi
attribuire.
COPIA IN ARGENTO.
(1530 = 33)
Di
quest’epoca all’incirca sarà stata eseguita la copia accennata dal Comanini, la
quale era probabilmente fatta a bassorilievo cesellato. La pongo in questo
tempo, perchè nel 1533 avvenne il matrimonio di Enrico II con Caterina de’
Medici, per errore detta Margherita dal Comanini di cui riveggasi il passo a
carte 42. Di queste copie in rilievo esisteva di già un esempio alla Certosa di
Pavia, dove il nostro Cenacolo fu imitato in marmo da Biagio Vairone, valente
scultore, che morì l’anno 1513.
COPIA A OLIO GIÀ NEL
CONVENTO DI CASTELLAZZO.
(1640 circa)
Un’altra
copia del Cenacolo si vede in un podere poco discosto da Castellazzo,
appartenente ai signori Carli di Milano. È questa in tela a olio, e le figure
vi sono grandi poco oltre la metà del naturale. Fu, a quanto apparisce,
diminuita alquanto lateralmente ed accresciuta in altezza onde appropriarvi una
cornice non sua, e adattarla a luogo più stretto del destinatole da principio.
L’opera non è spregevole, ma non vanta autorità alcuna, essendo senza dubbio
copia della copia a fresco di Marco in Castellazzo. Essa fu sempre in quel
convento finchè alla soppressione de’ girolomini fu venduta con altri quadri e
mobili per ottanta lire. Il copiatore non ha tralasciata la mano di Tommaso, nè
il coltello di Pietro, nè la saliera rovesciata; solo nella tappezzeria ha
fatto un drappo verdastro a suo modo, superiormente ornato d’una frangia male
mutante l’oro. Anche le aperture che stanno fra le tappezzerie sono quali nella
copia di Castellazzo, e quelle che stanno a dritta del Salvatore, veggonsi
illuminate dallo stesso lume che rischiara tutto il Cenacolo, e ciò ancora più
evidentemente che non è nell’opera di Marco. Oltre l’indicata tappezzeria
introdusse il copista altre cose di suo arbitrio, ma sono di poca importanza,
come i piatti e le vivande variate a capriccio, il pavimento ornato di grandi
rettangoli gialli e rossi, un cagnolino nel mezzo del quadro ecc. Il tuono
generale dell’opera supera in effetto l’opera a fresco per la maggiore armonia,
per non avere que’ grigi ferrigni ne’ capelli d’Andrea, di Pietro e di Taddeo,
e per aver tinte più accordate ed alquanto meglio variate ne’ panni. I capelli
però sono quasi tutti d’un colore uniforme tendente al rosso bruno, tinta
prediletta da Marco. La tunica di Giacomo di Zebedeo è di un bel giallo
dominante, con ombre tendenti al verde, ed anche ciò prova che se tal
panneggiamento si vede talora sì oscuro nelle copie, ciò avvenne perchè
inavvedutamente vi fu adoperato il giallo santo o altro caduco colore. Questo
lavoro d’ignota mano debb’essere stato eseguito poco prima della metà del
secolo decimosesto. Il podere o cascina dove si conserva, si chiama Belcazzule.
COPIA PRESSO IL SIGNOR DAY
IN ROMA.
(1540 = 50)
Questa
copia a olio in tela è alta poco più di due braccia e mezzo, e poco meno di
cinque e mezzo larga. Sembra anteriore alla metà del secolo decimosesto. Nel
piatto di mezzo v’è un agnello intero. Matteo è barbato: imberbe è Bartolommeo.
Arbitrarie sono le tinte de’ panni: egualmente arbitrario è il fondo e gli
accessorj. Vi si vede la mano di Tommaso. Giuda ha i capelli rossi. V’è anche
la solita saliera rovesciata. Il pregio principale di quest’opera è il non
vedervisi quelle esagerazioni e caricature che in quasi tutte le altre si
veggono, sì antiche come moderne. Senza qualche autorità scritta credo impossibile
indovinarne l’autore. Dai molti arbitrj, specialmente ne’ colori, si
giudicherebbe tratta da un semplice disegno, anzichè da bozzetto o copietta
minore fatta direttamente dall’originale.
COPIA NEL CONVENTO DELLA
VETTABBIA IN MILANO.
(1 560 circa)
Nel
refettorio del convento della Vettabbia a sinistra dell’antico ingresso vedesi
una copia del Cenacolo di Leonardo. Il refettorio è assai meno alto di quello
delle Grazie, ma è all’incirca della stessa larghezza, che tutta rimane
occupata dalla pittura, tranne due piccioli pilastrini dall’un lato e
dall’altro. L’architettura vi è dipinta ad arbitrio. Ad onta della tanta
indicata larghezza, le figure non sono più grandi del naturale, e sebbene fra
loro discostate più assai che nell’originale, sono assai meno facili e pronte
nelle attitudini, le quali anzi riescono imbarazzate e false. Non conosco la
maniera di questo pittore che debbe aver fatta tale opera prima della
rinnovazione della scuola lombarda, nella seconda metà del secolo decimosesto.
Egli ha forse creduto di dare espressione maggiore alle figure coll’esagerare
le mosse delle teste, tanto semplici a un tempo ed affettuose nell’originale,
Giacomo il Maggiore sopra tutti sembra un uomo stranamente cruciato da
tormenti. Ma è inutile il dare minuti ragguagli intorno a quest’opera, non
essendo tale da fare autorità. Essa conserva bensì in generale il movimento e
la disposizione delle figure, ma non v’è neppur l’ombra del fare di Leonardo
nel resto. Anche il lume è preso a man destra per servire alla posizione delle
finestre, mentre per la stessa ragione nell’originale è a sinistra.
COPIA NEL REFETTORIO DEL
CONVENTO DELLA PACE
IN MILANO.
(1561)
Il
Lomazzo fece in sua gioventù questa copia che debb’essere stata condotta a fine
al principiare del 1561. Sembra ch’egli stesso ne facesse poco conto, almeno in
età matura, perchè nella Vita che di sè stesso scrisse, avendo circa
cinquant’anni, non la tenne degna d’essere noverata fra tante opere minori
ch’ivi descrive. Ne’ suoi Grotteschi però ne fa ricordo in un sonetto del libro
secondo, nel quale, per ragionare del Chiocca suo allievo e d’altri, prepone le
due seguenti quartine:
Pianse mesto Francesco Re
di Franza,
Quando il Melzi che morto
era gli disse
Il Vinci, che in Milan
mentre che visse
La Cena pinse ch’ogni
altra opra avanza.
Questa ritrassi anch’io in
quella stanza,
Dove mangiano i frati
senza risse
Nella Pace, ove da niun
mai si misse
Disturbo nella lor amica
usanza.
Questi
versi debbono essere di poco posteriori all’opera che, a dir vero, pari ai
versi, è meno che mediocre, e non fa autorità alcuna, tanti sono gli arbitri e
il mal garbo con cui fu condotta. La parete sulla quale è dipinta a fresco, è
larga quattordici braccia e mezzo, ed alta sei e tre quarti. Il fondo fatto a
capriccio ha due strane aperture divise da un pilastro che fa campo alla testa
del Salvatore. Tali aperture sono un rettangolo largo più di due volte
l’altezza, bizzarra e mal solida forma. Esse continuano ne’ muri laterali in
luogo de’ soliti arazzi, e tra l’una e l’altra avvi un meschino pilastruccio
dorico, cui risponde un unico triglifo a piombo nel fregio. Non meno arbitrarj
sono i colori de’ panni; sparute assai sono generalmente le tinte delle carni;
trascurato il carattere; storpiato in fine malamente il disegno. Il fondo, in
mezzo alle strane novità ed alla riprovevole architettura, ha almeno qualche
pregio d’esecuzione, e dimostra miglior pratica che non il resto, talchè si
direbbe d’altra mano. Mal a proposito il Du-Fresne, che pur era buon critico,
lodò questa meschina produzione, e dal di lui giudizio su di questa si può
argomentare quanto valga il giudizio del Santagostino e di Bartolommeo da Siena
sopra quella della Certosa, e d’altri sopra altre. Il Bianconi nella prima sua
Guida fa le meraviglie che il Lomazzo, il quale in quest’opera giovenile fece,
come ci dice a ragione, piedi giganteschi
da far paura,[13]
divenuto cieco indicasse poi accuratamente le proporzioni del corpo umano. Quanto
maggiore sarebbe stato il suo stupore, se avesse saputo che i precetti del
Lomazzo sono di forse dieci anni anteriori alla sua cecità, e di poco
posteriori se non contemporanei alla sua copia, come dimostrai nel primo libro.
Da ciò si può dedurre che nelle arti del disegno è più facile il dire che il
fare.
Un’altra
copia di questo autore pose il De Pagave nel suo elenco delle copie del
Cenacolo, e la dice dipinta nel Monastero maggiore; e ciò ch’è più singolare,
l’assicura assai bella e conservata. Sulla sua fede il Fiorillo, il Della
Valle, l’Amoretti ed altri hanno ripetuto lo stesso; ma la copia di fatto non
esiste. Di questo sbaglio stravagante in uno scrittore milanese furono
probabilmente cagione le poche figure che in una cappella della chiesa sono
state imitate dagli apostoli del Vinci, e stanvi in rappresentazione di
spettatori della crocifissione di Cristo. Forse anche il fu un cenacolo
d’invenzione dello stesso Lomazzo, dipinto a tempra, che stava altre volte in
refettorio, e ch’io, molti anni sono, feci trasportare nell’accademia reale.[14]
COPIA NELLA CHIESA DI
PONTE CAPRIASCA.
(1565)
Uno
de’ pregi, a mio credere, principali di quest’opera che occupa quasi tutta la
larghezza della parete che sta dicontro all’altar maggiore della chiesa
parrocchiale di Ponte, è l’avere inscritti i nomi di tutte le figure.
L’accordarsi di tal nomi colla storia, come nel secondo libro abbiamo
diffusamente osservato, prova la buona origine di questa iscrizione che forse
fu copiata da simile anticamente esistente sotto l’originale. Essa è pertanto
nell’ordine che qui si trascrive:
S. BARTHOLOMEVS, S. IACOB MI, S. ANDREAS, S.
PETRVS,
IVDAS, S. IOHANES, IESVS XPVS, S. IACOBVS MAI,[15] S. THOMAS,
S.
FHILIPPVS (sic), S. MATTHEVS, S. THADEVS, S. SIMON.
L’opera
che è abbastanza ben conservata, è eseguita a fresco con molta facilità, ma con
poca finezza. Le figure sono grandi al naturale. Il pittore la debbe aver
tratta da un semplice disegno a chiaroscuro, non vedendovisi ne’ colori molta
relazione coll’originale. V’è di notabile, che non vidi altrove, il braccio di
Pietro ignudo dal gomito in avanti. Mancavi la mano di Tommaso, e deboli
generalmente sono i caratteri delle teste. Non v’è però nulla in esse di
dispiacevole o di esagerato. L’autore ha abbandonato, come molti altri, la
semplice disposizione del campo dell’originale, ed ha moltiplicati inutilmente
gli adornamenti delle pareti. Non istimò oltre ciò opportuno di lasciar
campeggiare la testa del Salvatore nel cielo; ma finsevi in vece, con
espediente consimile all’adottato dal Lomazzo, due sole aperture lateralmente,
tenendo chiusa la parte di mezzo fra quelle. In tali aperture veggonsi
effigiati il sacrifizio d’Isacco e l’offerta del calice a Cristo nell’orto di
Getsemani. Queste composizioni originali del pittore sono deboli ed alquanto
trascurate, e ciò appare essere fatto assai più per generale abito dell’autore
che per volontaria trascuranza di cose accessorie. Circa al tempo in cui
l’opera fu dipinta e circa chi la dipinse, piacemi qui trascrivere una lettera
colla quale il cortese paroco di Ponte ragguagliò recentemente un amico che di
tal cose il richiese.
Ponte
Capriasca, 12 novembre 1809.
Intorno all’autore della
pittura di questa chiesa di Ponte non so dirle altro, solo che fu fatta da uno
scolaro di Leonardo da Vinci, del che fui assicurato in occasione della visita
qui fatta dalla felice memoria del fu nostro arcivescovo Visconti, per memoria
esistente nell’archivio della cancelleria arcivescovile di Milano. Ma il nome
non so se vi resti registrato. Noi qui a Ponte non abbiamo altra cognizione di
tal autore fuori che dall’antica tradizione pervenutaci dai vecchi di questo
comune, ora tutti trapassati, da me con premura da loro indagata e ritenuta in
mente, e porta questo: Che era un giovane brillante qui rifuggitosi da Milano,
ove per qualche sua bizzarria giovenile o pittoresca era venuto in disgrazia
del Governo circa l’anno
1520. Ponte allora era assai più popolato
che adesso, e trovando qui ricovero, eccitò gli uomini di questo comune a
provvedergli de’ colori, che per non istare ozioso bramava di occuparsi a
dipingere qualche cosa in questa sua chiesa. Fu provveduto di tutto, e dipinse
il cenacolo sul disegno di quello che Leonardo all’intorno di quell’epoca aveva
dipinto o dipingeva sul refettorio del monistero delle Grazie in Milano, ove si
tiene che detto giovane lavorasse assieme e sotto la scuola del suo insigne
maestro. Oltre il cenacolo nel quale imitò bene il maestro, fece qui altre
pitture, ma a sua idea e con fretta, perchè dopo qualche tempo riconciliossi, e
ripartì da Ponte. Si ha per costante tradizione, come sopra, che questo comune
non gli faceva altro che le spese del vitto, e che all’epoca della sua partenza
lo vollero questi uomini pagare, ma ricusò qualunque paga, e dopo molte istanze
l’obbligarono ad accettare un donativo di scudi settanta del paese: s’indusse
ad accettarlo, ma subito andò in questa piazza di Ponte, e tosto chiamati i più
poveri del comune, ad essi tutti li distribuì, ed anzi esso donò a questa
chiesa una fascia di seta rossa che usava portare alla cintola, e qui esiste
ancora ad uso di Continenza feriale. Tutto questo ho rilevato per fatto certo
dai vecchi miei parrocchiani ecc.
Anton
Maria Meneghelli,
curato
di Ponte Capriasca.
Un
ragguaglio a questo esattamente conforme ebb’io, sono quasi tre anni, dallo
stesso paroco, e ne scrissi ricordo allorchè mi recai a Ponte per vedere e
disegnare quest’opera coll’ajuto dell’ottimo signor Lavelli pittore. Qualunque
sia il valore che dare si voglia a questa tradizione, vi è di certo
notabilmente esagerata l’antichità dell’opera e vi è confusa l’epoca
dell’originale. Per le ricerche che feci fare da persona atta e diligente
nell’archivio arcivescovile, non trovai altro che risguardasse l’opera di
Ponte, se non un decreto del cardinal Federico Borromeo, col quale ordina che
si dipingano le pareti meridionali della chiesa, il che non pare sia stato
eseguito.[16] Pure
se, dietro la tradizione che contiene sempre qualche parte di vero, e dietro la
maniera del dipinto, è permesso di spingere più in là le congetture, io non
temerei di asserire che questa copia è di mano di Pietro Luino.
Questo
Pietro fratello di Evangelista e di Aurelio, tutti figli del gran Bernardino,
male fu confuso dal Lanzi con Pietro Gnocchi discepolo d’Aurelio. Il Lomazzo in
un sonetto consacrato a quest’amabile famiglia di pittori poeti, dopo aver
portato Bernardino alle stelle per la virtù della pittura, aggiunge:
E vostra fama sale
Ancor più in alto per
l’arte del porre
In versi quel che in mente
vi trascorre.
E a questa meta corre
Ciascun dei tre vostri figliuol, tra’ quali
Evangelista e Pietro sono uguali
Nel pinger: ma più vali
Tu, Aurelio, la cui mente
più alto spira,
Come per l’opre tue si
vede e mira.
Oltre che in dolce lira
Dolce canti i pensier e i
tuoi disegni,
Dispiegandoli in versi
ornati e degni.
E perchè ognun v’insegni,
Tutti
tre siete di pel biondo e vago
Qual fu del vostro genitor
l’imago.[17]
E
qui è da notare che non si parla affatto del valor pittorico di Pietro, ma solo
vi si dice che uguagliava nel dipingere il di lui fratello Evangelista, lontani
entrambi dal valore di Aurelio; il quale artificioso silenzio prova che il
Lomazzo non aveva molto di che lodare, e che questi due non distinguevansi gran
fatto con opere originali; e questa copia il dimostrerebbe per Pietro, come
opera la quale, sebbene non priva del tutto della grazia di quella felice
scuola, non vanta però alcun vigore di disegno nè altra potenza d’arte. Lessi
poi inscritto in uno degli archi della chiesa l’anno 1565, che deve certamente
indicare l’epoca di qualche risarcimento o riadornamento, e quest’epoca si
accorderebbe perfettamente alla età di Pietro che al par de’ fratelli fa amico
del Lomazzo.[18]
Concorre a confermarmi in questa mia opinione il vedere introdotti in questa
copia il Cristo all’orto e il sacrifizio d’Abramo, le quali storie già aveva
dipinte Bernardino nel cenacolo che fece per gli zoccolanti di Lugano, e che
dietro la paterna autorità avrà Pietro introdotte nel suo. Ma per ultima
conferma della mia asserzione osservisi nell’unica cappella della chiesa il
quadro che sembra a olio, dipinto su finissima tela, e che rappresenta la
Vergine col putto, sedente sulla Santa Casa portata da tre angeletti. Nello
spazio al di sopra della Vergine vedesi un Dio Padre, nell’inferiore san
Giovanni e santa Caterina. Sebbene non si legga su questo quadro nome o data
alcuna, la maniera lo fa giudicare dell’autore del cenacolo. Ma osservato il
quadro, osservinsi con diligenza sull’altare dell’istessa cappella due angeli
di rilievo intagliati all’antica. Essi tengono da una mano un candelabro,
dall’altra una targhetta svelta o scudo gentilizio. Nella parte superiore di
essa targhetta vedesi in piccolo la medesima Nostra Donna del quadro che
abbiamo descritto; nella inferiore vedesi un piccolo lupo. Se il piccolo lupo
che nel paese si chiama precisamente Luin,
non è lo stemma di Luini, io non saprei qual altro potesse meglio a quella
famiglia convenire. Che per altro il fosse, mei fa credere anche il Vasari che
forse per esso chiamò il padre di Pietro, Bernardino dal Lupino: come similmente fe’ il Cesariano che De Lupino lo nomina nel suo commento a
Vitruvio sotto il capo primo del terzo libro. Che poi sì il quadro della
cappella come la copia del Cenacolo sieno di Pietro anzi che di Evangelista,
l’appoggio alle seguenti lettere inscritte in entrambe le targhette PE·LV·,
cioè Petrus Lupinus o Luinus. Accordandoci ora colla
tradizione che dice che un giovane pittore, senz’altra spesa che del vitto e
de’ colori, adornasse di pitture la chiesa, è facile il credere che vi
lasciasse anche il dono de’ candellieri col suo stemma, desideroso, secondo
l’uso di que’ tempi, che di lui rimanesse ricordo in quella terra. Ma come non
si può a queste opere concedere l’antichità che porta la tradizione; così non
si accorda troppo quel generoso disinteresse dell’autore col suo esser profugo
per ragioni politiche o civili. Con un altro colpo da antiquario si taglierebbe
anche il nodo di quest’ultima difficoltà. In un antico disegno che fu già del
padre Sebastiano Resta ed ora sta nell’Ambrosiana, e che sebbene di poca
importanza, non rappresentando che un piede, pure è certamente opera del Vinci,
lessi scritto di pugno del Vinci stesso, oltre più cose che non fanno al caso
nostro, il nome di un Bernardo da Ponte di
Val di Lugano. Ora perchè non potrebbe questo Bernardo essere il famoso
pittore padre di Pietro, che così senza diminutivo è chiamato dal Lomazzo in
più d’un luogo? Di lui, come di tant’altri artefici nostri, s’ignora la patria,
e dal solo suo cognome, senz’altra autorità, venne creduto di Luino sul Lago
Maggiore. Il Ceresio in oltre fu sempre fecondo d’ottimi ingegni nelle arti del
disegno, e da secoli manda artefici, non che per tutta Italia, in Ispagna ed in
Russia. Roma stessa deve al Ceresio l’elevazione de’ suoi obelischi. Di più il
casato de’ Luini nel Luganese più frequente che altrove, l’incertezza della
vera patria di Bernardino e la memoria scritta da Leonardo non debbon lasciarsi
inosservati del tutto. Se Ponte vantasse sì fatta gloria, diverrebbe in allora
naturale che Pietro figlio di Bernardino avesse passato qualche tempo al paese
paterno, qualunque fosse la cagione ch’ivi il conducesse: si spiegherebbe
facilmente come per amor di patria, sebben forse egli nascesse altrove,
gratuitamente vi decorasse la Chiesa di sue pitture: si spiegherebbe finalmente
come i suoi paesani volessero ad ogni modo compensarlo il meglio che poteano, e
com’egli generosamente distribuisse agl’indigenti il premio a lui destinato.
Ma
per uscire una volta dalle sterili campagne delle congetture e per tornare alla
copia, conchiudo che la cosa per me più importante che vi ho trovata, è
l’accennata iscrizione per la quale ho potuto più facilmente penetrare nelle
intenzioni dell’autore, che nel secondo libro ho tentato di sviluppare.
COPIA NELL’ESCURIALE.
(1565 circa)
Se
si crede al Carducho, la copia che ancora esiste nel refettorio del collegio
dell’Escuriale fu fatta fare da Filippo II; e Francesco De los Santos che copia
il Mazzolari, dice nella sua Descrizione
dell’Escuriale che a quel re fu presentata in Valenza, e che è sì ben fatta
che poco più può essere l’originale. Lo Ximenes che aggiunse alla Descrizione
del De los Santos un catalogo de’ più segnalati artefici che abbellirono
l’Escuriale delle loro opere, loda di nuovo questa copia ove parla di Leonardo.
Don Antonio Ponz nel suo Viaggio di
Spagna la dice anch’egli assai buona e meritevole che se ne faccia gran
conto. Il Vago Italiano nel tomo
secondo delle sue Lettere ne fa pure
grande encomio, ed assicura (il che non sarebbe però molto) che sia la migliore
delle copie che si conservano all’Escuriale: Tanto rassomiglia, dic’egli, all’originale
da me veduto in ogni sua bella parte, e massimamente nella maestà, nella
vaghezza e nelle arie nobilissime delle teste. Il qual giudizio senz’altra
aggiunta fu copiato dal Conca nella sua Descrizione
odeporica della Spagna.
In
questa serie di scrittori che si copiarono a vicenda l’un l’altro, non si legge
memoria di chi abbia fatta quest’opera, e ignorandosene l’autore, manca, per
chi non la vede, la sola scorta onde giudicare del suo merito. Siccome però mi
par verisimile ch’essa sia stata fatta espressamente pel luogo dove fu posta,
considerata l’epoca in cui il re Filippo mandò ad effetto o il suo voto o
l’idea di Carlo V, erigendo il sontuoso edilizio dell’Escuriale di cui pose la
prima pietra nel 1563, sembra evidente che non si possa tal copia porre in
epoca a quella anteriore; ed è anzi da credere che parecchi anni dopo sia stata
eseguita, adornandosi a poco a poco quel magnifico luogo. In allora si tocca ad
una età, la quale, tranne il Melzo vecchissimo, non vantava più alcun allievo
di Leonardo, e in cui l’originale aveva di già sofferti i danni, di che fanno
testimonio gli scrittori citati nel primo libro. Da tali osservazioni non
risulta grande autorità per una copia destinata a paese lontano in cui le arti
non erano ancora molto elevate e conosciute, e dove trattandosi di un ritratto
di sì mirabile e famoso originale, si doveva con poco sforzo ottener grande
effetto. Ciò non ostante, il signor Le Brun pittore francese che vidi l’anno
scorso in Milano di ritorno dalla Spagna, mi assicura che questa copia, oltre
l’essere benissimo conservata, è a molti titoli pregevole e in generale di buon
carattere: non seppe però nemmen egli, sebbene esperto conoscitore delle
maniere delle varie scuole, indovinarne o sospettarne l’autore. Il signor
Giorgio Wallis, valente pittor di paesi, che ha veduto quest’opera in questo
stesso anno 1810, mi assicura che è di molto annerita, e che il colore vi sta
per cadere a cagione dell’umido grande che domina quel luogo nel verno, e del
gran caldo che vi regna l’estate. Un simile danno dic’egli che hanno sofferto
quasi tutte le dipinture in tela che sono all’Escuriale, cioè che tutte sono
degradate dall’esser loro antico per annerimento e per iscrostamento. La copia
però da lui veduta da vicino e da lui asserita ragionevole, non ha avuto verun
ritocco. I quali recenti autorevoli testimonj del suo pregio, sebbene non si
accordino sul suo stato presente, mi sembrano migliori elogi di quest’opera che
non tutti i citati di scrittori poco esperti dell’arte o pregiudicati per altre
ragioni.
NEL MONASTERO DI S.
VINCENZO IN MILANO.
(1570 circa)
Anche
il refettorio del soppresso monastero di san Vincenzo vantava il suo cenacolo.
Esso è dipinto a fresco e le figure sono grandi al naturale. La maniera
somiglia a quella de’ discepoli di Aurelio Luino. Pietro Gnocchi, forse il più
distinto fra loro, aveva dipinta in gran parte la chiesa: si potrebbe credere che
sua parimente fosse la pittura del refettorio. Se è sua, non gli fa grande
onore, essendo lavoro mediocrissimo per disegno e per colorito. È però molto
notabile un nuovo sviluppo che l’artefice diede alle figure in (questa libera
imitazione anzi che copia. La figura di san Tommaso, in vece di stare dietro
quella di Giacomo il Maggiore, vedesi qui isolata e col braccio e la mano
sinistra esattamente nell’atto che la detta mano che in molte copie si vede, fa
supporre di che si è di già ragionato nel secondo libro.
COPIA DI SESTO CALENDE.[19]
(1581)
Nell’antica
chiesa parrocchiale di san Donato in Sesto Calende, la eguale si chiama anche
al presente l’abbadia perchè tale fu anticamente, sulla parete sinistra della
cappella detta di san Pietro, vedesi una meschina copia del Cenacolo dipinta a
fresco, alta braccia quattro ed once otto, e larga braccia dieci e once sette e
mezza. Nel fondo in luogo della porta e delle finestre che l’autore soppresse,
si veggono due compartimenti o quadri, l’un de’ quali rappresenta la nascita
d’Eva, l’altro il peccare d’Adamo. Colla nascita d’Eva alluse il pittore alla
cagione del peccato; col peccar d’Adamo alluse alla cagione del sacrifizio di
Cristo. Osservansi in questa copia infiniti arbitrj. È inutile il notare le
mancanze che vi si scorgono in varie parti, poichè vi manca nel tutto disegno,
colorito ed ogni sana parte dell’arte. Nella disposizione delle gambe
assomiglia alquanto alle copie di Marco, con che potrebbesi congetturare che
almeno per questa parte la quale al tempo in che la copia fu fatta, era già
perduta nell’originale, fosse stata tratta o dalla copia di Castellazzo o da
quella della Certosa di Pavia. Da due cartelli dipinti nelle pareti laterali
del quadro sappiamo per due iscrizioni chi ’l fece e chi l’ordinò. Sarebbe
desiderabile per la storia dell’arte che simili iscrizioni si leggessero in
tutte le pitture più importanti; ma sventuratamente abbondano più nelle opere
mediocri che nelle buone.
La
prima che vedesi a destra di chi legge porta le seguenti parole:
(sic)
IOANNES BAPTISTA
TARILLVS DE CVREIA
VALLIS LVGANI PINGE
BAT ·
ANNO 1581 ·
L’altra
a sinistra dice:
SOCIETAS SANCTISSIMI
CORPORIS XPI EX ELE
MOSINIS HOC FIERI
FECIT = ANNO 1581 .[20]
Chi
si trovasse ozioso a Sesto e fosse spinto dalla curiosità a vedere questa
copia, ristori il tempo che vi perderebbe, coll’osservare la pittura a fresco
del battistero, la quale, sebbene abbia molto sofferto, dà ancora sufficiente
idea di bella e savia composizione, ed è certamente opera d’un allievo della
scuola leonardesca. Un gruppo di dottori che ragionan fra loro, è composto
maestrevolmente ed è di ottimo stile.
Questa
abbadia è antichissima di forse mille anni, ma fu per la maggior parte
modernamente rifatta, non che risarcita. Vicino al battistero vi è un’antica
tavola a scompartimenti in fondo d’oro, non senza merito per l’età sua. Sebbene
se ne ignori l’autore, può dare idea dell’arte di quattro secoli fa. In una
sagrestia della chiesa sotterranea vi sono pure de’ freschi di un’antichità
assai remota. Vi è di singolare un angelo sedente che suona un violino tedesco.
Sopra la porta poi della chiesa esternamente si vede una Vergine col putto e un
san Rocco, opera assai antica della quale è autore un Bernardino Molina.
COPIA DI PIETRO PAOLO
RUBENS.
(1600 = 10)
Poco
dopo il millesecento dee porsi la piccola copia del Cenacolo fatta dal Rubens.
Esiste al presente in Madrid presso il duca di Hijar. Ho udito dire da chi l’ha
veduta che è talmente tradotta nella sua maniera, che appena si riconosce donde
proviene. Forse è quella che servì per la stampa del Soutman.
COPIA NELLA PINACOTECA
AMBROSIANA.
(1612 = 16)
Benedetto
Sossago, nel quarto libro de’ suoi Epigrammi pubblicati nel 1616, alluse
principalmente a questa copia ordinata dal cardinale Federico Borromeo,
allorchè cantò que’ versi:
Dum caput expirans, Pictor Leonarde, reclinas,
Gallorum dominus brachia supposuit.
Ecce tuas tabulas Federicus servat ab ævo;
Hic
mentis custos, corporis ille fuit.
E
veramente questa copia, quantunque non presenti le figure che dalla mensa in
su, è la sola pienamente autorevole e fatta assolutamente all’oggetto di
conservare, per quanto in allora si poteva, la memoria del moribondo originale.
Il ragguaglio che sono per darne, è tratto da quanto scrisse e pubblicò lo
stesso cardinale nel suo libro intitolato Museum.[21]
Questo valentuomo che sì bene intendeva il valore di tanta opera, veggendola
prossima all’ultima sua ruina, imaginò di trovar modo con che ripararvi. Chiamò
a sè un pittore esperto e diligente, e mostrandogli il vicino pericolo di tutto
perdere, lo impegnò a trarne copia il meglio che si potesse. Ciò debb’essere
avvenuto intorno al 1613 o poco dopo, come si può giudicare dall’epoca in cui
furono stampati i versi del Sossago. L’artefice, disperando dell’esito dal
vedere le croste dell’intonaco cadenti, e il più delle figure guaste o svanite,
deluse da principio la lusinga concepita dal cardinale d’averne un intero
ritratto, e solo si offerse di copiarne qualche testa di quelle in cui era
minore il danno del tempo e delle altre circostanze. Accontentossi di mala
voglia il cardinale, e affrettando non pertanto il lavoro, cominciò ad averne
due o tre teste delle quali fu oltremodo soddisfatto, e il pittore, veggendo
l’opera riuscirgli meglio che non s’aspettava, prese animo a seguire e accrebbe
colle proprie le speranze del cardinale. Così dopo gran tempo, con infinito
tedio e suo e d’altri, in molte riprese, tutte le tredici teste furono ridotte
come ora si veggono. E perchè il pittore volle poter d’appresso osservare le
minute cose di ciascheduna, non si servì già d’una sola gran tela per tutte, la
qual cosa l’avrebbe costretto a copiare lungi molte braccia dal modello; ma in
tante piccole tele quanti sono i principali gruppi, le dipinse, indi compiuta
l’opera riunì il tutto con quell’esattezza che potè maggiore. Della fede ed
accuratezza posta in questa impresa non si può dubitare, poichè oltre che il
pittore graticolò e lucidò ognuna delle teste, ebbe la sorte di trovare a quel
tempo gli antichi dintorni della stessa grandezza, de’ quali ora, per quante
ricerche io m’abbia fatte, non ho potuto rinvenire memoria alcuna. In questo
modo giunse ad ottenere il suo intento il buon cardinale il quale aveva
carissimo questo lavoro sopra gli altri del suo museo, prevedendo di quanta
utilità poteva un giorno riuscire, siccome solo vero deposito de’ pochi
rimasugli della più grand’opera del Vinci. Egli vi fece inscrivere le seguenti
parole che dallo stile si scorgono dettate da lui:
RELIQVIAE COENACVLI
FVGIENTES HAC TABVLA EXCEPTAE SVNT
VT CONSERVARETVR
LEONARDI OPVS.
Così
si può dire col Bosca, Ostendinms item
exemplum vinciani Cœnaculi,
quod ille (Vincius) pulcherrimum in triclinio dominicani cœnobii ad ædem
gratiarum descripserat.
E ne abbiam debito alla provida mente del Borromeo, la quale, segue a dire il
Bosca, cœnæ illius imaginem pingi jussit in tabula,
cum sœvientis
aquilonis afflatus dominicanæ
cœnationi
historiam fere totani abstulerit.
Egli è certo pertanto che questa copia, al tempo in che fu fatta, doveva
produrre un bonissimo effetto; ma il genere de’ colori che vi furono impiegati,
l’ha fatta di tanto annerire che in alcuni luoghi non si giunge a scorgere qual
tinta vi si volesse imitare. Questo generale abbassamento de’ colori che tolse
tutta l’armonia dell’opera, e l’esser essa collocata in alto in una sala ricca
di altre opere insigni, anzi precisamente al di sopra del mirabile cartone
originale della Scuola d’Atene, furono cagione che rimanesse a lungo inosservata,
e che nessuno degli artefici del disegno che studiarono l’opera di Leonardo, ad
essa avesse ricorso. Del ragguaglio con cui il cardinal Federico illustra
questo monumento, sebbene fosse stampato al suo tempo, non s’ impresse che una
dozzina al più d’esemplari per uso della Biblioteca e Pinacoteca, costume che
quel cardinale tenne in tutte le prime edizioni de’ varj suoi opuscoli, per tal
ragione quasi del tutto sconosciute. Rara parimente è la seconda edizione del
suo Museo procurata in Firenze dal
Gori, nè credo che altra ne esista. Oltre ciò nella Pinacoteca non se ne solea
tenere nessun esemplare nè della prima nè della seconda, e sarebbe stato, a dir
vero, poco utile per le continue mutazioni ed aggiunte, e negli ultimi tempi
per le perdite fatali delle cose migliori. Ad ogni modo non si tenne questa
copia in quel conto che meritava, e ad onta degli elogi del Borromeo che aveva
buon giudizio e senso non volgare per le cose delle arti, appena venne
modernamente chiamata non ispregevole.
Intanto da questa sola, perchè per testimonio non solo contemporaneo, ma della
persona stessa autorevolissima che la commesse, graticolata e lucidata, si ha un’idea giusta e precisa della
disposizione esatta e del grado vero de’ moti delle figure. Si vede parimente
per essa dove era maggiore, dove meno sensibile il guasto dell’originale. La
testa del Salvatore è la men buona di tutte, da che si può congetturare che nel
dipinto del Vinci, non solamente era imperfetta, come da più sani storici siam
fiuti certi, ma che anche quel primo imperfetto lavoro doveva, più d’altre
molte parti dell’opera, aver sentite le ingiurie degli anni, ed esser tale da
non potersene avere una ragionevole imitazione. Perciò il copista in questa
testa più che altrove si abbandonò alla propria maniera, e non riuscigli opera
degna del suo modello.[22]
Anche nelle mani del suo san Filippo apparisce ammanierato e licenzioso, e
richiama alquanto il fare di Giulio Cesare Procaccino di cui forse fu
discepolo. Così trovansi alcuni panni negligentemente eseguiti, e alcune altre
parti trasandate con incuria, e tutto ciò probabilmente non tanto per tedio
d’una lenta fatica, quanto per la ruina e mancanza totale di dette parti nella
parete delle Grazie.
Resta
ora a dire dell’autore, ignoto al Fiorillo e agli altri che di questa copia
parlarono: e fu un Andrea Bianchi, milanese, soprannominato il Vespino. Ma nulla v’ha fra le opere
stampate che ce lo ricordi, tranne alcuni passi del Sormani e del Torre che
parlano di qualche suo lavoro, e il Füessly
che copiò quegli autori. Egli però fu stimato assai dal lodato fondatore
dell’Ambrosiana, il quale non solo ricercollo per affidargli l’opera del
Cenacolo, ma lo incaricò di gran numero di altre copie di opere insigni, come
si può fra le note vedere.[23]
Dai suoi lavori appare assai diligente nell’imitare la maniera leonardesca (chè
in quella quasi esclusivamente si esercitò copiando o da Leonardo o da’ suoi
imitatori), e si vede, eccetto quanto al di sopra notai, dimentico affatto
della propria. Ma a sì fatta precisione nell’imitazione del disegno e del
carattere non aggiungeva che una mediocre pratica di colorire, talchè le opere
sue sono per lo più annerite e in molte parti presso che perdute, e
specialmente in quelle nelle quali il colore non è sostenuto dal bianco di
piombo. Le cose sue migliori, oltre alcune parti del Cenacolo, sono alcune
teste in tavola tratte da opere distrutte del Luino il vecchio, e forse d’altri
della scuola vinciana. In queste ha evidentemente usato miglior metodo, migliori
mestiche, e forse imprimiture bianche o almen chiare. S’ignora l’anno in che
nacque, e quello in che morì questo pittore: forse fu vittima, come Daniello
Crespi e tant’altri valentuomini, della peste del 1630, sì fatale alla nostra
città.
COPIA NEL MONASTERO DI S.
MICHELE ALLA CHIUSA.
(1626)
Dalla
scuola di Camillo Procaccino o pure da quella de’ fratelli Roveri, detti i Fiammenghini, debb’essere uscito
l’autore della mediocre copia che ancora si vede nel refettorio del soppresso
monastero di san Michele alla Chiusa. Quest’opera è dipinta a fresco: le figure
vi sono di grandezza naturale. È arbitraria in ogni parte, e vi sono di più
aggiunte varie figure che portano delle vivande. Il fondo imita la
continuazione della volta del refettorio e rimane aperto con vedute di
architetture e di paese. In un cartello, posto al di sopra di quest’opera, si
legge l’anno 1626 in cui pare essere stata eseguita. Nulla in essa si vede che
sia degno dell’originale.
NUOVA COPIA IN SAN
BENEDETTO DI MANTOVA.
(1631)
Se
la congettura intorno alla copia del Monsignore e le asserzioni di alcune
persone degne di fede da me interrogate avessero fondamento, a quest’epoca può,
come vedemmo, collocarsi la copia che venne sostituita all’antica, fosse nella
libreria, fosse nel refettorio di san Benedetto in Polirone.
COPIA NELLA GALLERIA DI
MONACO.
(1650 circa)
Sono
debitore della notizia di questa copia a S. A. il Principe Reale di Baviera, il
quale ama molto e protegge generosamente le arti, e allorchè fu a Milano nel
dicembre del 1808 onorò più volte di lungo esame i miei studj sopra Leonardo.
Nè limitossi la bontà del lodato principe ad informarmi di tal opera che si
conserva nella magnifica galleria di Monaco: egli si compiacque di mandarmene
una copia in disegno lucidata dal quadro; della quale gentilezza gli conserverò
sempre infinita gratitudine. L’opera è attribuita a Niccolò Possino, su di che
dalla vista del solo disegno non si può giudicare. Il fondo è arricchito di
molte colonne, e gli accessorj sono cambiati ad arbitrio. Cambiata parimente è
l’attitudine di Matteo ed alterate notabilmente quelle di alcuni altri de’
commensali. Il quadro è alto un braccio e un quarto circa, e largo poco oltre
due braccia.
COPIA GIÀ NEL CONVENTO
DELL’OSPEDALETTO.
(1660 circa)
Io
vidi, molti anni sono, questa copia in tela a olio, ma altro non so ricordarmi
se non che non era tale da farsi osservar lungamente. Le figure sono di
grandezza naturale: il disegno debole; il colorito sbiadato e senza vigore.
L’ho sentita da alcuni attribuire ad uno de Piola’ di Genova. Esiste ora in
Venezia.
COPIA NEL REFETTORIO DI
SAN PIETRO IN GESSATE.
(1675 circa)
Agostino
e Giacinto figli, e probabilmente discepoli di Giacomo Antonio Santagostino,
sono gli autori di questa copia fatta già pel refettorio de’ gesuiti in san
Fedele, tolta poi di quivi per esser posta nel refettorio dell’orfanotrofio di
san Pietro in Gessate ove al presente si vede. Essa è dipinta a olio sopra una
tela d’un terzo circa minore in grandezza della parete sulla quale è dipinto l’originale,
essendo la sua altezza di braccia cinque e once tre milanesi, e la larghezza
braccia dieci e mezzo.
Desiderosi
gli autori di conservare nello spazio stabilito la massima grandezza delle
figure, le accostarono fra loro quanto poterono sulla linea orizzontale; ma per
acquistar mole, perderono infinitamente dal lato de’ moti che divennero
languidi e falsi, perchè fra loro impediti e privi di quello slancio e di
quella prontezza per cui è mirabile il Cenacolo vinciano. Il totale anneramento
dell’opera, in cui furono impiegati colori non resistenti al tempo e troppo
oleosi, la cattiva imprimitura, il fumo e l’umido de’ cibi, cui da quasi un
secolo e mezzo sta esposta, sono cagione non solo dell’adombramento d’ogni
tinta, ma della perdita totale dell’effetto, sempre debolissimo in ogni opera
di questi autori. In mezzo però agli arbitrj infiniti di questa copia che al
par di molte altre potrebbe meglio dirsi un’imitazione, non si scorgono le
ordinarie caricature degli altri copiatori, e la testa di Giuda specialmente
conserva molta espressione senza le stravaganti deformità che si osservano in
particolare nelle copie di Marco.
I
fratelli Santagostini furono, al pari del padre loro, mediocri pittori di
pratica. La loro maniera è una debole mistura di quella di Giulio Cesare
Procaccino di cui fu discepolo Giacomo Antonio, e dell’altra più fiacca del
cavaliere Del Cairo. Agostino pubblicò nel 1671 il librettino in 16.° che già
citammo, in cui diede un catalogo delle più insigni pitture della nostra città,
pieno, a dir vero, d’errori, d’inesattezze e di ridicole esagerazioni, ma non
pertanto di qualche utilità, per non esservi di meglio a quella infelice epoca.
A ragione l’Argelati[24]
desidera che quest’opuscoletto venga riprodotto meliore criterio e colle necessarie aggiunte; e più sarebbe ora da
desiderarsi e perchè venissero con miglior cura conservate le cose che ci
rimangono, e perchè si potesse aver notizia del luogo ove stanno al presente le
molte che vennero traslocate.
Questo
Agostino Santagostini o di Sant’Agostino non debb’essere diverso dall’incisore
dello stesso nome, menzionato dal padre De Angelis nelle Notizie
degl’Intagliatori aggiunte all’opera del Gandellini.
VARIE ALTRE COPIE MINORI
(Dal
1550 in avanti)
L’autore
del libro intitolato Como ed il Lario,
dove ragiona de’ quadri della Gallietta,
scrive come segue: Insigne, per esempio,
è la copia della rinomatissima Cena di Leonardo, e tiensi fattura di Francesco
Monsignore. L’esattezza e l’abilità vi spiccano del copista, e questo dipinto è
sull’asse. Mi duole dovermi allontanare dal parere dell’illustre autore cui
debbonsi molte notizie intorno alla storia delle arti di Como; ma non
pretendendo io mai colla mia distruggere l’altrui opinione, procedo liberamente
nella esposizione de’ miei divisamenti anche allorquando si oppongono
all’altrui autorità, sul cui valore, come su quanto la pratica e l’amor
dell’arte mi fa dire, giudicheranno, quando che sia, coloro che tal cose
intendono ed hanno in pregio.
Questa
tavoletta adunque, larga due braccia e un quarto circa, e poco oltre un braccio
alta, è dipinta assai mediocremente, ed è opera debole in tutte le parti
dell’arte. Nel modo generale somiglia alquanto alle note copie di Marco, se non
che è un poco meno caricata nelle fisionomie. Anche le tinte somigliano in gran
parte alle usate da quell’autore, e i capelli specialmente vi danno in quel
solito suo rosso bruno come nella copia di Castellazzo. Le mani e i piedi
annunziano la stessa origine, essendo in tutto senza grazia e mal disegnati. Vi
si scorge la mano di Tommaso che prende il coltello; la qual circostanza
avvalora la mia congettura circa il tipo donde deriva. Tutta l’opera è
ritoccata generosamente da mano inesperta, il che contribuisce a scemarne il
pregio. Ciò che in essa sarebbe più degno di nota, se l’opera fosse più
importante, si è l’iscrizione F. G. M.
di carattere antico e originale, la quale vedesi sulla tovaglia a sinistra
dello spettatore. Ma nemmeno tali lettere si accomodano alla opinione del
citato autore che attribuisce questo lavoro a Francesco Monsignore. Meglio si
accomoderebbero a Fra Girolamo Monsignore
suo fratello, se l’opera non fosse almeno di mezzo secolo posteriore e se la
maniera dell’opera fosse degna di lui. Ma ad ogni modo credo impossibile
indovinare dalle indicate iniziali chi fosse l’autore di tal copia, perchè il
poco merito di essa lo dimostra oscuro e lo condanna ad essere escluso dagli
abbecedarj anche più numerosi.
Chi
avesse pertanto occasione di vedere questo quadretto, si pascerà assai meglio
la vista osservandone un altro che gli sta collocato al di sopra,
rappresentante la Vergine col putto, due angeletti e sei persone benissimo
ritratte dal naturale in atto di orare. La composizione ne è semplice e
graziosissima. Osservi anche, come opera uscita dalla scuola di Leonardo, un
quadro di ricca e bizzarra invenzione che rappresenta Enea che visita Didone in
Cartagine.
Assai
più pregevole mi parve una copietta esistente in Castelmarte presso il signor
Giulio Ferrario. Essa è di pari altezza con la descritta, ma è di circa tre
once men larga. Non ha nota veruna onde poterne arguire l’autore: l’epoca
dovrebbe di poco eccedere la prima metà del secolo decimosesto. Non vi si vede
il solito ornamento delle tappezzerie: vi si veggono bensì le portine laterali
da molti copisti soppresse, e qui sono alte come la porta e le finestre del
fondo. Non vi si veggono altre cose notabili, ma, ad onta di varj difetti e di
molto abbassamento nelle tinte, parmi doversi a questa il primo luogo fra le
copie piccole da me viste, eccettuandone però la descritta di san Barnaba, la
quale, sebbene non superi questa in disegno, la supera in antichità e in
autorità di scuola.
Un’altra
simile in grandezza a quella della Gallietta è posseduta in Milano dal signor
segretario Masera. Apparisce della stessa epoca delle antecedenti o di poco
posteriore. Le tinte vi sono arbitrarie, e vi si vede il solito annerimento de’
verdi e degli azzurri prodotto dall’uso del verderame, del giallo santo,
dell’indaco e d’altri colori fallaci che non reggono al tempo. A differenza di
molte altre questa copia pare derivare dall’originale delle Grazie: quindi le
teste sono moderate nelle forme assai più di quelle che provengono dalle copie
di Marco. In generale vi domina una semplicità ed un’armonia maggiore che in
altre non si scorge; ma il disegno n’è debolissimo, le figure pesanti e il
tutto senza grazia. Non vi manca la mano di Tommaso. Il Salvatore ha il capo
poco inclinato come nell’originale. Le teste non hanno aureole. Non credo
possibile indovinarne l’autore, non riscontrandovisi alcuna delle maniere
conosciute.
Dello
stesso tempo apparisce eseguita una copietta in arazzo che si conserva in
Milano presso il proposto di sant’Ambrogio. Le figure di poco vi eccedono il
mezzo palmo in altezza: sono alquanto tozze, e richiamano un tal poco la
maniera di Bernardino Lanino: con che potrebbesi avere qualche barlume di
lontana congettura circa la scuola dell’autore. Vi è indizio della solita
saliera rovesciata. Manca la mano sinistra di Tommaso. Pietro tiene nella destra
il coltello, ma non appoggia il carpo al fianco: quindi l’atto è meno pronto ed
espressivo, ma non lascia d’essere naturale. Taddeo non tiene la sinistra
appoggiata alla mensa. La testa del Salvatore è stata modernamente mal
risarcita. Il fondo antico manca, e fu male restituito in seta bianca. Il
complesso del lavoro non è spregevole, e vi ha qualche testa di buon’aria e
carattere. Le attitudini però sono stentate e pochissimo serbano
dell’espressione dell’originale.
Un’altra
copia parimente d’ignota mano, larga ventisei once circa ed alta venti, mi
venne comunicata dal signor Commerio pittore. Si accorda in epoca colle tre
descritte. Il carattere di varie teste, la molta inclinazione di quella del
Salvatore, il paese del fondo, certe righe gialle ne’ travicelli ed altre note
facili a riconoscersi la fanno credere derivata dalla copia a fresco di Marco.
Le tinte, già alterate a capriccio dal pittore, soffersero anche grave
alterazione dal tempo, specialmente negli azzurri e ne’ verdi anneriti al
solito per mala scelta e mal uso de’ colori. Il pavimento è fatto a marmi di
varie tinte; v’è la mano di Tommaso: le teste hanno le aureole. Anche questa,
come il più delle altre grandi e piccole, non fa autorità che dove si accorda
colle migliori.
Nell’istesso
tempo all’incirca in cui furono fatte queste copie, fu, cred’io, fatto anche il
disegno grande che stava per l’addietro presso i conti Casati e che da molti
scrittori è attribuito a Leonardo. Esso è alto circa quattordici once ed è
largo tre braccia e un quarto. Il suo pregio principale sta nell’antichità, e
che che ne dica il Carli nelle note al poemetto latino sull’Intaglio, sembra
lavoro eseguito di reminiscenza o pure sopra qualche schizzo in piccolo, cosa
usata sovente in que’ tempi. Chi bramasse averne un’idea, vegga la stampa che
ne trasse il signor Domenico Aspari, professore dell’accademia reale, nella
quale però credette di dover sopprimere i piedi, perchè quelli che vedonsi nel
disegno sono di moderno risarcimento, dal De Pagave attribuito al Sassi. Coloro
che credettero quest’opera di mano di Leonardo non sapeano che fosse il
disegnare, non che il disegnare di tanto uomo.
Per
un secolo circa, dopo l’epoca di queste opere, non mi avvenni nè in piccole
copie nè in disegni, se si eccettuano due cattive miniature in pergamena, le
quali, anzi che copie, possono chiamarsi arbitrarie imitazioni. La copietta poi
a olio che si vede nella galleria dell’arcivescovado, alta poco oltre once
sedici e larga men di ventotto, sembra fatta dopo la metà del secolo decimosettimo
e non ha pregio d’arte che vaglia. Un’altra, fatta forse al finire di quel
secolo o al principiare del seguente, esiste presso il signor Marco Cigalini;
nè vanta migliore autorità, eseguita, com’è, arbitrariamente in ispecie nel
fondo d’infelice architettura, adorno di pilastri e bassirilievi. Non è però
che dalla metà del secolo decimosesto alla metà del seguente non siensi fatte
copie piccole e disegni in buon numero. Le stesse copie maggiori che abbiamo
descritte provano che ne furon fatte varie minori, sulle quali quelle prime
grandi soleansi eseguire. Molte altre ne saranno state fatte da pittori per
loro studio privato, perchè, sebbene l’opera fosse perduta per l’effetto
generale, pure dovea conservare qualche parte sana, e almeno il poco che vi si
vedeva, era di mano dell’autore, e dovea bastare per attirare gli studiosi.
Dopo
il risarcimento del Belletti che fu del 1726, cominciano di nuovo a vedersi
copie piccole, disegnate e dipinte. Sono facili a riconoscersi e alla cattiva
maniera e alla mano di sei dita data barbaramente dal Bellotti a Giacomo il
Maggiore, creduto Tommaso. Ho veduto, da questo tempo fino al ritocco del
Mazza, cinque disegni e alcune copie colorite, il tutto pessimo. Uno di que’
disegni era di mano del padre Gallarati che ne fece anche una copia in
miniatura, larga circa due braccia, della quale si trovano elogi nel Giornale
di Roma e nella Guida di Milano stampata nel 1778 in francese. Ma ad onta di
quegli elogi e ad onta degli ajuti che il Gallarati mendicò da tutti i pittori
del suo tempo che proverbiavano la sua opera col titolo di pila dell’acqua santa, la copia riuscì mediocrissima; nè poteva
essere altrimenti, non avendo il Gallarati che una meschina pratica senza
alcuna scienza. Migliori d’assai furono alcuni disegni fatti da poi da pittori
francesi e italiani, per quanto però permise lo stato dell’originale e la
maniera di ciascheduno; nè dee rimanere senza ricordo una grande miniatura
recentemente eseguita in avorio da una signora milanese, al cui proposito mi si
fa luogo di accusare di troppa modestia e ritrosia in mostrare le loro opere,
varie gentili e valenti coltivatrici del disegno della nostra città, per lo che
a danno del vero, sebbene con apparente giustizia, si crede dagli stranieri che
le belle arti sieno fra noi meno che altrove care e pregiate presso il bel
sesso.
Ma
per chiudere competentemente i ricordi delle copie, e per non lasciare
incompiuta la serie cronologica delle autorità che hanno servito per la mia cui
serbo l’ultimo capitolo del presente libro, credo non poter senz’accusa tacere
delle stampe del Cenacolo, e parmi non debba riuscir discaro che qualche cosa
io aggiunga intorno alle imitazioni più notabili di questa celebre opera.
DELLE STAMPE DEL CENACOLO.
Cominciando
adunque dalle stampe, io son d’avviso che fra gli artefici di primo grido
nessuno sia stato dagl’intagliatori trattato meno discretamente di Leonardo.
Nel tempo che le opere sue erano in buon essere e facevano la meraviglia del
mondo, non vi fu intagliatore di vaglia che pensasse a tramandarcele in modo
che di quelle fosse degno: quando poi cadde in pensiero di occuparsene a
qualche buono intagliatore, le opere che più importavano, erano spente del
tutto. Se il Raimondi che ci serbò qualche pezzo del cartone di Michelagnolo, avesse
fatto lo stesso di quello di Leonardo, ben altra idea si avrebbe della
battaglia d’Anghiari, di quella che ci serbò l’Edelink copiando una caricatura
del Rubens. Che se poi o egli o il Ghisi o il Vico ci avessero tramandato un
diligente intaglio del Cenacolo, son certo che si avrebbe per esso più assai
dell’opera originale che non si ebbe da tante licenziose copie, esagerate
presso che tutte di espressione e di forme, e troppo in generale lontane
dall’idea che dell’opera del Vinci ci fa concepire, anche senza riguardarne gli
avanzi, la sola tanta sua fama, ottenuta in un tempo si fecondo di opere
eccellenti. Ma la fortuna ha voluto altrimenti, e le più antiche stampe del
Cenacolo sono di mano debole e sconosciuta, e lungi dal recarci qualche notizia
dell’originale, lo storpiano sì malamente che pessime imitazioni anzi che copie
si dovrebber chiamare. E s’esse sono pure rarissime, non si dee credere che tal
rarità provenga dalla bellezza loro: al contrario ne fu cagione il dispregio in
cui furono tenute, siccome opere di rozzo magisterio e inette allo scopo di
rappresentare in qualche modo il dipinto di Leonardo.
La
prima pertanto che si conosca e che ho potuto osservare nella ricca collezione
di stampe antiche e rare de’ signori Maino e Stork, pare fatta prima del secolo
decimosesto. Essa è larga circa tre quarti di braccio ed è men d’un quarto
alta; intendo l’esemplare da me visto, il quale fu diminuito per alto e per
largo, e per alto più notabilmente. Questa stampa, come ho avvertito altrove,
debb’essere stata eseguita, lungi dall’originale, su qualche schizzo o disegno
scorrettissimo in ogni parte. Le teste si somigliano quasi tutte; le mosse sono
alterate; le distanze cangiate; l’effetto nullo. Vi manca la mano di Tommaso:
Pietro non ha il solito coltello: Matteo è barbato: Giuda ha bensì la borsa, ma
non l’abito stravagante che si vede nell’originale e nelle copie migliori: ha
in vece una tunica comune non ristretta alla scollatura da lembo ornato come le
altre, ma semplice ed aperta come le tuniche volgari romane. In un cartellone
appeso alla tovaglia leggesi con alcune abbreviature: Amen dico vobis quia unus vestrum me traditurus est. Nel fondo
vedonsi certe casette di cattiva forma e fuor di prospettiva. Presso l’apostolo
Simone vedasi un brutto cagnolino; piedi, panni, mensa, tutto v’è fatto ad
arbitrio. Ogni cosa in fine dimostra che quest’opera fu fatta soltanto per una
memoria della composizione, e sventuratamente sì fatto progetto cadde in mente
ad artefice ignorantissimo, il quale ornò l’opera a suo modo di quegli
accessorj che dettogli il capriccio. Fra questi è notabile un gran pesce posto
nel piatto che si vede davanti al Salvatore. Se la cattiva maniera e le tante
altre licenze dell’opera non dimostrassero che questo pesce vi fu posto dall’artefice
a capriccio senz’alcuna erudita veduta, si potrebbe in esso riconoscere il
mistico pesce di Tobia, il simbolo di Cristo, quello pel quale i cristiani
furono per sino chiamati pescicoli.
Può in tal proposito vedersi la Dissertazione del camaldolese Costadoni e
l’altra di Pier Tommaso Ansaldi, nelle quali si ragiona a chiare note del gran pesce Cristo, anzi della sua carne
cotta sul Golgota: opera lodata da Giovanni Lami nelle Novelle letterarie.
Che peccato che que’ dissertatori non
conoscessero questa stampa!
Nella
stessa collezione ho veduto un’altra stampa che sembra essere stata copiata
dall’antecedente ed è in fatti a rovescio. Fanno anche così giudicarla le teste
barbate, le fisionomie, le mani, ecc. Nel fondo sono chiuse le finestre e la
porta: in vece sono da un lato aperti i quadrati delle tappezzerie. In alto v’è
una gran tenda, la qual cosa si vede ripetuta nella stampa del Soutman. Vedesi
anche il pesce avanti a Cristo, con che confermasi l’indicata origine di questo
meschino intaglio. La parte inferiore manca nell’esemplare da me veduto; quindi
non so se vi fosse scritto il nome dell’autore.
Dopo
queste che certamente sono le più antiche, avvene un’altra, all’acqua forte
parimente, d’autore sconosciuto, la quale non supera in pregio le antecedenti:
solo le agguaglia in rarità. Non so poi se debbasi porre per quarta quella
intagliata all’acqua forte dal Soutman o un’altra a bulino che sembra di scuola
tedesca o fiamminga. Parlando di quella del Soutman, dico riconoscersi meglio
la Gerusalemme del Tasso nelle traduzioni in dialetto milanese o bergamasco, di
quello si riconosca in questa stampa la maniera di Leonardo. Il Mariette non
mostra buon giudizio dicendo in essa ben inteso il chiaroscuro.
L’altra
a bulino è pessima per ogni parte ed ha molte capricciose variazioni
specialmente nel campo.
Da
queste si salta fino alle stampe che diedero il Caylus, il Ryland e l’Aspari,
tratte da tre diversi disegni tutti creduti originali. A dir breve passarono
ben trecent’anni senza che il povero Cenacolo fosse onorato d’un intaglio
ragionevole. Son persuaso che la sua mina fu in gran parte cagione di questa
dimenticanza, ma non dubito che vi abbia contribuito non poco anche il mal
gusto delle arti che dominò per l’appunto allorchè fiorirono forse i più eccellenti
intagliatori. In fatti quando negli ultimi tempi cominciarono nuovamente a
salire in istima le belle opere antiche, tosto il Cenacolo, comunque fosse sì
mal condotto, fu da varj artisti disegnato in misura da potersi intagliare; e
finalmente nel 1800 l’egregio signor Rafaele Morghen ne pubblicò in Firenze una
stampa diligentissima, la quale, come può dirsi la prima, così, non dovendosi
contare i rintagli che ne fecero il
Rainaldi ed altri, è finora l’ultima dell’opera di Leonardo. Dissi l’ultima,
presa per quanto poteasi dall’originale, perchè la stampa del signor Frey che
apparve alcuni anni dopo, fu fatta sulla copia della Certosa di Pavia.
La
finezza pertanto dell’esecuzione e l’eccellenza di alcune parti nella stampa di
Firenze la fanno riguardare come una delle più nobili produzioni dell’autore,
non meno che dell’arte. A coloro però, gli occhi de’ quali non si lasciano
abbagliare dal lenocinio de’ tagli, duole di non trovare in questa insigne
stampa espresso il carattere di Leonardo, mentre vi s’incontrano non poche cose
estranee del tutto al suo modo di pensare e d’operare. E duole non meno il
vedere che non è facile che alcun altro intagliatore tenti per ora lo stesso
argomento, sgomentato a ragione dal nome dell’illustre autore che lo ha preceduto,
non che dai molti veri pregi dell’intaglio, anch’essi di arduo conseguimento, i
quali, uniti alle attrattive della composizione ed alla fama universale
dell’opera originale, han renduto la stampa di cui ragioniamo, ricercatissima e
preziosa in ogni parte d’Europa. Pure a chi bene osserverà, sarà prontamente
manifesto esservi ancora molto a fare onde avvicinarsi alla maniera del Vinci,
e mancare fors’anche al già fatto precisamente le parti più squisite
dell’opera, e quelle per l’appunto nelle quali più il Vinci si distingueva,
come sarebbero la dolce ed equilibrata distribuzione de’ lumi motivata in ogni
menoma parte, la mirabile varietà delle parti simili ne’ diversi personaggi,
come de’ capelli, delle mani, de’ piedi, ecc.; la finezza e forza dell’espressione,
la concinnità delle parti col tutto; la prontezza de’ moti, la grandezza de’
caratteri, la precisione senza minutezza, la grandiosità senza negligenza;
quello stile in somma morbido, non molle, deciso, non duro nè aspro, vero
sempre, sapiente, profondo; quello in fine che caratterizza il restitutore
della greca pittura, il sublime Leonardo. Le quali cose, essendo ora esaurita
la prima stampa, qualora per l’esimio autore di quella che pure con lode
d’ognuno intraprese due volte la Trasfigurazione di Raffaello, non fossero
sufficiente stimolo ad intraprendere di nuovo il Cenacolo, potrebbero accender
l’animo di tale intagliatore fra noi,[25]
che ha ingegno e mano da soddisfare, ove il voglia, i più sottili ed esigenti
conoscitori. Il che se avvenisse, sarebbe avverato quel quasi augurio
dell’editore torinese del Baldinucci, che vedemmo nel libro primo, e la nostra
città nella quale nacque e perì l’opera originale, le avrebbe in allora resi
tutti que’ tributi con cui poteano le arti tramandarne ai posteri la memoria.
DELLE LIMITAZIONI DEL
CENACOLO.
Vuolsi
ora dar qualche cenno delle imitazioni; che anche per esse si può avere qualche
luce intorno l’opera da cui derivano.
La
più antica ch’io abbia potuto rinvenire, è quella che già altrove accennammo,
di Biagio Vairone, la quale vedesi alla Certosa di Pavia in un bassorilievo di
marmo bianco in piccole figure. La varietà de’ panneggiamenti e le tante altre
mutazioni farebbero quasi credere che l’autore avesse avuto intenzione di
mascherare un plagio, anzichè dichiararsi imitatore.
Ben
altramente operò quel plastico che tradusse fedelmente in tredici statue di
terra grandi al naturale le tredici figure di Leonardo, e ne ornò la cappella
detta del Cenacolo nel tempio di Sarono, famoso per le migliori cose di Bernardino
Luino. Dall’operetta che sopra questo tempio che in luce Luigi Sampietro nel
1658, come pure dall’altra di Giambatista suo pronipote, pubblicata quasi un
secolo dopo, si ricava che queste statue furono fatte da un Andrea da Milano
nell’anno 1529. Camillo Procaccino poi, molti anni dopo, dipinse nel fondo e
ne’ fianchi della cappella sopra tele a olio varie figure relative al soggetto
con poco buona mistura di genere e di stile. Se il plastico avesse tenuto nelle
sue figure la collocazione e l’ordine che hanno nell’originale, la qual cosa
vennegli impedita dalla forma della cappella, quest’opera potrebbe piuttosto
dirsi una copia in rilievo che un’imitazione.
Fra
le imitazioni poi di pittura, non esistendo memoria del come e dove imitasse il
Cenacolo Cesare da Sesto, di che si legge ricordo nel Vasari, debbesi il primo
luogo al cenacolo di Bernardino Luino che vedesi dipinto a fresco nel
refettorio degli zoccolanti di Lugano. Esso fu posto inconsideratamente fra le
copie da molti scrittori sull’autorità del De Pagavo il quale scriveva tutto
ciò che venivagli riferito.[26]
Le
figure che in quest’opera di Bernardino si possono veramente dir tolte al
Cenacolo del Vinci, sono il Cristo e gli apostoli Pietro, Tommaso, Bartolommeo
e Giacomo il Maggiore. Bartolommeo però è posto alla sinistra di Cristo, mentre
nell’opera di Leonardo è alla destra. Le altre otto figure sono tutte di sua
invenzione.
Il
complesso dell’opera appar freddo e meschino a chi ha in mente il dipinto di
Leonardo; ma nondimeno non manca di una dolce, vera, affettuosa espressione, la
quale si accresce quanto più l’opera si riguarda, effetto che non succede se
non alla contemplazione di quelle opere che hanno in sè qualche verità e
bellezza. Artificiosa molto è anche la fisionomia dell’Iscariote, a piè del
quale il pittore dipinse un gatto per simboleggiare con volgare allusione il
latrocinio, il tradimento e l’impostura. È poi degno d’esser notato da chi
osserverà questo dipinto, quanto ingegnosamente il Luino abbia superate le
angustie del luogo e la incomoda architettura, accomodandovi e distribuendovi
la sua istoria con molta sagacità ed avvedutezza.
Di
alcune figure tolte a Leonardo e dipinte dal Lomazzo, probabilmente allorch’ei
mosse i primi passi nell’arte, già s’è parlato ove si ragionò della copia da
lui fatta nel refettorio della Pace. Altre simili imitazioni d’una o più figure
veggonsi in varie dipinture, come pure in istampe, ma non ne conosco di tali
che meritino speciale ricordo.
Ben
merita d’essere con onore ricordato, ed è degno che si annoveri fra i più bei
cenacoli che si veggano, quello del convento di san Salvi presso Firenze, di
mano di Andrea del Sarto. Quest’opera ch’è tuttavia benissimo conservata, è
ottimamente eseguita a fresco e vanta in generale molta espressione. Ad imitazione
di Leonardo vi dispose Andrea le sue figure tutte su di una linea, eccetto
l’estreme di profilo. Quel giovine apostolo che si alza con vivacità da sedere,
ha una espressione sì viva e vera, che è un danno non sia agguagliata da pari
nobiltà nel carattere. È strana la mossa del san Giovanni che sembra spingere
la destra nel piatto, mentre Cristo pare allontanamela perchè non si verifichi
in lui la profezia con cui voleva accennar Giuda. Questi siede poco
opportunamente alla destra di Cristo, e sta per prendere il tozzo di pane che
Cristo gli porge; con che rimarrebbe finita l’azione e tolta quella sospension
d’animo, la cui bella imitazione valse tanta gloria a Leonardo. In ogni maniera
l’idea generale dell’opera di Andrea è imitata dal Cenacolo del Vinci, e la
seconda figura a dritta di chi vede, è presa dal suo Giacomo Minore. Rimane a
desiderare più legame frale figure e maggior dignità, soprattutto in quella del
Redentore che se non fosse nel mezzo, non sarebbe possibile il distinguerlo
dagli altri apostoli. Ben variati poi sono gli abiti, bella generalmente la
maniera, buono il colorito e l’effetto: solo spiace qualche tuono di color
cangiante troppo ardito e affettato.
Finalmente
è pur d’uopo annoverare fra le imitazioni anche quel cenacolo di Raffaello, del
quale non esiste il dipinto, ma se n’ha una bella e rara stampa del Raimondi.
Il modo con cui l’opera è in generale trattata, il somigliarsi di molte teste
barbate, ed alcune altre note che dal confronto le persone dell’arte potranno
distinguere, fanno giudicare che dalla più antica delle stampe descritte
traesse Raffaello la notizia dell’opera del Vinci. L’imitazione però rimase al
solito assai lungi dall’originale, ed anche Raffaello, ad onta del divino
ingegno e di tutte le rare doti pittoriche che in lui con singolare
predilezione riunì la natura, venne meno in questo periglioso cimento d’imitare
le invenzioni altrui, quando queste appartengono ad uomini sommi e sono
generalmente note. L’imitare un’opera come il Cenacolo, la quale determinò l’epoca
della rinnovata perfezione della pittura, non è come il far quadri e gruppi
dietro gli avanzi delle antiche pitture greche o romane che Raffaello cercava
nelle terme di Tito a Pozzuoli ed in Grecia. Queste anticaglie in parte
perivano, appena dissotterrate; in parte dopo disegnate venivano ricoperte,
come ne abbiamo testimonio in più scrittori; altre si scoprivano sì logore dal
tempo, che, trattane qualche memoria, si distruggevano; e quelle in fine che
non erano annichilate dal tempo o dalla propria caducità, venivano disperse
dall’ignoranza o distrutte dalla gelosia. Era quindi facile a Rafaele
l’abbellirsi di rare antiche invenzioni ed averne il merito, non essendo facile
a trovare donde egli le traesse. E ciò si dice non già per iscemare la gloria
di quell’elegantissimo artefice, ma perchè, oltre ciò che la storia asserisce,
le sue opere provano da per tutto che il suo genio non isdegnava di pigliare
qua e là il bello fatto da altre mani, come cosa che fosse di sua ragione. Così
spogliò Masaccio delle migliori figure ed in ispecie di quel mirabile san
Paolo, manomesse il Ghiberti, fra Bartolommeo, Michelagnolo e l’antico senza
riserva. Di fra Bartolommeo in particolare, oltre il san Marco, imitò la
disposizione de’ santi intorno a Cristo nella Disputa del Sagramento, traendola
dal Giudizio che il frate dipinse a santa Maria Nuova in Firenze.[27]
Intanto finchè Raffaello imitò le opere altrui meno note, applicandone le
invenzioni in opere maggiori ed adornandole di quella sua grazia inimitabile,
egli accrebbesi riputazione e gloria: ma dandosi ad imitare il Cenacolo del
Vinci, non sortì lo stesso effetto per la notabile diversità della circostanza.
Debbesi però notare in onor suo che ammessa la congettura che il suo disegno ad
imitazione del Cenacolo vinciano, sia stato fatto colla sola vista dell’antica
stampa, questa, come s’è detto, è tanto meschina che chi non avesse per niun
altro mezzo notizia del dipinto di Leonardo, la giudicherebbe derivare da opera
inferiore di merito all’originale intagliato dal Raimondi. Queste cose ho
voluto avvertire per allontanare gli artisti dall’imitare il modo con cui altri
trattarono con fortuna e gloria i dati argomenti, invitandoli in vece ad
indagare e svolgere la natura degli argomenti stessi onde trarne de’ modi nuovi,
non tentati prima da altri; dai quali modi verranno suggerite alle loro
fantasie nuove cose che all’arte incremento, e recheranno a loro onore
grandissimo. Ciò ch’io qui dico, lo conferma per tacere degli altri, l’esempio
di Raffaello, che imitando il Cenacolo di Leonardo, gli rimase lungamente
inferiore; e l’esempio di Leonardo che non imitando nessuna anteriore
composizione, trovò nella natura un tal nuovo modo di trattare il tema
propostosi, che riuscì a farne la stupenda opera di che trattammo, cui è poca
ogni lode, e della quale rimarrà memoria finchè fior di cultura durerà fra gli
uomini.
DELLA COPIA DEL VICERÈ
D’ITALIA.
Sogliono
gli accorti scrittori esporre primamente le cose meno importanti e serbare per
ultimi i più gravi temi delle loro scritture, onde così nutrire gradatamente e
mantener viva sempre l’attenzion di chi legge. L’ordine di questi miei scritti
ha voluto per l’appunto il contrario, ed è pur forza ch’io parli di me e
dell’opera mia qui dove sarebbe opportuno chiudere questo terzo libro recando
soccorso alla debole dicitura con la nobiltà di qualche nuovo ed elevato
argomento. Pertanto se l’indulgenza del benevolo lettore mi è necessaria per
ogni parte di queste memorie, tanto più caldamente la imploro per questo
capitolo, nel quale non posso offerirgli nessuna importante notizia, nè
descrivergli cosa alcuna piacevole, ma unicamente gli debbo apparire innanzi
prolisso relatore delle mie fatiche. Chè poi, se per accorciare ch’io faccia la
narrazione delle diligenze da me usate intorno alla copia commessami, dovrò non
pertanto estendermi a molte pagine, me ne sia scusa il dovere che mi sono
imposto e che accennai nella Introduzione, di render conto del modo col quale
l’ho condotta: mi sia scusa non meno la natura stessa e la difficoltà
dell’opera, non che lo stato dell’originale e l’eccellenza del sublime autore:
mi sia scusa finalmente l’importanza dell’oggetto pel quale piacque all’ottimo
Principe di ordinarmi un tale lavoro, quello, cioè, di farlo tradurre in
mosaico grande come l’originale, impresa che supera per mole e per difficoltà
tutte le altre di tal genere che finora siensi tentate.
Io
aveva veduto le principali fra le copie descritte, allorchè al principiare del
maggio del 1807 intrapresi con fervore la mia. Abbandonai primieramente ogni
mio lavoro, quantunque ne avessi d’importantissimi fra le mani, e tutto mi
diedi a Leonardo, investigando giorno e notte le cose sue, i suoi sistemi, le
sue pratiche, i suoi scritti.
Mi
risolvetti prontamente di fare un cartone di tutta l’opera, grande come
l’originale, onde non aver pentimenti sulla tela. Per tale proposito misi
insieme quanti disegni potei, tratti da quell’opere tutte che mi parvero
opportune ad agevolarmi la piena notizia della maniera del maestro. Per
fortunato accidente io non era del tutto nuovo al mio originale, perchè, oltre
che da fanciullo ne aveva copiate, da disegni per altro cattivi, le teste,
l’aveva poi sempre esaminato e studiato, ammirandone sopra tutto la
composizione, sola cosa che veramente dell’opera antica ci rimanga. Mi giovò
anche la pratica del Trattato di Leonardo che mi tenne luogo di maestro, non
avendone io avuto altro, non saprei ben dire se per buona o se per mala
fortuna. Ne rinnovai però subito una diligente lettura che replicai sovente,
estraendone quelle sentenze che mi parvero avere qualche relazione al lavoro
che io era per intraprendere. Io mi tenni convinto che Leonardo era tale uomo
da eseguire con l’opera ciò ch’ei dava per precetto, e se ne’ suoi scritti non
pose mai in esempio nè sè stesso nè altri, ciò avvenne perchè egli sera fatto
dell’arte un’idea tanto sublime, che temette di destarla in altri di troppo
minore alla sua e vera, qualora agli aforismi tratti dalla natura e dalla
filosofia avesse aggiunto la debole ed a sì gran confronto ineguale autorità
delle opere dell’arte.
Intanto,
mentre io attendeva a queste ricerche delle quali io teneva esatte note,
disegnava del continuo varie parti del Cenacolo. Aveva già copiate le teste
tutte e qualche altra parte della copia di Ponte Capriasca, non tanto pel
merito di quel dipinto, quanto per avere i principali ricordi di un’opera
lontana che potea per qualche lato giovare alla mia. Disegnai in appresso
diligentemente le teste tutte, molte mani, alcuni panneggiamenti e tutto il di
sotto della mensa della copia di Castellazzo. Copiai similmente con molta
accuratezza tutte le teste e tutte le mani della copia dell’Ambrosiana. Ripetei
sulla stessa copia, con qualche tentativo di cambiamento, la testa di Cristo e
quelle di Giuda, di Pietro e di Giovanni, in carta bianca, finite
accuratissimamente. Osservai o copiai da per tutto quanto mi venne a notizia
che al mio autore appartenesse, e feci pur anche varj disegni d’opere del suo
tempo analoghe alla sua maniera.
In
questo mezzo le continue inchieste da me reiterate da per tutto avevano in
molte parti felice esito. Ogni giorno io scopriva qualche nuova copia che
descriveva fedelmente, notando il pregio di ciascuna parte, le forme degli
accessorj, le varietà, le tinte d’ogni panneggiamento, ecc. Così pure
raccoglieva da varj corrispondenti dentro e fuori d’Italia or note, or libri,
ora stampe, or disegni, talchè in poco tempo crebbe notabilmente il materiale
del mio lavoro e con esso la lusinga di non condurlo alla cieca. I custodi
delle pubbliche biblioteche e i proprietarj delle private che sceltissime vanta
la città nostra,[28]
favorirono le mie indagini con ogni gentilezza. I chiarissimi Gaetano Marini e
Jacopo Morelli arricchirono la mia suppellettile leonardesca con utili notizie
d’ogni genere.[29]
Per
tal modo, colle note fatte su tutte le copie da me esaminate, coi precetti
dell’autore in mente e colla pratica acquistata nell’esecuzione d’un centinajo
di disegni che feci per apparato del mio lavoro, mi posi finalmente a
cominciare il cartone.
La
storia della copia del Bianchi, stesa dal cardinale che l’aveva fatta fare, non
mi lasciava nessuna ambiguità nella scelta di quella cui dovessi rivolgermi pel
dintorno generale delle figure. Niuna delle altre copie, tutte men grandi
dell’originale, era come questa, per irrefragabile testimonio, stata lucidata e
graticolata sopra di esso. Niuna dava teste più maestose senza caricatura, mani
più semplici ne’ moti e nelle forme; sveltezza e prontitudine negli atti delle
figure: niuna in fine, come questa, guidava la fantasia a rappresentarsi
l’opera del Vinci in un modo consentaneo ai suoi precetti. A questa adunque mi
appigliai, e sebbene ne avessi di già lucidate con cristalli ingommati le teste
e le mani onde disegnarle con maggior precisione, la lucidai tutta nuovamente
colla esattezza che seppi maggiore e per quanto io vi ho potuto scorgere in
mezzo all’annerimento di molte parti ed in ispecie de’ panni. Dopo di ciò feci
i confronti delle misure prese da questa copia colle misure dell’originale, e
riscontratele corrispondere almeno fin dove dalla rovina dell’originale è
permesso il confrontare, intrapresi colla massima cura l’ombreggiamento delle
teste. Io mi teneva sempre sott’occhio tutti gli studj disegnati che aveva
fatti, e colla scorta di quelli, alla presenza della copia del Bianchi, mi
andava sforzando di mettermi in idea ciò che doveva essere l’originale e di
avvivare nel mio cartone ciò che mi parea debole e mal reso dal Bianchi o per
istanchezza di lavoro[30]
o per guasto dell’originale o finalmente per imperizia.
Mentre
intanto il lavoro andava progredendo, vedendomi pur costretto a copiar da
copie, io mi fermai in mente la seguente massima. Leonardo era grande in ognuna
delle parti dell’arte; dunque, deduceva io, ogni qual volta scorgerò nelle
copie un errore manifesto, mi terrò per dimostrato che non già a lui, ma
all’insufficienza o trascuratezza de copiatori si debbe del tutto imputare.
Rifletteva in appresso che fra i copiatori non si novera nessun nome grande, e
la copia stessa che mi serviva di scorta doveva il suo pregio alla diligenza ed
ai mezzi con cui fu eseguita, ed inoltre al fine per cui fu fatta, ma non di
certo alla fama o alla straordinaria perizia dell’artefice il quale, non avendo
fatto considerabili opere originali, si rimase mediocre ed oscuro. A chiunque,
seguiva io a considerare, dovesse tradurre Euclide o Archimede, non basterebbe
di certo il possedere le lettere greche; e se nelle matematiche fosse poco
versato o del tutto ignorante, farebbe pessima traduzione. Lo stesso avverrebbe
ad un valente latinista che si mettesse a tradurre Vitruvio senza aver notizia
alcuna dell’architettura. Dietro tali principi io mi posi ad esaminare quali
parti mancavano a tale o a tal altro copiatore, e mi andava sforzando di
supplire ai difetti che la successiva pratica e la più intima conoscenza in cui
m’inoltrava sì dell’opera come dell’autore, mi facevano riconoscere.
Per
esempio in Marco d’Oggiono, oltre le teste, poco mi rimaneva ad osservare; e
quel poco versava sull’andamento generale degli oggetti e delle parti loro, non
mai sul disegno in lui sempre scorretto e negligentato, sebbene questo autore
nell’esecuzione fosse per lo più deciso, accurato e diligente. Parimente anche
nelle teste io lo esaminava pel carattere generale e per la forza del chiaroscuro,
non già per le parti spesso mal messe insieme e non corrispondenti fra loro e
talora false del tutto. Meno poi per l’anatomia, della quale si dimostra
affatto ignorante. E in prova di ciò chiunque ha qualche pratica di disegno
osservi nelle sue copie le teste del Salvatore e i colli di ogni figura:
troverà quelle contraffatte e storte, questi senza muscoli o con muscoli falsi
o in falsa direzione. Parimente non troverà un solo orecchio ben fatto: tutti
hanno forme strane di traghi e di conche, e per lo più mancan del tutto dei
lobi. Non parlo di mani o di piedi, chè gli converrebbe dire con Dante:
Forse
per forza già di parlasia
Si
travolse così alcun del tutto.
Con
gli stessi riguardi procedeva io nell’esame della copia del Bianchi. Nelle cose
di Marco vedesi talvolta qualche forza or d’ombre, or d’espressione che
rammenta la grande scuola donde egli è uscito. Nulla di simile che da proprio
sistema dipendesse, trovava nel Bianchi, il quale, attenendosi timidamente
all’originale in molti luoghi scrostato e mancante, nè essendo gran fatto
profondo nel disegno, non poteva dare nell’opera sua quelle energiche
risoluzioni che caratterizzano con forza le cose, e che sono figlie della
pratica ferma e dell’uso della scuola, allorchè s’incontrano in Marco, come lo
sono del profondo sapere in Leonardo. Da ciò io giudicava che le cose del
Bianchi più vivamente risolute, osservata la debolezza del suo sistema, non
solo dovessero essere assai più ferme e decise nell’originale, ma erano in
oltre al suo tempo le cose meglio conservate dell’opera, quindi le più genuine
e proprie al mio intento.
Con
queste e con altre simili riflessioni continuava le tuie ricerche per ogni
parte dell’opera in tutte le copie, argomentandomi di sempre segregare ciò che
poteva attribuirsi alla maniera, alla negligenza o all’imperizia de’ copiatori,
da quello che poteva appartenere al modello originale. E questi studj gli
andava ripetendo per ciascheduna parte dell’arte, come disegno, moto,
carattere, forme, chiaroscuro, prospettiva, ecc. Colla continua compagnia e
guida de’ precetti dell’autore. E per tali mezzi alternando l’osservazione ora
delle copie, ora dell’originale di cui mi sforzava d’indagare lo stato antico
per quanto dallo stato suo presente si concede, e tenendomi davanti agli occhi
le reliquie raccolte dal cardinal Federico, pervenni a compire il mio cartone
dalla mensa in su, e, senza quasi avvedermene, più diligentemente assai di
quello che da principio mi fossi proposto, tratto a ciò insensibilmente
dall’amor dell’opera e dalle finezze artificiose che a poco a poco in ogni
parte di essa andava scoprendo.
Fatto
questo, recai il mio cartone nel refettorio delle Grazie davanti all’originale.
Ivi eseguiti varj cambiamenti che la vicinanza dell’opera e le più minute
osservazioni consigliavano, si trattava di fare il di sotto della mensa. Ma
questa parte è sì perduta nell’originale, si maltrattata in ogni copia, che io
non aveva alcuna ragionevole autorità da seguire. Nel mio caso era doppio il
pericolo di perdere la vera strada, o che da solo camminassi senza scorta, o
che mi affidassi alla scorta infedele delle copie. Gli antichi, come vedemmo,
operavano e giudicavano alla grossa circa il copiare, in ispecie per le parti
accessorie e più particolarmente nelle opere grandi. Oltre ciò nessuna copia in
grande del Cenacolo fu eseguita davanti l’originale, chè i domenicani non
avrebber permesso che il loro refettorio diventasse uno studio da pittore: e se
il Bianchi potè farvi la sua, che fu per ordine del cardinale arcivescovo, la
fece per disgrazia in tempo che la parte inferiore era perduta, nè incomodò poi
gran fatto quei padri, non facendone che una parte e quella stessa in molti
piccoli pezzi facili a traslocarsi. Marco, come s è notato, non fece
sull’originale che la copietta di san Barnaba, e non curandosi che della
composizione ch’era la cosa alla quale sola si badava in allora, non ritrasse
che la parte superiore, quantunque anche la inferiore al suo tempo, siccome di
fresco eseguita, fosse conservatissima. Da quella copietta trasse le copie
grandi; quindi non è meraviglia, se aggiungendo i piedi di reminiscenza, si
allontanasse dall’originale e ne facesse la maggior parte a capriccio e male.
Anzi nella copia della Certosa, disgustato di ripetere questa parte non
piacevole dell’opera, li fece fare da altri, e scelse a caso mano sì inesperta
che nessuna delle copie ha piedi peggio eseguiti. Intanto nel dipinto delle
Grazie, questa porzione più vicina all’umido del terreno e composta di parti
ombrose, quindi non sostenute da colori opachi e resistenti, fu la prima che si
perdette; perciò le copie nulla da questo lato vantano che dell’originale sia
degno, e quelle tutte che ho esaminate, peccano più o meno secondo la perizia
di chi le fece, ma il più delle volte sono scorrette e bizzarre a segno che non
si trova modo da combinare le gambe colle figure cui appartengono.
In
mezzo a tanto imbarazzo io non aveva per tal parte del quadro altro dato
probabile donde partire, se non in quelle cose nelle quali trovava un generale
accordo in tutte le copie. Per quanto in molte di esse si veggan ripetuti i
diviamenti di Marco, non poteva credere che d’altronde derivasse che
dall’originale ciò che riconosceva ragionevole e che da per tutto riscontrava
uniforme. Tale uniformità scorgevasi, per esempio, ne’ piedi del Salvatore, in
quelli dell’apostolo Bartolommeo, in quelli di Simone e d’altri pochi. Ma i
modi delle attitudini non erano le sole cose alle quali io doveva attendere, e
se io poneva mente al disegno ed alle forme, non meno che alle altre parti
tutte sotto la mensa, rimaneva nuovamente nella massima oscurità.
È
egli possibile, io mi andava intanto dicendo, è egli possibile che Leonardo, sì
esperto disegnatore, facesse piedi si ignobili e spiacevoli, quali son quelli
che si veggono nelle copie del suo Cenacolo? è egli possibile che il
legislatore della ponderazione
facesse posar Filippo sul piede sinistro mentre con tutto il corpo si volge al
lato destro, come si vede nelle copie di Marco e de’ suoi seguaci? è possibile
che l’accurato osservatore del decoro facesse i piedi di san Pietro del tutto
in profilo, col qual atto, disegnandosi ciò che la mensa toglie alla vista, si
mostra Pietro sconciamente seduto sulle ginocchia del vicino Andrea? E pure e
queste cose e molte altre simili, autorizzate da molte copie, non riescirebbero
nuove, essendo già fatte pubbliche dalla celebre stampa di Firenze che per
altri riguardi è ben degna della sua fama.
Fra
tanti dubbj e perplessità io che, per giungere a scoprire qualche parte di vero
in queste cose, aveva impiegato un maggior numero e forse una scelta migliore
di mezzi che alcun altro prima non avesse fatto, mi tenni in qualche diritto di
allontanarmi dall’autorità altrui, e risolvetti di seguire piuttosto i precetti
del Vinci che l’arbitrio e gli errori de’ copisti. Fermatomi in tal proposito,
mi misi ad indagare con nuove diligenze il poco che dal Cenacolo originale può
trasparire. La distruzione de’ piedi del Salvatore e delle figure vicine era
per me perdita assai men dolorosa del rimanente perito ab antico e impiastrato
più volte pessimamente. Per quelli trovava, come già dissi, nelle copie un
sistema meno oscuro e più uniforme; ma non avvenivami lo stesso in varie altre
figure, e specialmente in quelle che si alzano alquanto dai sedili, come Pietro,
più ch’altri, e Filippo. Fui pertanto assai soddisfatto di trovare per
l’appunto la figura di Filippo posare nell’originale, come dimanda la natura,
dal lato verso il quale si china, cioè sul piede destro: nè credo di aver
errato in pensare che il Bellotti, il Mazza e gli altri che sopra pochi antichi
frammenti rifecero quel piede, non l’abbiano cambiato di lor testa di sinistro
in destro. Così trovai dall’altra parte del quadro qualche avanzo che mi che
maggior coraggio di scostarmi dal modo dagli altri tenuto; e finalmente per non
accrescere il tedio di sì minuti ragguagli, rinnovati del continuo attenti
esami e confronti sui disegni e sulle note da me tratte da ogni copia, riletti
gli scritti di Leonardo che a tal proposito hanno relazione, verificati da
ultimo gli atti sul naturale, fermai sul mio cartone quanto dal complesso di
tali studj ho potuto dedurre.
Non
tenni però conto in questo cartone nè del fondo nè dell’apparecchio della
mensa. Il chiaroscuro dolcemente degradato, l’espressione degli affetti, il
carattere, le movenze, le forme sono le cose alle quali ho atteso colla massima
cura. E veramente se, in vece di volger il pensiero a quello che io stesso
potrei fare un’altra volta, e a quanto anche ciò che di nuovo facessi, sarebbe
lontano da ciò che può far l’arte, io accontentassi l’animo mio del favore che
quest’opera ha ottenuto, e delle ricerche di molti grandi e reali personaggi,
delle quali fu onorata, avrei certo di che ampiamente confortarmi della fatica
che vi ho durata, e de’ pensieri e delle vigilie che vi ho consacrati per molti
mesi. Ma quando rifletto alla vera prima fonte di questo favore, che è il
merito sublime della composizione e il poco comune uso di vedere disegni tanto
grandi e finiti, e che di mio non v’è che qualche pratica del disegnare, e il
merito d’aver conosciuta la buona origine della copia del Bianchi, mi tace ben
tosto nell’animo ogni lusinga intorno a quanto ho fatto, e non vi rimane che la
speranza di far meglio altra volta, fondata sul profitto che da quest’opera
credo d’aver ottenuto. Il quale giudizio, se per avventura paresse troppo
rigido agli amici miei o a coloro che poco sanno dell’arte, o finalmente a
quegli artefici che poco amano lo studio e la fatica (chè parrà certo
dolcissimo a quelli che delle altrui fatiche sono invidiosi), io non ho altra
appellazione se non alle opere che spero potere in processo di tempo mostrare.
Posto
adunque fine al mio cartone con le cure che ho saputo maggiori, e che in parte
ho descritte, al finire dell’ottobre del 1807 intrapresi tremando l’abbozzo
dell’opera. Aveva a tale effetto fatta preparare una tela d’un solo pezzo con
colla dolce e imprimitura di biacca sottilmente replicata sino a quattro volte,
col qual mezzo la tela si conserva morbida, e dovendosi rotolare, come delle
grandi tele sempre avviene, non va soggetta a screpolature o ad altri danni.
Per aver poi da principio una qualche sorta di guida per le tinte, preparai
quel poco di cielo che nel fondo si vede, la qual parte non essendo stata, come
tutto il rimanente, ricoperta nell’originale, si conserva tuttavia chiara e
brillante, siccome impastata di biacca candidissima e di azzurro oltramarino.
La biacca anzi vi è quasi pura là dove il cielo rimane interrotto dalla cima
delle montagne, se non che è alquanto riscaldata da un attimo di giallo e di
cinabro, con metodo che vedesi usato in pressochè tutti i quadri del secolo
decimoquinto.[31] Fatta
tale preparazione, abbozzai le teste di Cristo, di Tommaso, di Jacopo e di
Filippo. Costretto in appresso a colorire i panni delle figure, mi feci legge
di prima abbozzare quelli, circa la cui tinta, o per qualche antico resto
dell’originale o per autorità delle migliori fra le copie, non poteva aver
dubbio. Con tal norma mi parve di poter procedere con maggior sicurezza, mettendo,
per quanto io sapea, d’accordo colle tinte note e sicure quelle ch’erano
incerte e perdute. Così di mano in mano progredendo regolarmente e con
assiduità, copersi la tela, tenendo il colore, fin dove la varia natura de’
colori concede, ricco ed alto uniformemente, e schivando sempre le
ineguaglianze ed asprezze, a norma del sistema dell’autore che io aveva da
imitare. E se la mala natura del luogo umidissimo e deserto, e l’eccesso delle
fatiche non mi avesser tolto la salute per più mesi, proseguendo al modo con
cui aveva cominciato, io avrei condotto l’opera a fine un anno prima che per
quella circostanza non ho potuto.
Nondimeno
quel necessario e tristo riposo mi fu, se non erro, giovevole, dandomi maggior
tempo di pensare alla natura dell’opera e di fermarmi nella maniera
dell’autore. Impaziente dell’ozio, mi posi in quell’intervallo ad ordinare i
disegni, le stampe e le memorie che al Vinci o alla sua opera, o alla sua
scuola appartenevano. Feci anche in allora acquisto della famosa Raccolta di disegni
che appartenne già al De Pagave,[32]
nella quale son molte ottime cose di Leonardo. Contemporaneamente studiai con
quali principj procede Leonardo nel comporre il suo quadro, e cercando tutti
que’ libri che potei congetturare avergli servito di scorta, mi assicurai che i
nomi che aveva trovati sotto la copia di Ponte Capriasca si conformavano assai
bene colla storia apostolica quale Leonardo potè saperla, e per conseguenza li
ritenni esprimere fedelmente la di lui intenzione. Stesi anche a quel tempo parte
di queste memorie, e specialmente i ricordi e le osservazioni di che composi da
poi il secondo libro, e indagai, proseguendo, in tutti gli antichi libri
stampati e manoscritti che mi vennero alle mani, tutto ciò che al mio autore
riguardava, di che a poco a poco mi venne fatto il materiale del libro primo.
Copiai in oltre diligentemente varj autografi di Leonardo, parte miei, parte
prestatimi gentilmente dagli amici. Così del continuo fra le cose di Leonardo,
maneggiando o i suoi disegni o i suoi scritti, mi studiava di sempre più
fondarmi nella sua maniera, scrivendo le massime che dalle opere sue mi
riusciva di trarre, e specialmente da quelle che di recente aveva scoperte, le
quali servirono a darmi luce in varie cose, circa le quali le opere stampate non
mi soccorrevano di autorità.
Finalmente
potei tornare a dipingere, e senza entrare in nuovi ragguagli dei mezzi da me
del continuo impiegati, con quella maggior brevità che dalla natura
dell’assuntomi impegno mi verrà permessa, dirò quanto mi resta onde render
conto dell’opera mia, tralasciando le cose piccole e minute, intorno alle quali
mi procaccerò fede senza difficoltà, se il paragone dello scritto al fatto me
la farà nelle cose maggiori ottenere.
Ommettendo
adunque di parlare dell’ordine da me tenuto nel lavoro, onde andare per gradi e
servirmi dell’opera stessa a fine d’istruirmi nel modo di condurla, parlerò di
ciascheduna figura in particolare: e cominciando dall’apostolo Bartolommeo,
dico che, attenendomi alla copia dell’Ambrosiana, il feci colla bocca alquanto
aperta, quale di chi sta in atto di ascoltare attentamente a qualche distanza
dalla persona che parla.[33]
Questa espressione è sì naturale e sì consentanea ai principi di Leonardo, che
non ebbi riguardo alle copie di Marco e ad alcune altre probabilmente derivate
da quelle, nelle quali tutte la testa di questo apostolo si vede a bocca
chiusa. Nell’originale sì la testa come il rimanente di questa figura sono
interamente perduti: perciò nel disegno che servì per la stampa di Firenze si
vede un’imitazione della testa della copia di Castellazzo. Le tinte dei panni
sono come le descrissi nel secondo libro, in quasi tutte le copie; se non che
in molte sì il verde del pallio come l’azzurrino della tunica sono anneriti in
modo da non conoscersi. La mano sinistra l’ho fatta colle dita raccolte, come
vedesi nella copia del Bianchi, con atto più pronto e naturalissimo, non
ispianata come mostra la stampa e alcune delle copie: la destra poi la feci in
atto di attaccarsi ed appoggiarsi alla mensa, ma senza il tovagliuolo che
vedesi in alcune copie, e di cui non v’è avanzo alcuno nell’originale, e molto
più senza quel ridicolo uovo che vi si vede nella copia di Castellazzo, con che
volle forse Marco accennare il principio della cena. I piedi li feci sollevati
entrambi alquanto, perchè così dimanda l’attitudine momentanea di questa
figura, che provai io stesso più volte e feci da molti provare.
Per
l’apostolo che segue, che è Giacomo d’Alfeo, non ebbi da far molte ricerche
intorno ai colori, essendo d’accordo quasi tutte le copie, non che l’originale,
a farlo vestito di panno rosso. Sono egualmente d’accordo in mostrarlo
somigliante a Cristo, al che tutto mi attenni, ritenendo i dintorni della copia
del Bianchi e aggiungendovi pel carattere ciò che dal Bianchi mi parve
dimenticato. La mano sinistra poi di questa figura non la feci già come nella
stampa nella quale mostra il pollice al di qua del braccio di Pietro e di tutta
la figura d’Andrea, cosa in natura impossibile; ma la feci dietro del tutto in
atto di far insegna col dosso, come
espresse Dante un simil atto di accennare. Nella parte inferiore poi non feci
vedere nulla affatto de’ piedi, non solo perchè così trovai in varie copie, ma
perchè l’un de’ piedi sarebbe caduto nel mezzo del sostegno della mensa, il
qual caso si ripete per l’appunto in ciascheduno degli altri tre sostegni.
Bensì feci una continuazione della gran tunica rossa.
In
Andrea, sempre sulle tracce della copia del Bianchi, tenni i capelli grigi, la
fronte rugosa, la bocca incurvata, come Leonardo stesso descrive un vecchio che
ascolta un grave oratore, intorno a che riveggasi il secondo libro nel capitolo
di questo apostolo. Sul colore della tunica trovai il più delle copie
accordarsi; pel pallio, vedendone molte variar capricciosamente, stando al poco
che mi parve trapelare dall’originale, mi attenni ad un verdino chiaro e freddo
che si diversifica dagli altri varj verdi dell’opera. De’ piedi non mostrai a
questa figura che il sinistro, perchè non mi parve secondo le leggi del Vinci
il ripetere l’attitudine de’ piedi del Salvatore, come si vede nella stampa ed
in alcuna delle copie.
Circa
al san Pietro poco mi occorre di notare. Il giallo vivace del pallio e
l’azzurro chiaro della tunica si scorge in molte copie ed anche quanto basta
nell’originale. I piedi, non senza la scorta di varie copie, quantunque poco io
abbia nelle copie contato pei piedi, gli ho posti non già in profilo, con che
verrebbe a confondersi l’atto, ma in tale positura colla quale si dimostri che
egli prima stava a sedere, e che prontamente alzossi, allorchè il caso a ciò il
mosse, come s’è veduto a suo luogo. Nella testa, nell’anticipata canizie, nella
robusta virilità, nello sguardo minaccioso, nell’elevamento delle narici, nel
ciglio tentai di rendere il Pietro di Leonardo, che Leonardo parve aver imitato
da quello di Dante.[34]
Nella
figura del vilissimo Giuda ho trovato grandi arbitrj nelle copie. Marco che il
fece tre volte, tre volte il variò a suo modo, dandogli sempre forme
caricatissime ed espressione mediocre. Dalla testa che potei trarre dalla copia
del Bianchi, oltre la viltà del carattere e l’abito ad opere e desiderj
ignobili, apparisce anche l’impostura colla quale sembra coprire l’improvviso
turbamento d’essere scoperto, e quell’attendere alle parole che fanno fra loro
Pietro e Giovanni, che argutamente vi riconobbe il cardinal Borromeo. Parmi in
oltre vi trasparisca l’ostinazione, la perfidia, l’insensibilità. Contorsi
anche le rughe della fronte al modo che i metopòscopi danno a coloro che a
Giuda somigliano. Cercai d’uniformare a tutte queste cose il tuono ignobile del
colore, la barba rada ed ispida, l’irta chioma di color fosco rossiccio, che
col bruno aspetto ricorda assai bene lo Zoilo di Marziale o il Tersite d’Omero,
che credo avesse il Vinci assai più in vista che non il priore del convento.
L’abito di Giuda, che per la diversità della forma distinguesi dagli altri, è
anch’esso assai variamente colorito nelle copie. Io mi attenni al color
cenerognolo per la tunica esterna, e ad un giallo oscuro per l’interna che
quasi in ogni copia è cinta da un lembo azzurro alla scollatura, nel quale
talvolta, come nella copia di Castellazzo, si legge inscritto il suo nome,
aggiuntovi il suo carattere colla parola Tradicor.[35]
Al cenerognolo o berrettino mi
attenni poi volentieri, avendo letto nel Lomazzo[36]
che questo colore significa povertà,
inimicizia e disperazione, e allorchè somiglia al color della cenere, travagli e pensieri nojosi che tendono a
morti, cose tutte che quadrano a Giuda mirabilmente. Così dietro la scorta
dell’istesso Lomazzo gli feci la tunica di sotto di color giallo tirante al
fosco, il quale significa tradimento,
travaglio, angustia e simili. Per ragioni a queste conformi feci d’un color
perso cupo il suo pallio; e giacchè ci accade qui far motto de’ colori, sebbene
io avviso che Leonardo non fosse in tali cose così diligente sminuzzatore come
in tutte l’altre che hanno un più chiaro fondamento nella natura, non ho
mancato d’indagare e ne’ suoi scritti e negli antichi autori le varie opinioni
circa i significati de’ colori diversi, onde appropriarli a ciascheduna figura
in quel grado che più convenisse, e trovare, s’era possibile, i motivi che
mosser Leonardo ad attenersi a tale anzi che a tal altro colore. Gli antichi
certo, e specialmente i cinquecentisti, portarono queste allusioni de’ colori a
tal punto, ch’erano diventate una specie di nuovo linguaggio, e un amante che
non poteva nè parlare nè scrivere alla sua donna, col solo variare i colori
degli abiti potea far intendere speranze, lutto, mestizia, cortesia,
generosità, altezza d’animo, contentezza, disperazione, abbandono, disprezzo e
simili cose. Ciò può vedersi nella Selva
del Passi che di tale argomento promise uno speciale trattato, come pure in
Sicillo Araldo, nell’Occolti e in altri varj. Ma queste sottigliezze erano meri
abusi d’imaginazione, che dovevano svanire colla moda, mentre restarono sempre
alcuni significati generalmente ricevuti a certi colori principali, e
cert’altri colori furono costantemente adottati per certe tali figure; e a quelli
soltanto, perchè nella volgare opinione per natura o per tradizione avean saldo
fondamento, avrà Leonardo piegata la ragion dell’arte, siccome ai soli che ne
fosser degni. In fatti (per non parlar dei colori consacrati dall’uso alla
Vergine, a Cristo, a san Giovanni) che il verde il quale imita la prospera
vegetazione lusingatrice di frutti belli e copiosi, alluda alla speranza; che
il bianco per la difficoltà di conservarne il candore simboleggi innocenza e
purezza; che il rosso significhi splendore e dia magnificenza; che l’azzurro
col suo somigliare al cielo figuri nobiltà, gentilezza, altezza d’animo,
origine celeste, non sarà difficile ad intendere, e diventa linguaggio
universale e volgare, perchè l’esprimere queste differenti cose, con oggetti visibili
è un modo naturalmente adatto alle fantasie. Ma quando col discendere a colori
subalterni ed a minute modificazioni si assottigliano tal cose per modo che il
concepirle, in vece d’essere un pronto giuoco della fantasia, abbisogni il un
lungo sforzo dell’intelletto come pure d’una memoria tenace onde ricordarsele,
allora escono di necessità fuori del limite della pittura, ed è probabile che
Leonardo tenesse quest’arte in quel conto in cui tenea la chiromanzia ed arti
simili da lui disprezzate, siccome prive d’appoggio nella sola eterna maestra
dell’arte, la natura.
Ma
passando all’apostolo Giovanni, vestito, come già si disse, del consueto pallio
rosso e della tunica verde, io mi attenni, per la sua testa, al quadro del
Bianchi, perchè l’ho trovata senza paragone più nobile d’assai delle altre
tutte da me osservate o disegnate. Solo volli indicare alquanto rilevate le
tuberosità della fronte onde darle un carattere più maschile di quello
apparisca ne’ varj cenacoli da me visti; e mi fu di ciò autorità ed esempio una
testa giovanile d’un Batista del Salaino, forse ritoccata da Leonardo, nella
quale tali tuberosità sono assai rilevate, sebbene il resto sia di forme
delicate e quasi femminili, accompagnate da leggiadro sorriso.[37]
Questi rilievi nella fronte sono noti indizj di forza d’ingegno, di memoria e
sopra tutto d’imaginativa, cose convenienti all’enfatico scrittore
dell’apocalisse. Mi guardai però dal farvi muscoli con aspre diffinisioni; anzi, seguendo il precetto del mio autore,
adoprai in modo che li dolci lumi
finissero insensibilmente nelle piacevoli e dilettevoli ombre, dal che nasce
grazia e formosità.[38]
Piedi, mani, tinte di panni, tutto in questa figura è nobile, tutto dolcemente
mosso o atteggiato. Una grossa perla nella fimbria della tunica simboleggia,
secondo il Lomazzo ed altri, il candore di questo prediletto amico del
Redentore.
Volgendo
gli occhi agli apostoli dell’altro lato, nella testa di Giacomo il Maggiore
serbai alquanto della fisionomia del Nazareno, come notammo nel secondo libro.
Tenni la sua tunica più chiara alquanto che non apparisce in molte delle copie,
perchè il bel giallo che doveva vedersi nell’originale, essendo stato per lo
più imitato con colori falsi e passeggieri, il panneggiamento di questo
apostolo suol vedersi fosco ed annerito. In prova che l’imbrunimento di tal
tinta fu effetto del cattivo materiale impiegatovi, basti l’osservare che nelle
copie in cui la tunica di questo apostolo è di colore verdastro oscuro, non si
distinguono affatto le pieghe, e non v’è relazione alcuna ragionevole tra le
parti illuminate e le ombrose. Al contrario assai chiaro si trova un tal panno
nella copia a fresco di Marco ed in alcune altre nelle quali pe’ colori fu
usata maggiore accuratezza. E da notarsi in questa figura l’alterazione con
cui, per la difficoltà della sua espressione, fu contraffatta in quasi tutte le
copie. In alcuna delle migliori sembra in atto di attento osservatore di un
qualsivoglia oggetto visibile; in altre sembra uomo cui si faccia soffrire tale
tormento fisico, per cui sia costretto a rammaricarsi con gridi ed altri modi
onde sfogare il dolore. L’intenzione di Leonardo fu di mostrarlo inorridito in
udire le parole di Cristo e di conservare nelle sue fattezze qualche tratto che
richiami la famiglia del Redentore. Dalla quale somiglianza che assai più
d’appresso, come s’è detto, serbò in Giacomo d’Alfeo, ebbe poi impedimento a
far sì che il Redentore, secondo che si espresse lo Zenale, paresse Cristo fra
que’ due apostoli.
In
Tommaso mi sono ingegnato di rappresentare zelo onesto e minaccia sincera e
magnanima.[39] Sulla
sua mano sinistra, colla quale si attiene alla mensa e accenna di prendere un
coltello, non vi può esser quistione trovandosi come si è notato, sia in alcuni
pochi ma certi frammenti nell’originale, sia nelle più vecchie copie, sia negli
sviluppi di questa figura che si vedono nella copia di san Vincenzo e nelle
statue di Sarono. Intorno al braccio destro di questo apostolo, nè senza scorta
autorevole, mostrai una porzione del pallio e gliel feci scendere attorno al
suo piede sinistro, onde meglio dichiarare a chi quel piede appartiene; poichè
in alcune copie fu dato al vicino Giacomo, alterandosene per tal modo
l’attitudine sconciamente. Accordandosi assai bene colle tinte vicine, tinsi
questo pallio di un colore composto di lacca, di bianco e di azzurro, colore
dal Lomazzo chiamato morello, forse
alla maniera de’ Lombardi del suo tempo, e che secondo lui significa elevazione e morte per amore.[40]
Debbo qui ripetere che questi troppo sottili significati de’ colori non credo
che entrassero nel sistema di Leonardo; ma a notar questo m’indussi perchè
veramente cade in acconcio in modo particolare, non potendo a nessun altro
apostolo meglio che a Tommaso convenire, il quale solo fra tutti per amore del
maestro profferì quelle famose parole: Exeamus
et nos, et moriamur cum eo.
Eccoci
al tenero ed amoroso Filippo. Già si parlò del modo col quale posa nelle copie
di Marco, contrario al sistema di Leonardo, come alla ragione ed alla natura.
Perito l’originale nella parte inferiore, l’errore di Marco fu ripetuto dalla
greggia servile de’ copiatori. Ma tali ripetizioni non faranno mai autorità
presso coloro che conoscono il disegno, e che hanno meditato le massime e le
opere di Leonardo. Anche le mani in questa figura sono pessime in tutte le
copie: in quella del Bianchi sono le sole che sentano la maniera moderna;
talchè è da credere che essendo del tutto perdute nell’originale, ve le facesse
il Bianchi il meglio che seppe di suo. Perciò io ho per esse abbandonata la sua
autorità, della quale sono stato seguace finchè col lume delle altre opere di
Leonardo, e con quello de suoi precetti ho riscontrato in lui un traduttore
esatto del suo modello; ma l’ho lasciata senza scrupolo ogni qual volta ne l’ho
trovata in contrasto. I colori degli abiti di questa figura non furono molto
variati nelle copie; quindi non ebbi in ciò lunga esitazione.
Bensì
n’ebbi pei panni del vicino Matteo che sono in ogni copia alterati a capriccio,
e nella sola fedele del Bianchi in modo anneriti da non potersi affatto
distinguere. Si accordano però quasi tutte a dargli un pallio azzurro: alcune
mostrano un tal pallio foderato d’una tinta tendente al giallo, la qual fodera
si vede nel rovesciamento del pallio sul braccio sinistro: altre, come quella
di Castellazzo, il vestono tutto intero d’un solo colore azzurro carico, tunica
e pallio, il che parmi contrario al modo di Leonardo. In altre vedesi non so
bene se una fodera bianca della tunica aperta sul petto o pure parte dell’indusio. Anche nell’unione della manica
col resto della tunica attorno al deltoide vedesi un ripiegamento che
diversifica questa dalle altre tuniche. In mezzo alle varietà da me osservate
in tante copie, e tutte da me o disegnate o descritte, io mi sono attenuto al
poco che il guasto del tempo e de’ ritocchi mi ha lasciato giudicare sia
nell’originale sia nella copia del Bianchi.
La
testa poi di questa figura nella copia del Bianchi, come diversa dalle solite a
vedersi nelle altre copie, così mi parve migliore, essendo nobile, grandiosa e
di bella e forte espressione, senza molta alterazione delle parti, il che è
difficilissimo. La novità però del carattere mi lasciava da principio qualche
sospensione; quando ripassando (il che faccio sovente) i miei disegni di
Leonardo e della sua scuola, mi venne fatto di osservare la testa che riporto
qui incisa, la quale fu tolta dal naturale, e, sebbene in attitudine affatto
diversa, ha la fisionomia di questo apostolo a segno, che è facile il giudicare
che sì dell’uno come dell’altra fu modello la stessa persona. Tal testa sembra
di mano di Cesare da Sesto, ed appartenne già al celebre Giosuè Reynolds. I
tratti principali, l’età, i capelli e in sino la forma dell’orecchio si
riscontrano per modo colla testa del Bianchi che la loro comune origine ne
risulta ad evidenza. Solo nel disegno, come ognuno può qui osservare, non
vedesi alcuna di quelle alterazioni che l’espressione esigeva nel dipinto del
Vinci; e vedonvisi per cattivo cambio notabili scorrezioni nel collo e in altre
parti: ma quel che più importa, cioè il carattere, v’è abbastanza per
assicurarci che di questa testa Leonardo ebbe un modello vivo e noto, e che la
diversità che in questa testa si riconosce nella copia del Bianchi, deriva non
già da suo capriccio, ma dalla sua scrupolosa esattezza in imitare quanto
nell’originale rimaneva al suo tempo.[41]
Nella
figura seguente non poche varietà trovansi nelle copie. Ora la sua mano
sinistra è storpia, e sembra uscirle dal ventre; ora è slogato il collo; ora
sembra che il vento le soffj ne’ capelli. Nulla di tutto questo presenta
l’antico grave e moderato dintorno; ognuno ammira per esso quanta novità di
espressione seppe trovare Leonardo in un’attitudine così semplice.
Lo
stesso può dirsi dell’ultima figura che rappresenta l’apostolo Simone. Lo
strano lunghissimo naso dato a questo apostolo da varj copisti e specialmente
da Marco, ne ha fatto una ridicola caricatura. I tratti originali serbatici dal
Bianchi mostrano sì in questa come nell’antecedente figura, che Leonardo sapea
dare espressione grandissima senza grave alterazione delle parti del viso, e
ciò anche nelle figure senili.
Ma
mi chiama ormai a sè la figura principale per la quale sola non mi basterebbero
molti fogli, se volessi scrivere le ricerche, le considerazioni e le sperienze
che vi feci. Ad ogni modo mi conviene per essa cominciare alquanto più
dall’alto che non ho fatto per gli altri personaggi di quest’opera.
Il
vedere in tante istorie lo studio infinito che Leonardo pose in comporre questa
figura, e lo sforzo ch’ei fece, onde, come disse il Lomazzo, rappresentarvi dentro la divinità, mi
rese curioso d’investigare con ogni diligenza, di quali principj si facesse
scorta Leonardo per inventarla in modo che all’idea sua, per quanto gli era
possibile, adeguatamente rispondesse. Mi persuasi ben tosto ch’egli seguendo il
suo costume, sì bene dal Giraldi e dal Rubens descritto, se per ogni figura
solca ripetere diligenti e minute investigazioni, tanto più doveva essere
accurato e circospetto intorno alla figura del Redentore, la quale e per esser
la principale e per la propria sublime natura esigeva tutta intera la potenza
della mente e dell’arte. Parvemi pertanto non esser possibile di farsi una
giusta idea del modo tenuto da un artefice antico di tre secoli in
rappresentare, soprattutto, figure appartenenti alla religione, senza
internarsi alquanto non solo nella sua particolar maniera di sentire e di
pensare, ma ben anche nella generale del suo tempo, siccome quella che imprime
nelle arti d’imitazione quasi a suggello dell’epoche un carattere suo proprio,
da cui si desume lo stato più o meno rozzo o civile, molle od energico delle
nazioni. Dall’osservare questo carattere, per certa abitudine, senza quasi
pensarvi decidono gli antiquari filosofi delle età diverse delle opere di ogni
genere, e a tale osservazione converrei senza dubbio ricorrere ogni qual volta
si voglia con sana critica ristaurare un’opera d’arte, fatta in epoca dai tempi
nostri lontana; perchè le arti d’imitazione, avendo il tipo necessariamente
nella natura, sono una necessaria rappresentazione degli uomini non meno che
de’ loro costumi e delle loro opinioni.
Ora
è noto a ciascheduno, che sebbene alcune opere ascetiche tendessero a
raddolcire le opinioni religiose, il costume universale del decimoquinto secolo
che serbava ancora una parte della scorza selvaggia degli antecedenti, si
prestava più volentieri ad attribuire alla divinità virtù energiche che non
virtù dolci e mansuete, e a riconoscere dalla prima divina virtù della potenza le vendette celesti non meno che
le celesti beneficenze. Concorreva a rinforzare si fatto pensare il culto di
varie imagini antiche, le quali, perchè le forme che dalle fantasie si danno
alla divinità, ritengono necessariamente della natura delle fantasie stesse e
del generale costume de’ tempi, erano tutte, quali la ferocia delle età antiche
le consigliava, fiere e terribili, e sovente, a più chiaro simbolo di potenza,
colossali. E l’esser terribili le faceva esser venerabili; così leggiamo in una
lettera di Franco Sacchetti a Jacomo di Conte da Perugia, che, per avviso di
certi valenti teologi suoi amici, il brutto Volto Santo di Lucca era venerato
per la terribilità dell’aspetto. Così nella lettera apocrifa di Pubblio
Lentulo, di qualunque tempo sia stata inventata, leggesi che Cristo aveva
faccia venerabile che ispirava amore bensì, ma anche spavento, e che nel
riprendere era terribile. Così tutti
i Cristi che si vedono dall’epoca in cui si permise l’adorazione delle imagini
fino al secolo di Leonardo, sono più atti ad inspirar terrore che amore o
speranza, ed anche i meglio eseguiti de’ tempi a Leonardo più vicini sono fieri
e minacciosi, e tutti esprimenti potenza piuttosto che altra mansueta virtù.[42]
A mezzo il cinquecento sappiamo dalla storia che la critica si andava
migliorando circa il modo di rappresentare il Redentore; e il Brunellesco
accusò Donato di averlo rappresentato di aspetto ignobile, con che diede
occasione al famoso motto: To’ del legno
e fa’ tu: ma l’accusa non riguardava che alla ignobiltà del carattere, e il
Brunellesco che si mise in fatti a far un Cristo col quale vinse Donato, il
fece bensì più nobile, ma noi fece men fiero e terribile. E questa espressione
di fierezza era sì voluta e sì praticata, ch’ella si scorge nelle opere degli
artefici più lieti e bizzarri, come può vedersi nel detto Brunellesco e più
anticamente in Buffalmacco, i cui Cristi imprimono spavento e paura, mentre i
loro autori erano uomini faceti e piacevolissimi. Rinforzava sì fatte opinioni
l’ermeneutica di quel tempo; nè la critica posteriore avrebbe molto di che
opporre. Nel vangelo i primi impeti di Cristo sono di potenza, e il vediamo ora
da solo a colpi di flagello discacciare dal tempio i profani venditori: ora con
una parola far cader tramortiti gli sgherri che poi, siccome era scritto,
dovean prenderlo. Similmente nell’Apocalisse l’agnello celeste da cui Cristo è
simboleggiato, rugge come leone, e fa tremare co’ suoi ruggiti il cielo e gli
abissi. Per sino le storie apocrife che sebben tali pei fatti, hanno sempre
qualche imitazione del vero nella rappresentazione de’ caratteri, e si
accomodano alle antiche tradizioni onde riuscire accreditate, si accordavano ad
attribuire a Cristo un carattere aspro e severo con replicati prodigi di
potenza. Nel vangelo di Tommaso israelita vediamo Cristo ancor bambino far
cader morto un fanciullo che l’urta nella spalla; far rimaner ciechi i parenti
che di ciò si lagnavano; riprender Giuseppe perchè avesse dato orecchio alle
loro querele. Ciò poi che ivi si legge detto dal pedante Zaccheo, esprime in
tutto la fierezza di fisionomia che gli antichi gli dettero: Severitatem obtutus illius ferre nequeo:
indi, Neque enim hac hora ejus oculos
intueri possum.[43] Poco appresso dal medesimo vangelo si
scorge che niuno si ardiva di provocare il divino fanciullo, temendo di
rimanerne monco o storpio. Dalle quali cose tutte si può agevolmente giudicare
che tanto per natura e per costume, quanto per autorità di monumenti scritti e
di figurati, la più importante espressione che in antico davasi a Cristo dalle
arti del disegno, era quella di una certa fierezza e terribilità atta ad
esprimer potenza. E tale espressione, secondo l’intendere di que’ tempi,
racchiudeva quella di ogni altra divina virtù; perchè la potenza che,
parlandosi di Dio, si estende a tutto l’universo, è madre necessariamente di
tutte le altre virtù divine, le quali, quasi da comun fonte, emanano da essa a
beneficio e conservazione del creato.
Rivolgendomi
da poi ad indagare il particolar modo di pensare di Leonardo, mi venner fatte
le seguenti osservazioni. Primieramente al suo tempo l’arte perfezionata poteva
con maggior estensione e verità esprimere i concetti delle fantasie; e
migliorata la notizia delle forme e de’ moti umani, quell’antica fierezza e
severità ch’era quasi una necessità de’ tempi men colti, ancor servi anzi che
signori dell’arte, poteva essere posposta alla bellezza che l’arte intendeva e
rappresentava a sua voglia assai meglio. Anche gli antichi sapevano che il
corpo di Cristo fu perfettissimo, come, oltre a tante sacre autorità,[44]
può vedersi nella citata lettera del Sacchetti; ma non avevano idea chiara
della perfezione d’un corpo umano, e stavan contenti a quelle loro
rappresentazioni, attendendo più air espressione che alle forme. Leonardo che
primo portò l’arte al suo vero compimento, debbe aver combinato nel suo Cristo
la bellezza delle forme colla forza dell’espressione, operando in modo che l’umiltà della carne da Cristo assunta non
gli facesse perdere la dignità della
potestà, conforme al detto di sant’Ilario vescovo.[45]
Secondariamente avrà considerato Leonardo che la nobiltà della divina natura,
mescolandosi colla umana, doveva influire in questa per modo da sublimarne le
fattezze; e quand’anche nel fatto fosse stato altrimenti, dovette stimare
obbligo dell’arte l’esprimere questa difficile mistura. In oltre mi parve che e
pel modo proprio di pensare e per quello del suo secolo ei dovette credere tra
le virtù divine prima in Cristo mostrarsi la potenza, come virtù che sola
poteva attestare la sua origine, e dopo quella le altre siccome accessorie ed
occasionali. Ultimamente (avuto riguardo alla drammatica situazione del Cristo
del Cenacolo) giudicai ch’egli, servate le leggi della bellezza, fattane
applicazione alle forme di Cristo generalmente riconosciute, e conservata la
primitiva espressione caratteristica della virtù della potenza, abbia poi
aggiunta l’espressione di tutte le virtù secondarie ed occasionali, della
mansuetudine, della rassegnazione, dell’amore. In fine riguardando all’umanità
sua e ad un certo naturale orrore ai patimenti, al quale, per testimonio della
Scrittura, andò soggetto al pari degli altri uomini, ed oltre ciò allo spirito
profetico pel quale doveva antivedere l’effetto del tradimento che gli veniva
fatto da un amico, congetturai che Leonardo avrà tentato di dare a questa
figura, oltre l’espressioni che notammo, quella profonda contristazione di che
parlano i vangeli nella circostanza da lui presa ad imitare, e consentaneamente
alle altre dette virtù avrà velato quello stesso turbamento d’una sublime ed
eroica moderazione.
Queste
mi parvero dover essere state le intenzioni di Leonardo: s’egli poi sia o no
riuscito ad esprimere la sua idea, non si può nè per le storie diffinire, nè
dallo stato presente dell’opera giudicare. Secondo il Borromeo, sembra che
almeno in gran parte egli avesse conseguito il suo intento: secondo il Lomazzo
ed altri, si dovrebbe giudicare diversamente. Pare però certo che Leonardo
stesso rimanesse assai mal contento dell’opera sua; ma è poi anche facile il
credere che il suo giudizio fosse troppo severo, e che forse egli pretese
dall’arte più che l’arte non potea mostrare.
Intanto
prima che io mi fermassi nell’esposte considerazioni, tratto dall’autorità del
Paciolo, stimai doversi nel volto di Cristo, da chi vede, raffigurare quel
desiderio dell’umana salvazione, del quale, secondo quell’autore, il Cenacolo
di Leonardo è simolacro. Perciò giudicai
che vi si dovesse scorgere la mansuetudine dell’agnello divino annunziato dal
Batista, bramoso di lavare del proprio sangue le colpe degli uomini; e parvemi
che la dolcezza, la carità, la rassegnazione al volere paterno fossero le miti
virtù che dalla soave fisionomia di lui dovessero trasparire. E con tali
principi mi sforzai di caratterizzarlo nel mio cartone, mal contento di altri
tentativi da me fatti con mire diverse. A ciò mi trasse anche l’autorità d’un
disegno assai pregevole creduto di Leonardo e posseduto dall’egregio oblato
Mussi, ora defunto, nel quale si scorge una dolce mistura di queste mansuete
espressioni. Ma penetrando poi nel seguito dell’opera alquanto meglio, se non
erro, nella mente di Leonardo, mi sono nella tela sforzato di rappresentare il
Redentore come mi parea dovesse risultare per le osservazioni dette di sopra.
Io volli in somma che gl’indizj che la fisionomia permette, di potenza e di
grandezza, si dimostrassero in lui connaturali e permanenti; e che accidentali
e passeggieri apparissero quelli delle altre virtù, non che quelli degli
affetti che la circostanza doveva commuovere. Se pertanto nell’arte l’effetto
pareggiasse l’intenzione, si vedrebbero meraviglie; ma il fatto va per lo più
altramente, e dopo che Leonardo che pur tanto potea, fu mal contento dell’opera
sua, mostrerebbesi ardito non solo, ma sciocco ed ignorante chi si
accontentasse della propria. Perciò circa questa testa io non dirò altro se non
che voleva farci varie correzioni, cambiamenti ed aggiunte, ma il timore di far
peggio, e il consiglio di molti me la fecero lasciare quale mi è uscita dal
pennello la prima volta che copersi l’abbozzo.
Resterebbe
ora a dire qualche cosa dell’atto delle mani, intorno alle quali, come intorno
al rimanente dell’opera, mi sbrigherò prontamente. La sinistra non presenta
alcuna difficoltà; ma la destra apparisce in attitudine alquanto forzata ed ai
più spiacevole. Mi sarebbe stato assai facile il cambiarla o modificarla, ma i
pochi avanzi dell’originale e la copia del Bianchi me ne tolsero l’arbitrio.
Rimarrebbe a spiegare perchè le desse Leonardo un tal atto; e parmi volesse per
esso esprimere la contenzione colla quale il Salvatore reprimeva il dolore
profondo da cui era compreso mentre profetizzava il preparatogli tradimento.
Fors’anche con quell’abbassamento dell’indice volle accennare le proprie parole
del vangelo di Matteo: Qui intingit mecum
manum in paropside, ecc. O in fine chi più sottilmente raffinasse, potrebbe
in quel lieve alzamento del dito medio che pare rivolto a Giuda, riconoscere
tal gesto chironomico, onde mostrare lui essere il traditore; del qual gesto mi
fe’ nascer congettura un passo del Bandello che può vedersi nelle note.[46]
Ad ogni modo questa mano si trova in tale alquanto forzata posizione in ogni
copia più accreditata: bensì è quasi sempre del tutto storpia per la difficoltà
di render tal atto con naturalezza. E quantunque simili atti delle mani o
accadono di rado o rimangono inosservati in natura, s’incontrano nondimeno
sovente e nelle opere del Vinci e in quelle de’ suoi discepoli. Veggasi in
prova di ciò, per tacer d’altre opere, il quadro della Concezione del quale si
trovano varie copie, il bel ritratto del Morone di casa Scotti e il san Michele
di Marco alla Galleria Reale. Per tali osservazioni mi sono sempre più
confermato che non altrimenti stesse questa mano nell’originale, e mi sono
ingegnato di renderla con quella naturalezza che potei maggiore, combinandola
col dintorno determinatomi, come dissi, dalla copia del Bianchi e
dall’originale.
Anche
l’ordine della mensa lasciava grandi ambiguità per gli arbitrj spesso ridicoli
delle copie, non meno che pei ritocchi stravaganti da cui si scorge alterato
l’originale. A questo però mi attenni ove ho riscontrato qualche minuto
frammento di antico. Un piatto, del pane e un bicchiere per ognuno de’
commensali:[47] un gran
piatto voto davanti a Cristo: alcuni taglieruzzi minori: alcune ampolle d’acqua
di figura uniforme: due piatti grandi, ne’ quali mezzo per piatto posi
l’agnello arrostito; ecco le principali cose con che ho ornata la mensa,
seguendo gli avanzi del Cenacolo delle Grazie, e le copie in quelle cose che mi
parvero secondo la mente di Leonardo.
Pel
campo barbaramente ridipinto alle Grazie ebbi ricorso al Trattato di Leonardo
anzi che al suo quadro. Vi ho riconosciuti alcuni arbitrj di prospettiva nella
distribuzione de’ quadrati delle tappezzerie ed anche in altre cose; ma tali
arbitrj furono cagionati dal vantaggio di far campeggiar meglio le teste con
quel principio del Vinci ripetuto infinite volte nel Trattato, che ogni oggetto
debbe avere la sua parte luminosa più chiara del campo, come l’ombrosa più
oscura. Per tal ragione egli fe’ uscire alquanto di lume dalla porticella nella
quale campeggia la testa di Bartolommeo e di Andrea, come similmente fe’
ombrose altre parti, accomodando il tutto all’effetto ed al rilievo, senza
ombre forti e sempre con dolcissime degradazioni. Finalmente gli ornamenti
della tappezzeria gli ho tratti per le linee generali dall’originale, non
potendo credere che il Bellotti si prendesse l’incomodo d’inventare e diminuire
in prospettiva un diverso ornamento, essendogli in vece assai facile lo
storpiare, come fece goffamente quello che aveva trovato; tanto più che,
cangiandolo, oltre la fatica maggiore, egli non avrebbe potuto far credere ai
frati di soltanto rinettare, non mai di rifare il dipinto. Gli ho però per lo
stile adattati al tempo, studiando i rabeschi di quell’epoca. Per le portine
poi o aperture laterali colle quali intese forse Leonardo di far comunicare il
Cenacolo colle officine interne e togliere così il bisogno d’introdurre i
famigli durante la sacra cerimonia, siccome nell’originale furono cancellate
dal Mazza, ho seguito la copia di Castellazzo, in ciò la migliore di quelle da
me vedute.
Taccio,
per non prolungare il tedio di questo articolo, di altre infinite cose da me
osservate con diligenza nel mio lavoro; e mi basti l’avvertire che non v’è
minuzia per la quale io non abbia avuta qualche autorità o ragione. Non debbo
però tacere che in tutta l’opera ho tenuto alquanto elevati i tuoni delle
tinte, e ciò per due ragioni. La prima è perchè all’abbassamento de’ colori pur
troppo provvedono gli anni, ed è più sano consiglio l’offendere il presente
giudizio di qualcuno e far rimanere le opere armoniche per alcuni secoli che
non per la gloriuzza presente far tale impasto di tinte che poi presto
s’adombri o vada in fumo. La seconda fu perchè la traduzione in mosaico a cui
il mio quadro era destinato, oscura di necessità le tinte e per gli smalti che
non le hanno sì vivaci, e per quella rete minuta che risulta dagl’interstizj
de’ minuti pezzi di che l’opera a mosaico è composta; i quali interstizj,
sebben con arte si colorino delle tinte degli smalti vicini, sempre coll’andar
degli anni si oscurano notabilmente, sopra tutto nelle opere grandi, come
l’esempio dimostra; ed allora fanno sul totale dell’opera l’effetto quasi d’un
velo che diminuisce la potenza generale de’ colori.
Per
tal modo in trenta mesi circa mi sono sdebitato il meglio che per me si è
saputo, dell’onorevole sì ma difficilissimo incarico addossatomi di richiamare
in vita quanta parte si poteva dell’opera di Leonardo: ed il giudizio che in
voce o in lettere intorno a tal mio lavoro ho ottenuto da persone altamente
autorevoli, ed in ispecie dall’umanissimo Principe che me lo commise, fu tale
da larghissimamente compensarmi delle tante sostenute fatiche.[48]
Avrei avuto bisogno di molto maggior tempo tanto per giudicar meglio l’opera
mia, quanto per meglio condurre alcuni accessorj che ho lasciati imperfetti,
come sarebbero fimbrie ed altre piccole decorazioni. In tutte però le parti
importanti ho cercato d’impiegare la massima diligenza, imitando, secondo
l’ingegno e il poter mio, la maniera del Vinci, nella fusione e degradazione
del colore e nella finitezza di ogni particolarità.
Se
dovessi pertanto far anch’io palese il mio parere su questa mia qualsisia
opera, direi che, confrontandola con quanto potrei fare io stesso una seconda
volta, se mi reggesse l’animo a ripetere tal genere di fatiche, la trovo
lungamente inferiore all’idea che per li precetti e per le poche vere opere
dell’autore mi son fatta dell’originale. Direi in oltre che per quanto questa
mia idea stia molto al di sopra di ciò che ho potuto e potrei eseguire,
nondimeno io la credo ancora, nelle parti più alte e delicate dell’arte,
lontana assai dall’opera di Leonardo; ed oso di più asserire che ai tempi
nostri e colle poche reliquie che del Cenacolo ci restano, è impossibile il
farsi di esso tale idea che al vero compiutamente si assomigli, quand’anche per
prodigio si rinnovasse in alcuno la mente e l’anima dell’antico autore.
Ad
onta di ciò, se poi confronto la mia copia colle copie antecedenti, non mi pare
d’esser troppo liberale verso me medesimo giudicandola a quelle superiore nelle
parti più importanti; e ciò non già perchè io mi creda superiore d’ingegno e di
pratica a coloro che le eseguirono, ma perchè, avendo io in vista uno scopo
maggiore che gli altri non ebbero, ho impiegato per ottenerlo maggiori mezzi
d’ogni genere, anzi credo d’averli tutti esauriti.
E
quando a taluno recasse meraviglia ch’io abbia voluto non richiesto esporre il
mio giudizio sull’opera mia, dirò che a ciò mi son mosso perchè (oltre che ad
alcuno può piacere di sapere ciò ch’io ne pensi) de’ pareri degli altri uomini,
sebbene sieno stati finora per me lusinghevolissimi, sono costretto dentro me
stesso a non tenere quel conto che pur vorrebbe aver dritto di farne un animo
desideroso di vera, onesta e ben meritata lode. Ognuno che ha letto libri o
storie di cose di disegno, troverà sovente essersi fatte le meraviglie al
nascere di tali opere che coll’andar degli anni caddero nell’obblivione e talor
nel disprezzo; e, a vicenda, essere state viste con indifferenza quelle alle
quali la posterità preparava applauso e corone. Tale considerazione dovrebbe
sola bastare a farci proceder con misura nel prestar fede ai biasimi, non meno
che agli encomj de’ contemporanei. E quantunque, a questa difficile e
schizzinosa età nostra, la lode che viva oltre un giorno, comechè più ardua da
ottenersi, possa riuscire più lusinghiera e parere meglio fondata, essa è per
lo più, al pari del biasimo, sospetta, perchè l’ignoranza, la mala fede e
l’avarizia corrompono troppo sovente i giudizj. Perciò chiunque ama daddovero e
conosce l’arte, non dee troppo dare orecchio alle lusinghe de’ lodatori, nè per
altra parte intimidirsi alle punture di chi riprende, giovandosi, invece,
de’giudizj di biasimo onde correggersi e farsi migliore, e considerando quelli
di lode siccome stimoli a meritarne di più ampj ed universali. E come io volli
dire queste cose, non solo per me, ma per ciascheduno che segue con amore la
strada dell’arte, debbo aggiungere che que’ voti che più all’artefice
importerebbero, difficilmente saranno sinceri, perchè, dovendo egli averli da
persone della sua stessa professione, non sarà ben certo se l’opinione che a
lui manifesteranno, sia eguale a quella che con gli altri mostreranno d’avere;
e anche quando l’opinione gli sarà favorevole, non potrà mai abbastanza
assicurarsi se gli verrà detto il vero per animarlo e consolarlo, o il falso
per l’invido infame gusto di tenerlo in errore. Dal che tutto è manifesto che l’artefice
che ha vigore d’ingegno e costanza d’animo, non dee lasciarsi vincere nè da
lode nè da sdegno, ed allora andrà, come già disse il nostro illustre Parini al
grande Alfieri,
Lungi
dall’arte a spaziar fra i campi.
E
tornando al proposito dell’opera mia, augurando alla mia tela più lunga vita
che non ebbe il suo originale, la raccomando volentieri ai giudici avvenire,
dai quali soli è difficile aver lode o biasimo immeritamente.
FINE DEL LIBRO TERZO.
NOTE
[1] Il Boccaccio dicea
guasta al suo tempo l’arte del disegno dall’avarizia degli artefici. Ecco
com’egli si esprime nella Vita di Dante,
rivolto alla città di Firenze, dopo aver tassata l’avarizia de’ mercatanti: L’arte, la quale un tempo nobilitata fu
dagli ingegni in tanto che una seconda natura la feciono, dalla avarizia
medesima è oggi corrotta e niente vale. È notabile la frase con cui accenna
la perfezion dell’arte, dicendola fatta una
seconda natura, la qual frase si trova più d’una volta anche negli scritti
del Vinci. Per quanto poi spetta a questa opinione del Boccaccio intorno alla
pittura, è bene di osservare che la Vita
di Dante è frutto giovenile degli studj suoi. In età più matura egli rifece
meglio e più gravemente questo suo lavoro, introducendovi cose e modi nuovi,
accorciando molti prolissi periodi, e troncando molte superfluità, fra le quali
l’indicata allocuzione a Firenze, e per conseguenza anche il passo in cui
accusa la pittura di decadimento. Di tal riforma di questa importante operetta del
Boccaccio mi è venuto alle mani un buon codicetto scritto nel 1437.
[2] È degno d’osservazione
a questo proposito un passo di Petronio, che anch’egli dice che la Pittura non alium exitum fecit postqnam Ægyptiorum audacia tam magnæ artis compendiariam invenit. Che cosa si fosse
questa invenzione degli Egizj, è difficile il chiarirlo; ma doveva di certo in
qualche parte assomigliarsi all’intaglio, e comunque fosse, doveva essere un
modo meccanico di moltiplicare prontamente de’ mediocri prodotti d’arte: la
qual cosa arreca sempre impedimento al progresso dell’arte vera, cui apporta
invece certo danno e generale discredito.
[3] L’aureola non è sempre
il distintivo della elezione e della santità. Il beato Giovanni Angelico da
Fiesole fece più volte Giuda col capo cinto dell’aureola. Veggasi la Tavola
XVII del primo volume dell’Etruria
Pittrice e varie opere inedite dello stesso amabile pittore, trasportate di
recente nell’Accademia di Firenze.
[4] Vedi il cap. L e il
cap. LXXVIII.
[5] Prima della copia di
san Barnaba dovrebbe porsi in ragion d’epoca una copia che il signor professor
Malacarne scrisse al cavaliere Amoretti aver veduto due anni sono in un’antica
cappella de’ signori di Saluzzo in Revello. Egli anzi assicura essere quella
una ripetizione del Cenacolo di mano dello stesso Vinci, il quale, secondo il
detto signor professore, dipinse quest’opera nel 1506, allorchè passò qualche
tempo nelle vicinanze di Saluzzo; di che tutto trasse indizio da una noterella
di Leonardo, pubblicata dall’Amoretti alla pag. 100 delle sue Memorie storiche. Quella noterella
pertanto di null’altro ci fa menzione se non che di certa pietra buona da
macinar colori, da Leonardo trovata a Monbracco presso al Monviso, della qual
pietra gli è promessa una tavola da un suo compare maestro Benedetto. Come poi
questo tesoro sia stato tre secoli sepolto, senza che alcuno scrittore antico o
moderno ne abbia dato indizio, io non saprei dirlo: so bensì che per molte
lettere scritte e fatte scrivere non potei trarre notizia alcuna di sua esistenza
presente o passata.
[6] Veggasi il suo
Vitruvio alla pag. XLVIII a tergo.
[7] Il Gault sbagliò circa
il luogo di questa copia, dicendola a san Girolamo sul canale.
[8] AD . COEM (Cœnobitarum) VTILITATEM
RESTAVRAVIT . AVXIT .
ATQ .
EXORNAVIT . CÆNOBIVM
. (sic)
HOC . DON . BALTHASAR .
SVDATVS A’ MEDIOLANO .
DEI . GRATIA PRIOR
EIVSDEM MONASTERII
MD=XIV .
Nel millesimo si scorge una cifra anticamente
scancellata, con che venne probabilmente corretto qualche errore dello
scarpellino, ignaro forse delle cifre romane.
[9] È certamente grande
sventura non solo per la storia e per la critica, ma altresì per lo studio
delle arti, che il più de’ libri che ne trattano, siano stati scritti in
un’epoca in cui l’arte cominciava a decadere o era decaduta del tutto. I nostri
secentisti, da’ quali abbiamo gran numero di scritti, giudicarono assai male
delle arti del disegno, come di ogni altra cosa di gusto. Essi soleano per lo
più profondere elogi smisurati ad ogni mediocre opera, e con ciò prevennero e
corruppero i giudizj, la cui general corruzione accrebbe la corruzione
dell’arte. Gli encomj poi che davano ai loro contemporanei, del più de’ quali
non rimane opera lodevole, superavano quelli de’ primi luminari della pittura.
Il Vasari stesso, che pure appartenea a miglior tempo, merita sovente questa
taccia, e si trova ne’ suoi libri profuso il titolo di divino a molti ingegni
volgari. Venendo più verso noi, nel noto sonetto pittorico, che si attribuisce
ad Agostino Caracci, si pone Nicolino sopra Michelagnolo e sopra gli altri grandi,
e non saran pochi quelli che dimanderanno chi sia questo Nicolino. Federico
Zuccaro, che in nessuna delle sue rare opere in prosa parla del Vinci, appena
ne fa motto in quel suo stravagante Lamento
della Pittura da lui composto in cattive terzine; nel quale, dietro
l’elogio di Taddeo Zuccaro e del Correggio, dice con poco giudizio, men
discrezione e nessuna cronologia,
A questi
seguì poi un Parmigiano
Di molta grazia e somma leggiadria,
E poscia un Sarto, un Vinci, et un Romano.
Alla stessa maniera con versi non dissimili
dalla critica finisce il Bellori la quinta stanza della sua Oda alla Pittura, dicendo,
E le lor glorie al paro
Andrea, l’Abbate e Leonardo alzaro.
Il Marino chiamava Protogeni ed Apelli que’
pittori che il presentavano di loro opere.
E salendo anche a’ tempi a noi più vicini, il
Gori nelle note al Condivi mostra di credere che Michelagnolo non vedesse
uomini ignudi. Giampiero Zanotti in que’ suoi prosaici endecasillabi ad Ercole
Lelli colloca Leonardo dopo Pellegrino e Giulio Romano; e lo stesso fece in
prosa monsignor Bottari. Similmente il padre Fedele da san Biagio preferiva
Pietro da Cortona a Raffaello. E di simili grossi giudizj potrei dare lungo
elenco, se non temessi di comunicare altrui quella noja ch’io n’ebbi in
leggendoli. Volli però darne un saggio, acciocchè coloro che si danno a
studiare le cose delle arti, ponderino bene a quali autorità si affidano, non
essendo mai abbastanza ripetuto consiglio quello di pesare le opinioni e i
giudizj secondo gl’interessi e il sapere degli autori, secondo la natura de’
libri in cui tali giudizj ed opinioni si leggono, secondo l’età in cui que’
libri furono scritti, ed in fine, secondo lo stato nel quale in quella età
trovavasi la letteratura e la filosofia.
[10] Veggasi la nota 34 del libro primo.
[11] Il proprietario di
questa copia, allorchè mi recai a bella posta a Sassuolo, chiedendo d’ivi
vederla presso di lui, si offerse gentilmente di mostrarmela, se io mi fossi
trattenuto in Modena alcune settimane; alla qual cosa per imperiose circostanze
non ho potuto aderire.
[12] Veggasi a carte 43.
[13] Avvertasi che questo
passo della prima edizione della Guida
del Bianconi fu malamente troncato ed alterato nella seconda.
[14] Di quest’altro suo
cenacolo parla il Lomazzo nella sua Vita coi seguenti versi:
Nel rifettoro poi del Monastero
Maggior pinsi l’historia quando Christo
Fece il miracol de li pani et pesci.
E insieme la sua cena, dove Giuda
Mostrai qual traditor in viso e in gesti.
[15] Alcuni vedendo notato
prima Giacomo il Maggiore, indi Tommaso, e vedendo nell’opera la testa di
Tommaso prima di quella di Giacomo, hanno creduto che questi apostoli dovessero
chiamarsi in modo inverso. Ma è evidente che il nome risguarda il posto stabilito
alla figura, non l’accidentale posizione della testa; e di ciò si ha patente
argomento in questo istesso quadro, vedendovisi medesimamente nominato prima
Pietro che Giuda, quantunque, con caso conforme all’indicato, Pietro porti la
testa dopo quella del suo vicino.
[16]
Decreta, quæ
nos Federicus Card. Borromæus Archiep. Mediolani in visitatione Plebis Capriaschæ Nostræ Med. Diocces. Anno
MDEVI. Mense Octobri confecimus. (fol. 21) Pontis
= In Ecclesia par. S. Ambrosii Loci
Pontis. Nel titolo De Ecclesia, et
aliis rebus materialibus, fol. 25 a tergo leggesi:
«Parietes
aptis coloribus pingantur meridionales, ut reliquæ Ecclesiæ parti non sint
dissimiles.»
[17] Da questi versi si può
aver qualche lume intorno al ritratto di Bernardino Luino. In Sarono si mostra
come effigie di questo grazioso pittore quel vecchione bianco per antico pelo,
che sta seduto a dritta di chi guarda, nella Disputa de’ Dottori. Quelle dipinture furono condotte a termine nel
MDXXV, come prova l’iscrizione di Bernardino nella Presentazione al tempio, che a parer mio è la più bella di tutte
quelle opere. Aurelio che era il maggiore de’ suoi figli nacque nel 1530,
secondo che apparisce dalla sua lapida sepolcrale conservataci dall’Argelati.
Ora com’è egli possibile che Bernardino fosse nel 1515 un vecchione grinzuto
nonagenario, e avesse figli molt’anni dopo? Per altra parte quali opere di
Bernardino si conoscono anteriori al secolo XVI? Da ciò si conchiude facilmente
che quel vecchio non può rappresentarlo; e se mai in Sarono v’è la sua effigie,
io crederei riconoscerla in quello de’ Magi che guarda lo spettatore, ch’è una
figura vivace e dolce allo stesso tempo, di sguardo penetrante, di pel biondo e
vago, come dice il Lomazzo; e in fine d’una età che non discorda dalla storia.
[18] Il Lomazzo era minore
di Aurelio di soli otto anni. Se Pietro era minore e di Aurelio e di
Evangelista, doveva esser giovine nel 1565, anno in cui probabilmente dipinse
ed ornò la chiesa.
[19] Debbo al cavaliere Amoretti la notizia
dell’esistenza di questa copia.
[20] Dopo il FECIT vedesi una scancellatura che, osservata
attentamente, non dimostra altro se non che prima vi era stato scritto FECERUNT.
[21] Leonardi
Cænaculum, sive Triclinium, quod in aulæ hujus summa parte prostat, cogit transire pleraque alia, quæ cujuslibet tenere oculos possint, in primisque exempla
Luini operum, quæ cum jam vetustate
dilaberentur, exciderentque tectoriis, exprimenda curavimus, atque hinc inde
collegimus. Reliquiæ cœnaculi cernuntur adhuc in Urbis hujus monasterio, quod
sanctæ Mariæ Gratiarum dicitur. Ibi
cum ego olim infidum tanto operi parietem, excidentesque crustas inspexissem,
desiderio exarsi conservandi operis, si qua humana ope id assequi possem; ac
super ea re probatum mihi pictorem appellavi. Is pieno desperationis sermone
corruptas, et evanidas, dilapsasque figuras arguendo, spem primam meam omnem
infregit; deinde monitus, ut capita saltem nonnulla Apostolorum, quæ adhuc exstarent, exprimere ne cunctaretur, postquam id
fecerat, duoque vel tria capita comparuere, sic desperatione damnata sua, spes
meæ ultro crevere. Ita lente, et laboriose, et magno omnium tædio per temporum etiam intervalla opus est absolutum, quale
jam exstat; argumentumqne difficultatum istarum esse potest hoc ipsum, quod non
lintei unius continuato tenore, sed separatis, interpolatisque linteis hœc triclinii exempla continentur. De artificis fide dubitari
non potest, quia et Leonardi ipsius exemplaria in membranis reperta sunt ad
hanc eandem formam, et artifex ipse craticula, et dilucidatione singula capita
exploravit.
Indi dopo il passo che abbiamo riportato nel
libro primo siegue a dire:
Cœnaculum igitur hoc inter præcipua Musei nostri,
carum nobis est, cariusque porro quotidie erit jam dilapso, et penitus amisso
Leonardi opere, quod thesauri alicujus loco semper habitum est.
[22] Dal passo del cardinale citato
nell’antecedente nota si può dedurre che l’autore della copia si sia fatto
ajutare, e ciò apparirebbe specialmente nella testa di Cristo di lunga mano
inferiore alle altre, e che sembra di maniera diversa dalla tenuta dal Vespino
nelle molte opere che di lui ho esaminate.
[23] Ecco quanto ho potuto circa i lavori del
Vespino estrarre dall’archivio ambrosiano. Dall’istrumento della donazione
fatta dal cardinale Federico Borromeo alla Pinacoteca ambrosiana di molte opere
di disegno, nel quale istrumento si legge l’intero catalogo delle dette opere,
sotto l’articolo Copie fatte con
diligenza, si ricava quanto segue:
Il
Cenacolo di Leonardo copiato da quello che si vede nel monastero delle Gratie
da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, lungo braccia tredici, et alto un
braccio e mezzo.
La
Madonna grande di Leonardo copiata da messer Andrea Bianchi detto il Vespino,
sopra una tavola alta braccia tre et once due, e larga due braccia senza
cornice.
Una
Madonna con S. Anna e Christo bambino che scherza con l’agnello, dipinta da
messer Andrea Bianchi detto il Vespino, non copiandola da altro quadro simile
dipinto, ma solo imitandola dal cartone di Leonardo. È senza cornice, et alta
braccia due e mezzo, e larga due.
(Da ciò si deduce ch’era tuttavia in Milano uno
de’ cartoni fatti dal Vinci su questo argomento, e sarà stato forse quello
prima posseduto da Aurelio Luini, e che passò da poi nelle mani del padre
Sebastiano Resta).
Due teste
d’Apostoli copiate da messer Andrea Bianchi detto il Vespino dalle opere di
Leonardo, in un sol pezzo alto un braccio, e largo uno e mezzo, senza cornici.
(Queste non esistono nella galleria. Saranno
forse state alcune di quelle fatte da principio per esperimento, e che non
essendo riuscite bene, non servirono a comporre il Cenacolo.)
Una
Madonna et una S. Elisabetta con Christo e San Giovanni bambini, che
abbracciano un agnello, larga braccia tre e tre once, et alta braccia due e
mezzo, cavata da messer Andrea Bianchi detto il Vespino da quella che fu
dipinta sopra il muro dal Luino vecchio, senza cornici.
Una
Madonna col figliuolo nudo in braccio e S. Giosefo, e con un ritratto al
naturale, cavati dalle opere del Luino vecchio a Lugano da messer Andrea
Bianchi detto il Vespino, alto braccia uno e once otto, e largo un e mezzo,
senza cornici.
Le tre
Marie con un bambino, copiate dagli originali del Luino in Lugano da messer
Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio e once nove, larghe un braccio
e tre once, senza cornici.
Tre teste
che rappresentano tre Sacerdoti Giudei cavati dagli originali del Luino da
messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio, larghe uno e due once,
senza cornici.
Tre altre
teste cavate dall’opera grande della Passione dipinta dal Luino in Lugano da
messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alte un braccio, larghe uno e due once,
senza cornici.
Due
Apostoli dal mezzo in su, alti poco più d’un braccio e poco più lunghi, dal
detto messer Andrea Bianchi detto il Vespino, copiati dal Cenacolo del Luino a
Lugano.
Due altri
Apostoli dal mezzo in su quasi dell’istessa grandezza, copiati dall’istesso
Vespino dall’istesso luogo.
Un
Crocifisso senza bracci e senza gambe, copiato da messer Andrea Bianchi detto
il Vespino, e l’originale è del Luino, alto un braccio e otto once, e largo
nove.
Una testa
di S. Caterina grande un palmo, copia fatta da messer Andrea Bianchi detto il
Vespino da un altra del Luino, alta sette once e larga sei.
Un
giovane rappresentato nell’oscuro vestito di pelle, senza cornice, il quale è
copia del Parmigianino, fatta da messer Andrea Bianchi detto il Vespino, alto
un braccio e largo tre quarti.
Molte di queste opere, oltre le notate due
teste, non si trovano più, e s’ignora come siano sparite.
L’istrumento, che meriterebbe la pubblica luce
per intero, è rogato da Giacomo Antonio
Cerruti, Notajo Attuario della Cancelleria Arcivescovile, nel 1618.
Si trova nuovamente menzione del Vespino e del
suo Cenacolo nell’inventario del 1661 firmato da varj e concordato da Giacomo Filippo Buzzi, Dottore del Collegio
Ambrosiano, e nell’altro del 1685 rogato da Tommaso Buzzi il 31 agosto di quell’anno, e in varie altre carte
posteriori.
Intanto l’elenco qui riferito delle molte opere
del Vespino dimostra quanto egli si fosse esercitato intorno alle cose di
Leonardo, e del suo più illustre imitatore Bernardino Luino; con che si
aggiunge pregio ed autorità alla sua copia del Cenacolo.
[24] Biblioth. ecc., tom.
sec., part. alt., pag. 1909.
[25] Il cavaliere Giuseppe Longhi, il quale attende
ora ad incidere lo sposalizio della Vergine di Raffaello.
[26] Ecco l’origine dell’errore del De Pagave. Il 5
agosto del 1781 il signor de Guttenbrunu, pittore tedesco ch’era passato da
Lugano, descrisse al De Pagave quelle pitture del Luino. Nel ragguaglio che il
De Pagave medesimo scrisse di tal descrizione, dopo aver parlato della grande
Crocefissione de’ zoccolanti aggiunge: Oltre
questa mirabile e grandiosa pittura, mi dice (il Guttenbrunn) che nel Refettorio dei detti Padri vi abbia
pure Bernardino dipinto la cena degli Apostoli desunta da quella di Leonardo
nelle Grazie, e che questa opera pur sia bellissima e singolare. Il pittore
disse desunta per le varie figure
imitate dal Cenacolo vinciano: il De Pagave intese copiata: il De la Valle
hebbe l’errore, e da lui fu sparso negli altri che scrisser dopo.
[27] Di quest’opera del Frate mi è riuscito d’avere
l’originale disegno a penna, soltanto però della parte superiore. Per esso (che
poco dal dipinto a fresco pei danni del tempo si può scorgere) si vede che
Raffaello non solo imitò la disposizione delle figure, ma persino l’andare de’
panneggiamenti. Era poi costume di Raffaello, accennato anche dal Vasari, il
ritrarre tutto ciò che trovava potergli un giorno servire, ed io tengo un libro
tutto di sua mano con circa cento disegni, fra i quali non pochi sono tratti
dai più celebri autori del secolo XV, e vi si riconoscono copiate con
bellissima maniera e leggiadria singolare varie cose del Pollajolo, del
Ghirlandajo, del Vannucci, del Mantegna, del Vinci, ecc.
[28] Sono tra le altre singolari per la squisitezza,
copia e rarità quelle de’ signori Gio. Giacomo Trivulzio, Gaetano Melzi e
Francesco Reina.
[29] Altri amici mi prestarono cortesemente o delle
copie dell’opera, come i signori Cigalini, Masera, Ferrari, Commerio; o de’
libri, come i signori Storck e Maino, Reina, Melzi; o in fine de’ preziosi
manoscritti e de’ disegni, come i signori Trivulzj; ai quali tutti, come ad
altri, che per esser breve non nomino, professo riconoscenza ed obbligo
infinito.
[30] Dal passo citato del cardinale Borromeo abbiam
veduto che il Bianchi condusse quest’opera multo
et suo et aliorum tœdio.
[31] È osservabile che fino a tanto che è durato lo
stile buono nella pittura, gli artefici si sono sommamente dilettati di
rappresentare il cielo, e non si sono fatte quasi mai tavole in cui il cielo
non si vedesse, sia nell’aperto, sia per finestre, per porte, per architetture
e per altri artifizj. All’epoca che la pittura cominciò a decadere, si cessò di
rallegrare i campi de’ quadri coll’aspetto del cielo, e nel decadimento totale,
per una mal intesa ricerca del rilievo, si sono per sino visti cieli notturni
affatto e neri, mentre le figure erano illuminate vivamente da luce aspra e
tagliente come nelle più splendide ore del giorno. È facile il vedere quanto gli
antichi pensassero meglio; e questo loro genio d’imitare ovunque poteano il
cielo, apparisce anco ne’ poeti, che ne moltiplicarono le descrizioni in mille
modi; nè sarebbe sembrato all’Alighieri di dar nobile fine alle sue tre
cantiche senza toccare delle cose belle, di che il cielo si adorna.
[32] La parte importante della raccolta del De
Pagave consisteva in un gran volume pieno di disegni d’ogni maniera in numero
di settecento circa, posti senza alcun ordine nè scelta. V’era in oltre un
libro con molti piccoli disegni raccolti dal padre Sebiastiano Resta. L’origine
di questi disegni può scorgersi dalla seguente iscrizione che il De Pagavo
aveva posta nel detto maggior volume.
PICTORUM INSIGNIUM
PROTOGRAPHA
QUAE NOBILISSIMAE ARTIS
CULTOR EXIMIUS
CARDINALIS S. R. E
CAESAR MONTIUS
DIUTURNA CONQUISITIONE
COLLEGERAT
ANNA LOAYSIA COMITISSA
MONTIA FAMILIAE SUPERSTES
VENANTIO PAGAVIO AMICO
ET AFFINI
DONO DEDIT ANNO MDCCLXX.
------------------------------------------
HANC
COLLECTIONEM EGO VENANTIUS DE PAGAVE
AUXI ET PERFECI.
[33] Nelle copie di Marco, la testa di Bartolomeo è
una delle più ragionevoli, ma standosi a bocca chiosa, ha poca espressione, e
figura assai meglio un attento e placido osservatore di un oggetto visibile,
che non un perturbato ascoltatore di gravi sentenze, il quale aspetti con
ansietà ciò che l’oratore è per soggiungere. L’apertura poi della bocca onde
udir meglio, è atto, sì naturale e comune che i pittori non trascurano mai
d’imitarlo allorchè accade di rappresentare ascoltatori attenti e commossi.
Cagione di tal atto è la comunicazione che anche per la bocca si apre il suono
verso l’organo dell’udire. Auricola,
dice Haller, non unica via est per quam
soni ad tympanum veniunt; est et altera per nares et os et Eustachii tubam
semper patula. Certum est hominem qui naturali instinctu regitur, quoties
accuratius vult sonos percipere, os late aperire indecoro gestu et rustico, sed
ad finem suum non inutili, ecc. In oltre l’aprire la bocca sospende il
rumore che fa la respirazione pel naso, da qual rumore l’udire è talvolta
impedito o confuso. Simile atto in circostanze simili imitano anche i poeti
osservatori della natura. L’Ariosto nell’atto secondo della Cassaria fa dire a Furbo, pregato
d’ascoltare:
Aprirò la bocca anco acciocchè m’entrino
Meglio le tue parole.
L’attenzione del vedere al contrario pare
chiuda fin anche il respiro non che la bocca: così lo stesso Ariosto:
Trar fiato o bocca aprir o batter occhi
Non si vedea de’ riguardanti alcuno,
Tanto a mirar a chi la palma tocchi
De’ duo campioni intento era ciascuno.
[34] Vedi il mirabile canto XXVII del Paradiso. Ad
indizio della pronta mobilità di sangue propria degli iracondi, io accennai nel
collo di Pietro la vena che attraversa il mastoideo.
[35] Anche nell’originale si scorge qualche traccia
delle lettere che componeano l’iscrizione Juda
Traditor. Fino dal tempo però del Bianchi non s’intendeva che volessero
significare, perchè certune ch’egli imitò, non s’intendono più che
nell’originale. Vedi la nota 41 di questo stesso libro.
[36] Trattato, pag. 465.
[37] Questa mezza figura,
della quale vedonsi varie antiche ripetizioni, esiste nella Pinacoteca
ambrosiana.
[38] Sono parole del Vinci.
Vedi il Trattato, cap. CXCI.
[39] Nella stampa di Firenze la testa di Tommaso
viene a coprire co’ capelli la linea perpendicolare della finestra e lascia
superiormente aperto un quadrato di cattiva forma. Tanto nell’originale, quanto
in tutte le copie da me viste, questa testa campeggia sul cielo con ottimo
effetto.
[40] Lomazzo, Trattato pag. 465.
[41] L’essere stata questa testa presa da una
persona viva e nota può render in qualche modo ragione del perchè Leonardo
scrivesse sul nastro della tunica di Giuda Juda
Traditor; mentre nelle figure degli altri apostoli non pare ch’ei ponesse
iscrizione alcuna. Colui che avrà servito di modello per l’apostolo Matteo,
trovandosi forse proverbiato d’aver servito per l’Iscariote, per togliere
l’occasione di tal beffa, avrà dimandato che Leonardo dichiarasse qual fosse il
suo Giuda mediante la indicata iscrizione; di che da Leonardo umanissimo e gentile
sarà stato di leggieri compiaciuto. Senza questa congettura è difficile lo
spiegare il perchè Leonardo mettesse il nome su di una sola figura, e per
l’appunto su quella che più facilmente di ogni altra poteva venire
riconosciuta.
[42] Si potrebbero eccettuare i Cristi dipinti da
fra Giovanni Angelico da Fiesole; ma la natura o maniera di un artefice non fa
notabile eccezione alla natura o maniera generale. Fra Giovanni Angelico poi
peccava in questo, che faceva fisonomie dolci a tutte le sue figure di qualunque
carattere si fossero.
[43] Sembra che a tali tradizioni si attenesse in
parte Leonardo nel rappresentare Cristo fanciullo, quale dal Lomazzo è
descritto. Vedi il Trattato, pag. 127.
[44] La definizione del terzo Concilio ecumenico
costantinopolitano dichiara Cristo perfetto
nell’umanità, contro i Monoteliti. Tal perfezione, pittoricamente presa,
non può venire espressa che dalla bellezza delle forme. Uomo perfetto è parimente chiamato nel quarto Concilio ecumenico
della stessa città. Veggansi in oltre alcuni passi della Scrittura che alludono
alla bellezza del Figlio dell’Uomo.
Il gesuita Vavassore nel suo libro De
forma Christi intese di provare con molte autorità, che Cristo non fu nè
bello nè brutto; ma guai al pittore che seguisse la sua opinione: il vero del
critico è diverso dal vero pittorico.
[45] Veggasi il libro De Trinitate di S. Ilario vescovo di Poitiers. Avvertasi in oltre
che consentaneamente a quanto abbiam detto, anche nel passo di S. Ilario la dignità non è data se non alla potestà.
[46] Il passo di Matteo Bandello leggesi nella LV
novella della terza parte. Il frate dopo avere nell’esordio di tal novella
disapprovato il Machiavelli per aver chiamate onorevoli alcune scelleratezze,
esce a dire de’ malefici: Questi tali
dovriano tutti esser senza rispetto veruno mostrati vituperosamente ad ogni
gente col dito di mezzo per più loro scorno. Dico col dito di mezzo che era
manifestissimo segno appo gli antichi quando volevano mostrare uno scellerato e
facinoroso uomo; che complicando nella mano tutti gli altri diti, quello di
mezzo distendevano acciocchè ciascuno si guardasse dal praticare con quelli che
in tal modo erano notati. Nè per chi volesse in tal modo interpretare
quest’atto farebbe difficoltà il vederlo soltanto leggermente imitato colla
elevazione del dito medio senza la complicazione delle altre dita. Da ciò anzi
si trarrebbe di che lodare il pittore perchè non diede che un lieve cenno di un
gesto, che avrebbe deformato comicamente la mano. Così gli antichi allorchè
voleano rappresentare il riso, il pianto, il dolore o qualsivoglia affetto che
notabilmente alterasse la forma del volto, imitavano tal cose con gran
parsimonia, temendo di offendere le leggi del decoro o della bellezza.
Parimente sobrj si mostrarono allorchè si diedero ad imitare certi atti
destinati a misteriosi significati, come nella figura di Nemesi e in quella di
Mercurio, su di che veggasi il Museo Pio-Clementino.
[47] Nella stampa di Firenze rimasero senza
bicchieri gli apostoli Pietro e Giovanni.
[48] S. A. I. il Principe Vicerè volle anche
acquistare il Cartone da me eseguito del Cenacolo, del quale mi premiò
largamente; e di recente, cioè il 22 dicembre del 1810, avendo stabilita a
vantaggio de’ più distinti allievi dell’Accademia una scuola speciale di
pittura, particolarmente destinata all’insegnamento de’ principj generali
dell’arte e delle teoriche della composizione, si compiacque di crearmi
Professore di quella, con decreto per me onorevolissimo.
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