martedì 16 settembre 2014

1810 - BOSSI, Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, libro primo



AL DUCA DI LODI

L’AUTORE.

Un vostro antenato[1] dello stesso vostro nome fu discepolo, amico ed erede del divino Leonardo da Vinci, e senza strane ingiurie di tempi e d’uomini, tra le rare cose da Voi stesso raccolte vantereste ereditati i preziosi volumi lasciati da quell’artefice singolare, i quali son ora tra’ primi ornamenti di varie reali biblioteche. Permettete adunque che io v’intitoli, e con lieta fronte accogliete quanto ho potuto radunare intorno alla maggior opera di quel sommo Pittore, tanto più che a ciò non mi muove solo il nome e l’amor dell’arte che da quel suo discepolo ereditaste, ma la mia riconoscenza all’amichevole protezione, colla quale mi avete in ogni tempo cresciuto l’animo ne’ pittorici studj, unendo ai consigli occasioni non volgari coll’operare. E come altro fine io non ho in questa candida offerta se non che di darvi del riconoscente animo mio quel migliore pubblico testimonio che per me si possa, non udrete qui il suono delle vostre lodi; che nulla d’altronde per le mie parole si aggiungerebbe alla fama del benefico vostro genio, nè il vostro nome è tale da ripararsi fra le oscure dediche delle letterarie produzioni, da che Voi stesso provvedeste (dia sua vera gloria, scolpendolo nelle menti e ne’ cuori degli uomini con isplendidi beneficj e coll’operosa devozione alla patria.


DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI.
LIBRO PRIMO.

INTRODUZIONE.

Ho deliberato di scrivere alcune cose intorno al Cenacolo dipinto da Leonardo da Vinci nel convento delle Grazie in Milano, perchè ciò che finora fu scritto di sì mirabile opera, non mi è sembrato bastare nè per la curiosità degli eruditi nè per l’istruzione degli studiosi delle cose del disegno. Sebbene mi manchi il tempo e l’ingegno sufficiente onde tessere tale lavoro, che intero ottenga lo scopo di soddisfare agli uni ed agli altri; pure in queste mie memorie spero di meglio ad esso avvicinarmi, che non fecero coloro che in questo argomento mi precedettero, de’ quali altri poco o nulla seppero di pittura, altri sapendone non istudiarono abbastanza l’opera per degnamente parlarne. Nè altro fondamento so io vantare a sostegno di tale lusinga, se non i maggiori e più lunghi studj da me fatti su questo prodigio dell’arte, de’ quali ebbi speciale occasione in una copia che di esso mi venne commessa dal Vicerè d’Italia. Considerato successivamente lo stato dell’originale ed il modo col quale fui costretto a ritrarlo, e più le molte cose che l’esame delle opere e de’ precetti dell’autore mi costrinse d’introdurre o di lasciare nella mia copia, mi trovai a poco a poco sforzato a descrivere non solo l’opera per sè, ma anche le varie copie che ne esistono, e finalmente la mia, rendendo conto per tal mezzo di ciò che in essa potrebbe parer nuovo ed arbitrario, perchè diverso o dalle stampe o dalle altre copie, o dai ritocchi da’ quali l’originale fu deturpato. Per una naturale conseguenza e specialmente ad oggetto di avvicinarmi, per quanto mi è stato possibile, alla mente dell’autore nelle parti che ora sono perdute affatto, ho dovuto stendere le mie indagini sulle di lui opinioni intorno varj rami dell’arte, sempre in tutto servendomi dell’autorità o de’ suoi scritti o delle sue opere di disegno. Pel tal modo questa descrizione, oltre il dare una idea più ampia del dipinto del Vinci a coloro che non lo conoscessero, ed oltre qualche notizia che potrà somministrare alla storia dell’arte, renderà manifeste le fonti alle quali io attinsi per, direi quasi, ricomporre anzi che copiare questo lume della pittura, talchè se altri avrà un’occasione pari alla mia, potrà, le sue aggiungendo alle mie fatiche, portare sempre piri verso la perfezione la restituzione di sì degno originale.
A questi diversi fini uno ne aggiungo per me di non minore importanza, quello cioè di recare qualche vantaggio a que’ giovani che praticano le arti del disegno, studiandomi in questo scritto, senza la gravità spesso nojosa dei trattati, di raffinare la loro maniera, sia di vedere le opere altrui, sia di comporre le proprie. Pei quali siccome per gli altri che per diverse ragioni non isdegneranno di scorrere questo volume, mi è sembrato comodo il dividerlo in quattro libri, riducendo così sotto un solo punto di vista ciò che può essere più importante a tale o a tal altro lettore, e non isforzando alla lettura, ai più tediosa, di tutto lo scritto, onde avere sott’occhio ciò che ciascheduno preferisce a norma de’ proprj studj. Perciò in questo primo libro darò ragguaglio degli autori che scrissero del Cenacolo: il secondo ne conterrà la descrizione; nel terzo ragionerò delle copie: nel quarto finalmente tratterò alcuni altri argomenti che a questa dipintura possono aver relazione o direttamente o rispetto all’autore.
Intanto non solamente per chi fosse sì digiuno della storia pittorica da ignorare chi e qual fosse Leonardo, ma per quelli pure che amano richiamarsi prontamente a memoria l’epoche più importanti della sua vita, spero che anche da coloro alla cui dottrina si fa torto rammentandole, mi verrà concesso di qui brevemente accennarle. Io non prometto in questo compendio nè nuove cose nè pellegrine notizie: mio solo vanto è il non sostituire errori del mio, ove tralascio di copiare gli altrui; l’esporre le congetture unicamente per tali, e non per fatti come fanno taluni; e il dare in fine per fatti soltanto quelli che sono provati e sostenuti da una o più ragionevoli autorità, e che non sono in contrasto colle storie contemporanee di cose maggiori.

COMPENDIO DELLA VITA DI LEONARDO.

Leonardo, figlio di Piero e d’una ignota donna da questo amata probabilmente prima del suo matrimonio con Giovanna Amadori, nacque in Vinci l’anno 1453. La bellezza, la grazia e gl’indizj d’un ingegno maraviglioso lo distinsero fino dall’infanzia. Destro, irrequieto, intraprendente, si provò e riuscì nelle cose più difficili, e specialmente in quelle che si compongono del doppio artificio della speculazione profonda della mente e della industriosa ed elegante imitazione della mano. Scoperta il padre una tal indole che porta con forza l’ingegno e l’animo verso le arti del disegno, il pose sotto la disciplina di Andrea Verocchio che tutte le professava lodevolmente. Egli progredì tanto nell’esercizio di esse che in breve tempo fece cose per l’età sua mirabili, specialmente in pittura ed in plastica. Pare che la sua emancipazione dalla scuola del Verocchio avvenisse allorchè questi, vedendosi vinto in pittura dal discepolo, non volle più dar mano ai pennelli. Se un tal fatto eccitò tanta meraviglia, dee necessariamente essere avvenuto nella prima età di Leonardo: di fatto il Vasari, cui però vuolsi credere con discrezione, lo chiama a questa epoca giovinetto, anzi fanciullo. Giovami di ciò osservare, onde far vedere che al pari di Michelagnolo, di Raffaello e di altri molti che in qualsivoglia facoltà apersero con gloria una strada mal tentata o sconosciuta, anche Leonardo lasciò di buon’ora la scuola, e da solo attese allo studio della natura che direttamente e non per mediatori ama di confidare i suoi segreti agl’ingegni che predilige.
Che si facesse Leonardo in questa prima epoca della sua vita pittorica, è assai incerto. Sì in questo tempo come nel seguente, la tradizione è spesso in lite colla critica. Si dice che vivesse splendidamente, e che quantunque di sua casa non ricco, signorilmente esercitasse le varie sue professioni, mantenendosi servi e cavalli. Da ciò apparisce ch’egli guadagnasse assai, e questo difficilmente avviene a giovane artefice che poco si affatica. Però è da credere che a torto sia stato di ciò accusato.
Gli uomini d’ingegno pronto ed acuto, che sciolti dagl’inviluppi delle false discipline cercano da sè stessi il vero nella natura, imparano rapidissimamente; e sebbene diano gran tempo allo studio, ne avanza loro ancora molto da consumare nelle brigate, fra le quali per lo più non sono spinti da vana curiosità e da leggerezza, ma dal desiderio di conoscere i costumi degli uomini, scienza non men che al filosofo necessaria al pittore. Il tempo che Leonardo spendeva allo svagarsi, non era perduto per l’arte, come i suoi precetti in più luoghi ne fanno fede. Che se si legge nelle storie, che grandissimi re e legislatori e filosofi gravissimi solean rallegrare i loro ozj con piacevolezze che agl’ignoranti sembrano indegne di quelle alte condizioni; non sarà da farsi stupore in vedere i men gravi magisteri delle arti della fantasia accompagnati da qualche lieta bizzarria di costume. Il vero artefice, pari al filosofo, non esce di scuola che coll’uscir di vita, ed a ragione l’Aretino Bruni là dove parla della meraviglia che Dante eccitava attendendo a un tempo ai profondi studj scientifici d’ogni maniera, alle cose dello stato ed agli scherzi e a’ giuochi de’ giovani suoi pari, a ragione, dico, si ride di coloro i quali credono che per apprendere qualche arte o scienza sia necessaria la severa e continua solitudine e selvatichezza. Ma per tornare a Leonardo che con questa corta digressione volli difendere dalla taccia datagli da taluni, di distratto e bizzarro, io penso che in quegli anni suoi primi gli si possano attribuire quelle sue pitture che tengono ancora della maniera vecchia, e che sebbene non manchino di forza nel chiaroscuro, sono languide di colorito e peccano di livido.
Per molte ragioni che forse mi avverrà di più diffusamente esporre in seguito, io son d’avviso che Leonardo partisse assai per tempo da Firenze, non sembrandomi sopra tutto credibile che ne sia uscito mentre principe di quella città fioriva con tutte le arti belle il magnifico Lorenzo de’ Medici, il quale fu chiamato a dirigere lo stato fino dal 1470. Avrà dunque o intorno a tal anno o ben pochi anni dopo lasciata la sua patria, onde altrove cercare occasione d’impiegarsi nell’arte e poter godere di quella quiete tanto ai buoni studj necessaria, che sotto il governo debole di Pier di Cosimo fu sempre mal sicura fra le congiure, le parti e le guerre, nè parea potere prontamente ristabilirsi nel nuovo ordine di cose che Lorenzo andava componendo. Giudico che fin d’allora ei si recasse in Lombardia ed a Milano, qui forse chiamato dal generoso premio della decantata rotella comprata, a quanto si può congetturare, dal duca Galeazzo allorchè nel 1471 si recò pomposamente a Firenze colla moglie.
Continuati in Milano i suoi studj e rendutosi in processo di tempo famoso, preparossi a poco a poco la strada alle grandi opere cui dee principalmente la sua riputazione. Che non rimanga ricordo de’ lavori suoi di quel primo tempo, non è meraviglia, perchè forse versarono principalmente intorno alla meccanica militare, arte che non suole di sè lasciare piacevoli memorie; e ciò lo induco da una sua lettera in cui assai più che delle altre arti che pure egregiamente professava, egli fa gran pompa di questa, e vanta, probabilmente a buon diritto, grandi invenzioni che suppongono le ricerche e l’esperienza di molti anni.[2] Nè senza fondamento potrebbe anche taluno arguire che in Lombardia egli venisse, proponendosi di fare la statua equestre di Francesco Sforza, della quale opera è verisimile che vi fosse pubblico argomento immediatamente dopo la morte di quel grand’uomo, come può giudicarsi da alcuni versi del Taccone, che pongo fra le note,[3] e da un modello che allo stesso oggetto fa eseguito dal Verocchio. Forse anche il chiamò fra noi il lieto principio del governo di Galeazzo Maria che pari a Nerone ebbe nei primi anni nome di ottimo e liberalissimo principe. Chè se poi non si volesse credere sì antico fra noi, parmi non si possa il suo spatriamento collocare più tardi del ritorno di Lodovico dalla relegazione di Pisa nel 1477, alla qual congettura potrebbe in qualche modo rispondere un passo del Bellincione.[4]
Salito ultimamente al governo della Lombardia Lodovico il Moro che fece velo alla sua tirannide col prestar favore a tutte le nobili discipline, la sorte di Leonardo fu stabilita. Una ricchissima pensione e i replicati generosi doni del principe lo misero in istato di attendere alle arti con tutti que’ comodi di che lo studio ed il liberale esercizio di esse abbisogna. Allora fu ch’ei rifondò l’accademia milanese, istituendone una nuova cui diede il suo nome, e insegnandovi tutto ciò che al disegno appartiene, col fondamento delle scienze e colle attrattive dell’eloquenza, nella quale era maraviglioso non solo per l’avvenenza dell’aspetto e per la grazia de’ modi e del sermone natio, ma per la forza del sentimento, per la perspicuità delle sentenze e per la profondità della dottrina.
Oltre minori opere delle quali è assai incerto il catalogo e l’esistenza, ebbe allora l’incarico del gran Cenacolo delle Grazie e del colosso equestre del duca Francesco. Questi due grandiosi lavori l’occuparono probabilmente tutto il tempo ch’ei servì la corte presso Lodovico. Sedici anni impiegò egli a fare il modello del colosso: quanti si può giudicare che ne impiegasse al Cenacolo, si dirà in altro luogo. La direzione dell’accademia di pittura e di molte opere d’ogni genere, lo studio delle scienze tutte, ma specialmente delle idrauliche e delle meccaniche, l’esercizio dell’architettura, il passatempo in fine della musica e della poesia, avranno renduto assai brevi le ore che a Leonardo avanzavano dalle dette due grandi opere di scultura e di pittura.
Caduto il Moro nel 1500, e involta la Lombardia in tristissime vicissitudini, o fosse amore di patria riacceso dall’avversa fortuna, o fosse quello stesso amore della quiete che io suppongo lo allontanasse da Firenze durante la tempesta civile del governo di Piero, egli vi si restituì e vi fece il famoso cartone della sant’Anna, non tralasciando gli altri suoi studj. Nel 1504 viaggiò gran parte d’Italia, stipendiato dal duca Valentino, come architetto militare.[5]
Tornato nuovamente a Firenze, fece il celeberrimo cartone della Vittoria d’Anghiari, col quale, come già a Milano col Cenacolo e col Cavallo, diede in patria un luminoso saggio della sua nuova maniera della quale gli artefici tutti approfittarono, non eccettuati Michelagnolo e Raffaello. Mentre piegavano in meglio le cose di Lombardia nel 1507, egli ritornò a Milano, ed ebbevi stipendio dal re di Francia. Dopo altri viaggi o incerti o poco importanti, recossi a Roma nel pontificato di Leone, ma poco vi si trattenne, male accomodandosi la sua vita filosofica ed il suo lento meditare le proprie opere, ad una corte romorosa, brigante ed avvezza in fatto d’arti, specialmente dopo la furia di Giulio, a veder prontamente poste ad effetto imprese grandissime da artefici risoluti, vivacissimi, quali erano Bramante, Raffaello e Michelagnolo. In traccia sempre di quella tranquillità che se in Toscana e in Lombardia gli venne turbata ora dalle fazioni, ora dalle vicende della guerra, venivagli tolta in Roma dalla vigile emulazione e forse dalle brighe, non de’ suoi grandi rivali, ma de’ cortigiani loro fautori, s’appigliò al partito di andare in Francia agli stipendj del gran re Francesco. Ivi poco operando si trattenne fino alla sua morte che avvenne il 2 di maggio del 1519 a Cloux, e secondo alcuni scrittori, nelle braccia stesse del re. Della quale circostanza, osservato il silenzio del Melzo ed alcuni passi del Lomazzo[6] e d’altri, e più le recenti ricerche del chiarissimo signor Venturi, la critica non può ammettere l’incerta tradizione, che d’altronde fa assai più onore al re Francesco che a Leonardo.
Pochi lavori sembra che facesse in sua vita questo artefice sommo, il quale, profondissimo indagatore della inesauribile natura, ora trovava, ora imaginava nuove perfezioni, seguendo le quali non sapea torre le mani dalle sue opere, e tutte a parer suo le lasciò imperfette. Questa lodevole insaziabilità, propria de’ grandissimi ingegni, diminuì certamente il numero delle sue produzioni, ma ne accrebbe il pregio e l’eccellenza. Se si crede ai cataloghi che delle sue opere si leggono, ed ai tanti Leonardi che vantano le gallerie e i mercanti di quadri, si troverà fuor di dubbio ingiusta la taccia data da più scrittori a questo grand’uomo, d’aver poco dipinto; ma chi osservasse con cognizione la maggior parte delle opere attribuitegli, troverebbe forse ingiusti altresì gli elogi che da tre secoli gli si danno, per la perfezione con cui soleva condurle, e della quale sono testimonio le opere veramente sue, e specialmente il Cenacolo per la parte che ne rimane, e il ritratto di monna Lisa che ancora si ammira in Parigi.[7] Quale de’ due partiti sia il ragionevole, è facile il giudicarlo. Certo parmi però, che chiunque si porrà a considerare il gran numero delle sue invenzioni in meccanica, le grandi opere idrauliche da lui condotte, i trattati che di molte facoltà ei compose; chi esaminerà, a dir tutto in breve, quanto debbangli tutte le scienze e tutte le arti, non troverà ch’egli abbia poco operato di pittura e di rilievo, quando non facendo parola dei varj ritratti e storie minori, si abbia riguardo alla grandezza ed importanza delle tre maggiori sue opere, il Cenacolo, il Cavallo e la Vittoria d’Anghiari, tutte ora quasi interamente perite con incalcolabile danno dell’arte. L’angusto confine d’un compendio non mi permette di qui parlare delle altre opere sue, nè de’ suoi scritti de’ quali mi venne fatto di scoprirne alcuni del tutto sconosciuti ed importantissimi. Mi limiterò dunque a dire che Leonardo, una intera età prima di Galileo, di Bacone e degli altri luminari della moderna filosofia, pose per fondamento universale d’ogni scienza, l’osservazione della natura e l’esperienza: che primo spinse le arti del disegno alla perfezione degli antichi; che in fine fu superiore al suo secolo in ogni parte dell’umano sapere e che in molte parti di esso non è stato ancora dai moderni sorpassato.

SCRITTORI CHE FANNO MENZIONE DEL CENACOLO.

Troppo lungo sarebbe il qui riportare l’intero catalogo degli autori, specialmente moderni, che parlarono del Cenacolo; accennerò dunque i principali soltanto che giunsero a mia notizia; e cominciando dai più antichi, scenderò per ordine fino a quelli de’ tempi nostri, dandone più o men lungo ragguaglio a seconda dell’importanza e della rarità delle loro opere.

LUCA PACIOLO.
(1498)[8]

Il primo ne’ cui scritti veggo lodata questa pittura, è frate Luca Paciolo dal Borgo S. Sepolcro. Nella prima sua opera pubblicata sul finire dell’anno 1494, che ha per titolo Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità, sebbene si faccia onorevole ricordo di molti artefici illustri, di Leonardo non si parla affatto; il che fa congetturare che non solo Leonardo fu ignoto di persona al frate innanzi che questi venisse alla corte del Moro, ma che la fama sua non era a quel tempo uscita di Lombardia, nè prima, come il Vasari fa credere, stabilita altrove. Perchè siccome il frate aveva avuto prima di quell’epoca stanza e commercio in tutte le grandi città d’Italia, eccetto Milano, se avesse trovato grande il nome di Leonardo o a Firenze o altrove, non l’avrebbe dimenticato là dove nomina tanti artefici inferiori a lui. Ciò volli dire per avvalorare la mia congettura che Leonardo uscisse di Toscana innanzi al fiorire del governo di Lorenzo, e che fra noi facesse gran parte de’ suoi studj e ottenesse quella riputazione che gli diede in seguito il primato fra i suoi pari.
Nella seconda opera poi dal Paciolo composta intorno al 1498, che venne alla luce nel 1509 e che porta per titolo Divina Proportione, non solo si parla di Leonardo e del Cenacolo, ma ancora del famoso colosso equestre di cui il Paciolo dà esattamente la misura, e fin anche il peso del metallo che vi abbisognava per fonderlo. Nella dedica al Soderini ci assicura che le figure del codice della Divina Proporzione erano di mano di Leonardo.[9] È ivi da osservare l’inesatta espressione Schemata … Vincii nostri Leonardi manibus scalpta, la quale fece dire al Tiraboschi dove parla di tal opera, Aggiuntevi le figure scolpite per mano di Leonardo da Vinci, nel qual caso si doveva dir disegnate. Nel primo capitolo diretto al Moro accenna un consesso tenuto avanti a lui il dì 9 di febbrajo del 1498, al quale intervennero gli uomini della corte più distinti per dignità e per sapere, e fra questi era Leonardo da Vinci, qual, dic’egli, de scultura, getto e pittura con ciascuno el cognome verifica, cioè vince tutti.[10] A prova di questo freddo elogio; dopo aver citata e descritta la statua equestre di Francesco Sforza, rammenta il ligiadro de l’ardente desiderio de nostra salute simolacro nel degno e devoto luogo de corporale e spirituale refectione del sacro tempio de le Gratie de sua mano penolegiato.
Nel capo III enfaticamente lodando la pittura, Ohimè, dice, chi è quello che vedendo una ligiadra figura con suoi debiti liniamenti ben disposta, a cui solo el fiato par che manchi, non la giudichi cosa più presto divina che umana? E tanto la pictura imita la natura quanto cosa dir se possa. El che agli occhi nostri evidentemente appare nel prelibato simulacro de l’ardente desiderio de nostra salute, nel qual non è possibile con maggiore attentione vivi gli apostoli imaginare al suono de la voce de l’infallibil verità, quando disse: UNUS VESTRUM ME TRADITURUS EST. Dove con acti e gesti l’uno a l’altro, e l’altro a l’uno con viva e afflicta admiratione par che parlino, si degnamente con sua ligiadra mano el nostro Lionardo lo dispose.
Al capo XXIII, avendo negli antecedenti parlato de’ tredici principali effetti della sua divisione proporzionale, si protesta di non voler oltrepassare questo sacro numero a reverentia de la turba duodena e del suo sanctissimo capo … del qual collegio, continua il frate, comprehendo V. D. Celsitudine havere singolar devotione per haverlo nel preaducto luogo sacratissimo tempio de Gratie dal nostro prefacto Lionardo con suo ligiadro penello facto disporre.
Al capo VI delle cose architettoniche ci assicura di nuovo ciò che disse al Soderini intorno alle figure de’ corpi. Ho sperato invano qualche più utile notizia del Cenacolo, a compenso della nojosa lettura di questo libro del quale avrò nonostante occasione di parlare altrove.
Parmi dover qui avvertire essere necessario di procedere con cautela nel prestar fede alle proposizioni di questo autore. L’incerto ed imbrogliato suo fraseggiare è cagione di mille dubbj, ed ha indotto molti in errore. Egli introdusse con pessimo esempio, e in ciò fu forse il primo, lo stile contorto, affettato e ripieno di tropi, che in quel tempo applaudivasi sul pergamo, nelle materie didascaliche che più d’ogni altra esigono scrupolosa lindura, semplicità e proprietà, sia ne’ vocaboli sia ne’ modi. La maniera con cui all’epoca del libro, non già della stampa di esso, cioè al principiare dell’anno 1498, descrive il colosso equestre, lo fa credere fuso in bronzo. Il secondo e terzo passo qui sopra citati intorno al Cenacolo fanno quasi sospettare che quest’opera non fosse a quel tempo condotta al termine a cui lasciolla l’autore, ma soltanto disposta, cioè abbozzata. La frase che indicai usata per dire di Leonardo le figure del libro della Divina Proporzione, fa pensare che quelle fossero incise in rame o in legno. Un passo[11] dove parla della sua partenza da Milano farebbe credere che soli tre anni fosse stato Leonardo pensionato dal duca Lodovico. E così dicasi di altri luoghi di detta opera che ogni paziente può esaminare, e che risvegliano non irragionevoli congetture di cose false. Intorno ai dubbj qui sopra indicati esistono fortunatamente notizie e ragioni in contrario che tolgono ogni pericolo di errore: ma si può da questi imparare con quanta precauzione, in grazia delle frondose sue frasi, si deliba usare della sua autorità nelle cose che da altri autori non vengano dichiarate o confermate. Ad ogni modo però le sue opere, sebbene ora quasi dimenticate, sono per molti titoli assai pregevoli, ed è certo che le Matematiche gli hanno gran debito, come può vedersi nello Ximenes ed in altri. Se egli poi siasi o no fatto bello delle opere di Piero della Francesca suo maestro, come attesta solennemente il Vasari, è difficile il chiarirlo ad evidenza, nè vi riuscì il Tiraboschi. Il Della Valle, confratello del Paciolo perchè anch’egli dell’ordine di san Francesco, il difende assai debolmente colla gran fama della quale godeva in Italia e con altre men forti ragioni. La lettura de’ suoi libri mi ha posto in istato di addurne una più valida, e che sola a mio parere può bastare all’intento. Il Tiraboschi e il Della Valle credettero morto Piero della Francesca prima d’assai che non fu in fatti; e l’opinione ch’egli abbia cessato di vivere intorno al 1484 fu anche ultimamente accreditata dall’egregio abate Lanzi nell’ultima impressione della sua Storia Pittorica. Se gli autori che scrissero del Paciolo, avessero letto la sua Summa de Arithmetica stampata nel 1494,[12] avrebbero trovato farvisi al bel principio menzione di Piero col nome di Monarca a li tempi nostri della Pictura, il che non avrebbe detto s’egli era morto: che s’ei ripete la stessa enfatica frase al capo XIX delle cose di architettura scritte nel 1509 a Venezia, vi aggiunge quanto basta onde far credere che a quel tempo più non vivesse. Più chiaramente poi, a tergo della pagina 68 parlando di Piero con nuove lodi, lo dice non solo, a li dì nostri ancor vivente, ma recentemente autore d’un degno libro di prospettiva, nel qual altamente de la pictura parla ponendo sempre al suo dir ancora el modo e la figura del fare. El quale, continua frate Luca, tutto habiamo lecto e discorso: el qual lui feci vulgare; e poi el famoso oratore poeta e rhetorico greco e latino suo assiduo consotio, e similmente conterraneo maestro Matteo lo recò a lengua latina ornatissimamente de verbo ad verbum con exquisiti vocaboli. De la quale opera de le 10 parole le 9 recercano la proportione. E così con instrumenti li insegna proportionare piani e figure con quanta facilità mai si possa e vie apertissime ecc. So bene che la Summa sarà stata composta in parte alcuni anni prima, come apparisce in qualche luogo dell’opera e specialmente nell’articolo Idem notandum de caratteribus algebraticis, a tergo della pagina 67, dove si legge una data di Perugia del 1487. Ma siccome l’edizione fu fatta sotto gli occhi del frate, e dice egli stesso in fine che hanc summam... impressoribus assistens che noctuque proposse manu propria castigavit, non è da credere che vi lasciasse correre errori di fatto si gravi, come il dir vivo il famoso suo maestro quando a quel tempo fosse stato morto.
Se poi il libro lungamente qui sopra descritto sia lo stesso che quello citato nella dedica al duca d’Urbino e che chiama Compendioso tractato de l’arte pictoria e de la lineal forza in perspectiva, il lascio volentieri all’altrui giudizio. Ciò che parmi sicuro egli è che se in un uomo distinto e stimato per tanti titoli, qual era il Paciolo, è improbabile il plagio, supponendo morto l’autore dell’opera trafugata, diventa una impudenza incredibile e del tutto nuova negli annali delle ruberie letterarie, lo spacciare per propria un’opera altrui, vivente l’autore, dedicandola a tali uomini quali erano il Moro, Guidubaldo da Montefeltro e Pier Soderini. Il che se il frate avesse fatto, come attesta il Vasari, più assai col titolo di pazzo che di sfacciato parmi dovrebbesi nominare; perchè o da que’ principi o dai letterati delle lor corti, l’impostura sarebbe stata immediatamente scoperta, e l’impostore ne avrebbe avuto danno e vergogna perpetua. Restami a notare che il Vasari istesso nella seconda edizione ch’ei pubblicò delle Vite, tralasciò l’epitaffio di Piero che aveva stampato nella prima, nel quale veniva infamato il Paciolo,[13] la qual cosa fa supporre che l’autore dell’epitaffio avesse cangiato opinione intorno al frate, e temesse di offenderlo senza ragione. Aggiungasi in fine che il Paciolo promette di dare un compendio da lui fatto dell’opera[14] del suo maestro, con che si prova quanto ei fosse lontano dal defraudarlo non che del libro, della lode dovutagli, da lui anzi con cieco amor patrio esagerata ad ogni occasione. Della quale esagerazione, perdonabile ad un riconoscente discepolo, può esser testimonio la citata frase di monarca della pittura, con cui Piero fu da lui esaltato, non solo nella Summa pubblicata nel 1494, ma anche nel Trattato architettonico del 1509, epoca in cui Milano e Firenze godevano le meravigliose opere del Vinci e del Buonarroti, e Roma già vedea risorgere in Vaticano per mano di Raffaello l’antica eleganza de’ Greci e de’ Romani.
Ma il Vasari non fu il solo nemico della memoria del Paciolo. Un altro più antico accusatore di questo povero frate fu Goffredo Tory de Bourges che pubblicò in Parigi l’anno 1529 il suo curioso libro intitolato Champ fleury, nel quale diede le proporzioni delle lettere attiche, dette romane o antiche, regolate secondo il corpo e il viso umano, opera stravagante, ma ricca di varia erudizione, e nella quale si fa menzione di varj artefici italiani. A tergo della pagina xxxiv pretende questo autore di correggere il frate sulla proporzione della lettera A, e citando due righe della sua Divina Proporzione, osa dire ch’ei ragiona di tal cose come un prete ragionerebbe d’armi, e che cominciando a sbagliare dalla prima lettera, allo stesso modo procede in tutte l’altre, come qua e là pel libro si studia d’avvertire. Il quale rimprovero è esagerato non solo, ma del tutto disdicevole nel Tory che mentre accusa il Paciolo in cose piccolissime, ne copia tutto il sistema con poche aggiunte o riforme, come prima di lui, senza dirne nè bene nè male, aveva fatto Alberto Durero. Aggiunge poi ciò che più mi preme di qui notare, cioè ch’egli aveva inteso dire che l’opera del Paciolo fosse stata da lui segretamente rubata al feu messire Leonard Vince, qui estoit grant Mathematicien, Paintre et Imageur.
Ma di ciò non adduce il Tory prova veruna, ed egli che fu in Italia e a Roma, e che potè conoscere Leonardo in Francia, avea facile via di verificare ciò che aveva udito susurrarsi, nè avrebbe mancato di farlo, qualora per effetto delle sue ricerche avesse sperato verificare la colpa del frate, non l’innocenza. Ma contento di screditar l’opera del Paciolo onde dar credito alla sua, nè potendo positivamente asserir nulla del suo plagio, si accontenta di dargli mala voce, con che non si accorge di una patente contraddizione, cioè che poco dopo aver detto che il Paciolo tratta della forma delle lettere, comme clerc d’armes, dice che il lavoro dato per suo era del grande matematico, pittore e scultore Leonardo. Col qual colpo in fallo verrebbe a dire che Leonardo parlava di tali cose da presontuoso ignorante, il che non accordandosi con gl’infiniti elogi da lui ripetuti a questo grand’uomo, scuopre all’evidenza la sua cattiva fede contro frate Luca. Chè se poi il frate si fosse servito per l’opera delle lettere della mano di Leonardo, non avrebbe mancato di parlarne onde accrescer pregio al suo lavoro, come fece pei corpi regolari da Leonardo delineatigli. Con tale ingenuo modo egli si professava di cavare la maggior parte della sua grande opera, non solo da Euclide e da Boezio, ma da Leonardo da Pisa, dal Giordano, da Biagio da Parma, da Giovanni Sacrobosco e da Prodocimo Padovano. E se finalmente il frate avesse tolto a Leonardo il sistema delle lettere, il che sarebbe avvenuto di reciproca intelligenza, ciò in sostanza è sì poca cosa per un tanto artefice, e sì piccola parte della gloria matematica del frate, che la fama di questo non avrebbe detrimento da tale mancanza o superchieria, anche qualora venisse provata.[15] Mi rimane ad avvertire che dopo tante vane ricerche la fortuna mi ha renduto nel mio ultimo viaggio d’Italia possessore del libro di Prospettiva di Piero della Francesca, prezioso codice colle figure di sua mano e colla traduzione latina di Matteo dal Borgo, quale in somma il Paciolo lo descrive; e nulla in esso si legge che il Paciolo abbia usurpato nelle opere sue. Solo dalla maniera di molte teste in tal codice disegnate, si scorge ad evidenza che le due incise in legno nel libro della Divina Proporzione sono prese da disegni di Piero, e male furono da taluni attribuite a Leonardo; e da ciò si può congetturare che anche le cose architettoniche abbiano la stessa origine, perchè, al pari delle accennate teste, sono di troppo lontane e dallo stile di Leonardo e dalla perfezione cui questi era giunto tanti anni prima dell’epoca di quel libro.
Dalle quali osservazioni, sfuggite alla diligenza del Tiraboschi, del padre Della Valle e d’altri che parlarono di questo autore, sembrami aver sufficiente argomento onde assicurargli la proprietà e il merito de’ suoi scritti. Bramo mi sia perdonato questo lungo diviamento dalla materia: io ho creduto di dovermivi abbandonare per conservare all’Italia in frate Luca, non l’inventore delle lettere attiche, che ciò poco monterebbe, ma uno de’ ristauratori delle matematiche, il cui nome, siccome di plagiario, sarebbe scomparso dalla storia letteraria, o vi sarebbe rimasto con infamia. Così, restituendogli il suo senza tor nulla a Piero della Francesca, parmi d’aver fatto due grandi uomini di coloro de’ quali il Vasari volea fare un solo, seguendo inconsideratamente una falsa tradizione.[16]

GIORGIO ROVEGNATINO.
(1500)

Da un Dialogo ms. di Giorgio Rovegnatino col Taegio, opera ch’esisteva presso i domenicani alle Grazie, trasse il Pino[17] il seguente passo circa il Cenacolo: Quæ vero in refectioms domo, ipsius (Ludovici) pariter jussu, apostolorum tabula depicta est, quam multorum per longissimas horas defixit obtutus. E a lungo e più volte debbonsi osservare le opere famose da chi ne brama vera istruzione e vero diletto.

POMPONIO GAURICO.
(1503)

Nel Libro de Sculptura di Pomponio Gaurico si loda il Vinci in ispecie pel Cenacolo e pel Cavallo. Postremo (commendatur), ecco le parole dell’autore, et ipse Alverochii discipulus Leonardus Vincius, equo illo, quem ei perficere non licuit, in Bois maximo, Pictura Symposii, nec minus et archimedæ ingenio notissimus.

RAFFAELLO MAFFEI.
(1516 = 17)

Ne’ Commentarj urbani di Raffaello Volterrano al libro XXI dell’Antropologia, là dove l’autore ricorda alcuni illustri artefici e qualche lor opera principale, a ragione cita il Cenacolo in proposito di Leonardo. Leonardus Vincius, dic’egli, XII Apostolos Mediolani in æde divæ genitricis de gratiis, opus prædicatissimum (vi si sottintende dipinse). Scrisse il Volterrano un tal passo poco dopo il 1516, come apparisce dalla morte di Giovanni Bellino, ivi presso accennata come caso recentissimo.[18] L’inesattezza circa il luogo ove trovasi la pittura, è compensata dal giudizio nella scelta dell’opera che l’autore elesse per saggio del valor dell’artefice. Il contrario fecero a gran torto il Moreri e il Milizia che molte inutilità affastellarono ne’ loro brevi articoli sul Vinci, e del Cenacolo non fecero parola.[19]

BERNARDINO ARLUNO.
(1520 = 30)

Tra i molti valenti uomini di ogni facoltà riccamente stipendiati da Lodovico il Moro, novera l’Arluno Leonardum pictorem mollissimum, cujus in hunc diem picturæ vivunt. Quantunque il Cenacolo non sia qui specificato, è chiaro accennarvisi complessivamente; e il non leggersi anzi in questo passo verun ulteriore ragguaglio di tal opera, fa pensare che all’epoca dello scritto dell’Arluno non avesse essa sofferto alcun detrimento notabile. Questo lezioso latinista scrisse prima del 1530, e le parole qui citate si leggono alla pagina 56 dell’edizione delle sue storie, procurata dal Magioragio in Basilea co’ torchj dell’Oporino, e al foglio 98 del codice ambrosiano della stessa opera.

PAOLO GIOVIO.
(15..)

La vita di Leonardo scritta latinamente dal Giovio, e già fatta pubblica dal Tiraboschi, doveva ricomparire alla luce unita a quelle di Michelagnolo e di Raffaello similmente stampate nella Storia letteraria, illustrate tutte da copiose note del conte Anton Giuseppe Rezzonico. Questo eruditissimo scrittore dopo averle tutte tradotte in italiano, o il seducesse l’amenità dell’argomento o l’allettasse la messe abbondante de’ materiali raccolti per le note, s’invogliò di fare una più ampia storia di Leonardo nelle due lingue; ma qual che ne fosse la cagione, sgraziatamente non la condusse a termine. Il signor Marco Cigalini, degno erede de’ Rezzonici, mi ha cortesemente comunicato l’autografo dal quale si comprende che il conte Anton Giuseppe non era contento del modo con cui le dette vite furono pubblicate, e che riconosciutivi molti errori e mancamenti, pubblicando la sua di Leonardo, pensava a quella premetterle corredate di varie illustrazioni. La nuova vita del Rezzonico, quantunque sembri la metà circa di quello a che parrebbe doversi estendere, non giunge a descrivere il Cenacolo, e un solo foglio volante che alla descrizione di questa opera appartiene, comecchè lo scrittore appaja sempre buon critico nelle cose storiche, nol prova tale nelle cose della pittura. Imperocchè in quel foglio dice finita la testa del Salvatore, e loda la mediocrissima copia del Lomazzo, eseguita da questo negli anni giovanili senza badare altrimenti all’originale, con pessimo colorito e con grandissime scorrezioni di disegno.
La brevità e l’eleganza dell’opera mi consiglia di qui riprodurre intera e corretta la vita del Giovio, alla quale unisco la traduzione del Rezzonico.

Ex codice Paul. Jovii extante in bibliothecula
Antonii Joseph a Turre Rezzonici.

Leonardi Vincii vita.

Leonardus a Vincio, ignobili Etruriæ vico, magnam picturæ addidit claritatem, negans ab iis recte posse tractari, qui disciplinas nobilesque artes veluti necessario picturæ famulantes non attigissent. Plasticem ante alia penicillo præponebat, velati archetypum ad planas imagines exprimendas. Optices vero præceptis nihil antiquius duxit, quorum subsidiis fretus luminum et umbrarum rationes diligentissime vel in minimis custodivit. Secare quoque noxiorum hominum cadavera in ipsis medicorun scholis inhumano fædoque labore didicerat, ut varii membrorum flexus et conatus ex vi nervorum vertebrarumque naturali ordine pingerentur. Propterea particularum omnium formam in tabellis usque ad exiles venulas interioraque ossium mira solertia figuravit, ut ex eo tot annorum opere infinita exempla ad artis utilitatem excuderentur. Sed dum in quærendis pluribus angustæ arti admimculis morosius vacaret, paucissima opera levitate ingenii naturalique fastidio, repudiatis semper initiis, absolvit. In admiratione tamen est Mediolani in pariete Christus cum discipulis discumbens, cujus operis libidine adeo accensun Ludovicum regem ferunt, ut anxie spectando proximos interrogavit an circumciso pariete tolli posset, ut in Galliam vel diruto eo insigni Cænaculo protinus asportaretur. Extat et infans Christus in tabula cum matre Virgine Annaque avia colludens, quam Franciscus rex Galliæ coemptam in sacrario collocavit. Manet etiam in comitio Curiæ Florentinæ pugna atque Victoria de Pisanis, præclare admodum sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores juglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis; cujus inexpectatæ injariæ justissimus dolor interrupto operi gratiæ plurimum addidisse videtur. Finxit etiam ex argilla colosseum equum Ludovico Sfortiæ, ut ab eo pariter æneus superstante Francisco patre illustri imperatore funderetur; in cujus vehementer incitati ac anhelantis habitu et statuariæ artis et rerum naturæ eruditio summa deprehenditur. Fuit ingenio valde comi, nitido, liberali, vultu autem longe venustissimo; et cum elegantiæ omnis delitiarumque maxime theatralium mirificus inventar ac arbiter esset, ad lyramque scite caneret, cunctis per omnem ætatem principibus mire placuit. Sexagesimum et septimum agens annum in Gallia vita functus est, eo majore amicorum luctu, quod in tanta adolescentium turba qua maxime officina ejus florebat, nullum celebrem discipulum reliquerit. 

Traduzione.

«Leonardo nato in Vinci, terretta della Toscana, recò alla pittura grandissimo onore col dichiarare non potersi esercitar rettamente da quelli i quali non avessero apparate le scienze e l’arti liberali che servono di sostegno necessario alla stessa pittura. Voleva egli che il travaglio di plasma la precedesse, come vero modello da cui trarne le pianate immagini. Niente ebbe più a cuore che le ottiche istruzioni, coll’agiuto delle quali attenne per fino in parti minutissime la teoria delle ombre e della luce. Per seguire le tracce della natura, e dalla disposizione dei nervi e delle vertebre rappresentare le differenti piegature e sforzi dei membri, non si era stancato di apprendere con applicazione inumana e stomachevole nelle stesse scuole anatomiche a tagliare i cadaveri dei malfattori. Figurò con ciò in tavolette ogni esile particella, non tralasciando le sottili venuzze e la tessitura interiore delle ossa, con tale accuratezza che da un travaglio di tanti anni si dovessero incidere in rame innumerevoli sposizioni a benefizio dell’arte. Mentre però nella ricerca di moltiplicati sussidj ad un arte ristretta soverchiamente moroso affaticavasi, condusse a termine pochissime opere, spinto da naturale leggerezza e volubilità di talento a scartarne sempre le prime idee. Si ammira non pertanto con istupore la Cena di Gesù Cristo co’ suoi Apostoli dipinta sul muro in Milano, la quale tanto piacque a Luigi XII che rimirandola con passione, richiese agli ascoltanti se si avesse potuto trasportare in Francia col tagliarla dal muro, sebbene con un tal fatto si minasse il famoso refettorio ove campeggiava. Esiste in tavola il fanciulletto Gesù scherzante colla Vergine madre e l’avola sant’Anna, quadro che comperato dal re Francesco venne da lui posto tra gli ornamenti più preziosi del suo gabinetto. Campeggia nella sala del Consiglio di Firenze la battaglia e vittoria riportata contro i Pisani, incominciata con una grandezza incomparabile, ma che ebbe un esito infelice per difetto dell’intonacato il quale non sosteneva i colori stemprati all’olio, sebbene grande fosse stata la diligenza nell’applicarli. Sembra che il rammarico giustissimo d’un tale accidente abbia accresciuto il pregio all’opera lasciata imperfetta. Travagliò per Lodovico il Moro in creta un cavallo colossale da fondersi susseguentemente in bronzo, e sopra vi doveva figurare il di lui padre Francesco celebre guerriero, nella stessa materia. Ammirasi in questo travaglio la veemente disposizione al corso e lo stesso anelito, nelle quali cose si comprende la somma perizia dello scultore, e quanta fosse la sua intelligenza in tutto ciò che appartiene agli effetti della natura. Spiccarono in Leonardo doti di grande compitezza, accostumatissime generose maniere accompagnate da un bellissimo aspetto; e poscia che egli era raro e maestro inventore d’ogni eleganza e singolarmente dei dilettevoli teatrali spettacoli, possedendo anche la musica esercitata sulla lira in canto dolcissimo, divenne caro in supremo grado a tutti li principi che lo conobbero. Trovandosi in Francia nell’età di sessantasette anni cessò di vivere, con pena tanto più sensibile de’ suoi amici, che tra sì grande copia di giovani i quali studiavano sotto la di lui disciplina, non lasciò verun scolare di primo grido.»

Troppo aspro è il giudizio del Giovio intorno ai discepoli di Leonardo. Ben altro era il giudizio del modesto Raffaello che quasi si mettea del pari con Cesare da Sesto, e il confondersi con quelle di Leonardo le opere del Melzi, del Boltraffio e del Luino che pure può dirsi della sua scuola, distrugge l’opinione del Giovio, e fa onor grande ai discepoli non meno che al maestro.
Ho creduto per ordine di tempo dover qui porre questa vita, perchè quantunque non si sappia in qual anno sia stata scritta, non debb’essere di molto posteriore alla morte di Leonardo; imperocchè quella che segue, di Michelagnolo, non parla della famosa pittura del Giudizio universale, con che è da credere che il Giovio la scrivesse non solo vivente Michelagnolo, come fecero il Vasari e il Condivi, ma prima che fosse fatta o almeno scoperta quella pittura, cioè verso il 1540.
Le migliori cose inedite de conti Anton Giuseppe e Gastone Rezzonici non rimarranno ignote lungamente. Il lodato erede le ha di già in gran parte diligentemente ordinate onde elegantemente pubblicarle.

MATTEO BINDELLO.
(15..)

Le vicende della guerra che lungamente turbò la Lombardia, ruppero il corso felice delle arti e delle lettere in Milano nel momento in cui preparavano frutti migliori, e per l’appunto allorchè Leonardo stava per gettare in bronzo il colosso equestre e forse per dare l’ultimo finimento al Cenacolo. Questa è, a mio credere, la ragione per la quale sì pochi sono gli autori di tal epoca che parlino di queste due opere insigni. Sbandati qua e là nè ad altro volti che alla propria salvezza, male potevano dar pensiero a commendare le opere altrui; e allorquando attesero a scrivere, si volsero a lodare i potenti, da che se traevan poca fama, avean oro e protezione in mezzo alle pubbliche calamità. Da questa fame degli scrittori avviene che presso ogni nazione ed in ogni tempo abbondano i più minuti ragguagli intorno agli abusi sanguinosi della forza umana, e mancano le memorie delle opere d’ingegno che più onorano l’umanità. L’Italia certamente si onora assai più dell’unico Leonardo che de tanti feroci ed astuti guerrieri del secolo XV e XVI, e pure di costoro abbiamo lunghi elogi e storie minute di ogni azione, mentre non abbiamo dell’altro che poche e mal certe notizie. Dopo il poco che ho citato, per quante diligenze mi abbia fatte, non mi venne alle mani altro scrittore che parli del Cenacolo, più antico di Matteo Bandello, autore delle famose Novelle. Mi è necessario di riportare intiero il passo che fa menzione della nostra opera, perchè sparge moltissima luce sulla storia di essa, e rinforza diverse congetture sul tempo e sul modo con cui fu eseguita. Esso è tratto dalla dedica della Novella LVIII della Parte I, diretta a Ginevra Rangona Gonzaga.
Erano in Milano al tempo di Lodovico Sforza Vesconte Duca di Milano alcuni gentiluomini nel monastero delle Grazie dei frati di s. Domenico, e nel refettorio cheti se ne stavano a contemplare il miracoloso e famosissimo Cenacolo di Cristo con i suoi discepoli, che allora l’eccellente pittore Leonardo Vinci Fiorentino dipingeva; il quale aveva molto caro che ciascuno veggenda le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere. Soleva anco spesso, et io più volte l’ho veduto e considerato, andar la mattina a buon’ora e montar sul ponte, perchè il Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva, dico, dal nascente sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne ne sarebbe poi stato dui, tre o quattro dì che non v’avrebbe messa mano, e tuttavia dimorava talora una o due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava et esaminando tra sè le sue figure giudicava. L’ho anco veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto alle Grazie; et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dare ad una di quelle figure, et di subito partirsi et andar altrove. Era in quei dì alloggiato nelle Grazie il cardinal Gurcense il vecchio, il quale si abbattè ad entrar in refettorio per vedere il detto Cenacolo in quel tempo che i sovradetti gentiluomini v’erano adunati. Come Lionardo vide il cardinale, se ne venne giù a farli riverenza, e fu da quello graziosamente raccolto e grandemente festeggiato. Si ragionò quivi di molte cose et in particolare dell’eccellenza della pittura, desiderando alcuni che si potessero veder di quelle pitture antiche che tanto dai buoni scrittori sono celebrate, per poter far giudicio se i pittori del tempo nostro si ponno agli antichi agguagliare. Domandò il cardinale che salario dal duca il pittore avesse. Le fu da Lionardo risposto che d’ordinario aveva di pensione duo mila ducati, senza i doni et i presenti che tutto il dì liberalissimamente il duca gli faceva. Parve gran cosa questa ed cardinale, e partito dal Cenacolo, alle sue camere se ne ritornò. Lionardo allora a quei gentiluomini che quivi erano, per dimostrare che gli eccellenti pittori sempre furono onorati, narrò una bella istorietta a cotal proposito. Io che era presente al suo ragionamento, quella annotai nella mente mia, et avendola sempre tenuta nella memoria, quando mi posi a scriver le Novelle, quella anco scrissi ecc.
La Novella che segue, e che conta un caso avvenuto a frate Filippo Lippi, è di fatto posta in bocca di Leonardo, che incomincia la sua narrazione dal farsi beffe dell’ignoranza del cardinal Gurcense e della sua poca pratica dei buoni autori che narrano le glorie della pittura. Li qual tempo sia stata scritta la prefazione, non trovo indizio alcuno onde congetturarlo. Siccome però parmi da credere che tutto il libro delle Novelle sia stato dal frate composto avanti ch’ei fosse fatto vescovo, ciò mi basta per porre questo suo passo prima delle notizie del Vasari le cui Vite videro la luce nel 1550, cioè appunto nell’anno in cui Francesco I diede il vescovado di Agen al Bandello. È anche da osservarsi, per giudicare dell’età del Bandello, ch’egli era già frate nell’ultimo decennio del secolo antecedente, e che la licenza delle sue Novelle, se male conveniva al vescovo, non è naturale, anzi diventa incredibile nel settuagenario. Aggiungasi in fine che è nota la data di molte sue Novelle che retrocede d’assai dall’epoca della prima edizione delle Vite del Vasari, il che ognuno può scorgere dalle sole dediche; e chi di ciò bramasse più ampie notizie, le cerchi nelle opere del Napione e del Mazzucchelli. Per le stesse ragioni ho citato il Bandello prima del Sabbà da Castiglione e del Biondo che d’un solo anno prevennero il Vasari co’ libri de’ quali si fa qui menzione. Di ciò volli avvertire il lettore, perchè le Novelle del Bandello furono stampate, la prima volta, quattro anni dopo la detta prima edizione del Vasari.

SABBÀ DA CASTIGLIONE.
(1549)

Nei Ricordi ovvero Ammaestramenti di monsignor Sabba da Castiglione, al ricordo centesimonono Circa gli ornamenti della casa, nel quale vengono accennate le opere varie con cui soglionsi abbellire le camere secondo il gusto di ciascheduno, leggesi il seguente curioso passo intorno a Leonardo. E chi (le adorna di opere) di mano di Leonardo di Vinci, uomo di grandissimo ingegno e nella pittura eccellentissimo e famosissimo discepolo del Verocchio, come alla dolcezza delle arie si conosce, e primo inventore delle figure grandi tolte dalle ombre delle lucerne, ancora che dal Cenacolo di santa Maria delle Grazie in Milano in fuora (opera certamente divina, e per tutto il mondo famosa e celebre) pochi altri lavori si trovano di sua mano, perchè quando doveva attendere alla pittura nella quale senza dubbio un nuovo Apelle riuscito sarebbe, tutto si diede alla geometria, all’architettura e notomia; e oltre ciò si occupò nella forma del cavallo di Milano ove sedici anni continui consumò, e certo che la dignità dell’opera era tale che non si poteva dire avere perduto il tempo e la fatica. Ma la ignoranzia e trascuragine di alcuni (li quali siccome non conoscono le virtù, così nulla l’estimano) la lasciamo vituperosamente roinare, et io vi ricorda (e non senza dolore e dispiacere il dico) una così nobile et ingegnosa opera fatta bersaglio a’ balestrieri guasconi.
In niun altro autore, cred’io, tranne questo, si legge come invenzione di Leonardo l’ingrandire le figure coll’ombre delle lucerne. Quest’uso debb’essere certamente di grande antichità, e secondo alcuni retrocede fino all’invenzione della pittura attribuita a varj nomi favolosi. Ma io opino che egli si servisse delle lucerne non già per ingrandire le figure, ma per disegnare prontamente gli scorci i più difficili, metodo usato anche dal Buonarroti, secondo che narra il Cellini. Ad ogni modo questa invenzione, sia pur sua, trattandosi di cosa volgare e continuamente sotto gli occhi di ognuno, non è tale da far onore ad un ingegno qual era quello di Leonardo; e l’uso che se ne può fare per ritrarre figure in iscorcio, non potrà esser utile che per coloro che le saprebbero disegnare anche senza un tal mezzo, e non gioverà che per farle più presto senza notabili scorrezioni. L’eccezioni per altro alle quali questo modo va soggetto e per la collocazione del lume, e pel piano su cui dee battere l’ombra, e per gli angoli degli aggetti del corpo ombreggiante varj secondo le distanze, e per le diverse distanze del corpo e dal lume e dal piano ombreggiato, sono tante, che l’utilità vera di quest’uso si riduce a pochissimo, e il pericolo di gravi errori è grande e continuo, quanto in copiare le figure dal vero direttamente. Può forse giovare ad abituare l’occhio allo scorciare delle membra; ma per comporre con esattezza una figura stranamente atteggiata, sarà più sicura guida il telajo graticolato che fin dal tempo del Paciolo, e certamente molto prima, era comunemente in uso nell’arte.
L’edizione dalla quale trassi il passo citato, è la veneta del 1555, che credo sia l’edizione originale dell’opera accresciuta, in vece di quella del 1560 riportata per tale dall’Haym.
Il Sabbà debbe aver conosciuto Leonardo personalmente: egli era vecchissimo nel 1549 nel qual anno scriveva la prefazione de’ suoi Ricordi. Egli scriveva colla mano manca, conforme dicesi essere stato uso del Vinci.

MICHELAGNOLO BIONDO.
(1549)

Fra le tante mediocri opere mediche e filologiche pubblicate da Michelagnolo Biondo avvi un raro libercolo di piccola mole e di prolisso titolo, in cui questo autore tratta della pittura come ne avrebbe trattato il noto calzolajo d’Apelle. Non vi ha cosa delle infinite che il frontispizio fastosamente promette, alla opale il libro soddisfaccia ragionevolmente. Nulla, a dir vero, in esso si leggerebbe intorno al Cenacolo, se si badasse all’autore cui viene attribuito: ecco ad ogni modo il passo che riguarda a quest’ opera.
Nel capitolo XIV che ha per titolo Della memoria di Mantegna mantovano e delle sue pitture e dove, per accrescere gli esempj de’ grandi artefici, Sappiate, dice, o voi innamorati della pittura, che non molti anni addietro vi è stato Mantegna mantovano pittore raro di quei tempi, il che vi accerta la sua quasi impreziabil pittura, come si dice e vede, cotesto pittor eccellente dipinse l’istoria di Cristo e delli sua discepoli, cioè la tavola della Cena di Jesù, e tal pittura si vede in la città di Milano, la qual pittura Francesco Cristianissimo re di Francia volse portare nel suo reame. Nondimeno egli non potè soddisfare al suo desio per essere tal cosa pinta nel muro.
Ognun vede che l’ignorante medico confuse il Mantegna con Leonardo, non potendosi dubitare che queste parole non si riferiscano al nostro Cenacolo. Di Leonardo poi appena fa menzione nel capitolo di Maturino e d’altri, nel quale dopo molti nomi di secondo grado, è chiamato raro pittore e autore di un libro di anatomia. E pure il Biondo era scolaro del famoso Nifo che scrisse un libro del bello; era amico del Doni e dell’Aretino ch’entrambi facevano da dottori in pittura; ed era nato ventidue anni in punto prima che Leonardo morisse. Ciò prova che il solo buon giudizio fa l’autorità degli scrittori; e dove manchi il giudizio, poca autorità procacciano i tempi e le circostanze. È utile combinazione che i più rari libri siano per lo più cattivi.

GIORGIO VASARI
(1550)

Un gran numero di valenti critici ha ora purgato da una notabile quantità d’errori la dilettevole istoria di questo scrittore; ma siccome tali correzioni, oltre che non sono sempre senza eccezione, non si possono introdurre nel testo senza ruinar l’opera, rimarrà ad ogni giudizioso lettore il dispiacere di ricorrere, leggendola, a nojosi commenti pei passi dichiarati, e il dubbio intorno a ciò che la mancanza di monumenti o di notizie non ci lasciò verificare. Sarebbe lungo l’elenco delle inesattezze nelle quali incorse il Vasari nella vita di Leonardo, facendolo ora nipote, non figlio di Piero;[20] ora conducendolo a Milano sotto il duca Francesco, ora dopo la morte di Galeazzo, ora solo nel 1494 regnante Lodovico; ora infine confondendo le opere, ora l’epoche, ora le persone. E gli sbagli della prima edizione s’incontrano ripetuti nella seconda ch’egli ampliò, a dir vero, d’assai, ma di poco corresse. Pure in questo autore le cose ch’egli fu costretto ad apprendere dalla tradizione, debbonsi considerare diversamente da quelle che dice sulle opere che prende a descrivere, perchè da lui viste ed esaminate per l’arte. Ecco pertanto la descrizione del Cenacolo quale sta nell’edizione del 1550, pubblicata da Lorenzo Torrentino.
Fece ancora in Milano ne’ frati di san Domenico a santa Maria delle Grazie un Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa; ed alle teste degli apostoli diede tanta maestà e bellezza che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste che all’immagine di Cristo si richiede. La quale opera rimanendo così per finita, è stata dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e dagli altri forestieri ancora, attesochè Lionardo s’imaginò e riuscirli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli di voler sapere chi tradiva il loro maestro. Per il che si vede nel viso di tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non poter intendere lo animo di Cristo. La qual cosa non arreca minor maraviglia che il conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e’l tradimento di Giuda, senza che ogni minima parte dell’opera mostra una incredibile diligenza. Avvenga che insino nella tovaglia è contraffatto l’opera del tessuto d’una maniera che la rensa stessa non mostra il vero meglio. La nobiltà di questa pittura, sì per il compimento, sì per essere finita con una incomparabile diligenzia, fece venir voglia al re di Francia di condurla nel regno; onde tentò per ogni via se ci fossi stato architetti che con travate di legnami e di ferri l’avessino potuta armare di maniera ch’ella si fosse condotta salva, senza considerare a spesa che vi si fosse potuta fare, tanto la desiderava. Ma l’esser fatta nel muro fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, ed ella si rimase ai Milanesi.
Nella edizione poi del 1568 dopo l’elogio della tovaglia aggiunge:
Dicesi che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che finisse l’opera; parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzogiorno per volta astratto in considerazione, et avrebbe voluto come faceva delle opere che zappavano nell’orto, ch’egli non avesse mai fermo il pennello. E non gli bastando questo, se ne dolse col duca, e tanto lo rinfocolò che fu costretto a mandar per Lionardo e destramente sollecitarli l’opera, mostrando con buon modo che tutto faceva per l’importunità del priore. Lionardo conoscendo l’ingegno di quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con quel priore) discorrere col duca largamente sopra di questo. Gli ragionò assai dell’arte, e lo fece capace che gl’ingegni elevati talor che manco lavorano, più adoperano, cercando con la mente le invenzioni e formandosi quelle perfette idee che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute nell’intelletto. E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare, quella di Cristo della quale non voleva cercare in terra, e non poteva tanto pensare che nella imaginazione gli paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia che dovette essere quella della divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma da esprimere il volto di colui che dopo tanti benefizi ricevuti, avesse avuto l’animo si fiero che si fosse risoluto di tradire il suo signore e creator del mondo: pur che di questa seconda ne cercherebbe; ma che alla fine non trovando meglio, non gli mancherebbe quella di quel priore tanto importuno et indiscreto. La qual cosa mosse il duca maravigliosamente a riso, e disse ch’egli avea mille ragioni. E così il povero priore confuso attese a sollecitar l’opera dell’orto, e lasciò star Lionardo. Il quale finì bene la testa di Giuda che pare il vero ritratto del tradimento et inumanità. Quella di Cristo rimase, come si è detto, imperfetta.
Dopo questa aggiunta segue, come nella prima edizione: La nobiltà di questa pittura ecc.
Nella vita poi di Girolamo da Carpi leggiamo che il Vasari fu a Milano nel 1566, e vide il Cenacolo di Leonardo tanto mal condotto che non vi si scorgeva più se non una macchia abbagliata. Quivi parla anche della copia di s. Benedetto di Mantova, sulla quale veggasi il terzo libro.
È cosa strana che il Bottari[21] asserisca che poco o nulla si dica dal Vasari intorno al Cenacolo nella sua prima edizione, mentre, eccettuatane la storia del priore, vi si legge precisamente altrettanto quanto nella seconda. Ma il correggere gli errori di giudizio e di fatto che abbondano nei lunghi commenti di diversi al Vasari, sarebbe lunga impresa, ed è meglio dare al Vasari stesso siffatti studj, e ciò anche qualora non si abbia qualche cosa di meglio a fare.
Ho posto sotto un solo articolo le due edizioni che parlano dell’opera con osservazioni di diverse epoche: il lettore le accomoderà alla cronologia con facilità, e risparmierà un articolo dello stesso autore. Farò lo stesso del Lomazzo e degli altri scrittori di cui cito più d’un’opera. Questo metodo mi sembra aver meno inconvenienti dell’altro che ponesse i passi d’ogni autore secondo i tempi, su di che troppo sovente s’incontrano oscurità, incertezze e contraddizioni.
Il Lanzi, umanissimo scrittore, gentile ed elegante sempre, e non di rado felice nel dipingere i caratteri veri, sia delle scuole sia degli artefici, diede intorno al Vasari un mirabile squarcio che vorrei posto in fronte a tutte l’edizioni delle sue Vite, acciò fosse letto da chiunque imprende a scorrerle, ignaro o mal prevenuto dell’autore.[22]
Il Comolli che ne descrisse diffusamente le varie edizioni, solo non avvisò o non seppe esservi un diverso frontispizio all’edizione seconda, il che avea debito di notare essendosi assunto l’impegno di dare gl’interi titoli di tutti i libri della sua Bibliografia.

GIOVAMBATISTA GIRALDI.
(1554)

L’opera del Giraldi che fa al caso nostro, intitolata Discorsi intorno al comporre dei romanzi, delle commedie e delle tragedie ecc., fu quella che il pose in acre contesa col Pigna che ne stampava una simile nel tempo che questa veniva alla luce; su di che può vedersi il Fontanini e il Barotti. Molte utili cose leggonsi in questi Discorsi, e non vi manca qua e là qualche paragone pittorico che prova che il Giraldi dilettossi o della pittura o del conversar co’ pittori. Allorchè, per esempio, ci parla della perfezione alla quale condusse Virgilio la latina poesia raccogliendo in un bellissimo corpo il bello sparso nella moltitudine delle antiche composizioni greche e latine. Mi pare, dicagli, che Virgilio in ciò imitasse gli eccellenti dipintori, i quali volendo formare una imagine singolare che rappresenti la donnesca bellezza, mirano tutte le belle donne che mirar panno; e da ciascuna togliono le parti migliori, ed accoltene tante, quante lor pajono bastare a compire la idea ch’hanno nell’animo, si danno poscia a fare la conceputa figura la quale essendo composta dell’eccellenti parti di molte bellezze, riesce ella non pur bella ma eccellentissima, tale che non si trova forma umana che in viva donna le si possa rassomigliare: tanto desiderano i nobili artefici asseguire l’ultima perfezione. Dal qual periodo ognuno scorge finamente sviluppato il principio del bello ideale, e con tanta chiarezza che sarebbe desiderabile che altrettanta ne splendesse ne’ trattati di questa pericolosa materia. Vi si trova ancora una curiosa spiegazione del famoso quadro di Galatone descrittoci da Eliano, una definizione della bellezza pittorica[23] e degli esempj d’Apelle e di Leonardo. Ma l’esempio che riguarda il nostro pittore, vuol essere trascritto per intiero.
Giova, dice il Giraldi, anco al poeta far quello che soleva fare Leonardo Vinci eccellentissimo dipintore. Questi, qualora voleva dipingere qualche figura, considerava prima la sua qualità e la sua natura: cioè se doveva ella essere nobile o plebea, giojosa o severa, turbata o lieta, vecchia o giovane, irata o d’animo tranquillo, buona o malvagia: e poi conosciuto l’esser suo, se ne andava ove egli sapea che si ragunassero persone di tal qualità; ed osservava diligentemente i lor visi, le lor maniere, gli abiti ed i movimenti del corpo: e trovata cosa che gli paresse atta a quel che far voleva, la riponeva collo stile al suo libricino che sempre egli teneva a cintola. E fatto ciò molte volte e molte, poichè tanto raccolto egli aveva quanto gli parea bastare a quella imagine ch’egli voleva dipingere, si dava a formarla e la faceva riuscire maravigliosa. E posto ch’egli questo in ogni sua opera facesse, il fè con ogni sua diligenza in quella tavola ch’egli dipinse in Milano nel convento dei frati predicatori, nella quale è effigiato il Redentor nostro co’ suoi discepoli che sono a mensa.
Mi soleva dir M. Cristoforo mio padre che fu uomo di acutissimo giudicio e di grandissimo discorso, quando del comporre egli meco ragionava (il che era sovente), che avendo il Vinci finita l’imagine di Cristo e di undici discepoli, egli aveva dipinto il corpo di Giuda solo insino alla testa, nè più oltre procedeva. Laonde i frati di ciò si lamentavano col duca il quale per questa dipintura dava gran premio al Vinci. Il duca, intesa la querela dei frati, fe’ chiamare a sè Leonardo, e gli disse che si maravigliava ch’egli tanto prolungasse il fine di quella dipintura. Gli rispose il Vinci ch’egli si maravigliava che Sua Eccellenza di ciò si lamentasse, perchè non passava mai giorno ch’egli intorno non vi spendesse due ore intere. Acquetassi il duca a queste parole, e tornando i frati a querelarsi della tardanza del Vinci, disse egli loro che n’aveva parlata con lui, e che gli aveva risposto che non era mai giorno ch’egli non spendesse intorno a quella tavola due ore. A cui dissero i frati: Signore, vi resta solo a fare la testa di Giuda, che tutte le altre imagini sono compite; ed avuto rispetto al tempo che egli ha speso per fare le altre teste, se vi lavorasse due ore di un giorno, come dice a Vostra Eccellenza che fa, sarebbe ornai compita tutta la tavola; ma è più d’un anno intero che non è stato a vederla, non che vi abbia messa mano. Allora il duca adirato mandò a dimandare il Vinci, e con viso turbato gli disse: Ch’è questo che mi dicono questi frati? tu mi di’ che non passa mai giorno che tu non spenda due ore intorno alla tavola; ed essi mi dicono ch’è più d’un anno che tu non sei stato al lor convento. Il Vinci allora disse: Che sanno questi frati di dipingere? dicono il vero ch’è gran tempo ch’io non sono ito là; ma non dicono già vero, negando ch’io non spenda ogni giorno almeno due ore intorno a quella imagine. E come può egli ciò essere, disse il duca, se non ci vai? Allora il Vinci, quasi ridendo, rispose: Signore Eccellentissimo, restami a fare la testa di Giuda il quale è stato quel gran traditore che voi sapete: e però merita essere dipinto con viso che a tanta scelleraggine si confaccia. E quantunque io ci avessi potuto aver molti tra quelli che mi accusano, che si sariano maravigliosamente assimigliati a quel di Giuda: nondimeno per non gli far vergognar di lor medesimi, ha già un anno e forse più, che ogni giorno, sera e mattina, mi son ridotto in Borghetto ove abitano tutte le vili ed ignobili persone e per la maggior parte malvage e scellerate, solo per vedere se mi venisse veduto un viso che fosse atto a compir l’imagine di quel malvagio. Nè insino ad ora i’ l’ho potuto trovare: tosto ch’egli mi verrà innanzi, in un giorno darò fine a quanto mi avanza a fare. O se forse nol troverò, io vi porrò quello di questo padre priore, che ora mi è sì molesto, che maravigliosamente gli si confarà. Rise il duca a queste ultime parole del Vinci, e restò appagato di quanto egli gli disse, e conosciuto con quanto giudicio egli componeva le sue figure, non gli parve maraviglia se quella tavola riusciva negli occhi del mondo così eccellente.
Avvenne dopo queste parole, che un giorno gli venne per ventura veduto uno ch’aveva viso al suo desiderio conforme, ed egli subito preso lo stile, grossamente il disegnò, e con quello e con le altre parti ch’egli in tutto quello anno aveva diligentemente raccolte in varie facce di vili e malvage persone, andato ai frati, compì Giuda con viso tale che pare ch’egli abbia il tradimento scolpito nella fronte. Così deve anco fare il poeta, volendo egli co’ colori delle scritture mostrare gli abiti, i costumi, i ragionamenti, le azioni di diverse persone, perchè non potrà indi trarre se non utile incredibile.
Sembra che da questo squarcio del Giraldi traesse il Vasari l’aggiunta che fece alla storia del Cenacolo nella seconda edizione delle sue Vite. Se si potesse prestar fede intera a questo scrittore in una cosa che non appartiene nè alla sua professione nè all’argomento del suo libro, si potrebbero da questo passo dedurre varie conseguenze che si oppongono parte alle altre storie, parte al costume di Leonardo. Primieramente converrebbe credere che Leonardo avesse compiuta la testa del Salvatore, al che contraddicono il Vasari e il Lomazzo, entrambi pittori di buon giudizio. Converrebbe poi cangiare opinione intorno al metodo di dipingere di Leonardo, o alla sua lentezza, o alla perfezione colla quale conduceva le sue figure, qualora si voglia credere che in un giorno ei potesse, come qui si legge, cominciare e finire la testa di Giuda, sebbene da oltre un anno l’andasse studiando. Nell’accennare le quali cose sarebbe stato più circospetto il Giraldi se avesse avuto qualche idea della pratica dell’arte, come pare che intendesse la teorica, e soprattutto se avesse conosciuto i metodi pratici di Leonardo, il quale per quanto si apparecchiasse innanzi di por mano al lavoro, sappiamo dalla storia che sempre vi si accostava tremando. È dunque da giudicare che il Giraldi dica finita la testa del Salvatore, perchè da quel tempo nulla più il pittore vi facesse, o perchè come di cosa finita se ne accontentavano i frati, sebben Leonardo volesse forse riporvi le mani. Similmente parmi da credere che non vi mancasse già del tutto la testa di Giuda, come il Giraldi asserisce, ma che vi mancassero soltanto que’ tratti principali coi quali voleva Leonardo caratterizzarlo, e che costavangli sì lunghe ricerche. In fatti, essendo l’opera dipinta a olio, ed avendo egli il costume di ripassare più volte che non è d’uopo, i suoi lavori, ed essendo necessario un certo tempo tra l’uno e l’altro ritocco acciò il precedente sia ben secco, chi credesse altrimenti, mostrerebbesi affatto ignaro dell’arte.
Il costume poi di Leonardo, qui proposto dal Giraldi in esempio agli scrittori, non si può abbastanza raccomandare agli studiosi del disegno, come il solo metodo onde perfezionarsi nell’espressione degli affetti, ch’è la vera vita dell’arte, e quella parte che la rende più cara alla generalità degli uomini, essendo non solo una imitazione muta delle loro forme, ma, direi quasi, una parlante rappresentazione degli animi loro.

LEANDRO ALBERTI.
(1561)

Vedi Francesco Sansovino = 1575


GASPARE BUGATI.
(1570)

Nel libro sesto della sua Storia universale dà il Bugati un ragguaglio delle qualità e della fortuna del Moro, e ragionando dell’amore ch’ei portava ai virtuosi, e della sua liberalità, dice: Diede mille scudi l’anno a Giasone Maini, trecento a Giorgio Merula d’Alessandria istorico, cinquecento a Leonardo da Vinci pittore eccellente fiorentino, che pinse il miracoloso Cenacolo di Cristo alle Grazie: amò grandemente e donò a Bramante grande architetto e pittore, da cui egli fece fare la chiesa di s. Satiro e piantare quella di s. Celso: gli furono cari Ambrosio Rosate dotto in ogni cosa, Caradosso statuario, e Giacobo lapidario.
La pensione qui stabilita dal Moro a Leonardo non si accorda con la notata di sopra, che il Bandello udì dalla propria bocca di lui, presente il cardinal Gurcense. Potrebbe darsi che all’epoca in cui il Bandello conversò col Vinci, cioè negli ultimi anni della dimora di questo presso il Moro, la pensione gli fosse stata aumentata, e che i cinquecento scudi gli fossero stati assegnati fino da quando si pose al servizio del duca, cioè forse intorno al 1477.[24] È da notarsi che il Bugati nella postilla al luogo qui citato, chiama Bramante architetto milanese, per distinguerlo dall’urbinate che forse fu suo discepolo e certamente fu maestro del Cesariano. Si aggiunga anche questa alle tante autorità che provano esservi stati almen due Bramanti contemporanei, oltre varj Bramantini.

FRANCESCO BOCCHI.
(1571)

Nel Ragionamento del Bocchi sulla statua di s. Giorgio di Donatello, diconsi parti allo scultore necessarie il costume, la vivacità e la bellezza. In proposito poi del costume, Fu, dic’egli, felice in questo Leonardo a maraviglia, come si dice del miracoloso Cenacolo che in Milano egli dipinse; dove negli apostoli espresse il costume tanto nobilmente, che sempre perciò da tutti è stato commendato; ma nella testa di Cristo (in cui sovrana bellezza e maestà mirabile e ogni divina perfezione volea dimostrare) non potè fornire il suo avviso, e non trovando co’ suoi pensieri come a questo rispondesse degnamente, lasciò quella senza fine e imperfetta. Questo scritto fu composto dal Bocchi nel 1571, e si stampò la prima volta nel 1583.

PAOLO MINI.[25]
(1572)

Il Mini, nella sua Difesa di Firenze e dei Fiorentini, ove parla delle glorie pittoriche della sua patria, seguendo il piano del Vasari, di cui fa un epilogo in pochi fogli, fa morire tutte le arti in Italia per poi risuscitarle per opera de’ suoi concittadini. Quindi pianta il solito albero genealogico pittorico, alla radice del quale sta Cimabue, sebbene questi fosse in fasce quando in altre città d’Italia s’eran già fatti i funerali a varj artefici forse migliori di lui, fra i quali a Guido da Siena. Da Cimabue scendendo in Gaddo, in Giotto e nella scuola di quest’ultimo che pe’ suoi tempi fu in vero uom grande e meraviglioso, passa a Masaccio, a fra Giovanni, al Gozzoli, al Lippi, ed in fine a Leonardo, intorno a cui ecco le sue parole:
Lionardo da Vinci fnalmente abbracciando tutte queste forze vendute alla pittura, con la vivacità, con la grandezza è con la perfezione del disegno gne nè confermò di maniera, che non pure per risuscitata, ma ella ne’ suoi tempi per le sue onorate mani fu conosciuta ritornata in tutto e per tutto al suo antico fiore. Testimonio ne è lo stupendissimo Cenacolo che di sua mano principiato, ammezzato e finito, è nella città di Milano in s. Maria delle Grazie, e testimonio efficacissimo ne è il re Luigi duodecimo il quale non si sdegnò ch’ei gli morisse nelle braccia: là onde Giovambatista Strozzi non si peritò, sendo egli morto, di dire di lui,
Vince costui pur solo
Tutti altri, e vince Fidia e vince Apelle
E tutto il lor vittorioso stuolo.
E le notizie e l’epigramma sono, come ognun vede, tratti dal Vasari. Egli vi aggiunse di suo lo sproposito di far morire Leonardo nelle braccia di Luigi XII che morì molti anni prima di lui.
Rimarrebbe ad investigare che si voglia intendere con quel principiato, ammezzato e finito, parlando del Cenacolo. Forse volle con ciò asserire che Leonardo non permise che alcuno dessegli ajuto o ponesse mano in questa opera; o pure che in diversi tempi, e forse in tre riprese la conducesse.

FRANCESCO SANSOVINO.
(1575)

Il Sansovino nel Ritratto delle più nobili e famose città d’Italia, ove ragiona del monasterio delle Grazie, soggiunge che nel refettorio di esso si dimostra il Cenacolo di Cristo con gli apostoli dipinto tanto maravigliosamente da Leonardo da Vinci fiorentino. Nel quale appare il gran magisterio di lui, cosa da ognuno nella pittura perito sommamente lodata. Questo passo è copiato dalla Descrizione di tutta Italia di F. Leandro Alberti. Solo in questa si legge, per errore forse di stampa, Lorenzo Vincio in vece di Leonardo: ciò almeno nell’edizione del 1561 che ho sott’occhio.

RAFFAELLO BORGHINI.
(1584)

Un breve estratto dal Vasari senz’alcuna aggiunta, se si eccettua un freddo epitaffio, è tutto quello che intorno a Leonardo abbiamo nell’opera del Borghini, che ha per titolo il Riposo. A parer mio, che però volentieri sottometto all’altrui, questo libro è più utile per la lingua che per la pittura.

GIO. PAOLO LOMAZZO.
(1584 e 1590)

Ad onta di moltissimi difetti, errori e pregiudizj de’ quali sono sparse le opere del Lomazzo, a lui si debbe il più compiuto trattato che ci rimanga della pittura. Lo stesso aureo libro di Leonardo, quale dalle stampe si conosce, ottimo per lingua e per filosofia nelle parti che tratta, è troppo breve in altre; d’altre, come lavoro incompiuto, non parla affatto. A ragione l’illustre autore della Storia pittorica brama la ristampa degli scritti del Lomazzo, e ne vorrebbe tale editore, che, per usar di sua frase, sceverandone le foglie, ne serbasse i frutti. Ma un editore di tal tempra è più difficile a trovarsi che non si crede, e qualora si accoppjno in un solo ingegno il sapere, la costanza e il giudizio che sarebbero necessarj ad un simile lavoro, è difficilissimo che un tale ingegno s’impieghi in opera altrui con poca speranza di fama, mentre con minor fatica e maggiore lusinga potrebbe tentare qualche cosa di proprio ed originale. E ad ogni modo le opere, per chi meglio sa, vogliono essere lette come furono scritte, ed il giudizio che il lodato Lanzi vorrebbe nell’editore, io lo bramo nel lettore. Se questi non è in grado di scernere le buone dalle cattive autorità storiche e poetiche che il Lomazzo prende a fascio indistintamente; se non è erudito abbastanza per intendere ove l’autore è troppo credulo o si abbandona a pazzie astrologiche, che in lui sono piuttosto modi d’esprimere che opinioni scientifiche; se in fine non è munito di molta pazienza e discrezione per penetrare dentro la mente dell’autore, supplendo anche, ove bisogna, ai gravi errori tipografici che accrescono sovente le difficoltà del testo, poco profitto trarrà da queste opere, e non compenserà il tempo e la fatica ch’è d’uopo impiegarvi. Che pei lettori d’altronde leggieri e di minor vista, che non conoscono l’oro se non quando è depurato da ogni lordura, bastano e parranno auree molte opere minori delle quali abbiamo gran copia in molte lingue; poichè, se non erro, non giungerebbero ad intendere le cose buone di queste, comunque si riducano, le quali esigeranno sempre attenzione grandissima, e non volgare acume d’ingegno ond’essere intese e proficue.
Ma venendo al proposito nostro, nel capo nono del primo libro del gran Trattato dove questo autore ragiona della proporzione del corpo virile di otto teste, leggesi il seguente passo:
Fra i moderni Leonardo Vinci, pittore stupendissimo, dipingendo nel refettorio di s. Maria delle Grazie in Milano una Cena di Cristo con gli apostoli, e avendo dipinto tutti gli apostoli, fece Giacomo Maggiore e il Minore di tanta bellezza e maestà, che volendo poi far Cristo mai non potè dar compimento e perfezione a quella santa faccia, con tutto ch’egli fosse singolarissimo; onde così disperato, non vi potendo far altro, se ne andò a consigliarsi con Bernardo Zenale, il quale per confortarlo gli disse: O Leonardo, è tanto e tale questo errore che hai commesso, ch’altro che Iddio non lo può levare. Imperocchè non è in potestà tua nè d’altri di dare maggior divinità e bellezza ad alcuna figura, di quella che hai dato a Giacomo Maggiore e Minore, sì che sta di buona voglia, e lascia Cristo così imperfetto, perchè non lo farai esser Cristo appresso quegli apostoli; e così Leonardo fece, come oggidì si vede, benchè la pittura sia rovinata tutta.
Al capo secondo poi del secondo libro, dove ragiona de’ moti secondo la diversità delle passioni ed affetti dell’animo, dice che in questa parte Leonardo non fece mai alcuno errore. Del che, aggiunge egli, tra tutte l’altre sue cose fa chiarissima prova la maravigliosa Cena di Cristo e de suoi apostoli, che si vede dipinta nel refettorio di santa Maria delle Grazie in Milano; nella quale espresse di maniera i moti delle passioni degli animi di quelli apostoli, nei volti ed in tutto il resto del corpo, che ben si può dire che il vero non fosse punto diverso da quella rappresentazione; e che quell’opera sia stata una delle maravigliose opere di pittura, che giammai in alcun tempo fosse fatta da alcuno pittore, per eccellente che fosse, a olio; del qual modo di dipingere ne fu a quel tempo inventore Giovanni da Bragia. Imperocchè in quelli apostoli appartatamente si vede l’ammirazione, lo spavento, la doglia, il sospetto, l’amore e simili passioni ed affetti, in che tutti allora si trovarono; e finalmente in Giuda il tradimento concetto nell’animo con un sembiante di punto simile ad un traditore. Si che ben dimostrò quanto perfettamente intendesse i moti che l’animo suol cagionare ne corpi, de’ quali siccome di necessarissima parte al pittore quasi in tutto questo libro ne sarà trattato.
Nel libro terzo al capo quinto dove parla del colorare a pastelli, segue a dire: Il che si fa in carta, e fu molto usato da Leonardo Vinci, il quale fece le teste di Cristo e degli apostoli a questo modo eccellenti e miracolose in carta.
Nel capo secondo finalmente del settimo libro, parlando della forma di Dio e della necessità che gli atti che gli si attribuiscono, siano corrispondenti alla maestà di lui, soggiunge che l’artefice deve sforzarsi di rappresentarvi dentro la deità con l’eccellenza e differenza della forma, statura, moto, collocazione e lume dagli altri corpi che si fingono attorno a lui, cosa tanto difficile che l’istesso Leonardo non potè conseguirla nel Cristo che dipinse nel refettorio delle Grazie di Milano.
In altri cinquanta e più luoghi del Trattato fa menzione il Lomazzo del nostro pittore, senza però parlare del Cenacolo. Chi fosse curioso di vederli, li riscontri coi numeri delle pagine che pongo fra le note.[26]
Trovo poi nuovamente ricordo della nostra opera nel capo decimoterzo della sua Idea del Tempio della Pittura, libro che sebbene fosse composto, per quanto apparisce, prima del Trattato, fu stampato dopo di quello sei anni. Nel qual capo, dopo aver detto che Leonardo ha colorito a olio quasi tutte le opere sue, continua come qui trascrivo:
Ora Leonardo fu quello che lasciato l’uso della tempera passò all’olio il quale usava di assottigliare con i lambicchi, onde è causato che quasi tutte le opere sue si sono spiccate dai muri, siccome fra le altre si vede nel Consiglio di Fiorenza la mirabile battaglia, ed in Milano la Cena di Cristo in santa Maria delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura ch’egli gli diede sotto. Di che abbiamo grandemente da dolerci che opere così eccellenti si perdano, restando solamente i disegni, i quali certo nè il tempo nè la morte nè altro accidente sarà mai per vincere, ma con grandissima lode e gloria di lui viveranno in eterno.
In una ventina d’altri luoghi ne quali in questa Idea del Tempio della Pittura occorre il nome e l’esempio di Leonardo, non si parla della Cena, sebbene non ne manchi occasione, sopra tutto dove il Lomazzo rammemora le migliori opere di lui. Ma ciò avvenne probabilmente perchè era in allora del tutto perduta.
E questa perdita, di sì gran danno per l’arte, già accennata dal Vasari sotto l’anno 1566, non dee credersi dal Lomazzo confermata sotto la data delle opere stampate, ma prima di molto; perchè tanto il Tempio quanto il Trattato furono dall’autore composti in età assai giovenile, come dalle sue stesse parole apparisce chiaramente. Che se in taluno de’ suoi capricciosi sonetti ne’ quali l’estro e la bizzarria lo allontanano per costume e sistema dalla verità, ei dice a caso altrimenti, debb’essere preferita l’autorità de’ suoi trattati e quanto assicura nelle dediche a re ed a principi contemporanei ai quali non potea mentire senza ignominia, nè avrebbe mentito con vantaggio. Imperocchè del suo Tempio così egli parla nell’epistola al re di Spagna, che sta in fronte all’opera: Questo è parto che uscì da me negli anni della mia gioventù, concetto in quelle ore che stanco del dipingere avea bisogno di ricreazione ecc. E con quella espressione concetto avvalora la mia congettura che quest’opera sia stata da lui composta prima del Trattato; di cui, sebbene a taluni sembri un compendio (nel qual caso dovrebb’essere posteriore, nè quella espressione sarebbe opportuna), è piuttosto un apparato o prolegomeno, anzi il primo seme, per così esprimermi, di quella maggior opera che divenne un Trattato compiuto, allorchè fu arricchita in tutte le sue parti di tutto ciò che la susseguente pratica dell’arte e gli studj profondi nelle materie d’erudizione vi poterono recare in tributo. Del Trattato poi, se mai fu, come è probabile, fatica di molti anni, basti l’assicurarci che i primi libri dove trovansi i passi più importanti che ho citati, sono stati da lui scritti assai prima della sua cecità, la quale non già in vecchiaja, come male asserisce l’Orlandi, ma nel fiore dell’età e nel momento migliore di mettere in pratica le sue speculazioni, lo tolse per sempre alla pittura. E di ciò verremo facilmente assicurati dall’osservare ciò che scrive egli stesso poche linee prima del secondo passo sopra trascritto, nel qual luogo avverte che il trattare de’ moti delle passioni e degli affetti è opera piuttosto da uomo consumato che da giovane: per il che, continua egli, non senza qualche rossore io mi pongo a volerne trattare ecc. E o si stabilisca l’epoca della sua cecità all’anno trentesimo della sua vita, cioè nel 1568, come egli stesso avvisa nell’ultimo capitolo del Trattato; o si ponga di tre anni più tardi, secondo quanto ei dice nella dedica del Tempio, nella sua Vita e in un distico in fine dei Grotteschi (il che si concilia col corso della malattia ch’ebbe il funesto fine che il gran Cardano ed il Vicenza gli avevano predetto), avuto riguardo alla età giovenile in cui assicura aver composti gli scritti suoi, è evidente che quanto ei dice intorno al Cenacolo, si debbe considerare anteriore non che contemporaneo a quanto ne fu detto dal Vasari, il che si scorgerà ancora più patentemente da alcuni suoi versi che fra poco mi accadrà di citare.
Nulla d’importante allo scopo nostro ho tratto dalle altre tre opere stampate di questo autore, che sono i Grotteschi, la Forma delle Muse e i Rabisch o Versi del compare Zavargna ecc. Il poco di alcuna di esse che vi avrà qualche relazione, verrà citato nel corso dell’opera o nelle note.
Filippo Picinelli nel suo Ateneo, forse coll’autorità del Morigia, registra di lui un’altra opera stampata, intitolata Esposizione sopra il Trattato dell’arte della pittura. Io credo che non esista affatto, almeno alle stampe, se pure non fosse (il che mi pare assai probabile) l’Idea del Tempio, cui il Lomazzo, come vedemmo, diede forma d’introduzione al suo Trattato, sebbene la pubblicasse alcuni anni dopo, cosa ch’egli stesso non manca d’avvisare nell’ultimo capitolo. Dal quale avviso si prova l’errore del Tiraboschi che suppone esservi una edizione dell’Idea del Tempio contemporanea al Trattato, come altro errore del Tiraboschi, del Du Fresne e d’altri è il credere che il Lomazzo dettasse le sue opere dopo aver perduta la vista. Su di che abbiamo già osservato ch’egli stesso dice d’aver fatto in prima gioventù le due opere sue principali, almeno in gran parte; e per ciò che spetta ai suoi versi, comechè pajano per lo più versi da cieco, siccome il Lanzi nota facetamente, s’egli fece, come asserisce, il proprio ritratto colle insegne di principe dell’accademia della Val di Bregno, è facile il vedere ch’egli si era ottenuto quell’onore per mezzo delle sue poesie anche anteriormente alla sua cecità. A provare più ampiamente che i Grotteschi suoi furono scritti prima che perdesse la vista, mi è venuto alle mani un curioso codice tutto di suo pugno, che ha per titolo Gli Sogni e Ragionamenti composti da Giovan Paolo Lomazzo milanese con le figure de’ Spiriti che gli raccontano, da esso disegnate. Nell’avviso al lettore non solo ei parla delle sue poesie, ma si scorge che questi Sogni furono da lui composti per farne una sola opera con quelle, frammezzando la recita de’ versi con dialoghi e ragionamenti stranissimi. E come nel decorso del libro si ragiona di Michelagnolo vivente, è chiaro che quest’opera fu scritta prima del 1563 all’uso fiorentino e 64 al volgare, anno di lutto per la morte di quel sommo uomo, ristorato in parte dalla nascita del gran Galileo: così essendo tal opera posteriore ai suoi poetici capricci, si può giudicare che questi siano di ben due dozzine d’anni anteriori alla stampa. In fatti, checchè si dica circa il tempo di tali scritti dal Lanzi, dal Ghilini, dal Le Comte e da molti altri autori, e fin anche dal Lomazzo stesso in qualche luogo,[27] quelle sue poesie, poche eccettuate, sembrano più esuberanze di sfrenata e confusa fantasia giovenile, che produzioni d’uomo maturo. Chè se alcune ne aggiunse di poi cogli stessi grilli e stravaganze insignificanti onde sono stipate le antecedenti, ciò fu per migliorare ed arricchire il suo volume, senza allontanarsi dal metodo tenuto negli anni primi del suo furore poetico. Così rendendo all’età del molto estro e del poco giudizio queste bizzarre composizioni, se ne viene a scusare la stranezza e la mediocrità. Ma chi non fosse appieno soddisfatto delle prove da me qui addotte, e ne volesse sott’occhio una più autentica e solenne che smentisce quanto dal più degli scrittori fu asserito intorno all’epoca di questi ghiribizzi, legga le terzine dello stesso Lomazzo a Carlo Emanuello duca di Savoja, da lui cantate veramente da cieco in ogni senso nel 1587. In queste egli dichiara d’aver composti i suoi sette libri di Grotteschi nella etade terza, quella, cioè, che vien dopo la puerizia e l’adolescenza; e per togliere ogni dubbio intorno alla sua espressione, soggiunge:
Se quella vuol sapere il fermo chiodo,
Ciò che la terza età, c’ho detto, sia,
Acciò non sia lasciato oscuro nodo;
Ella è quella di Vener[28] dove stia
La forza del mostrar di ciascun opra,
Quel che dianzi Mercurio ha fatto in via.
Ove col fare ancor convien adopra
Il dir unito insieme in cotal anni
Dai sedici a li venti, e qua si scopra.
Allor così scrivendo quanti affanni
Recava il finger seco, io mi scemava.
Ai quali versi debbonsi aggiungere gli altri della sua vita ne’ quali, dopo avere parlato del suo maestro e delle sue prime opere, soggiunge:
E ne’ ritratti ancor io posi il piede
Di piccioli e di grandi, et alfin poi
Mi dipartii da lui, spiegando in versi
E in prosa tutti i miei varj concetti;
Che strani mi venian qual recar suole
La lieta gioventude, e così scrissi
In rime i miei Grotteschi, dove espressi
Molti caprizzi c’havea in cor concetti,
Ai guai poi cieco ancor molti ne aggiunsi.
Poco da poi trattai della pittura
In molti libri, di or si veggon fuori.
E allor fu eretta ancor l’alta Accademia
Di Bregno ecc.
Da che si vede anche quanto per tempo stendesse il suo Trattato, cioè poco dopo i vent’anni: per la qual cosa i passi che riguardano il Cenacolo, verrebbero a riportarsi intorno al 1560 circa. Nè men chiaro apparisce che non da cieco, ma una quindicina circa d’anni prima della sua cecità, compose il Lomazzo in gran parte le sue poesie che in buon numero sono citate coi primi versi nel codice di cui ho parlato di sopra. E si scorge parimente che qualora s’imprende a parlare di coloro che hanno pubblicato delle opere, è necessario prima di tutto di leggerle diligentemente, oppure si è in pericolo di cadere in gravi errori. Ciò però sia detto con pace de’ chiarissimi uomini che furono d’altra opinione intorno a quanto mi sforzai di provare, ed in ispecie degli egregi autori delle due storie, la Letteraria e la Pittorica. La vastità d’altronde di que’ classici lavori, che di sua natura dispensa gli autori dalle letture mediocri, e più il merito cospicuo di quelle opere nell’essenziale, riconosciuto oramai da tutta Europa, scusano abbastanza tali piccioli nei che io mi prendo la libertà di notare unicamente per amor del vero, e perchè importa alla mia storia del Cenacolo il sapere a qual epoca si possano riferire que’ passi del Lomazzo che parlano di questo singolare dipinto.

GIO. BATISTA ARMENINI.
(1586)

Quantunque il maggior numero degli esemplari del libro dell’Armenini porti la data del 1587, egli è certo che quest’opera vide la luce nell’anno precedente, come prova non solo la dedica dello stampatore, ma anche qualche raro esemplare del 1586 che soltanto in pochi fogli differisce dall’edizione posteriore.
Anche i Precetti dell’Armenini appajono composti assai prima che venissero pubblicati. Egli stesso assicura nella conclusione del suo libro, che gli avrebbe condotti a miglior perfezione, se, oltre varie disavventure, la poca età in cui era allorchè gli scrisse, non glielo avesse impedito. In qual tempo però fossero composti, noi trovo scritto da nessuno. Il Mazzucchelli non dice altro di lui se non che fioriva intorno al 158o. Il libro non fu pubblicato dall’autore, ma dallo stampatore Francesco Tebaldini il quale, comunque trovasse l’originale, dice d’aver faticato sommamente a ridurlo quale il diede, il che farebbe dubitare che l’opera sia postuma. Da varj passi pertanto[29] si deduce che l’autore, di quindici anni recossi a Roma, e che dopo avervi passato qualche tempo, corse per nove anni tutta Italia. Passati questi, ritiratosi non so se in Faenza sua patria o altrove, lasciò la pittura e forse si fece frate, cangiando, com’ei dice, per ordine di chi potea disporre di lui, abito e professione. Si crederebbe ch’ei fosse stato a Milano prima del 1546, anno in cui morì il marchese di Pescara, presso il quale dice d’aver visto alcuni maravigliosi ritratti di Sebastiano Dal Piombo. Concorre a farlo credere fra noi sì anticamente, il sentirlo in Genova al passaggio di alcuni pittori che andavano in Ispagna, fra i quali nomina il Ruviale che morì nel 1550. Trovossi poi certamente in Roma nel 1556, anno da lui notato all’occasione che racconta la vendita de’ disegni di Perino Del Vaga. Ma pare che in quell’anno stesso ne uscisse, se si avverte ai disordini che al capo ultimo dice avvenutivi, che rispondono esattamente al primo anno del feroce governo di Paolo IV, e che il costrinsero a cercare altrove miglior sorte e quiete. Dopo quel tempo avendo peregrinato qua e là lungamente, tornò di nuovo a Milano, e stette con Bernardino Campi cui abbozzò un quadro, e pare che il servisse bene, poichè il Campi il volle seco qualche mese. Non parve contento degli studj pittorici della nostra città, e parlando de’ nostri giovani, dice d’averli trovati più dediti all’ornarsi con varj abiti e con belle armi lucenti, che all’adoprare penne ovver pennelli. Da questa ultima epoca sembra dover avere principio la sua stabile dimora ovunque fosse, e da questo tempo fino poco oltre il 1570 può essere stato da lui steso o riordinato con accrescimenti il suo libro, accennandovisi in un luogo morto Michelagnolo, ed in un altro pubblicata di fresco la Prospettiva del Barbaro che uscì l’anno 1567. Sembra da tutto ciò potersi congetturare ch’ei fosse nato tra il 1520 e il 1530, e ch’ei si recasse a Roma poco dopo il 1540. Mi sono alquanto dilungato intorno a questo autore, perchè non vi è libro che dia conto di lui.
Il passo più importante che tratta del Cenacolo, trovasi nel libro terzo a carte 173. Ragionando ivi degli ornamenti de’ refettorj, Fra gli altri, dice, io vidi in Milano quello de’ frati di san Domenico in santa Maria delle Grazie, nel quale a man manca vi è dipinto a olio sul muro un Cenacolo da Leonardo Vinci, che, abbenchè fosse allora mezzo guasto, mi parve però in tal modo un miracolo molto grande per aver egli espresso mirabilmente negli apostoli quel sospetto ch’era entrato in loro di voler sapere chi era che tradir volesse il loro maestro.
Nel libro antecedente poi, a carte 148, già aveva parlato delle difficoltà che Leonardo sostenne onde comporre la testa di Giuda; ma nulla vi si legge di nuovo, anzi sembra ripetere ciò che già aveano pubblicato il Vasari ed il Giraldi intorno al modo di studiare di Leonardo. Non ostante l’accordarsi l’Armenini con quegli autori contemporanei, aggiunge loro autorità intorno alle cose che a Leonardo hanno relazione. Imperocchè l’Armenini che sembra essere stato più volte a Milano, dice aver ivi veduti alcuni mirabili disegni del Vinci in mano di alcuni vecchi pittori, probabilmente della sua scuola; ed essendo, com’egli asserisce, suo uso d’interrogare tutti gli artefici specialmente intorno ai modi de’ migliori antichi maestri, è da credere che quanto di Leonardo ei lasciò scritto, non fosse tolto soltanto dal Vasari e dal Giraldi, ma anche dalle informazioni ch’ei prese dove esisteva più grande la memoria di lui.
Il libro de’ Veri precetti[30] dell’Armenini può giovare assai nella pratica, e diletta non di rado raccontando alcuni piacevoli fatterelli avvenuti ai grandi maestri di quel tempo. Scarso però nella teorica, e, senza la base della filosofia, fondato in gran parte sull’esempio, è per l’essenziale dell’arte dannoso anzi che utile. I veri precetti dell’arte non si possono trarre che dalla natura e dalla ragione: gli esempj dichiarano i precetti e li confermano; ma ove li facciano, l’arte è caduta, perchè perde l’originalità. Ben altrimenti furono i precetti di Leonardo, ed è bello lo scorrere tutti i suoi libri senza trovarvi un solo esempio, quasi ch’egli credesse far torto all’evidenza delle verità che si traggono direttamente dalla natura, sostenendole colle prove dell’arte, figlia di troppo debole autorità a petto di siffatta madre.

GREGORIO COMANINI.
(1591)

Il seguente passo, importantissimo per la singolare notizia che ci dà d’una copia del Cenacolo, eseguita probabilmente a cesello in argento, d’ordine di Francesco I, è estratto dall’opera che ha per titolo: Il Figino ovvero del Fine della Pittura. Dialogo del Rever. Padre D. Gregorio Comanini, Canonico Lateranense. Ove quistionandosi se il fine della Pittura sia l’utile ovvero il diletto, si tratta dell’uso di quella nel Cristianesimo, e si mostra qual sia imitator più perfetto e che più diletti, il pittore ovvero il poeta. L’opera fu scritta, a quanto apparisce, nel 1690, e fu subito pubblicata fanno seguente in quarto coi torchi di Francesco Osanna in Mantova. Si espone in essa un dialogo, a dir vero, prolisso, ma non povero di buona erudizione e di utili notizie, tra il padre don Ascanio Martinengo, Stefano Guazzo e Giovanni Ambrogio Figino pittore milanese. Sì il Martinengo come il Guazzo si resero celebri al declinare del secolo decimosesto e colle opere proprie e col prestar favore alle lettere. Il Martinengo fondò in Padova l’accademia degli Animosi, della quale trovansi memorie nelle lettere di Diomede Borghesi e presso altri autori, e di cui furono membri Sperone Speroni, il Tomitano, il Macino, il Piccolomini. Il Guazzo poi fu fondatore dell’accademia degl’Illustrati in Casale di Monferrato, che fu pure feconda di non ignobili ingegni. E il Figino da ultimo, in casa del quale accade il dialogo, essendo egli visitato dai detti due illustri ospiti che nol conosceano che di fama, fu il preddetto scolare del Lomazzo, e valse più di lui, sebbene fosse ineguale assai nelle opere e perdesse spesso la gloria dell’originalità, dandosi troppo all’imitazione de’ grandi maestri ed abbandonando lo studio diretto della natura. Egli merita nondimeno un posto distinto nella storia pittorica, e fa dispiacere il vedere tanto silenzio sopra questo degno maestro ne’ prolissi cataloghi de’ troppo lodati artefici di quest’epoca. I suoi disegni furono sovente confusi con quelli di Batista Franco, del Salviati, del Parmigianino, e talora fin anche del Buonarroti di cui ritrasse più volte le opere principali. Oltre ciò che da questo dialogo si può ricavare, trovansi sparsi grandi elogi di lui nel Trattato e ne’ Grotteschi del suo maestro, nelle poesie del Marino, in quelle di Giuliano Goselini e in quelle del Borgogni.
Ecco il passo posto in sua bocca nel dialogo del Comanini, a carte 264.
Il re di Francia Francesco volle portare di là dall’Alpi tutto il muro del refettorio delle Grazie di questa città, dove Leonardo Vinci avea dipinto la Cena del Salvatore. Qual cosa stimava egli più? i denari o pure la pittura? pensate voi quanta spesa avrebbe quel re fatta nella trasportazione di tanta macchina quando fosse stato possibile il conducerla senza pericolo di guastamento. Ma poichè non la potè trasferire nel suo reame, ne fece fare un estratto in argento[31] il quale poscia fu da lui mandato a donare a papa Clemente Settimo al tempo delle nozze di Margherita de’ Medici e di Enrico il Secondo.
Ho scorse alcune altre opere del Comanini, e nulla vi ho trovato di pittorico. Il Figino aveva un libro di disegni[32] di Leonardo, come sappiamo dal Lomazzo, dal Du Fresne e più chiaramente dal Venturi. Qual fosse in parte quel volume, spero poterlo indicare allorchè pubblicherò molti scritti e disegni inediti di Leonardo; perchè in un gran numero di schizzi che ho raccolti del Figino, molti ne ho scoperti che sono bensì di sua mano, ma che traggono origine da altri del Vinci senz’ alcun dubbio.

GIROLAMO GATTICO.
(1600 circa)

In una storia manoscritta di Girolamo Gattico domenicano, la quale tratta di tutte le cose appartenenti al convento delle Grazie, là dove si fa parola delle pitture del refettorio, leggesi come segue:
Leonardo Vinci dipinse il Cenacolo che alterato si vede nel fine del medesimo refettorio, e il duca e la duchessa che si vede a’ fianchi della suddetta Gerusalemme (cioè la Crocifissione dipinta dal Montorfano dirimpetto al Cenacolo), quali si sono infracidite per essere dipinte a olio, e l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre, ed egli contro suo volere la face, perchè così onninamente volle il duca.
Il manoscritto del Gattico che conta due secoli circa, stava altre volte nella libreria del convento delle Grazie. Non s’intende abbastanza a che si riferisca quella frase ed egli contro suo volere la fece. Ad ogni modo non si può riferire al Cenacolo, nè al metodo di dipingere a olio ch’era il consueto di Leonardo. Io inclino pertanto a credere che Leonardo contro volere s’inducesse ad aggiungere all’opera del Montorfano i ritratti della famiglia ducale; e che però o li facesse eseguire da qualche suo discepolo o li trascurasse assai, perchè a giudicarne dagli avanzi, che che se ne dica dal Vasari e da altri, sono, a dir vero, opera assai mediocre. Egli è ben certo che se essi erano consunti già da dugento anni per testimonio del Gattico, tanto più il sono adesso, e fuor di dubbio hanno anch’essi subito, come il Cenacolo, la mano micidiale del Bellotti o d’altri sia prima sia dopo di lui. Quindi il vero loro stato antico non si può giudicare. Ma se le molte false asserzioni degli scrittori de’ fasti pittorici permettono qualche congettura a quelle contraria, allorchè si trovi l’appoggio di buone ragioni, io oserei dire che dal Montorfano stesso, non già da Leonardo, fossero eseguiti tali ritratti. Primieramente essi sono troppo evidentemente d’accordo col rimanente della composizione per dover essere giudicati opera intrusa o aggiunta. In secondo luogo, dove il colore è scomparso del tutto, si vede trasparire chiaramente rintonaco generale della pittura, fatto con sola calce senza alcun’altra preparazione o mistura, modo diverso dall’usitato da Leonardo. Vedesi in terzo luogo impiegato l’oro puro col mordente ne’ panneggiamenti contro il sistema di Leonardo che voleva che l’oro s’imitasse, come ogni altra cosa, coi colori. Finalmente la maniera dell’opera non solo è conforme, come si disse, al rimanente del dipinto nella composizione, ma lo è parimente nello stile, il che non si potrebbe asserire senza far grave torto a Leonardo. Circa poi l’esser tali ritratti fatti a olio e non a fresco, come il resto, dico che il pittore fu costretto a questo genere, perchè è il solo che conceda quel tempo e comodo che dal dipingere a fresco non si può ottenere, e ch’è sopra tutto necessario allorchè si debbono ritrarre principi e personaggi grandi, i quali per pochi istanti e con molta loro noja e con altrettanta angustia del pittore si prestano all’arte de’ cui effetti poi sono rare volte contenti. Aggiunge peso a questa mia congettura il sapere, all’epoca di questi ritratti, cioè intorno al 1495, impiegato Leonardo nel Cenacolo, nel colosso equestre ed in varj lavori idraulici di grande importanza. Ne aggiunge la nota sua lentezza nell’operare e finalmente la mediocrità dell’opera che fa contrasto troppo visibile colla perfezione a cui Leonardo portava le poche sue pitture in questo tempo migliore della sua vita. Parrai anche travedere l’origine dell’errore che a Leonardo fe’ attribuire l’opera del Montorfano, nell’esser essa eseguita a olio come il Cenacolo, e non a fresco come la crocifissione. Così giudico che il Montorfano richiesto dal duca di tali ritratti, si sarà scusato per la difficoltà d’improvvisarli a fresco, ed il duca che vedeva Leonardo dipingere a olio la parete opposta, gli avrà ordinato di farli a olio, alla qual cosa, per la diversità del genere in uno stesso lavoro, il Montorfano si sarà mal volentieri prestato, come il Gattico dice essere avvenuto a Leonardo.
Comunque però stia il fatto, io non pretendo mai che l’altrui opinione pieghi alla mia; e solo oso esporre questa congettura, perchè non so risolvermi a credere di mano di un tanto uomo, qual era Leonardo, un lavoro dozzinale che per niun lato dell’arte è superiore a quanto si facea da’ suoi contemporanei, nella nostra scuola.

GIOVANNI BOTERO.
(1608)

Nel libro primo de’ suoi Detti memorabili di personaggi illustri, sotto l’articolo Facezie riporta il Botero il seguente fatterello, già variamente narrato da altri.
Leonardo Vinci fu pittor di molta eccellenza. Hor mentre ch’egli dipingeva in Milano nel convento delle Grazie la Cena di nostro Signore, menava l’opera più in lungo di quel che il padre priore di quel convento avrebbe voluto. Il padre dopo averlo pregato, e più e più volte instato a finire, veggendo ch’egli non si moveva, ricorse al duca Francesco Sforza. Il duca, chiamato il Vinci, gli disse molto seriamente che non mancasse di por quanto prima fine all’opera. Signor, rispose egli, io spero di darvi tosto soddisfazione, perchè non mi mancano se non due teste, cioè quella di s. Pietro e quella di Giuda. La prima mi pare d’averla abbozzata assai a mio gusto; la seconda, cioè quella di Giuda, se mi mancherà altra invenzione, io mi servirò di questa del priore che mi pare assai a proposito. Con la qual risposta fece rider non poco il duca, e si sbrigò d’impaccio.
Il Botero scriveva le sue storielle, raccogliendole dai cortigiani,[33] e non curandosi di confrontarle cogli scrittori donde i narratori le prendevano. Quindi non è strano se molte cose nel suo libro si leggono da altri autori narrate diversamente. Fa però meraviglia che un uomo tanto versato nella storia, e che fu lungamente a Milano segretario di s. Carlo, cadesse nell’errore di confondere il duca Lodovico col duca Francesco: assai minor fallo fu l’accennare la testa di Pietro in vece di quella di Cristo, anche in ciò senz’autorità.
I Detti memorabili furono stampati la prima volta in Torino nel 1608, e ristampati in Brescia ed in Venezia. La seconda edizione torinese, posta in luce da Domenico Tarino nel 1614, fu notabilmente accresciuta dall’autore. Da questa, alla pagina 536, si scorge che il Botero compose un’altra opera intitolata Il Pellegrino, la quale sfuggì alla diligenza dell’accuratissimo Mazzucchelli che d’ogni altro lavoro di questo autore dà esatte notizie.

PIETRO PAOLO RUBENS
(1610 circa)

Il De Piles possedeva un manoscritto latino di Pietro Paolo Rubens, dal quale fedelmente, secondo asserisce, egli ha tradotto il seguente squarcio.
Leonard de Vinci commençoit par examiner toutes choses selon les regles d’une exacte Théorie, et en faisoit ensuite l’application sur le Neturel dont il vouloit se servir. Il observoit les bienséances, et fuïoit toute affectation. Il sçavoit donner à chaque objet le caractere le plus vif, le plus specificatif et le plus convenable qu’il est possible, et poussoit celuy de la majesté jusqu’à la rendre divine. L’ordre et la mesure qu’il gardoit dans les Expressions étoit de remuer l’imagination, et de l’élever par des parties essentielles, plûtôt que de la remplir par les minuties, et tâchoit de n’être en cela, ni prodigue, ni avare. Il avoit un si grand soin d’éviter la confusion des objets, qu’il aimoit mieux laisser quelque chose à souhaiter dans son Ouvrage, que de rassasier les yeux par une scrupuleuse exactitude: mais en quoy il excelloit le plus, c’étoit comme nous avons dit, à donner aux choses un caractere qui leur fût propre, et qui le distinguât l’une de l’autre.
Il commença par consulter plusieurs sortes de Livres. Il en avoit tiré une infinité de lieux communs, dont il avoit fait un Recueil, il ne laissoit rien échapper de ce qui pouvoit convenir à l’expression de son sujet et par le feu de son Imagination, aussi-bien que par la solidité de son jugement, il élevoit les choses divines par les humaines, et sçavoit donner aux hommes les degrez différens qui les portoient jusqu’au caractere de Héros.
Le premier des exemples qu’il nous a laissez, est le Tableau qu’il a peint à Milan de la Céne de Nôtre-Seigneur, dans laquelle il a répresenté les Apôtres dans les places qui leur conviennent, et Nôtre-Seigneur dans la plus honorable au milieu de tous, n’ayant personne qui le presse, ni qui soit trop près de ses côtes. Son attitude est grave, et ses bras sont dans une situation libre et dégagée, pour marquer plus de grandeur, pendant que les Apôtres paroissent agites de côté et d’autre par la véhémence de leur inquiétude, dans laquelle néanmoins il ne paroît aucune bassesse, ni aucune action contre la bienséance. Enfin par un effet de ses profondes spéculations, il est arrivé à un tel degré de perfection, qu’il me paroît comme impossible d’en parler assez dignement, et encore plus de l’imiter.
Il De Piles dice che Rubens veniva in seguito dichiarando gli studj anatomici di Leonardo tanto su gli uomini quanto sui cavalli: indi spiegava le osservazioni fatte da Leonardo sulla Fisionomia, e all’ultimo le proporzioni del corpo umano, delle quali cose tutte egli aveva esaminati gli originali disegni presso Pompeo Leoni. Di quanta importanza sarà stato questo scritto, si può giudicare dal frammento conservatoci, dalla gravità degli argomenti, dall’ingegno grande del Rubens e dalla eccellenza delle opere che facevano il soggetto del suo esame. E fu in vero perdita notabile che il De Piles nol pubblicasse tutto, perchè intorno al 1720 un incendio consumò lo scritto originale insieme colla famosa raccolta di stampe e disegni dell’ebanista Bullo, come si legge nelle note dell’edizione romana del Vasari. Nè si creda riparato un tal danno dall’opera del Rubens pubblicata nel 1773, che ha per titolo Théorie de la figure humaine. Fu anch’essa, a dir vero, tradotta dal latino, ma è in tutto diversa, e giudicandone dal solo saggio conservatoci dal De Piles, d’assai inferiore alla perduta d’importanza e di pregio.

FEDERICO BORROMEO.
(1635)

Quanto finamente sentisse le delicate bellezze dell’arte l’insigne cardinale Federico Borromeo, scorgesi dal libretto ch’egli stampò per descrivere le pitture da lui raccolte e donate al pubblico. Tale operetta ha per titolo Museum, e vide la luce nel 1635. Io tradurrò alla meglio il passo che bramo noto al lettore: chi lo può leggere nella lingua in cui fu scritto, tralasci la traduzione e lo legga fra le note.
Ove l’ottimo porporato, all’occasione d’una copia ch’ei fece fare del Cenacolo, prende a ragionare di quest’opera, Del suo pregio, dic’egli, comechè da molti ne sia stato scritto, io dirò soltanto ciò ch’agli altri è forse sfuggito, cioè che negli affetti varj e ne’ diversi moti dell’animo sta la principal gloria di questo lavoro; lode, alla quale specialmente mirò Plinio nell’esaltare la tavola del Giudizio di Paride, nel cui solo volto ammiravansi riuniti tre affetti fra loro differenti. Nè limitossi il pittore ad esprimere il dolore e le lagrime il che altri per avventura farebbe, ma nel movimento di tutte le membra si fattamente aperti descrisse i sentimenti dell’animo che a chiunque attento riguarda questa pittura, sembra gli suonino all’orecchio le parole che gli apostoli si dissero a vicenda allorchè Cristo pronunciò quella terribile sentenza: Quei che meco intinge la mano nel piatto, mi tradirà. La Veneranda faccia del Salvatore indica la mestizia profonda dell’animo, che soppressa si scorge e velata da gravissima moderazione. I detti degli apostoli su tanta atrocità e il dialogare e fra loro e col maestro, pare in certo modo di udirli. L’uno minaccia il traditore: altri promette soccorso e difesa al suo signore: taluno stupisce penetrato dall’enormità del misfatto: avvi chi si sforza di allontanare da sè il sospetto dell’orrido attentato: avvi chi interrogando, insistendo vuol sapere il modo e l’ordine della preparata congiura: chi si adira, chi ammutolisce, chi si maraviglia, chi attende a ciò che dagli altri vien detto. Ma sovra tutti distinguesi il volto di Pietro acceso di furore e di desiderio di vendetta, e vi si legge l’animo impaziente d’indugio per l’amore del maestro: notinsi in lui la forza, la fermezza, la generosità: tu il vedi avvampar d’ira secreta, minacciare il traditore di castigo, ma non palesando ad altri il suo intento, fra sè volgerlo e maturarlo: così adirato a un tempo e dissimulante, ei chiede a’ Giovanni che gli spieghi gli arcani del tradimento e il significato delle divine parole. Presso il principe degli apostoli così atteggiato, l’artefice collocò Giuda il traditore, acciocchè per l’opposizione, il contrario talento meglio e più chiaro apparisse: nè le contrarie facce potean essere più fra loro diverse: torva, ispida e vile è la deformità del fellone, come onesto e pieno di dignità è il volto vivace di Pietro; inoltre Giuda inquieto tra l’odio e la paura d’essere scoverto, tende l’orecchio onde ascoltare il colloquio tra Pietro e Giovanni, e sembra raccoglierne le parole codardo a un tempo e fermo nell’infame proposito. E veramente spiegò Leonardo nel viso di Giuda i profondi misteri della Fisionomia, e mostrò quanto addentro conoscesse quest’arte: imperocchè il fece fosco, irsuto, con occhi incavati, squallido di adusta magrezza, con naso schiacciato e con irti capelli; le quali cose sogliono essere indizio del pessimo abito dell’animo presso coloro che dalle fattezze ne giudicano. Alle stesse leggi di Metoposcopia corrisponde al contrario l’ira di Pietro, espressa con artifizio dal pallore delle labbra, dalla guancia infiammata e dalle tumide nari; siccome il naso curvo e virile e l’occhio severo sogliono essere segnali di nobile ed elevato animo. I quali indizj della natura io volli avvertire acciocchè i nostri dipintori intendano che siffatti studj non sono fuori del limite dell’arte loro, e che di rado commetterà errore quegli che crederà necessario l’occuparsi lungamente di tali considerazioni.
Chiunque confronterà con questo i passi varj qui riuniti si antichi come moderni, potrà facilmente scorgere quanto il Borromeo sentisse squisitamente e giudicasse le cose pittoriche più in là d’ogni altro anche pittore, e in modo veramente degno dell’artefice la cui opera con tanto affetto descrive. Le altre descrizioni accanto alla sua non provano ne’ loro autori quella fina maniera di vedere ch’è necessaria per penetrare dentro i secreti dell’arte, e che per dono naturale e per certo esercizio possedeva assai bene l’ottimo cardinale in un secolo per l’arte già corrottissimo.
A questo valente mecenate d’ogni buona disciplina debbe la nostra città la pubblica biblioteca ambrosiana e l’annessavi accademia di pittura, oltre infinite altre utili e magnifiche istituzioni. Suo non meno, sebbene eseguito in parte dopo di lui, fu il progetto del colosso in bronzo di san Carlo, la cui massa risponde a quella di oltre duemila e settecento uomini, mole unica di tal genere in Europa.

BARTOLOMMEO DA SIENA.
(1636)

Nel libro che ha per titolo De vita et moribus beati Siephani Maconi Senensis Cartusiani, Ticinensis Cartusiæ olim Cænobiarchæ etc., composto da Bartolommeo sanese, monaco della Certosa di Firenze, dove si descrive il refettorio della Certosa di Pavia, parlandosi della copia che ivi conservavasi, si fanno grandissimi elogi dell’originale di Leonardo e delle virtù pittoriche di questo grande artefice.

VINCENZO CARDUCHO.
(1633)

Vincenzo Carducho o Carducci fiorentino, stabilitosi da giovinetto alla corte di Spagna, vi fece molte opere di pittura, e vi pubblicò non un dialogo, come dicono il Lanzi e il Baldinucci, ma ben otto, De la Pintura, su defensa, origen, essència, definicion, modos y diferencias. Leggonsi in quest’opera molte utili notizie specialmente circa le pitture de’ palazzi reali di Spagna. Intorno alle altre cose, quantunque il Bermudez lo chiami il miglior libro di pittura che sia scritto in castigliano,[34] poco di originale vi si legge; e il Vasari, il Borghini ed altri furono di scorta al nostro autore, com’egli lo fu in seguito, secondo l’opportunità, al Pacheco ed al Palomino. Nel primo dialogo[35] che al pari degli altri succede tra discepolo e maestro, parla del Cenacolo di Leonardo per bocca del discepolo che dice aver vista a Milano questa insigne opera tanto dai dotti ammirata, nella quale si vede a qual alto punto di perfezione sali l’ingegno di questo uomo divino. Poichè, segue egli a dire, non avvi apostolo che al moto, all’atto, al volto non dimostri l’intenzione e l’affetto che internamente ed esternamente il commuove, il turbamento, la santità, la pietà, la fedeltà e l’amore: come non meno si scorge la malignità e il tradimento nell’atto plebeo e nel viso falso e discortese di Giuda. Dice da poi d’ignorare la cagione per la quale Leonardo lasciò imperfetta la testa del Salvatore, con che dà occasione al maestro di narrare la storiella del priore, imitando il racconto del Vasari.
Si rinnuova menzione del Cenacolo nel dialogo terzo che tratta della definizione ed essenza della pittura e delle sue differenze, nel quale il maestro dice che il dotto Leonardo non avrebbe potuto sì egregiamente esprimere i concetti dell’animo negli apostoli che dipinse in Milano, se non fosse stato si grande filosofo e fisionomico, conoscendo e applicando a misura delle cause gli affetti esterni ed interni dell’animo e del corpo.
Le altre cose di questo autore che si riferiscono a Leonardo, non sono importanti o sono tratte dal Vasari, dal Borghini e dal Lomazzo. Solo mi parve cosa notabile un Trattato di Fisionomia di cui, come di opera di Leonardo, dà cenno nel dialogo primo, e che è indicato dal De Piles nel manoscritto del Rubens sotto il titolo di Osservazioni. Parla ivi anche di alcuni mirabili discorsi manoscritti di Michelagnolo, ora sconosciuti o perduti, non senza gran danno e desiderio dell’arte.

FRANCESCO BISAGNO.
(1642)

Dalle opere del Lomazzo principalmente e dall’Armenini estrasse il Bisagno il suo libretto che intitolò largamente Trattato di Pittura, stampato nel 1643 e nel 1644. Nel capo decimosesto fa menzione degli studj che Leonardo fece per più mesi intorno alla testa di Giuda. Nel vigesimottavo consiglia come cose opportune ne’ refettorj varie storie di conviti, e fra le altre il Cenacolo degli apostoli con esprimer mirabilmente in loro quel sospetto ch’era entrato del voler sapere chi era che tradir volesse il loro maestro, come divinamente lo significò Leonardo Vinci in s. Maria delle Grazie dei frati di s. Domenico in Milano.
Il Trattato del Bisagno è un meschino ed inutile libro.

FRANCESCO SCANNELLI.
(1642)

Lo Scannelli, medico fisico forlivese scrisse nel bel mezzo del seicento, e sparse a larga mano nel suo Microcosmo i modi affettati e ridicoli del suo secolo nel quale, dic’egli a chi gli vuol credere, si riconosce all’ultimo segno di perfezione l’arte della bella dicitura. Egli non professava pittura, ma l’amava, per quanto egli asserisce, per una inesplicabile simpatia, come si volge al polo la pietra, che (mi sia qui permesso di cogliere uno de’ suoi fiori) tiene lapidati gl’ingegni tutti, nasce gravida di meraviglie, e col nome di calamita partorisce calamitadi alla messe degli umani pensieri. Giudichi il lettore quanto fastidiosa cosa sia il cercare notizie negli scritti di questo genere. Pure il Microcosmo ne contiene molte non inutili, che non trovansi altrove, e sebbene sia un cattivo libro per lo stile sempre e pel giudizio assai spesso, è però abbastanza importante per la storia pittorica da meritare un posto nelle librerie degli amatori della pittorica erudizione. Importantissimo è il luogo dove parla del Cenacolo: mi è d’uopo riportarlo intiero.
Al cui proposito (di Leonardo) sarà forsi a grado l’inserir qui qual sia l’opera di così rinomato Cenacolo; sendo che si ritrova talmente viva la memoria appresso d’ogni professore e gustoso di questa virtù, che la straordinaria fama di tal nome pare che per se stessa sia sufficiente per far conoscere il migliore fra gli operati del famosissimo maestro, et un raro prodigio della buona pittura; di maniera tale che io in estremo stimolato dal comune grido de’ virtuosi, bramoso in ogni tempo d’incontrare le maggiori eccellenze di tal professione, sino dell’anno 1643 partii di Romagna per godere una tal opera, come nel centro di Lombardia i più rari dipinti d’Antonio da Correggio, e perciò mi portai sino a Milano, dove appena giunto, reso impaziente di scoprire gli effetti straordinarj del commendatissimo Cenacolo, tantosto m’avanzai nel refettorio de’ padri predicatori per ristorar una tanta avidità, e posso attestare in tal caso che in riguardo d’incontro inaspettato mi restasse il gusto in estremo instupidito, scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia, nelle figure, e con modo così confuso che a gran fatica potei distinguere la già stata historia, e le teste, come mani e piedi ed altre parti ignude con chiari, lividi e meze tinte, trovai quasi affatto annichilate, et al presente stimo non siano che del tutto estinte, e le figure per lo più dal muro divise, et in parte fatte oltramodo oscure davano a conoscere le buone reliquie d’opera già resa del tutto mutile, non restando al riguardante hormai che il credere alla buona fama del passato. E mi potrei anco rammaricare di non haver procurato una tal vista qualche tempo avanti per ritrovarlo di bramata conservatione, quando nel leggere autore del secolo passato (cioè l’Armenini) non havessi sentito in questo caso le seguenti parole. » Vidi nel refettorio delle Gratie di Milano ad oglio dipinto il Cenacolo di Leonardo da Vinci mezo guasto, benchè bellissimo. » E però non pensavo che indarno di ritrovare in buon stato l’opera, la quale un secolo prima non era che in parte rovinata.
Segue indi a ragionare della cagione di tanta ruina, intorno a che ci accadrà di nuovo ricordare l’autore nel quarto libro. Per quanto poi non gli si debba negar fede circa il misero stato che descrive, del Cenacolo, è facile l’avvedersi della sua abitudine d’esagerare dal chiamare del tutto inutile un opera che pure vantava ancora delle buone reliquie.

ILARIO MAZZOLARI.
(1648)

Compilò il Mazzolari monaco girolomino il libro che ha per titolo Le reali grandezze dell’Escuriale di Spagna, ed in esso alla pagina 87 ove parla d’una copia del Cenacolo, descrive e loda ampiamente l’originale. Ad onta di qualche sbaglio intorno agli accessorj, la descrizione di questo buon frate sembrami degna d’essere riportata per intero.
Stanno, dic’egli, tutti gli apostoli come inquieti e che non trovino posa udendo dire al loro maestro e signore che un di loro l’avea a vendere. In solo Giuda si conosce chiaramente un riposo ritenuto e finto come di traditore che sta aspettando in che abbi a parar quel ragionamento. Sta egli appoggiato col braccio sinistro sulla tavola, e col destro getta la saliera, come chi infrangeva e guastava la pace di quel celestiale collegio; maggior peccato che anco quello di Lucifero che scompigliò e mise sottosovra il cielo e la terra. Nella stessa mano tien vicina al petto la borsa, come chi la tenea nel cuore, o quello in essa, ove il tengono molti che se gli rassomigliano non poco. Le facce pajono vive. Pare udiamo san Pietro quello addimanda a san Giovanni sopra quel caso per cavarne il delinquente, secondo sta il vecchio inquieto e mutato ‘l colore e mezzo in piedi. Le robbe, i vasi, i mantili e le tovaglie, come se fossero le cose medesime. Sarebbe bastante quest’opera a dargli eterno nome (a Leonardo), quando non vi avesse lasciata altra di sua mano. Non so io ponderar altri segreti nell’eccellenze che qui veggono quei che sanno dell’arte. A quanti la veggono, s’hanno in ciò alcun sentimento, gli pone in ammirazione; che ‘l ben fatto e conforme all’arte imitatrice della natura a tutti gradisce, benchè non tutti sappiano il perchè.
Questo scrittore che sembra essere stato osservator diligente, è il solo in cui leggo che essendosi lasciato imperfetto da Leonardo il Cenacolo, fu di mestieri cercare un altro pittore che lo finisse, cosa inverisimile, anzi ridicola. Le reali grandezze ecc. descritte dal Mazzolari videro la luce nel 1648, sebbene il più degli esemplari porti la data del 165o sì nel frontispizio come nella dedica dell’autore al Malvezzi.

FRANCESCO PACHECO.
(1649)

Nel libro che ha per titolo Arte de la Pintura su antiguetad, y grandezas ecc. por Francisco Pacheco Vezino de Sevilla,[36] trovasi un breve cenno del Cenacolo e del vano desiderio ch’ebbe il re Francesco di portarselo in Francia. Tutto quello però che in tal libro si legge intorno agli artefici italiani, come per lo più anche ciò che spetta all’arte per teorica e per pratica, è tratto dai nostri autori (fra i quali comprendo il Carducci) e specialmente dal Vasari. Solo mi parve nuovo il leggervi sempre nominato Leonardo col titolo di maestro di Raffaello d’Urbino, cosa per Leonardo molto onorevole, ma non sostenuta da alcun’altra buona autorità a me nota.[37] Che se Leonardo insegnò a Raffaello in Firenze col suo cartone della Battaglia o in Roma coi consigli, si può dire che Raffaello ebbe a maestri non solo fra Bartolommeo, Bramante e Michelagnolo, ma tutti coloro dai quali credea poter imparare per opere o per parole, non esclusi il Masaccio e il Ghiberti che fiorirono un secolo prima di lui.
Il Palomino che molte cose prese dal Pacheco, dice al capo decimo del secondo libro, ch’ei scrisse con sensillo y claro estylo, y copiosa explicacion de la theorica y pratica de esta arte, cioè della pittura, e molti elogi ne fece al tomo terzo nelle Vite de’ pittori. Giacchè si era utilmente servito del suo libro, avrebbe potuto per gratitudine risparmiargli quel satirico epigramma[38] in cui è tassato di secchezza, e che pur volle riportare al fine delle sue memorie.

RAFFAELLO TRICHET DU FRESNE.
(1651)

Nella vita di Leonardo che in italiano scrisse il Du Fresne, e pose in fronte al suo gran Trattato che vide la prima volta la luce in Parigi nel 1651, sebbene il più di essa sia preso dagli autori italiani, leggonsi molte cose a quel tempo nuove, specialmente intorno ai famosi codici de’ quali Leonardo aveva lasciato erede Francesco Melzi. Ciò però che spetta al Cenacolo è tratto dal Vasari e dal Lomazzo, ed anch’egli ripete ch’essendo stata quell’opera dipinta a olio sopra un muro umido, era al suo tempo del tutto guasta.
Tutti gli artefici del disegno, e specialmente gl’italiani, debbono infinita riconoscenza a questo illustre francese per la pubblicazione dell’aureo libro di Leonardo,[39] tanto più che la sua edizione supera tuttavia in eleganza e in ricchezza le molte posteriori in tutte le lingue, e sarà la sola che meriterà di essere conservata, allorchè porrò in luce l’intero assai più lungo Trattato del nostro pittore filosofo, che con altri singolari suoi scritti la fortuna e la compiacenza di dotti amici mi ha posto fra le mani.

GIANDOMENICO OTTONELLI E PIETRO BERRETTINI.
(1652)

L’Ottonelli da Fano e il Berrettini da Cortona, l’uno teologo, l’altro pittore, composero un Trattato della pittura e scultura, uso et abuso loro, e nascondendo per cristiana modestia i loro nomi, siccome scrissero nell’avviso a chi legge, li trasfusero poi in barbari sciocchissimi anagrammi nel frontispizio.[40] Il libro è ricco di erudizione, specialmente teologica, profusavi spesso inopportunamente; ma diretto ad insegnare la più stretta morale cattolica nell’esercizio dell’arte, nulla insegna che alla pratica e alla teorica di essa appartenga, e ciò che spetta alla sua storia vi è tratto dai libri più noti. Così quantunque non di rado vi si faccia menzione del Vinci, nulla affatto di nuovo vi si legge, e ciò che spetta al Cenacolo, è copiato di pianta dal Vasari. 

FRANCESCO SCOTO.
(1654)

Nell’Itinerario d’Italia dello Scoto, ove parlasi della chiesa e convento delle Grazie, Se desideri, dice l’autore, vedere le più illustri e maravigliose pitture che si possano veder in tutto ’l mondo, fa che quei padri ti mostrino il refettorio dove vedrai la Cena del nostro Signore con gli apostoli, nei quali Leonardo Vinci con maravigliosa maniera ha dimostrato una vivacità e uno spirito che par veramente che si muovano. Dimostrano questi apostoli nei lor volti chiaramente tremore, stupore, dolore, suspizione, amore et altre qualità d’affetti che allora avevano. Particolarmente nel volto di Giuda si vede espresso quel tradimento che aveva concetto nell’animo.
Racconta in seguito la disperazione di Leonardo per la testa di Cristo, e il consiglio di Bernardo Zenale, com’è narrato dal Lomazzo. Altrove[41] dice che non si scorgeva nel Cenacolo la maestà di prima, perchè la lunghezza del tempo l’ha scemata.

ROLANDO FRÉART.
(1663)

In un libercolo che ha per titolo Idée de la perfection de la peinture ecc., il Fréart parla a lungo del modo con cui si debbe rappresentare l’ultima cena di Cristo, e a tal proposito ragiona dell’opera di Leonardo, tentato com’era, di metterla in confronto colla Istituzione dell’eucaristia di Nicolò Possino. Nulla però ivi si legge che importi d’esser citato; e se pur vi fosse qualche cosa di nuovo, non farebbe autorità alcuna, tanto in quest’opera è, contro il suo costume, stravagante e bisbetico questo scrittore. Ove egli porta a cielo il suo amico Possino, ogni Italiano farà eco agli encomj di sì degno e savio artefice, e solo si dorrà che non ricevano credito da miglior giudice. Ma quando parla con disprezzo, non dirò del Vasari o d’altri minori, ma del sublime Michelagnolo le cui opere non poteva intendere, gli si fa grazia a dargli del pazzo. Lo stesso parmi si debba ripetere allorchè dice che la proporzione o simmetria dell’uomo è una cosa facile, anzi uno studio interamente meccanico: lo stesso, per tacer d’altri luoghi, allorchè taccia di poca espressione la Strage degl’innocenti di Raffaello, nella quale, per darci un’idea del suo delicato buon gusto, avrebbe voluto che il suolo fosse coperto di braccia, di gambe, di teste trinciate, di corpi mozzi e scannati, e simili leggiadrie. Che se poi, ad onta delle sue eccezioni, Raffaello e Leonardo sono per lui i due gran capi de’ moderni pittori, ciò non può ridondare in loro lode dopo il lungo sfogo di orribili villanie, al quale si abbandona contro il Buonarrori cui chiama fanfarone della pittura, temerario, empio, inetto, sterile, ridicolosissimo, che non ha pur il minimo talento di pittore ecc.[42]
Intanto questo libro stampato la prima volta a Mons nel 1662, in 4.°; tradotto quindi in inglese dall’Evelyn e pubblicato a Londra nel 1668, in 12; recato di poi in italiano da Anton Maria Salvini, e dimenticato sempre come meritava, fu pubblicato l’anno scorso nella patria di Michelagnolo. Il cavaliere Onofrio Boni vi aggiunse per correttivo una dotta, forse troppo moderata difesa del suo grande compatriota, senza la quale sarebbe stato cosa vituperevole il dar luce in Toscana a simile produzione.
Miglior giudizio mostrò il Fréart nel suo Paralello dell’architettura antica colla moderna, sebbene non manchino errori d’ogni genere anche in questa opera, come in parte mostrarono il Desgodetz, l’espositore dell’Architettura Lodoliana, il Pompei e il Milizia. Ma dove a mio parere si rendè più commendevole, egli è nella traduzione francese che fece e pubblicò del manoscritto di Leonardo, che ornato delle figure del Possino era stato donato a suo fratello dal cavalier Del Pozzo nel 1640. Ma non ci voleva meno, se pur questo basta, acciocchè gli si perdoni il torto ch’ei si è fatto da poi colla sua Idea della perfezione della pittura. Rimane però da verificarsi se tale traduzione sia veramente sua o pure del signor De Charmois, siccome è scritto nella vita di Leonardo, premessa alla edizione parigina del Trattato, uscita nel 1716. Ad ogni modo il libello del Fréart è dannoso per l’arte non meno che per la riputazione dell’autore.

FÉLIBIEN.
(1666)

Intorno alle vecchie cose italiane, poco di nuovo può trarsi da questo autore che pubblicò la prima volta i suoi Trattenimenti sulle vite e sulle opere de’ più eccellenti pittori antichi e moderni l’anno 1666, e poi nel 1685 con quasi niuna differenza in quanto riguarda il nostro argomento.
Parlando de’ lavori pittorici di Leonardo, dice che il Cenacolo è il suo capo d’opera, e che ve n’ha una copia assai stimata a san Germano d’Auxerre in Parigi. E anch’egli d’opinione che non abbia finito la testa di Cristo; ma ciò non fa meraviglia perchè questo autore ha per lo più seguito i vecchi scrittori italiani in ciò che non aveva sott’occhio.

RICCIARDO LASSELS.
(1671)

Nel Viaggio d’Italia del Lassels, del quale non ho potuto vedere se non una traduzione francese del 1671, si trova un cenno del Cenacolo che vi si attribuisce a Lorenzo Vinci, errore pur anche preso da Leandro Alberti. Il famoso codice poi di Leonardo vi si legge attribuito ad Alberto Durero. Gli sbagli di nomi e di cose, i più grossolani, si trovano in questo libro in gran numero ad ogni pagina.

AGOSTINO SANTAGOSTINO.
(1671)

Nel catalogo delle pitture milanesi pubblicate dal Santagostino pittore, a carte 44 si rammemora la Cena, Ma, soggiunge l’autore, per aver patito assai, poco se ne può godere con l’occhio.

PIER PAOLO BOSCA.
(1672)

Nel libro dell’Origine e dello Stato della Biblioteca Ambrosiana ci ricorda il Bosca il Cenacolo e la sua ruina, in proposito della copia fattane fare dal cardinale Borromeo. Riporterò il passo nella descrizione delle copie.

CARLO TORRE.
(1674)

Il canonico Torre nel suo Ritratto di Milano, dopo avere descritta la chiesa delle Grazie e i portici del convento, Se volete poi stupire, continua egli al modo del suo secolo, ritiriamcene in refettorio, che sebbene egli è loco per togliere la fame, questi lascia famelici più che mai chi a lui si appressa, mentre s’ha occasione di rimirare un avanzo del nominato Cenacolo di Cristo fatto da Leonardo da Vinci: eccovelo, e rimirandolo quasi omai smarrito, dite esser egli un sole sull’ultime ore del giorno, i cui cadenti raggi, se non appajono risplendenti, danno però notizia d’essere stati lucidissimi; veggonsi ancora vivi sembianti, figure in iscorci sforzosi, colori risplendenti e positure a meraviglia disegnate.
Dà cenno in appresso di alcune copie delle quali si ragionerà al loro luogo.
Aggiunge una cosa osservabile, cioè che nello stesso refettorio dove è dipinto il Cenacolo, fu aggregato Leonardo alla famiglia del Moro, non già come pittore, ma come musico sonatore di lira. Se ciò è vero, può credersi fatto dal duca onde avere pretesto di accrescergli la pensione; con che si verrebbero ad accordare le differenze degli scrittori intorno allo stipendio che il duca gli dava, dal Bandello suo contemporaneo indicato di duemila ducati.

GIOACHINO SANDRART.
(1675)

Anche il Sandrart ripete, come tant’altri, ciò che disse il Vasari. È strano che tanto nell’edizione tedesca della sua Accademia pubblicata nel 1675, quanto nella latina stampata nel 1683, si dica Leonardo venuto a Milano nel 1434. È chiaro che questo errore va corretto coll’anno 1494 indicato dal Vasari, la cui autorità sebbene non di rado contrasti col vero, è sempre dal Sandrart ciecamente seguita.

ISACCO BULLART.
(1695)

La vita di Leonardo pubblicata dal Bullart nella sua Accademia delle Scienze e delle Arti, è estratta da quella del Vasari con poche aggiunte di nessuna importanza. Quindi non è meraviglia che il Cenacolo vi sia abbastanza bene descritto. Parlando poi della testa di Giuda, per la quale nacque quistione tra il priore e Leonardo, dice che il pittore non mancò di mettere in quella figura qualche tratto del frate ignorante a cui attribuisce un visage chagrin et refroignè. Credo che il Bullart sia il primo che positivamente asserisca come fatto, ciò che presso gli scrittori precedenti sembra doversi intendere, anzi che altro, una minaccia scherzevole onde acchetare il fastidioso priore.

DE PILES.
(1699 = 1715)

Non so se più si debba al De Piles per quanto di suo ci dice intorno al Cenacolo, o pel passo ch’ei ci conservò di Pietro Paolo Rubens. Già vedemmo lo scritto del Rubens; ecco il suo:
Il fit entr’autres dans le Réfectoire des Dominicains de Milan, une Cène de Notre-Seigneur d’une beauté exquise. Il n’en acheva pas le Christ, parce qu’il cherchoit un modèle propre au caractère qu’il imaginoit lorsque les Guerres l’obligèrent de quitter Milan. Il en avoit fait autant de Judas; mais le Prieur da Couvent, dans l’impatience de voir finir cet Ouvrage, pressa si fort Lèonard, que ce Peintre peignit la Tête de ce Religieux importun à la place de celle de Judas.
Asserisce dappoi di possedere un disegno di mano di Leonardo, rappresentante questa famosa Cena, della quale soggiunge non rimanere più ormai alcun vestigio. Cita in fine lo squarcio del manoscritto del Rubens, che avrebbe fatto bene di pubblicare per intiero.

FLORENT LE COMTE.
(1702)

Il Le Comte, autore del libro intitolato Cabinet des singularitez d’architecture, peinture, sculpture et gravure, diede un brevissimo cenno del Cenacolo di cui, ad onta del suo piano compendioso, avrebbe dovuto parlare più lungamente.
Egli fa Pietro Perugino discepolo di Leonardo, come già leggemmo lo stesso di Raffaello presso il Pacheco, seguito, come vedremo, dal Palomino.

DE ROGISSARD E H***
(1707)

Nell’opera intitolata Délices de l’Italie, che fu compilata dai signori Rogissard e H***, si nomina al quarto tomo il Cenacolo del Vinci come quadro tenuto in grande estimazione. Poche pagine dopo si trova poi con assai maggior lode ricordato il Cenacolo di Gaudenzio alla Passione, e ciò ch’è strano, mentre vi si legge che nulla si può veder di più bello, non vi si fa motto dell’autore.

SEBASTIANO RESTA.
(1707)

Fra i disegni raccolti dal padre Resta e descritti nell’Indice del libro intitolato Parnaso de pittori,[43] si fa menzione come di mano del Vinci d’un ritratto del padre priore delle Grazie che viveva nel tempo che Leonardo dipingeva la famosa Cena de’ padri domenicani di Milano in tempo di Lodovico il Moro; opera, segue il Resta, che non potendo Francesco I re di Francia trasportar in Francia per essere dipinta ad olio sopra il muro largo 16 braccia,[44] la portò in copia e la pose in s. Germano, della quale poi ne fece tessere un arazzo che è quello che, donato dal re a papa Clemente VIII (dee dir VII), si espone tra gli arazzi di Raffaele pel Corpus Domini.
Il resto però dell’articolo sopra Leonardo, specialmente circa l’epoche, è sì pieno di errori che non si può contare nemmeno su quanto si è qui riportato. Ed anche questo disegno del priore sarà un sogno de tanti del Resta intorno ai disegni antichi raccolti da lui.
Gli scritti del Resta debbono valutarsi quando si aggirano intorno a cose del suo tempo o al suo tempo prossime; non così quando trattano di cose antiche: sopra tutto poi non bisogna per qualsivoglia epoca dar fede ai suoi giudizj, perchè per lo più falsi ed esagerati.

PALOMINO VELASCO.
(1715)

Sull’autorità, cred’io, del Pacheco anche il Palomino nel capo nono del suo Museo pitorico, chiama Leonardo maestro di Raffaello. E nel capo undecimo, dopo aver narrato varie novelle d’imagini mirabili fatte senz’arte umana, viene a far menzione del Cenacolo,[45] e pretende che Leonardo non vi perfezionasse la testa di Cristo per modestia e per cristiana diffidenza di sè stesso. Quindi consiglia i mezzi spirituali onde vincere le difficoltà dell’arte: consiglio, a dir vero, assai comodo che risparmierebbe grandi fatiche, ma d’un effetto non abbastanza certo, a quanto pare dalla storia. Però Leonardo, Michelagnolo, Raffaello, Tiziano e Correggio preferirono i mezzi soliti, e riuscirono sommi studiando la natura ed esercitando del continuo nell’arte la mano e la mente. Quindi per coloro che hanno sortito buon ingegno per l’imitazione, consiglierei i mezzi usati da questi maestri: agli altri che considerano la pittura come arte non umana e che sperano di progredire in essa coi mezzi consigliati dal Palomino, darei per parere di cangiar professione.

ANONIMO.
(1716)

L’autore della vita di Leonardo premessa all’edizione francese del Trattato, pubblicata nel 1716, sebbene abbia copiato quasi il tutto dalla vita del Du Fresne, accresce autorità a quanto scrive, avvertendo nella prefazione ch’egli trasse varie cose da un manoscritto del padre Mazzenta, che conteneva delle memorie per servire alla storia di Leonardo. Non vedendosi per altro in questa vita dell’Anonimo nulla di nuovo intorno al Cenacolo, è da credere che niente più di tal opera si leggesse nel manoscritto. Questo padre Mazzenta debb’esser quel Giovanni Ambrogio barnabita che diede la storia de famosi codici, pubblicata prima dal Du Fresne, poscia meglio dal Venturi.

ODOARDO WRIGHT.
(1723)

Nell’opera che ha per titolo Some Observations made in travelling through France, Italy, etc. in the years 1720, 1721 and 1723, scritta da Odoardo Wright, si lodano i disegni posseduti dal marchese Casnedi. Ma quelli, segue a dire l’autore, che sono più da ammirarsi in questa raccolta, sono i cartoni di Leonardo da Vinci fatti a pastelli (done in chalks) e alquanto rinforzati con altre matite. Son essi sì eccellenti che Raffaele, come ivi si assicura, li copiò tutti. Egli, ha preso certamente da uno di quelli l’aria d’una delle teste della sua Trasfigurazione, ed è quella figura nel piano inferiore che tiene il fanciullo ossesso: almeno l’una mi fece ricordar l’altra. In undici di que’ cartoni sonovi i disegni di tutte le teste e di alcune mani che dipinse Leonardo nel celebre suo Cenacolo, eseguito a fresco nel refettorio delle Grazie, opera che ora è pressochè ruinata. Due di tali cartoni contengono due teste per ciascheduno, talchè negli undici indicati vi son tutte le tredici teste ecc. È difficile il sapere se tali disegni erano orginali o copie, giacchè ora non si hanno che vaghe e contraddicenti tradizioni intorno alla vendita di essi. Si dicono passati a Venezia e di là in Inghilterra. Lo scrittore inglese segue a dire che il marchese Casnedi gli aveva comprati dal conte Arconati, discendente da quello che donò i famosi volumi del Vinci alla biblioteca ambrosiana: la qual cosa si accorda con quanto ne ha scritto il padre Monti. L’origine sarebbe buona, ma non s’intende come l’Arconati che fu sì generoso verso il pubblico, ritenesse poi per sè il meglio oscuramente, e senza che ne rimanesse notabil ricordo. Al tempo però che questo autore scrisse, poca e trascurata era la critica dell’arte, specialmente circa i disegni, e le raccolte fatte in quell’epoca ridondano di copie sovente pessime che si asseriscono originali di sommi autori. Prova di quella poca critica sia per questo autore la novella de’ disegni copiati da Raffaello, e l’asserzione che il Cenacolo di Leonardo sia dipinto a fresco.

BÖHM.
(1734)

Dal Vasari e dal Du Fresne trasse Giovangiorgio Böhm la vita che prepose alla traduzione tedesca del Trattato di Leonardo: quindi ciò che del Cenacolo vi è scritto, si legge con poca differenza negli autori nominati. Il Böhm fu il primo che tentò di ordinare i varj capi del Trattato sotto i titoli delle facoltà cui spettano, come sarebbe Proporzione, Anatomia, Ponderazione, Prospettiva ecc. La sua traduzione arricchita d’alcune note comparve la prima volta l’anno 1734 in Norimberga. La seconda edizione del 1747 è una delle solite imposture de’ libraj, cioè è la prima, cangiato il frontispizio e qualche foglio del principio. Se ne cita un’altra di Lipsia del 1751 che non mi è riuscito di vedere.

RICHARDSON.
(1728)

Il Trattato di pittura de’ due Richardson, padre e figlio, fu due volte pubblicato dagli autori: la prima volta in inglese, la seconda in francese con molti accrescimenti. Io cito la seconda edizione.
Il solo figlio vide l’Italia e fu a Milano nel 1720, cioè prima che il Cenacolo fosse ritoccato dal Bellotti. Dell’epoca della sua venuta fra noi siamo assicurati dalla prefazione di Richardson padre, preposta alla prima parte del terzo tomo del Trattato. Ecco la descrizione del Cenacolo di Richardson figlio, dalla quale possiamo conoscere lo stato della pittura in quel tempo, e il poco conto che i frati ne facevano.
On voit dans le réfectoire (dans le couvent des Dominicains) au dessus d’une porte fort haute le fameux tableau de la Cène peint en huile sur la muraille par Léonard de Vinci. Les figures en sont aussi grandes que le naturel, mais extrêmement ruinées; et tous les apôtres qui se trouvent à la droite du Sauveur sont entièrement effacés: le Christ et les figures qui sont à sa gauche sont encore assez visibles, à cela près, que les couleurs en sont tout à fait ternies; il y a des endroits où il ne reste que la simple muraille. La seconde figure après le Christ, je veux dire l’apôtre qui croise les bras sur sa poitrine, est celui qui s’est le mieux conservé; et l’on y remarque une expression merveilleuse et beaucoup plus forte que dans aucun des dessins que j’en ai vu. Armenini qui a écrit environ l’an 158o rapporta que ce tableau étoit déjà gâté à moitié.
Dopo ciò racconta per minuto la storia del priore, aggiungendovi le frange opportune onde avvivarne la narrazione. Dice inoltre che suo padre possedeva il ritratto di quel frate; sogno pari a quello del padre Resta. Che se anche una testa di frate fosse stata fatta da Leonardo nell’atto del suo Giuda, come mai si potrà dimostrare che tal frate fosse il priore anzi che un altro?
Finalmente decidendo a suo modo, Ce qu’on dèbite, segue a dire, de la tête du Christ, qu’on prétend que le peintre a laissée imparfaite, pour n’avoir pu exécuter dignement l’idée qu’il en avoit conçue, est tout-à-fait faux; puisqu’il est certain que la partie qu’on en voit encore, est très-finie selon sa manière ordinaire. On y a cloué, segue chiudendo l’articolo, si bas les armes de l’empereur, qu’elles touchent presque les cheveux du Christ, et couvrent une bonne partie du tableau.
È notabile in questa descrizione l’errore circa la misura delle figure che vi si dicono grandi al naturale, mentre sono una metà di più della statura ordinaria, cioè circa quattro braccia e mezzo, se fossero in piedi. È anche inesatto l’autore dove parla della seconda figura dopo il Cristo, intendendo ragionar della terza. Giudicò da ultimo assai male circa la testa del Salvatore, dichiarandola perfetta per alcune parti finite che vi scorgeva, senza riflettere che la sua imperfezione, secondo la mente di Leonardo, non istava già nel modo con cui era condotta, ma nel mancarvi que’ tratti che Leonardo ebbe in idea, e che non potè da poi esprimere con l’arte.

GIO. PIETRO MARIETTE IL GIOVANE.
(1730)

L’ottantesimaquarta lettera del secondo volume delle Pittoriche forma una operetta di una trentina di pagine, tutta consecrata ad illustrare gli studj e le opere di Leonardo. Essa fu scritta da Gio. Pietro Mariette il Giovane al conte di Caylus intorno al 1730, come si prova da una lettera dello stesso Mariette al cavaliere Gaburri, che leggesi due carte dopo. Quanto contiene di relativo al Cenacolo, è tratto dagli autori italiani. Contro l’opinione del De Piles, del D’Argenville e d’altri, egli non crede che Leonardo ritraesse in Giuda il priore, ma che solo nel minacciasse, come si legge ne’ nostri vecchi scrittori. Dà in fine molti utili ragguagli intorno alle stampe tratte dalle opere di Leonardo.

CARLO DE BROSSES.
(1738)

Nella, lettera di questo autore al signor De Neuilli, ch’è l’ottava delle sue lettere istoriche e critiche sull’Italia,[46] dà un cenno del Cenacolo colle seguenti parole:
Notez ecc., au réfectoire (des Graces) l’Institution de l’Eucaristie, peinte à fresque par Léonard de Vinci; je n’ai rien vu de plus beau ici après la Famille Sainte du Raphael. Je puis dire que c’est le premier morceau de fresque qui m’ait véritablement fait plaisir, tant pour l’expression de chaque partie en particulier, que pour l’ensemble du tout; mais j’y trouverois à redire que tous les visages sont fort laids.
Il signor De Brosses deve aver vista questa pittura l’anno 1738, perchè in quella stessa lettera che è senza data di tempo, si parla della famosa Agnesi come di un prodigio di scienza, quantunque non avesse che vent’anni.[47] È strano il vedere questo autore encomiare largamente quest’opera, e finire l’elogio con dire che le facce sono bruttissime. Gli si perdonerebbe più facilmente l’errore da lui preso nell’asserirla dipinta a fresco.

D’ARGENVILLE.
( 1745 )

Già da molti scrittori furono notati gli sbagli del D’Argenville nella vita di Leonardo, parte suoi, parte copiati. Se ne potrebbe accrescere il catalogo, ma sarebbe fatica di poca utilità. Del Cenacolo non dice altro se non che avendo egli fatto bellissime le teste degli apostoli, non seppe imaginare perfezione degna della testa di Cristo; e che non trovando ceffo abbastanza brutto per rappresentar Giuda, ritrasse in esso il priore del convento.
Il D’Argenville è il solo che dica che Leonardo venisse a Milano appena lasciato il Verocchio, e che qui si rendesse abile in tutte le parti dell’arte. Duolmi che questa asserzione, cui non manca appoggio di fatti e di congetture, riceva discredito dalla penna poco autorevole del D’Argenville, e vorrei trovarla in qualche più antico e più sano scrittore.

LÉPICIÉ.
(1753)

Nel catalogo ragionato de’ quadri del re di Francia, pubblicato nel 1752 dal signor Lépicié in due volumi in 4.o, si legge una breve vita di Leonardo, tratta in gran parte dalla famosa lettera del Mariette. In ciò che vi si dice del Cenacolo, non v’è novità alcuna, se non che l’autore sembra considerarlo come l’occasione la più importante ch’ebbe Leonardo d’impiegare la sua pratica nel disegnare le fisionomie. Sembra anche attribuire parte della fama di quest’opera alla lite insorta tra Leonardo e il priore, in che non si manifesta quel buon giudizio che pur apparisce in varie parti di questo catalogo. Loda in fine le due copie di Parigi e d’Escovens, e il disegno originale conservato nel gabinetto del re.

DE LA CONDAMINE.
(1757)

Nell’estratto di un Giornale di viaggio,[48] scritto dal signor De la Condamine, leggesi, al proposito di Leonardo, quanto segue:
Son chef d’œuvre de peinture est un tableau à fresque représentant la Cène de J. C. avec les douze apôtres un peu plus grands que nature: il a vingt pieds de long sur dix de haut. On le voit à Milan dans le réfectoire des Dominicains. On est étonné de trouver aujourd’hui très-frais un tableau qui parut si noir et si gâté à Misson, il y a quatre-vingts ans, que ce voyageur assure qu’il n’y put rien distinguer. Il ne suffit donc pas de supposer que depuis vingt-cinq ou trente ans il ait été nettoyé par un secret inconnu, commne on le dit aux voyageurs: mais il faut qu’il ait été repeint entièrement. C’est ce qui m’a été confirmé de bonne part. Il y a donc bien de l’apparence que la belle ordonnance, le choix des attitudes, la distribution des figures, la composition en un mot est aujourd’hui prèsque la seule chose dans ce tableau qui appartienne bien sûrement à son premier auteur. Je ne m’écarterai point de l’objet que je me suis proposé dans ce mémoire en remarquant que non-seulement les régles de la perspective, trop souvent négligées par les plus grands peintres, sont régulièrement observées dans ce tableau, mais aussi celle de l’optique. On en peut juger par la différente position du point lumineux diversement réfléchi par les vases de cristal selon leur différente forme, et leur situation plus ou moins oblique par rapport au rayon de lumière qui les frappe.
Se il signor De la Condamine ha misurato la terra colla stessa precisione colla quale ha misurato il Cenacolo, i suoi calcoli saranno di una grande utilità. Egli lo dice largo venti piedi, mentre è circa ventotto, e trenta lo dice il Du Fresne il cui libro poteva aver sott’occhio: nell’altezza ha sbagliato in proporzione. Lo dice poi dipinto a fresco, non si sa perchè, ma forse coll’autorità del Cochin. Assai più ragionevole è nel resto, e la sua descrizione ci assicura che il ritocco del Bellotti era ancora florido all’epoca ch’ei lo vide, cioè nel 1757. Torna a diventare stravagante il suo giudizio intorno alla prospettiva e all’ottica di questo quadro, desunta dai lustri de’ bicchieri, dopo aver detto che seppe da buon canale che tutta l’opera era stata ridipinta. Nello squarcio che citerò fra poco, tratto dal viaggio del La Lande, si vedrà con quale appoggio egli abbia espresso tale opinione. Ciò che dice del Misson, non l’ho potuto verificare, non essendomi venuta alle mani niuna antica edizione di quell’autore. Nelle più recenti nulla ho trovato che abbia relazione al Cenacolo. Del resto il La Condamine intendeva poco la pittura, e comprò a Roma e a Napoli, per dipinti antichi, degl’intonachi moderni fatti da un impostore con arte mediocre.[49] Il Barthélemi nelle cui lettere si dà ragguaglio di questo fatto, prese l’istesso errore, ma ciò non basta a scusarlo, essendo anche il Barthélemi poco esperto delle cose pittoriche; il che non fa meraviglia nel bel mezzo dello scorso secolo non ancora fastoso per la pittura.
Il La Condamine, anche allorquando voleva essere esatto, aveva poca fortuna. A Roma per essere sicuro della misura dell’antico piede di Campidoglio, lo fece formare e gettare in gesso, senza pensare che il gesso disseccandosi si accorcia notabilmente.

COCHIN.
(1758)

Non mi è caduta sott’occhio la prima edizione del Viaggio d’Italia del signor Cochin, pittore e incisore parigino. Il passo seguente è trascritto dalla terza. Il Pilkington che lo cita, dice che il Cochin fu a Milano nel 1757; il Dizionario storico francese dice in vece ch’egli è morto nel 1704, in età d’anni sessantasei. Stando però al Pilkington e ad altri, sembra che l’opera del Cochin non sia stata scritta prima del 1758.
Farà meraviglia come un artista possa in poche righe adunare tanti farfalloni. Il testo che qui copio non ha bisogno di commento.
On croit que c’est dans le couvent de cette église (delle Grazie) ou à s. Victor que l’on voit dans le réfectoire un grand tableau peint à fresque sur le mur (figures plus grandes que nature) de Léonard de Vinci: il représente la Cène et saint Jean appuyé sur la poitrine de notre Seigneur. Ce tableau a de grandes beautés; les têtes sont belles, de grand caractère et bien coëffées; il est bien drapé, et en général fort dans le gout de Raphaël. Il y a un défaut assez singulier: la main du Saint Jean a six doigts.

 VOLFANGO KNORR.
(1759)

Se il Cochin mostrò poco giudizio nel citato articolo, assai meno ne mostrò Volfango Knorr traducendolo in tedesco parola per parola, nè altro aggiungendo intorno al Cenacolo. Veggasi la sua Istoria degli artefici ecc., stampata dal Bieling in Norimberga.

LA LANDE.
(1765)

In meno di due anni il La Lande corse tutta l’Italia, e studj, costumi, critica, politica, arti belle, arti utili, storia antica, storia naturale, antichità, monumenti, uomini illustri, tutto in fine fa argomento del famoso viaggio che questo autore pubblicò nel 1769, colla data di Venezia. La vastità del piano di tal opera sopra un paese, qual è l’Italia, sì ricco di materiali di ogni genere, fu forse cagione dell’enorme affastellamento di spropositi che vi s’incontra, e ne è la sola scusa. Chi volesse darne un elenco, limitandosi anche a que’ soli che spettano alle arti e alle lettere, avrebbe materia di molti volumi. Quanto egli dice del Cenacolo vuol essere riportato per intiero: lascio al lettore la cura di commentarlo.
C’est dans le réfectoire de cette maison, qu’est le tableau le plus célèbre de Leonardo da Vinci, qui représente la Cène de N. S. Ce tableau est à fresque, bien composé, vigoureux de couleur, il n’est point dans la manière sèche de ce peintre, et il est moins maniéré qu’aucun de ses ouvrages; la salle y est bien en perspective, mais il y faudroit un peu plus d’intelligence de clair-obscur; on y trouve aussi quelques mouvemens de bras et de mains un peu outrés. M. Cochin (T. I, p. 42) da que ce tableau a de grandes beautés,[50] les têtes sont belles, de grand caractère et bien coiffées, il est bien drapé, et en général fort dans le gout de Raphaël. Ce tableau du tems de Misson, dans le dernier siècle, étoit si noir qu’on n’en distinguoit plus les figures. Un Anglois vers 1725, au rapport des religieux du couvent, entreprit de le nettoyer. M. de la Condamine soupçonne qu’il l’avoit repeint, et le cardinal Pozzobonelli, alors légat à Milan, approuva sa conjecture, de manière à lui persuader qu’il étoit sûr du fait. Si cela est, on ne peut plus regarder que le trait comme l’ouvrage de Léonard; et le préjugé quant au coloris, pourroit avoir influé sur les jugemens qu’on en a portés dans les derniers tems (Mém. de l’Acad. 1757, p. 404). Actuellement les religieux prétendent qu’on avoit seulement blanchi cette peinture, et que l’Anglois n’avoit fait qu’ôter l’enduit; au reste le tableau n’est point si frais qu’on soit obligé de croire qu’il a été repeint.

RICHARD.
(1766)

L’abate Richard intendeva le cose della pittura assai grossamente, e ne scriveva allo stesso modo, non dilungandosi dal costume di non pochi altri autori oltramontani che hanno descritta l’Italia senza vederla o vedendola male. Egli ha sciolto bene la quistione dell’essere a olio o a fresco il Cenacolo, dicendolo dipinto a tutte due le maniere ad un tempo istesso, cioè en huile à fresque, metodo segreto morto con lui. Egli è bello, dopo sì ridevole sproposito, il sentirlo correggere, non dico il Cochin che a spropositi non cedeva la mano a nessuno, ma il Richardson che in ciò andava con maggior parsimonia, e ne sapea cento volte più del suo censore. Eccone il passo:
Dans le réfectoire de cette maison (delle Grazie) au-dessus de la porte d’entrée, on voit le fameux tableau de la Cène, peint en huile à fresque par Léonard de Vinci; je remarquerai que ni Richardson qui parle fort au long de ce tableau, et qui rapporte à ce sujet beaucoup d’anecdotes, ni M.r Cochin, qui paroît l’avoir vu, n’en parlent exactement. Le premier dit qu’il est effacé a plus de moitié, ce qui n’est point vrai, et qu’il est placé si haut, qu’on ne peut le voir;[51] il est au-dessus de la porte du réfectoire qui est d’une hauteur médiocre, et les figures sont de grandeur plus que naturelle, et on les voit très-bien. Il y a des parties mieux conservées les unes que les autres; mais il n’y en a point d’absolument effacées. Le s.t Jean n’est point appuyé sur la poitrine du Sauveur, comme le dit M.r Cochin; je n’ai pas pris garde s’il avoit effectivement six doigts à la main, comme il l’avance. Je fais exprès cette remarque pour montrer combien peu sont exactes la plupart des relations des voyageurs même pour les faits dont ils sont plus en état de juger. Cette grande composition est digne de la réputation de son auteur, et est précieuse par rapport à son ancienneté et à sa conservation. Il ne paroît pas que l’on ait touché à ce tableau depuis le tems de Léonard de Vinci.
Il correttore di Richardson, vedendo abbastanza vivace l’impiastramento del Bellotti, nè più in là sapendone, ammirò la rara conservazione d’un’opera che all’epoca sua era perita da due secoli.[52]

GIUSEPPE PIACENZA.
(1770)

Nelle giunte al Baldinucci dell’edizione torinese, l’architetto Piacenza compose una Vita di Leonardo, tratta dal Vasari, dal Lomazzo, dal Du Fresne, dal Mariette e da altri. Vi riportò i passi importanti di varj autori che gli servirono di guida, corresse alcuni sbagli del D’Argenville e del Cochin, ma sebbene abbia diligentemente riunito il meglio che al suo tempo fosse stato scritto, il suo lavoro non presenta nulla di nuovo nè per l’arte nè per la storia. Ciò che del Cenacolo vi si legge, è copiato, come il resto, da cose già note per le stampe. Lagnasi in fine, e con ragione, tanto più al suo tempo, che ancora non esistesse una stampa degna di tanto originale; Intrapresa, dice egli, che farebbe molto onore alla fioritissima città di Milano.

PILKINGTON.
(1770)

Nel Dizionario de’ Pittori che il Pilkington pubblicò a Londra, non si legge una linea di nuovo intorno a Leonardo. Circa il Cenacolo, vi si cita il passo del Rubens, conservatoci dal De Piles, e tolto dalla traduzione inglese di questo autore. Vi si legge in fine che il ceffo del priore servì mirabilmente a Leonardo onde rappresentare in Giuda tutta la perfidia del suo infame carattere.

DURAZZINI.
(1771)

Nel libro pubblicato in Firenze, intitolato Serie degli uomini i più illustri in pittura, scultura e architettura, che in ciò che riguarda a Leonardo, fu compilato dal medico Durazzini, si copiò specialmente il Vasari e il Du Fresne. Lo stesso può dirsi degli elogi varj che corrono del nostro artefice, e degli articoli de’ dizionari storici italiani, francesi e tedeschi.

FRANCESCO BARTOLI.
(1776)

Nella Notizia che il Bartoli pubblicò delle pitture, sculture ed architetture d’Italia, non teme d’asserire che Michelagnolo Bellotti ravvivò co’ suoi segreti il Cenacolo quasi smarrito, e che ha resa questa pittura stimabile e bella quale fu un giorno. Siffatti stranissimi giudizj leggonsi ne’ libri italiani di cose italiane; non è dunque da maravigliarsi se tante stravaganze si veggono circa le cose nostre negli scritti oltramontani.

CARLO ROGERS.
(1778)

Fra gli schizzi di varj maestri, fatti incidere e commentati da Carlo Rogers, vedasi primo il Cenacolo di Leonardo, tratto dal disegno a matita nera, esistente nel gabinetto del re d’Inghilterra, e che fu già, secondo ch’egli dice, della raccolta d’un Bonfigliuoli di Bologna. Il Rogers ragiona a lungo del Cenacolo in generale, raccogliendo varie cose dagli scrittori, ma poco aggiungendo del suo, e nulla che faccia al caso nostro. Se la stampa di tal disegno che fu inciso dal Ryland, imita con esattezza l’originale donde è cavata, ognuno che ha qualche pratica del disegnare di Leonardo, non vi riscontrerà que’ tratti caratteristici che distinguono le opere di quella leggiadra mano. Fra le molte cose che il fanno sospettare essere una copia, basti l’osservare che mentre le teste mancano e di forme a d’energia d’espressione, qualità che non mancano mai nelle cose anche più trascurate di Leonardo, non v’è parte di panneggiamento che non imiti l’andamento dell’originale finito; ed è impossibile che chi schizza con pochi tratti, si abbandoni a pensare ove collocare le cinture, le borchie e simili cose, a poi trascuri il più importante, cioè le teste. Non ostante senza la presenza del disegno, per quanto sia bene imitato dalla stampa, è pericoloso il giudicare dalla sua originalità.

FRANCESCO MARIA GALLARATI.
(1779)

Fino dal 1768 il padre Gallarati, abate olivetano, intraprese una copia in miniatura del Cenacolo, e dopo avere in essa lavorato undici anni, ne cominciò una Descrizione ragionata alla quale fece continue aggiunte e note. La copia, opera di molte mani, riuscì una mediocre cosa, perchè lo zelo e la buona volontà non erano agguagliate nel Gallarati dal sapere e dalla pratica dell’arte. Si può dire lo stesso della meschina descrizione che non vide la luce. Nondimeno si debbe elogio a questo buon frate per aver dato il suo entusiasmo ad un’opera che n’era meritevole. Egli pensò inoltre eternar la sua copia col bulino del celebre signor Morghen, allorchè ambedue trovavansi in Roma nel 1786; ma la cosa non ebbe effetto, perchè il premio dall’incisore richiesto, sebbene fosse moderato, superava le forza o la volontà del padre abate.

CARLO BIANCONI.
(1787 e 1795)

Nel 1787 pubblicò la prima volta il Bianconi la sua Guida di Milano, della quale diede nel 1795 una ristampa con infinite riforme. La storia del Cenacolo e la sua descrizione occupa ben tredici pagine della prima edizione, ma fu ridotta nella seconda a un terzo circa. Il libro è nelle mani di tutti; io ne andrò citando i passi importanti, ove me ne occorra il bisogno. Il Bianconi in quest’opera pose tante cose cattive, che anche le buone vi perdono il pregio.

DOMENICO PINO.
(1796)

Il padre Domenico Pino di cui qui si ragiona, è quegli stesso che voleva che il sole girasse intorno alla terra, perchè la terra non girava a suo modo, e stampò intorno a ciò una dissertazione colla quale egli credeva d’avere atterrato il sistema del Newton. Fu priore nel convento delle Grazie, e volle pubblicare una Storia genuina del Cenacolo insigne ecc., o gliene desse occasione, com’ei dice, la ristampa della Guida di Milano, o fosse, come appare, premuroso di distruggere la volgare credenza che i suoi frati avessero imbiancato la parete dipinta dal Vinci, e che un di lui antecessore nel priorato fosse stato il modello di Giuda. Comunque stia il fatto, la di lui storia comparve nel 1796, e ciascuno può riconoscere se meriti in ogni sua parte il titolo di genuina. Ei non sapea nulla di pittura; quindi non si dee badare alle cose del suo libro, che risguardano a quest’arte. Gli si debbe obbligo nondimeno e perchè fu il primo che stampò ex professo su tale argomento, e per aver fatte alcune ricerche negli archivj; ed io mi varrò di lui nelle poche cose non dette da altri, e nelle quali entri l’autorità altrui, o la sua pei fatti soltanto, non già pei giudizj.

CHAMBERLAINE.
(1796)

Il gabinetto del re d’Inghilterra vanta molti mirabili disegni di Leonardo ed il signor Giovanni Chamberlaine nel 1796 ne pubblicò otto benissimo incisi dal Bartolozzi. Prepose a questi una vita dell’autore, nella quale però nulla di nuovo leggesi intorno al Cenacolo, e si riscontrano copiati molti vecchi errori, quantunque già emendati da altri.[53] S’ignora in Italia se l’opera del Chamberlaine continui, il che, quanto a’ disegni, è certo da desiderarsi, perchè è un vero esempio del modo con cui dovrebbersi pubblicare quelli dei grandi maestri.

FIORILLO.
(1798)

La Storia delle arti del disegno dal loro rinascimento fino a’ nostri giorni, pubblicata in tedesco dal Fiorillo, è poco nota in Italia, non essendo stata, ch’io sappia, finora tradotta. Debbo alla compiacenza e gentilezza del signor barone di Ramdohr la traduzione di quanto in quell’opera risguarda il Cenacolo di Leonardo. Essendovi però tratto il tutto dai principali autori citati, io non farò che accennare alcune cose che non s’accordano col vero, e che possono ricevere d’altronde autorità dal resto dell’opera che mi si dice buona ed accreditata. Primieramente si asserisce il Cenacolo dipinto a fresco, ed è invece a olio. In secondo luogo si fanno grandissimi elogi delle copie, molte delle quali son dette essere eccellenti e di mano degli scolari del Vinci: il che tutto è da desiderare. Dice inoltre ch’esse copie hanno il merito non meno della bellezza che dell’esattezza; le quali cose quanto poco si conformino al fatto, il dimostrerò nel terzo libro. Quando poi l’autore scende al novero delle copie, ripete gli errori del De Pagave riportati dal Della Valle. Perciò cita una copia a fresco del Lomazzo nel Monastero maggiore, che non esiste. Dice esser dipinta sul muro la copia in tela della Certosa di Pavia. Dice stimatissima per l’esattezza dell’imitazione una copia del Luino a Lugano; ed è in vece opera originale del Luino con qualche figura imitata dall’opera del Vinci. Finalmente accusa il Della Valle ed il De Pagave di non notare che l’antico disegno, già de’ conti Casati, è passato nel gabinetto di Parigi, ed in vece il disegno non è mai uscito di Milano, ed è ora posseduto dal signor dottore Curti. Tralascio molte altre inesattezze, siccome di minore importanza; e delle qui notate mi scuso coll’egregio autore, così esigendo la natura del mio scritto e la verità che, parlando di cose presenti, io ho potuto meglio riconoscere.

GIOVANNI SIDNEY HAWKINS.
(1802)

Al Trattato di Leonardo tradotto in inglese dal Rigaud, e fatto pubblico in Londra nel 1802, venne preposta una Vita dall’Hawkins, la quale nel frontispizio dicesi estratta da materiali autentici finora inaccessibili. La Vita è ricca di notizie prese qua e là da varj scrittori, ma que’ materiali inaccessibili non sono che quanto il Venturi aveva reso accessibile ad ognuno, pubblicando nel 1797 il Saggio intorno agli studj fisici e matematici di Leonardo. Ciò che vi si legge del Cenacolo, è copiato dal Vasari, dal Giraldi e da altri già citati.

GAULT DE SAINT-GERMAIN.
(18o3)

Devesi al signor di Gault la recente edizione francese del Trattato di Leonardo, preceduta da una nuova prefazione in cui si rende conto dell’opera, da una Vita tratta dalle antecedenti e da un catalogo delle opere del Vinci. Sonovi oltre ciò varie note sparse nel Trattato. L’autore ebbe ottime intenzioni; ma molte notizie gli mancarono, e in molte cose fu negligentissimo. Non s’intende come, avendo sotto gli occhi il Saggio del Venturi, sbagliasse d’otto anni l’epoca della nascita di Leonardo, e trascorresse in altre considerabili inesattezze che non è qui luogo d’osservare. Circa il Cenacolo nulla dicesi da questo autore che non si legga in altre opere; ed anch’egli cadde nell’errore di asserirlo dipinto a fresco.

AMORETTI.
(1804)

Le Memorie storiche di Leonardo compilate dal chiarissimo signor Amoretti contengono non solo tutto l’importante che trovasi nelle Vite stampate, ma un gran numero altresì di notizie da lui medesimo raccolte, e quanto di utile potè trarre dalle annotazioni e dai ricordi dell’Oltrocchi e del De Pagave. Ma sebbene il di lui lavoro, per la quantità specialmente delle notizie, superi finora tutti gli altri, Leonardo è tale uomo per la storia delle arti e della filosofia, che di quanto gli appartiene, ci rimane ancor molto a desiderare. Fu certamente gran danno che l’Amoretti non abbia avuto sott’occhio gli autografi di Leonardo in vece degli estratti dell’Oltrocchi che molte cose trascurava, altre non intendeva del tutto. Si fidò fors’anche talvolta troppo delle altrui relazioni, intorno alle quali non si è mai abbastanza circospetto in materia di opere di disegno. Quanto leggesi circa il Cenacolo nelle Memorie storiche, è compendiato eruditamente da varj degli autori qui citati, e specialmente dalla Storia genuina del padre Domenico Pino.

LUIGI LANZI.
(1809)

Già chiarissimo nell’Europa colta per altre opere di erudizione, l’abate Lanzi pubblicò fino dal 1793 un Compendio di Storia pittorica dell’Italia inferiore, il quale sparse grandissimo desiderio che tutte le scuole italiane fossero illustrate col metodo usato in quel libro. Soddisfece l’egregio autore alla comune brama assai prontamente, e circa quattro anni dopo stampò in Bassano per mezzo del Remondini la Storia pittorica dell’Italia in tre volumi, che, non ha guari, ridotta a sei è ricomparsa cogli stessi torchi, arricchita di notabili accrescimenti nel testo e nelle note.
In opere di tal natura e di tanta estensione trovasi sempre qualche cosa da ridire. L’autore non ha pratica dell’arte; non può veder tutto; spesso dee veder troppo presto; talora vede ciò che meno importava di tal pittore, di tale scuola, di tale città. Ecco le origini di alcuni errori ora di fatto, ora di giudizio. Sulle cose non viste gli è d’uopo attenersi o ai libri stampati o alle altrui relazioni. Queste relazioni e questi libri, per dirlo al modo con cui il Lanzi tratta i nemici del Vasari, sono per lo più di scrittori municipali, spesso fatti con parzialità, e per lo più da uomini che non hanno visto un sufficiente numero d’opere per poter confrontare l’arte colle sue forze generali, non con gli sforzi fatti da un piccolo numero d’artefici in un limite angusto. Ed ecco l’origine de’ giudizj ineguali, dello stesso entusiasmo nelle migliori e nelle deboli epoche dell’arte, e finalmente delle lodi esagerate di molti artefici mediocri, cosa assai più dannosa all’arte che gli errori di fatto. Se poi avviene che col rinnovare dell’edizioni si facciano delle aggiunte che cangino qualche punto essenziale di storia, non si prevedono tutte le conseguenze di tali cangiamenti, e rimane sovente qualche parte dell’opera, in cui si ragiona come se il cangiamento non fosse stato introdotto. Non mancano dunque di queste mende nella Storia pittorica; ma ciò non basta ad offuscarne lo splendore; e questo classico lavoro, condito dall’amenità e facile eleganza dello stile, dai fiori dell’erudizione e dalle più vivaci pitture de’ caratteri, sarà sempre considerato non ultima gloria della letteratura de’ nostri tempi.
Nella descrizione del Cenacolo che vi si legge nell’Epoca seconda della Scuola milanese, comechè vi si ripeta molto di quanto abbiamo citato, solo accennerò alcune cose che non si trovano altrove, e che non vorrei sostenute da una sì degna autorità quale è quella di questo amabile scrittore. Die’ egli primieramente che se Leonardo avesse dipinto il suo Cenacolo a tempera, questo tesoro tuttavia si conserverebbe. Sembra che in ciò ei s’appoggiasse alle asserzioni del Requeno; ma è però fuori d’ogni probabilità, perchè la ruina di tanta opera fu principalmente cagionata dall’umidità della parete, la quale offende egualmente le tempere e l’olio; e gli altri malanni che ne precipitarono la perdita, furono tali che avrebbero minato, non la tempera solo, ma qualsivoglia più tenace mestica, fosse anche triplicata come quella del Gialiso di Protogene.
Dice in appresso, copiando altri, che rimangono ancora tre teste di mano del Vinci, ed anche ciò non si verifica, perchè tali teste furono bensì salve dall’ultimo eccidio del Mazza, ma erano già state ruinate dalla mano del Bellotti e forse d’altri. Di queste cose pertanto darò maggiori ragguagli dove ragionerò delle vicende di questa infelice pittura. E se credo dovermi in ciò allontanare dall’opinione di questo autore, mi vi soscrivo con alacrità allorchè asserisce essere il Cenacolo il compendio non solo di quanto insegnò Leonardo, ma eziandio di quanto comprese co’ suoi studj. Il quale passo che sento verissimo, se a sentir rettamente mi valgono tre anni di meditazione e d’esercizio intorno a quest’opera, debbe animare assai gli studiosi del disegno ad indagare in essa, per quanto si può, i principj d’un artefice che superò tutti in profondità d’ingegno ed in estensione di scienza, e che, precedendo d’età i primi luminari dell’arte, può chiamarsi il vero primo restitutore della pittura de’ Greci.

CONCLUSIONE DEL LIBRO PRIMO.

Dai principali testimonj che qui ho riuniti colla maggiore diligenza che per me si è potuto, potrà ognuno verificare quanto osai d’asserire nel principio dell’Introduzione, cioè che di questa grande e straordinaria opera che segnò l’epoca della perfetta pittura, non si è ancor fatto abbastanza grave argomento delle ingegnose osservazioni di quegli scrittori ch’erano degni di parlarne.
Il Pino e il Gallarati che soli ne trattarono di proposito, il primo senza sapere dell’arte, l’altro sapendone poco e male, il che è forse peggio, non ebber forze eguali al carico assuntosi, e rimane a loro il merito della buona volontà, agli altri il desiderio di sapere più e meglio di quanto essi insegnarono. Gli autori poi che più si avvicinarono al vero, come il Vasari, il Lomazzo, il Borromeo e pochi altri, non parlarono del Cenacolo se non accessoriamente in opere vaste o d’altro tema. Dal maggior numero degli altri non si possono raccogliere che alcune notizie storiche, ma v’è sempre gran vôto di ciò che al progresso dell’arte può direttamente contribuire.
Intanto dalla sopra esposta compilazione, che se è nojosa per chi la scorre, nol fu certamente meno per chi la stese, potrà il paziente lettore comprendere quanto in ogni tempo e presso ogni nazione fosse tenuta in pregio l’opera di Leonardo. Avrà altresì campo di farsi in mente un autorevole apparato della sua storia e della sua descrizione, attenendosi ai passi migliori che anche senza le brevi mie note avrà potuto facilmente riconoscere.
Sarebbero da unire ai citati il Bottari, il Monti, il De Pagave, il Della Valle ed altri varj commentatori, giornalisti, viaggiatori, biografi e critici;[54] ma oltre che non se ne vedrebbe il fine, di alcuni mi accadrà far menzione ne’ libri seguenti, e varj ne lasciai o per la poca loro importanza, o perchè ripeterono ciò ch’era stato detto senza aggiungere autorità alcuna per sapere o per tempo.
E se molti sono, come ognun vede, gli scrittori che parlarono del Cenacolo, da infiniti poi fu scritto dell’autore, e sempre con ammirazione. I varj rami dell’umano sapere in cui riuscì eccellente, fanno che si trovi spesso ricordo di lui anche in que’ libri ne’ quali meno si aspetterebbe. Pure, ad onta del molto che si è detto, molto ancora rimane da dire di tanto uomo; il quale veramente, come benissimo scrisse Pier Leone Casella,[55] nulla lasciò d’intentato colla costante persistenza del suo finissimo ingegno. Ma non si speri una notizia compiuta di lui e de’ suoi studj, se non da chi otterrà di riunire e leggere tutti gli scritti suoi, molti de’ quali giacciono ancora dispersi ed incogniti in varj angoli dell’Europa.

FINE DEL LIBRO PRIMO.


NOTE



[1] Fu questi Francesco Melzo o Melzi da Vaprio, gentiluomo milanese, di cui le case e gli averi sono ora posseduti da Francesco Melzi d’Eril, duca di Lodi.
Come siano stati infelicemente dispersi i libri lasciati da Leonardo a questo suo prediletto discepolo, si legge nel ragguaglio scritto da Giovannambrogio Mazzenta in fine del codice che servì per la prima edizione del Trattato di Leonardo procurata dal Du-Fresne. Veggansi Venturi, Essai sur les Ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci, ecc. ed Amoretti, Memorie storiche di Leonardo, preposte all’edizione milanese del Trattato pubblicata nel 1804.
Francesco fu valente pittore, e pare che specialmente nella miniatura si esercitasse, dal che vien detto Miniatore dal Lomazzo e da altri. Fe’ nondimeno tali opere ad olio, che con quelle del suo maestro vennero confuse. Il Du-Fresne asserì di Leonardo un quadro rappresentante una Flora che vedevasi a Parigi in casa il duca di Saint-Simon, ed il Mariette nol riconobbe esser del Melzi se non iscoprendovi inscritto il suo nome. Non è quindi meraviglia se il Lomazzo in un sonetto diretto a Francesco, che leggesi nel secondo libro de’ suoi Grotteschi, gli dica:
Veggio natura con oltraggio e scorno
Vinta dalle belle opre vostre, e il morso
Posto all’invidia, ecc.
Il Vasari che il conobbe nel 1566, dice ch’era allora bello e gentile vecchio, com’era stato bellissimo fanciullo al tempo di Leonardo. Per conseguenza errò forte il Baldinucci, dicendo che Francesco morisse nel 1490; che a quell’anno, se pure era nato, doveva essere in fasce.
Vedesi inciso un suo disegno d’una bella testa di vecchio, fra i disegni di Leonardo pubblicati da Giuseppe Gerli nel 1784. La stessa testa vedesi fra quelli incisi dal Mantelli, che apparvero nel 1785. Nell’originale leggesi che tal disegno fu fatto dal Melzi mentre non aveva che diciassette anni.
[2] Questa lettera che può leggersi nelle citate Memorie storiche dell’Amoretti, a pag. 24, non ha data, ma fu scritta assai probabilmente ne’ primi tempi che Leonardo fu a Milano, e certamente avanti che intraprendesse per la corte opera alcuna considerabile. Si dice diretta a Lodovico il Moro, ma potrebbe anche essere stata diretta al duca Galeazzo, suo fratello.
Agli argomenti che fanno credere Leonardo venuto assai giovane fra noi, aggiungasi quello che si può desumere dall’iscrizione sepolcrale del Boltraffio. Questo egregio suo allievo, nato l’anno 1466, s’era posto a studiare la pittura fin dalla fanciullezza: dunque il Vinci, suo precettore, era a Milano e vi godea credito di buon maestro, mentre il Boltraffio era ancora in età puerile. Ecco l’iscrizione copiata esattamente dalla lapida, che una volta vedevasi nella chiesa di san Paolo in Compito, e che ora conservasi nell’Accademia Reale.
Io. ANTONIO BELTRAFIO
ET CONSILII ET MORUM
GRAVITATE SVIS CIVIBVS
GRATISS. PROPINQVIORES
AMICI DESIDERIO AEGRE
TEMPERANTES P.
VIXIT ANN. XXXXVIIII.
PICTVRAE AD QUAM PVERVM SORS
DETVLERAT STVDIO INTER SERIA
NON ABSTINVIT NEC SI QVID
EFFINXIT ANIMASSE OPVS
MINVSQVAM SIMVLASSE
VISVS EST
MDXVI.
Se credesi al Borsieri ed al Sassi, il Boltraffio diresse l’accademia del Vinci, allorchè questi si allontanò da Milano per la caduta del Moro nel 1500.
[3] Vedi che in corte (il Moro) fa far di metallo
per memoria dil padre un gran colosso
i credo fermamente senza fallo
che gretia e Roma mai vide el piu grosso
guarde pur come e bello quel cauallo
Leonardo uinci a farlo sol se mosso
statuar bon pictore e bon geometra
un tanto ingegno rar dal del simpetra
E se più presto non se principiato
la voglia del Signor fu sempre pronta
non era un Lionardo ancor trouato
qual di presente tanto ben linpronta.
che qualunche chel vede sta amirato
e se con lui al parangon safrunta
Fidia: Mirone: Scoppa e Praxitello
diran chal mondo mai fusse el più bello.
Coronatione e sponsalitio de la serenissima Regina. M. Bianca. Ma. Sf. Augusta ecc. per Baldassare Taccone Alexandrino ecc. Impssit Leonardu pachel. m. ccc. lxxxxiii. in 4.°
Leonardo passò sedici anni intorno al modello per la statua equestre del duca Francesco. Se dunque, secondo il Taccone, tardi si diede principio a tal opera perchè non si trovava chi si assumesse di condurla, è chiaro ch’essa fu proposta molto tempo prima che Leonardo la intraprendesse; e sempre più probabile diventa la congettura che ve ne fosse proposito appena morto Francesco.
[4] Qui come l’ape al mel vienne ogni dotto,
Di virtuosi ha la sua corte piena:
Da Fiorenza un Apelle ha qui condotto.
Così è citato dall’Amoretti questo passo del Bellincione, che farebbe quasi arguire che Lodovico tornando di Toscana seco conducesse il giovine Leonardo. Ma nell’antica edizione leggesi in vece è qui condotto, con che il senso riman cangiato del tutto. Per rettificare tale importante lezione sarebbe d’uopo consultare dei codici del Bellincione, ma non mi venne fatto di trovarne.
[5] La patente data dal duca Valentino a Leonardo, pubblicata dal padre Della Valle nell’edizione sanese del Vasari, andò perduta negli ultimi tempi.
[6] Nella lettera che Francesco Melzi scrisse ai fratelli di Leonardo dopo la morte del suo maestro, non parla affatto di questa visita del re, circostanza troppo notabile per esaere taciuta in simil caso.
Pare anzi che il Melzi stesso recasse al re Francesco la notizia della morte del Vinci, se si dee credere al Lomazzo che in un suo sonetto dice:
Pianse mesto Francesco re di Franza
Quando il Melzi che morto era gli disse
Il Vinci ecc.
Nè meno presso il Giovio, ch’è il più antico scrittore della vita del Vinci, non si trova ricordo di questa importante particolarità. Il Venturi poi provò l’alibi del re nel giorno in cui Leonardo è morto, Veggasi il suo Essai ecc.
[7] Erra il Lomazzo che fe’ due ritratti di quello di monna Lisa e di quello della Gioconda. Il ritratto fu un solo, come una sola fu la donna che chiamossi con que’ due nomi. Vedi Lomazzo, Trattato pag. 434.
[8] L’anno che pongo sotto i nomi degli autori citati indica o l’epoca degli scritti o quella delle opere stampate donde sono tratti i passi che risguardano il Cenacolo.
[9] Nel Trattato del Lomazzo, a carte 325, si fa menzione di frate Luca e della sua Divina Proporzione, opera, dice il Lomazzo, disegnata col braccio di Leonardo da Vinci. Questo passo alquanto oscuro può far credere che tutte le figure dell’opera siano di Leonardo; ma non vi sono di sua mano se non i corpi regolari.
[10] Il Paciolo è il più antico scrittore che abbia fatto uso di questo giuoco di parole in encomio di Leonardo; ma ebbe grandi seguaci. Veggansi i versi per lui fatti dallo Strozzi, da Fabio Segni, da Vincenzo di Buonaccorso Pitti, ai quali aggiungasi il tetrastico di Girolamo Casio de’ Medici, che leggesi nel suo libro intitolato Cronica ove si tratta di epitaphii di amore e di virtute, pubblicato nel 1525, il qual tetrastico qui trascrivo perchè ignoto per la somma rarità di quel libercolo.
Vinta Natura da Leonardo Vinci
Toscan Pittore eccelso ad ogni etade.
Spinta da invidia e priva di pietade
Va, disse a Morte, e chi mi ha vinta, vinci.
Da che si scorge che assai per tempo cominciò il mal gusto de’ fredduraj, ed il Vasari non andò esente da un giocarello di parole consimile ai citati, allorchè parlò del Vittoria, scolaro del Sansovino.
[11] Pag. 28, a tergo, in fine.
[12] Il Montuela stesso, che a lungo parlò del Paciolo, non vide la prima edizione della Summa d’Aritmetica, ecc., la quale fu ristampata in Toscolano senza notabile differenza nel 1523. Perciò questo scrittore, famoso per la sua Storia delle Matematiche, ritenendo che la ristampa del 1523 fosse la prima edizione, la credè assistita dall’autore; e riportandone il nuovo ridicolo frontispizio, scherza fuor di proposito sul povero frate che a quell’epoca era certamente morto da qualche anno.
Sbaglia non meno gravemente intorno alle dediche al Sanuto e a Guidubaldo da Montefeltro, dicendo al primo intitolata la prima edizione, al secondo l’altra, mentre entrambe le dediche leggonsi egualissime in ambedue l’edizioni, e il gran Guidubaldo (chè non saprei del Sanuto) era morto da quindici anni, allorchè comparve la ristampa di Toscolano. Nè minori sbagli rinnuova, parlando del libro che il Paciolo stampò nel 1509, della Divina Proporzione. Comincia dal dirlo dedicato a Lodovico il Moro ch’era morto da un anno, come il frate dimostra che, parlando di lui in tempo passato, dice: Illi adhuc viventi ecc., e che la morte del Moro sia avvenuta nel 15o8, sebbene il Guicciardini dica altrimenti, si prova non solo da questo passo del frate, ma da Leandro Alberti e da Giacomo Mainoldi Gallerati nell’opuscolo De titulis Philippi Austri ecc., stampato in Bologna nel 1573. Al Moro bensì fu dedicato nel 1499 il codice, e diretta l’opera come si legge e nell’opera e nella vera dedica che è diretta a Pier Soderini. Così pure credette che le lettere capitali poste nel libro fossero tratte dai monumenti di Toscolano, de’ quali si fa menzione nel titolo della seconda edizione della Summa; e quel titolo è un mero capriccio dello stampatore Paganino, e le lettere che poi furono usurpate da Alberto Durero e dal Tory, sono bensì fatte, come l’autore accenna a tergo della pag. 32, sui monumenti antichi, ma le espone con principj geometrici e suoi, e per mostrare, secondo ch’egli si esprime, che le due linee essenziali, retta e curva, sempre sanno tutte cose che in agibilibus se possano machinare.
Finalmente vantasi il Montuela d’avere scoperto un nuovo libro del Paciolo, che ha per titolo Libellus in tres partiales tractatus divisus, ecc., e questo, che tratta de’ cinque corpi regolari, va necessariamente congiunto alla Divina Proporzione, come il Paciolo stesso avverte nella dedica al Soderini, al quale, non parendogli sufficiente il dedicare la stampa del codice scritto per Lodovico, congiunse questo libro, qui, com’egli dice, quasi gradus nescio quos architectis struit, et marmorariis nostratibus, e l’altro delle Lettere, entrambi particolarmente a lui consacrati. Conto poi per error tipografico la data del 1508 stabilita dal Montuela a quest’opera che pretende avere scoperta, la quale ha la stessissima data d’anno e mese, che è posta al fine della prima parte.
Dopo tutto ciò egli si pavoneggia lungamente, e si dà vanto di bibliografo, accusando da sè la negligenza di che in addietro altri il tacciarono; ma dando sì poca prova del suo ravvedimento, e dimostrando al contrario grande trascuratezza, non fa se non freddamente aggradire gli elogi con cui chiude il suo articolo intorno al nostro Paciolo. Chi bramasse poi vedere le inesattezze del Montuela circa la scienza di questo buon frate, le legga nella Storia dell’Algebra pubblicata, anni sono, da Pietro Cossali.
[13] Ecco l’epitaffio riportato dal Vasari nell’edizione del Torrentino, e soppresso nella seconda de’ Giunti. Parla Pietro della Francesca.
Geometra e Pittor, penna e pennello
Così ben misi in opra, che natura
Condannò le mie luci a notte scura,
Mossa da invidia: e de le mie fatiche
Che le carte allumar dotte et antiche
L’empio discepol mio fatto si è bello.
Quest’empio discepolo, secondo il Vasari ed altri che seguirono la sua autorità, fu frate Luca Paciolo, il che non è assolutamente credibile per le ragioni riportate.
[14] Leggasi la pag. 23 del Libro della Divina Proporzione.
[15] A compenso del torto fatto dal Tory al Paciolo cui accusò di furto, mentre egli stesso il derubava, piacemi qui citare un suo passo col quale rende giustizia agli Italiani, e che certo non fu mai letto dal marchese d’Argens che paragonava Leonardo a Giovanni Cousin. Allorchè il Tory prende a lodare il compasso e la riga, come il Paciolo ad ogni istante innalza la potenza della linea retta e della curva, così siegue a dire: «Mi verrebbe qui a proposito il descrivere le lodi e le perfezioni del detto compasso e della riga, ma lascerò che se ne occupi chi è di me più studioso. Io mi limiterò per ora a dire che non giungerà mai a scrivere bene in lettere attiche o d’altra maniera chiunque non farà uso della riga e del compasso; e che non v’è ragione ne ordine in quelle cose che non son fatte colla debita proporzione che alla riga ed al compasso è soggetta. Perciò, signori e divoti amatori del sapere, amate la riga e il compasso e con essi divertitevi ed esercitatevi onde conoscere la ragione e la verità delle cose ben fatte. Gl’Italiani, sovrani in prospettiva, in pittura ed in iscultura, hanno sempre questi strumenti alla mano; e però sono perfettissimi nel ridurre al punto, nel rappresentare la natura e nell’imitare le ombre meglio di ogni altra colta nazione del mondo. Eglino hanno di più quasi a privilegio l’essere austeri e studiosi, sobrj del mangiare, del bere e delle vane parole, nè premurosi di spingersi anzi tempo nelle brigate. Coi quali modi imparano meglio e con più sicurezza, e dánnosi nome, di che fanno grandissimo conto. Noi non vantiamo da questo lato tante belle qualità: quindi non appare fra noi tale che si possa misurare col fu messer Leonardo da Vinci, nè con Donato, nè con Raffaello d’Urbino, nè con Michelagnolo. Non voglio però dire che non sianvi anche fra noi de’ belli e buoni ingegni; ma non si adoprano ancora abbastanza le righe ed i compassi.»
Le quali parole, per chi non è schifo dell’antica lingua ed ortografia francese, meglio si leggeranno nell’originale che per la rarità del libro qui trascrivo.
J’aurois icy coleur de dire et descrire les lounanges et perfections du dict Compas et de la Reigle, mais ie le lairray pour quelque autre plus studieux que ie ne suis a y passer le temps. Je nen diray pour ceste fois autre chose, si non que iamais homme nescripura bien en lettre attique, ny en autre lettre sans Compas ne sans Reigle. Et que en toutes choses ou il ny a deue proportion, qui consiste subz Compas et Reigle, il ny a ordre ne raison. Parquoy doncques Seigneurs et devots Amateur de Science aymes le Compas et la Reigle, en vous y recreant et exerceant pour cognoistre la raison et verite des bonnes choses. Les Italiens souverains en Prospective, Painture, et Imagerie, ont tousiours le Compas et la Reigle en la main, aussi sont ilz les plus parfaicts a reduyre au point, a representer le naturel, et a bien faire les vmbres quon sache en Chrestiente. Ilz ont dauantage une grace, quilz sont froicts et studieux avec soubriete de boyre, de menger, de parler legierement, et de ne eult trop tost trouuer en compaignye, en quoy faisant ilz aprennent plus scurement et myeulx, et se donnent reputation, quilz nestiment pas petite chose. Nous nauons pas tant de telles belles vertus en cest endroit quilz ont, aussi nen voyons nous par dessa qui soient a comparer a feu Messire Leonard Vince, a Donatel, a Raphael Durbin, ny a Michel lange. Je ne veulx pas dire quil ny aye entre nous des beaulx et bons esperits, mais encore ya il faulte de continuer le Compas et la Reigle.
[16] Di si fatte inconsiderazioni del Vasari, che talvolta da sè stesso si contraddice, si possono vedere molti esempj ne’ suoi commentatori, e molti altri se ne potrebbero notare che rimasero finora inosservati.
[17] Veggasi la Storia genuina del Cenacolo insigne ecc. pubblicata dal Padre Maestro Domenico Pino ecc. Milano mdccxcvl in 8.o.
[18] Poche parole dopo il passo che risguarda il Vinci, dice il Volterrano Joh. Bellinus hoc tempore decessit. Non si sa con certezza l’anno della morte di Giovanni variamente riportato dagli scrittori; ma sembra ch’egli cessasse di vivere subito dopo il 1514, anno in cui fece, sebben decrepito, il bel Baccanale, già di casa Aldobrandini in Roma, ora presso i signori Camuccini, la qual opera, rimasta imperfetta, fu poi finita da Tiziano che vi fece un mirabile paese.
[19] Lo stesso torto del Moreri e del Milizia ebbero il Negri e il Crescimbeni. Nel Crescimbeni trovansi in oltre molti grossolani errori intorno alle circostanze della vita del Vinci; di cui veggasi l’elogio nel terzo volume dei Commentarj intorno all’istoria della Volgar Poesia (edizione di Venezia del 1730). Nel Negri poi, la cui opera apparve nel 1722 e nella quale si ricorda Leonardo siccome scrittore, non si parla di alcuna sua opera scritta, e nè meno del gran Trattato pubblicato dal Du-Fresne.
[20] Forse Leonardo fu detto nipote di Piero, perchè suo figlio naturale.
[21] Veggasi la pag. 16 del secondo volume dell’edizione romana del Vasari.
[22] Tal passo leggesi alla pagina 198 del primo volume della terza edizione della Storia Pittorica.
[23] La bellezza non è altro che una convenevole ordinata e misurata proporzione delle membra cosperse di dicevoli colori. Veggasi la pagina 153 de’ Discorsi ecc.
[24] Ho posto l’anno 1477 perchè, come accennai nel compendio della vita del Vinci, intorno a tal anno al più tardi sembra ch’egli stabilisse la sua dimora in Milano. Circa alla pensione di Leonardo veggasi l’articolo di Carlo Torre.
In proposito poi di ciò che in fine di questo articolo ho aggiunto intorno a Bramante, chiamato milanese dal Bogati, siccome vi sono parecchi eruditi che vanno riunendo tutto ciò che può illustrare la vita di questo rianimatore della greca architettura, piacemi qui raccogliere alcune notizie delle quali non trovo ricordo nè presso il Lazzari nè presso altri che scrissero di lui. Prima di tutto, sebbene io creda che il Bramante urbinate sia diverso da un altro Bramante nostro, non mancano autorità per farci congetturare che anche il famoso architetto di Giulio secondo, sebbene originario d’Urbino o luoghi vicini, sia nato in Lombardia, e fors’anche in Milano. Oltre il passo del Bugati che lo dice milanese, ne abbiamo un altro di Federico Zuccaro nel Lamento della Pittura, che lo pone fra i Lombardi; nè si può supporre che del Bramante lombardo egli intenda parlare, perchè ogni qual volta si trova il nome di Bramante senz’altra distinzione, è naturale che s’intenda il più famoso, cioè l’architetto del San Pietro di Roma. L’oscurità in cui, ad onta di molte erudite ricerche di varj, siamo tuttavia intorno al luogo dove Bramante nascesse, può rendere più autorevoli le parole del Bugati e dello Zuccaro. Ma sì lo storico come il pittore, sebbene non molto lontani dall’epoca di Bramante, non si procaccerebbero molta fede contro tante gravissime autorità contrarie, se in loro ajuto non venisse quella d’un contemporaneo, cioè di Jeronimo Casio, di cui ecco un tetrastico tratto da’ suoi Epitaffj.
Lo Architetto Bramante in Milan nacque;
Servì la patria in fin che visse il Moro:
Con Giulio in Roma accrebbe fama e oro;
Lassò qui il vel; in del l’alma rinacque.
Qualunque sia il valore che si vuol dare e a questi versi e ai passi citati, egli è certo che per essi crescono le oscurità intorno ai Bramanti, e non è ancora facile cosa il determinare quale sia l’urbinate, quale il milanese, quale il poeta, quale l’autore delle Quadrature de’ corpi, quale il nominato dal Labacco a quale lo scrittore del Trattato di Architettura notato dal Doni, quale o quali finalmente gli autori delle varie insigni fabbriche che in Milano si veggono tutte ad un Bramante attribuite. Parimente difficile è lo stabilire quale relazione avesse il Bramante d’Urbino col Bramante lombardo, e donde avesse, o a chi desse il suo nome. S’intralcia assai più la storia col passo del Sabbà da Castiglione, e con quelli del Cesariano dove di lui si ragiona. Lo stesso imbroglio avviene de’ Bramantini, ai quali si attribuiscono fabbriche, pitture e libri per quasi un secolo dal Vasari, dal Lomazzo, dall’Orlandi e fin anche dal Lanzi, che sebbene nell’ultima impressione della sua Storia rifiutasse il Bramantino più antico, si avvisò poi di ritenerlo di nuovo dove parla di Melozzo. Qualcuno anche de’ Bramantini si sarà chiamato talvolta Bramante, con che si accresce la confusione e l’oscurità. Ciò lo induco da una carta che il dotto e diligentissimo signor Mazzuchelli, bibliotecario dell’Ambrosiana, trovò recentemente, sottoscritta nel 1519 da un Bramante architetto del Sepolcro de’ Trivulzj, il qual Bramante non può essere che uno de’ Bramantini, cioè Bartolommeo Suardi. Bramante l’Architetto di San Pietro era già morto in Roma fino dal 1514 ed Andrea Guarna da Salerno in un suo strano dialogo stampato nel 1517 ne fa parlar l’ombra in cielo in modo da dipingerne il carattere con vivaci colori. E giacchè mi accade di far menzione di questo rarissimo opuscolo, che al pari de’ versi del Casio non vidi ricordato da nessun di coloro che di Bramante hanno scritto, piacemi qui tradurne un pezzo dal quale si giudicherà come dai coetanei si pensasse di questo artefice, e allo stesso tempo come liberamente in tutto si scrivesse e si stampasse. Servirà anche questo passo a dar luce a quei del Sabbà e del Condivi, e a confermare molte congetture ed opinioni intorno all’origine della nuova fabbrica del Tempio di San Pietro. Coloro in fine cui poco importa di tali notizie, avranno a grado di conoscere questa curiosa satira che è certo di bizzarra ed ardita invenzione.
L’operetta adunque del Guarna, scritta in latino, non senza eleganza e con molto brio, è intitolata Simia, e fu stampata, ciò che è notabile, da Gottardo da Ponte in Milano, dove era recente la memoria di Bramante. Vi sono interlocutori, oltre Bramante, varj personaggi noti, e vi si satirizzano con grazia i curiali, i ricchi, gli avari e i viziosi d’ogni maniera. Nel pezzo che qui riporto, parlano San Pietro, Bramante e Alessandro Zambeccari bolognese, chiamato splendore e gloria della curia romana. La scena si rappresenta alle porte del Paradiso.
S. Pietro ... E questi miseri famigliari di Cardinali, collocateli, o spiriti beati, fra i martiri, chè tal compenso esige la loro lunga tolleranza. Vorrei però vedere chi sia costui che solo ascende la montagna. Bada, Alessandro, se mai ti fosse noto.
Alessandro. Se non isbaglio, questi è Bramante.
S. P. Qual Bramante?
A. Il nostro architetto.
S. P. Il distruttore del mio tempio?
A. Anzi di Roma tutta e del mondo, se avesse potuto.
S. P. Bada bene s’egli è desso.
A. Non v’è dubbio.
S. P. Dici vero?
A. È egli, vi ripeto, in persona: non traveggo: lo riconosco benissimo.
S. P. Oh, desideravo di conoscerlo; godo sia giunto.
A. Bada a te, Pietro: da vivo canzonava tutti a meraviglia.
S. P. Lascialo fare: avrò gusto in udirlo.
Bramante. Bramante reverente e pronto dà salute al sommo duce del gregge di Cristo.
S. P. Salute anche a te, o Bramante; se pur rechi frutti degni di salute.
B. Che vuol egli dire questo recar degni frutti? Con tua buona grazia, tu mi tratti al bel principio con poca civiltà. In verità, se gli altri beati ti somigliano, nè salutati salutano, non desidero questa vostra beatitudine.
S. P. Eh, questo è il costume nostro: non diamo salute se non a chi la merita.
B. E quali sono cotesti che voi chiamate degni di questa vostra salute?
S. P. Coloro che ci rendon conto d’aver vissuto bene.
B. Affè, io sono il più degno degli uomini, che null’altro ho più avuto a cuore quanto il viver bene.
S. P. Di ciò parlerai quando ne sarai fra poco richiesto, e avrò piacere che sia così in fatto.
B. Io non ho mai lasciato di secondare il genio; nè badai a spendere per viver bene.
S. P. Ha ha! hai secondato il genio, e non badasti a spendere per viver bene?
B. No certo; se allontanando quanto potei la melanconia e le noje, ho pasciuto sempre l’animo di allegria e di piacere.
S. P. Ti abbandonasti dunque al tuo genio quanto ti piacque?
B. E che? volevi che mi macerassi spontaneamente di dispiaceri e di digiuni?
S. P. Eh, non si doveva viver così, o Bramante.
B. E come dunque?
S. P. Dovevi odiar i vizj, sollevare gli oppressi, e far bene quanto potevi.
B. Niuno ha fatto tutto questo meglio di me.
S. P. Godrò che ciò sia vero.
B. Quanto lo sia, te lo provo, se mi ascolti.
S. P. Ti ascolto.
B. Quelle che tu hai testè indicate, sono le proprie parti e i doveri dell’architetto; ed io spero pel lungo esercizio di tal arte non essere annoverato ultimo fra questi.
S. P. Fammi un po’ la grazia di dichiararmi come quelle siano le proprie parti dell’architetto.
B. Allorchè un architetto debbe fare qualche opera, è d’uopo che prima pensi in qual luogo porre le fondamenta, di qual forza consolidi le mura, e di qual grossezza le debba fare, acciocchè se poi l’opera è viziata in qualche parte, ei non ne sia uccellato, e vada in fumo la gloria della sua professione. Quindi è che ogni architetto che sa bene il suo mestiere, ha sempre odiato i vizj.
S. P. Seguita pur via colle tue facezie.
B. Io poi ho sollevate a migliaja le statue giacenti degl’Iddii antichi e degli uomini illustri, oppresse dalle ruine; e per ispicciarti alle corte, quanto io feci vivendo, il feci con le migliori proporzioni e con le giuste dimensioni che l’arte prescrive talchè mi posso gloriare di essermi fra gli altri artefici distinto in far bene.
S. P. Bravo Bramante; tu te la vai oggi passando meco colle celie; ma voglio che tu risponda ad una piccola interrogazione.
B. Interroga pur poco, che io risponderò molto, come soglio.
S. P. Perchè hai ruinato quel mio tempio di Roma, che colla sola antichità sembrava chiamare a Dio gli animi più irreligiosi?
B. È falso ch’io l’abbia ruinato: furon gli operaj, e per comando di Papa Giulio.
S. P. Tua fu questa trappola: dal tuo consiglio e dai tuoi malefizj fu indotto Giulio: per tua direzione ed ordine lo abbatterono gli operaj.
B. Tu la sai lunga: confesso il fatto.
S. P. Perchè ardisti di far ciò?
B. Per alleggerire alquanto il borsotto del Papa, che crepava, tant’era gonfio e grosso.
S. P. Che mal ti faceva la borsa di Giulio piena d’oro?
B. Faceva male a tutti. Era brutta cosa il tener tant’oro sepolto in un solo luogo. Gli antichi fecer tonde le monete, perchè le avessero a correre.
S. P. Sei poi riuscito nel tuo progetto?
B. No; perchè Giulio lasciò che si ruinasse la chiesa vecchia; ma per rifar la nuova non diè mano alla borsa, ma solo la diede alle indulgenze e ai confessionali; invadendo però la mia provincia, il soldato spagnuolo l’ha asciugata quasi del tutto.
S. P. E il Francese si vendicò bene sullo Spagnuolo a Ravenna.
B. E lo Svizzero servì non male il Francese a Novara.
S. P. Lasciamo tal piati ai mortali; le cose si avvicendano, ed è sempre varia la sorte delle guerre. Torniamo a bomba.
B. Dovunque mi chiami, io son sempre pronto, versatile come la ruota di un vasellajo.
S. P. Io ti dissi salute al tuo venire, a condizione che tu recassi frutti di salute degni; e tu, come ho visto, hai preso tal complimento alquanto in mala parte.
B. Più che alquanto; nè mi parve civil cosa che tu salutato non risalutassi: ma sediamo un poco perchè son vecchiccio, e mi sento stanco pel lungo viaggio.
S. P. Siedi pure, tel concedo volentieri.
A. Ci vorrebbe or qui Apelle che dipingesse la Fortuna sedente.
(Si ha da Stobeo che Apelle dipinse la Fortuna a sedere, e che interrogato perchè così la facesse, rispose perchè non istà, non si regge in piedi, che è quanto a dire, per la sua instabilità. Comunque non si regga molto nè pure la ragione di Apelle, questa novella è qui accennata dal Guarna onde mordere la volubilità di Bramante.)
B. Alessandro, bada a te, che stuzzicherai la serpe col dito.
S. P. Ho detto, o Bramante, che qui non si dà salute se non a chi n’è degno; e che non fu mai lecito impunemente a persona il vivere a capriccio e non curarsi che de’ piaceri.
B. Non fu mai lecito?
S. P. No di certo.
B. Affè che ti provo che ciò è indegno ed ingiusto.
S. P. Provalo.
B. Non ha dato Iddio all’uomo ciò che chiamate libero arbitrio?
S. P. Lo ha dato.
B. Dunque ad uomo libero, cui fu dato il libero arbitrio, non sarà lecito di vivere liberamente? Per altra parte i chiosatori della tua censura diranno che dove la disposizione dell’atto dipenda dall’arbitrio altrui, ivi non sarà libertà.
S. P. Confesso che l’uomo ha libero arbitrio, bene o male ch’ei voglia usarne; ma ha inoltre la legge, e ove la trasgredisca, ne pagherà il fio.
B. Asserisci dunque che all’uomo è data la libertà, non la licenza?
S. P. Ciò per l’appunto.
B. Or vedi! quasi ch’esse non fosscr entrambe sorelle, nate ad un parto dallo stesso ventre, e si congiunte d’amore, che l’una non potrebbe vivere senza dell’altra! Pietro mio, ciò che m’è permesso di liberamente fare, io credo mi sia anche lecito di ottimo diritto, e purchè non sovverta le leggi della madre delle cose la natura, so bene che l’uomo è libero onninamente?
S. P. E quali sono queste leggi della natura?
B. Che l’uomo non ammazzi, non rubi, non ingiurj alcuno: del resto mangi, bea, faccia tempone, e se avrà senno, seguirà a parer mio la beata indolenza di Epicuro.
A. Rispondimi una parolina, o Bramante, ma senza andar in collera.
B. Di’ pure.
A. Hai tu ben serbate le leggi della natura? .... Di che ridi?
B. I tuoi sali, Alessandro, mordono troppo acutamente.
S. P. Che è questo?
B. Nulla nulla: costui non si occupa che d’inezie.
S. P. Che è dunque, Alessandro?
A. Il vedrai quando gli ordinerai che si spogli.
B. Spogliarmi? Come! forse anche spogliate gli ospiti che vi capitano? anche in paradiso de’ masnadieri? bel paradiso! a Roma io era più sicuro. No! io dichiaro a voi tutti che o sia questo Pietro, o sia Paolo, o sia chi si voglia gran satrapone di questo vostro paradiso, si guardi bene dal pormi le mani addosso, e dal permettere che mi si perda il rispetto, o ch’io gli farò sentire quanto valga Bramante con queste pugna: farà, spero, fra questi scogli inaspettato dentifragio.
A. Troppo iracondo Bramante!
B. Vien pur qui tu, e sovrapponi pure quanto vuoi labbro a labbro, come facevi allorchè da vivo ti prendea la stizza; farò che tu parta da me più dotto che non venisti; un architetto insegnerà ad un procurator veterano che cosa siano gli articoli contratti.
A. Io non amo le discipline che s’insegnano a pugni.
S. P. Via chetati, Bramante: non sarai spogliato, nè ti si farà contumelia.
B. Il credo bene, se a pugni non mi superate.
A. Bramante vuol torsela a pugni con noi!
B. Certo a pugni, all’uso degli antichi; che a pugni, non con armi, combattean gli antichi, da che venne il nome di pugna.
A. Capperi! stando teco, diventerò più dotto ogni giorno.
B. Uh, voi patrocinatori di cause non istimate dotti altri che voi stessi; e noi siete che in far male.
A. Perchè?
B. Perchè da lupi rapaci ed affamati divorate le pecore che si pongono sotto la vostra tutela, o pure le tenete per l’orecchie finché han latte e lana.
A. Tu mi calunnj falsamente, o Bramante, io non adoprai così vivendo.
B. È vero, e perciò hai lasciato poco argento e buona fama; ma se continuerai ad irritarmi, il gusto che hai di dir male, il perderai in sentir peggio, e ti tratterò a misura di carboni. Ma qui, o Pietro, si fan troppe chiacchiere: ora intenderò qual sia la sentenza vostra, e se vedrò che mi vogliate con voi, esporrò, quando piacciavi, le mie condizioni.
S. P. Bravo: di’ pure.
A. Che dunque, o Pietro? anche al paradiso intimerà Bramante le condizioni?
S. P. Lascialo dire: sentiamolo; mi diverto delle sue bizzarrie.
B. Prima di tutto io voglio tor via questa strada sì aspra e difficile a salire, che dalla terra conduce al cielo: io ne farò un’altra sì dolce e larga, che le anime dei deboli e dei vecchi vi abbiano a salire a cavallo. Poi penso buttar giù questo paradiso e farne un nuovo con più belle e più allegre abitazioni pei beati. Se queste cose vi accomodano, son con voi; se altrimenti, io me ne vo a casa Plutone.
S. P. E dove vuoi che stiano i nostri inquilini fin che tu fabbrichi il nuovo paradiso?
B. Questi vostri cittadini sono assuefatti agl’incomodi, e han vissuto alle merie: altri furono scorticati; altri macerati dalle vigilie; altri nutriti ne’ boschi colle fiere: tutti a forza di malanni hanno acquistata questa vostra cittadinanza. Nè in quest’aria si salubre v’è pericolo che piglino qualche infreddatura.
S. P. Bramante, tu fai condizioni troppo dure, ed ai vecchi non piace mutare stanza.
B. Dunque con tua buona grazia me n’andrò a Plutone, ch’ivi farò meglio le cose mie.
S. P. Forse che sì.
B. Farò un inferno tutto nuovo, rovesciando il vecchio, cadente e consunto dalle antiche fiamme.
S. P. Non avrai ozio per tal impresa.
B. Andrò nondimeno con tua licenza.
S. P. Non andrai.
B. Perchè?
S. P. Tel dirò poi: ma dimmi ora, o Bramante, hai tu veramente ruinato quel mio tempio di Roma?
B. L’ho ruinato, è vero, ma papa Leone lo farà di nuovo in breve tempo.
S. P. Bene: questo breve tempo lo passerai qui avanti le porte del paradiso, nè potrai entrare se non quando sarò bea certo che il mio tempio sia finito.
B. E se non si finisse mai?
S. P. Oh! il mio Leone lo finirà di certo.
B. Forse il finirà; così mi giova sperare. Starò dunque ad aspettare, poichè non m’è dato di fare altrimenti.
Qui termina ciò che spetta a Bramante in questa stravagante satira la quale, comechè irreligiosa e fantastica, pure non è disadatta a recar luce alla storia. La sentenza colla quale san Pietro esclude Bramante dal paradiso, fa credere che il Guarna stimasse impossibile che il gran tempio da lui architettato si potesse finire. In fatti vi vollero gli sforzi di molti pontefici per oltre due secoli.
Null’altro si legge in questo strano dialogo che risguardi le arti: solo si accenna da san Pietro che a quell’epoca si era in dubbio dove le porte del suo gran tempio si dovesser fare. Di fatto nella croce greca ideata da Bramante si poteano aprire in ciascheduno de’ punti cardinali senza offendere il disegno; e Simia aggiunge che nulla stabilì Bramante, morendo, circa alle porte, da che si può desumere che qualche cosa stabilisse intorno al resto.
È comune desiderio degli amatori della buona architettura e della erudizione delle arti, che non solo si raccolga tutti ciò che spetta alla storia di Bramante e de’ varj Bramanti, ma che si disegnino e si pubblichino le molte belle fabbriche che portano degnamente un sì bel nome, delle quali ve n’ha molte in Lombardia, e specialmente in Milano. L’Accademia milanese spera un tale lavoro da qualcuno degli alunni suoi pensionati.
[25] S’ignora il tempo della nascita e della morte di Paolo Mini. Io ho trovato un di lui manoscritto del 1592. Contiene esso un catalogo delle famiglie che hanno governato Firenze, con varie notizie storiche tratte dagli archivj pubblici dì quella città. Fu medico in Lione per lo meno dal 1572 al 1583, se pure non fu altrove tra queste due epoche; perchè del 72 è data in Lione la sua Difesa di Firenze, fatta, com’egli asserisce, da molti mesi: del 1583 è dallo stesso luogo scritta una lettera di Jacopo Dalechampio a Pier Vettori, nella quale si parla di lui come di medico celebre. L’opera che io posseggo manoscritta del 1592, è dedicata a Tommaso Strinati, e ha la data di Firenze del 15 marzo. Il Tiraboschi osserva che nè il Negri nè le notizie dell’Accademia fiorentina lo dicono medico in Lione: avrebbe potuto più facilmente osservare che nella Difesa suddetta, stampata da lui in Lione presso Filippo Tinghi, egli da sè stesso si nomina nel frontispizio Medico e Filosofo.
[26] Il Lomazzo fa menzione di Leonardo nel suo Trattato a carte 27, 31, 5o, 71, 100, 101, 106, 107, 111, 125, 127, 158, 159, 164, 171, 177, 178, 182, 183, 185, 192, 193, 198, 212, 217, 227, 237, 264, 282, 283, 284, 289, 299, 316, 325, 336, 347, 354, 36o, 384, 430, 434, 437, 438, 455, 453, 483, 487, 53o, 614, 616, 633, 635, 637, 632 e 676; e nel suo Tempio della Pittura a carte 7, 17, 18, 38, 42, 45, 46, 49, 51, 52, 54, 58, 68, 101, 118, 129, 13o, 132, 146, 148 e 149. Se la noja della lettura o l’attenzione ad altro non mi ha distratto, non credo si trovi altrove importante cenno intorno a Leonardo dentro queste due opere.
[27] Veggansi le pagine 120 e 129 de’ Grotteschi.
[28] Come dai sedici ai venti anni pone il Lomazzo la terza età sotto l’influenza di Venere; così pone, cred’io, la quarta dai venti forse ai ventiquattro sotto l’influenza del Sole. Ciò ricavasi dagli endecasillabi posti in coda al Sonetto diretto a Pietro Martire Stresi (pag. 181 de’ Grotteschi), ne’ quali, avendo detto d’aver copiati i Cesari di Tiziano, soggiunge:
E questi feci nell’età del Sole,
Abbandonando l’amorosa Dea.
[29] Veggansi le pagine 65, 74, 132, 143, 172, 191, 209, 210, 220 e 226. In ciascuna si trova qualche cosa che ha relazione sia all’Armenini, sia al Vinci. Veggasi anche la Conclusione dell’Autore, nella quale, per iscusar sè di dar precetti senza aver fatto nessuna opera di grido, osa asserire che anche Leon Batista Alberti e Baldassar Peruzzi non fecero alcuna fabbrica, contenti d’aver lasciato delle opere scritte; il che ognuno sa quanto sia contrario al vero.
[30] Antonio Possevino, gesuita, fece, a quanto sembra, molto conto del libro dell’Armenini, al quale concesse quasi tre pagine del suo libretto De Paesi et Pictura ethica, ecc., riportandone i principali argomenti, mentre poi non fece menzione di nessuna delle opere del Lomazzo.
[31] Io ho fatto fare diligenti ricerche in Roma di questo lavoro in argento, specialmente coll’ajuto del chiarissimo monsignor Marini, alla cui amicizia son debitore di molte utili notizie. Non se n’è però trovato conto alcuno, e avrà anch’esso corso la sorte di tante altre rare opere de’ primarj artefici, ch’essendo state fatte di metalli preziosi, giran ora in forma di monete; per lo che non sarebbe fuor di luogo il ripetere ciò che Petronio diceva al suo tempo, cioè che più diletta una massa d’oro, quam quidquid Apelles, Phydiasve græculi delirantes fecere.
[32] Il libro del Figino secondo il Lomazzo (vedi il Trattato a carte 632) era, composto di trenta fogli con diversi molini, torchi, presepi, ecc. Nel Tempio poi della Pittura si legge che tali macchine andavano per mozzo di cavalli (vedi questo libro a carte 17); e per l’appunto di bellissimi cavalli provegnenti da’ disegni del Vinci abbondano gli schizzi del Figino, de’ quali ragiono nel testo.
[33] Si legga la sua lettera a Carlo Emanuele di Savoja, posta in fronte all’edizione de’ Detti Memorabili, pubblicata in Torino del 1614, con molte aggiunte.
[34] Veggasi il primo volume del Diccionario historico pubblicato dal Bermudez a Madrid nel 1800, a pag. 251.
[35] Pag. 18 a tergo.
[36] En Sevilla, por Simon Faxardo ecc., 1649, 4.°
[37] Il Vasari dice che Raffaello fe’ ogni sforzo onde prendere la maniera di Leonardo; ma egli fosse realmente stato discepolo suo qualche tempo (il che poteva forse avvenire in Firenze), non avrebbe per onor d’entrambi lasciato di dirlo.
[38] L’epigramma che fu posto sotto un Cristo ignudo del Pacheco, è il seguente:
¿Quien os puso assi, Señor,
Tan desabrido, y tan seco?
Vos me direis, que el amor,
Mas yo digo, que Pacheco.
[39] Sfuggì al Du-Fresne un grosso errore geografico, ove ci fa navigar l’Adda per dugento miglia; nè lo scusa il veder ripetuto sì strano sbaglio da varj anche modernamente. Sono anche eccessive le lodi di cui ricolma l’Errard, pittore del quale il Possino non faceva alcuna stima. Ma i diviamenti dal vero, sia nel giudicare, sia nelle cose di fatto, i quiali s’incontrano nel Du-Fresne, non gli scemano il merito di aver reso pubblico con elegante edizione il Trattato del Vinci, che, incompiuto com’è, sempre è la migliore e più utile opera che nel suo genere esista.
[40] Odomenigico Lelonotti da Fanano e Britio Prenetteri che voglion dire Gioan Domenico Ottonelli da Fano e Pietro Berrettini.
[41] Alla pagina 73 della prima parte dell’Itinerario, stampato nel 1654.
[42] Queste parole del Fréart sono tolte dalla traduzione di Anton Maria Salvini che sporcò la sua penna con sì spregevole originale. Anche anticamente non mancarono critiche a Michelagnolo, come ad ogni altro grand’uomo è avvenuto; ma quegli autori che disapprovarono i suoi metodi o le sue invenzioni o le sue opinioni, non eccettuati i teologi, procedettero sempre con rispetto e moderazione; e per lo più hanno frammischiato alle accuse encomj grandissimi. Lo stesso Milizia che, pasciuto di letture francesi, satirizzò Michelagnolo goffamente, si è da poi disdetto, e lo chiamò per l’eccellenza nelle tre arti un uomo triplo. Certamente se il Fréart avesse voluto giudicare degli artefici della sua nazione co’ modi impiegati a giudicare il Buonarroti, credo avrebbe trovato il vocabolario sterile di termini ingiuriosi e villani.
Debbo qui avvertire che parlando della prima edizione del libello del Fréart, la dissi impressa a Mons sulla fede del Comolli, che aveva debito di essere esatto in cosa essenziale per la natura e l’argomento dell’opera sua. Avuto poi di recente il libro, il trovo impresso Au Mans. De l’Imprimerie de Jacques Ysambart etc. MDCLXII.
[43] Questo raro libercolo in 8.o piccolo fu stampato nel 1707 in Perugia pel Costantini.
[44] Il padre Resta sbaglia d’un braccio la sua misura: è nondimeno più esatto del signor De la Condamine, come in appresso si vedrà.
[45] Veggasi la pag. 185 del Tomo primo.
[46] Lettres historiques et critiques sur l’Italie, de Charles de Brosses etc., avec des notes etc., à Paris chez Ponthieu an. VII.
[47] La celebre Agnesi nacque in Milano il t6 maggio del 1718.
[48] Mémoires de l’Accademie roy. des Sciences, an 1757.
[49] Questi chiamavasi Giuseppe Guerra. Veggasi ciò che ne scrissero Zarillo e Paciaudi: veggasi anche la prefazione al secondo Tomo delle Antichità d’Ercolano.
[50] Era naturale che il La Lande volendo servirsi dell’autorità altrui per parlar del Cenacolo, scegliesse la peggiore; perciò si attenne a quella di M. Cochin, anzi parve volerlo emulare, facendo con esso lui a chi le dice più grosse.
[51] Il Richardson dice soltanto che è situato au-dessus d’une porte fort haute.
[52] Precisamente due secoli prima il Vasari aveva detto che nel Cenacolo non vedevasi che una macchia abbagliata.
[53] Anche il Chamberlaine ci fe’ navigare per l’Adda dugento miglia.
[54] Fra i giornalisti che ragionarono di Leonardo e del Cenacolo non si dee dimenticare Demetrio Pieri, corcirese, tolto alle lettere in età di anni ventiquattro. Egli inserì in un giornaletto letterario di Corfù un lungo articolo col quale si sforzò di confutare coloro che antepongono il Correggio a Leonardo. Volli lasciar memoria di questo erudito giovane per dimostrare quanto sia estesa la fama di Leonardo anche in que’ paesi ove le arti del disegno sono quasi del tutto abbandonate.
[55] Negli Elogi o Iscrizioni degli artefici, di Pier Leone Casella (Lugduni 1606), leggesi sotto l’articolo Inventio, Leonardus Vintius acutioris ingenii pervicacia intentatum reliquit nihil. Il Casella colse nel segno almeno in parte per Leonardo, ma non pesò egualmente bene i meriti de’ molti artefici che prese a lodare.

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