L’AUTORE.
Un vostro antenato[1] dello stesso vostro nome
fu discepolo, amico ed erede del divino Leonardo da Vinci, e senza strane
ingiurie di tempi e d’uomini, tra le rare cose da Voi stesso raccolte
vantereste ereditati i preziosi volumi lasciati da quell’artefice singolare, i
quali son ora tra’ primi ornamenti di varie reali biblioteche. Permettete
adunque che io v’intitoli, e con lieta fronte accogliete quanto ho potuto
radunare intorno alla maggior opera di quel sommo Pittore, tanto più che a ciò
non mi muove solo il nome e l’amor dell’arte che da quel suo discepolo
ereditaste, ma la mia riconoscenza all’amichevole protezione, colla quale mi
avete in ogni tempo cresciuto l’animo ne’ pittorici studj, unendo ai consigli
occasioni non volgari coll’operare. E come altro fine io non ho in questa
candida offerta se non che di darvi del riconoscente animo mio quel migliore
pubblico testimonio che per me si possa, non udrete qui il suono delle vostre
lodi; che nulla d’altronde per le mie parole si aggiungerebbe alla fama del
benefico vostro genio, nè il vostro nome è tale da ripararsi fra le oscure dediche
delle letterarie produzioni, da che Voi stesso provvedeste (dia sua vera gloria,
scolpendolo nelle menti e ne’ cuori degli uomini con isplendidi beneficj e coll’operosa
devozione alla patria.
DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI.
LIBRO
PRIMO.
INTRODUZIONE.
Ho deliberato di scrivere alcune cose intorno al Cenacolo
dipinto da Leonardo da Vinci nel convento delle Grazie in Milano, perchè ciò
che finora fu scritto di sì mirabile opera, non mi è sembrato bastare nè per la
curiosità degli eruditi nè per l’istruzione degli studiosi delle cose del
disegno. Sebbene mi manchi il tempo e l’ingegno sufficiente onde tessere tale
lavoro, che intero ottenga lo scopo di soddisfare agli uni ed agli altri; pure
in queste mie memorie spero di meglio ad esso avvicinarmi, che non fecero
coloro che in questo argomento mi precedettero, de’ quali altri poco o nulla
seppero di pittura, altri sapendone non istudiarono abbastanza l’opera per
degnamente parlarne. Nè altro fondamento so io vantare a sostegno di tale
lusinga, se non i maggiori e più lunghi studj da me fatti su questo prodigio
dell’arte, de’ quali ebbi speciale occasione in una copia che di esso mi venne
commessa dal Vicerè d’Italia. Considerato successivamente lo stato dell’originale
ed il modo col quale fui costretto a ritrarlo, e più le molte cose che l’esame
delle opere e de’ precetti dell’autore mi costrinse d’introdurre o di lasciare
nella mia copia, mi trovai a poco a poco sforzato a descrivere non solo l’opera
per sè, ma anche le varie copie che ne esistono, e finalmente la mia, rendendo
conto per tal mezzo di ciò che in essa potrebbe parer nuovo ed arbitrario,
perchè diverso o dalle stampe o dalle altre copie, o dai ritocchi da’ quali l’originale
fu deturpato. Per una naturale conseguenza e specialmente ad oggetto di
avvicinarmi, per quanto mi è stato possibile, alla mente dell’autore nelle
parti che ora sono perdute affatto, ho dovuto stendere le mie indagini sulle di
lui opinioni intorno varj rami dell’arte, sempre in tutto servendomi dell’autorità
o de’ suoi scritti o delle sue opere di disegno. Pel tal modo questa
descrizione, oltre il dare una idea più ampia del dipinto del Vinci a coloro
che non lo conoscessero, ed oltre qualche notizia che potrà somministrare alla
storia dell’arte, renderà manifeste le fonti alle quali io attinsi per, direi
quasi, ricomporre anzi che copiare questo lume della pittura, talchè se altri
avrà un’occasione pari alla mia, potrà, le sue aggiungendo alle mie fatiche,
portare sempre piri verso la perfezione la restituzione di sì degno originale.
A questi diversi fini uno ne aggiungo
per me di non minore importanza, quello cioè di recare qualche vantaggio a que’
giovani che praticano le arti del disegno, studiandomi in questo scritto, senza
la gravità spesso nojosa dei trattati, di raffinare la loro maniera, sia di
vedere le opere altrui, sia di comporre le proprie. Pei quali siccome per gli
altri che per diverse ragioni non isdegneranno di scorrere questo volume, mi è
sembrato comodo il dividerlo in quattro libri, riducendo così sotto un solo
punto di vista ciò che può essere più importante a tale o a tal altro lettore,
e non isforzando alla lettura, ai più tediosa, di tutto lo scritto, onde avere
sott’occhio ciò che ciascheduno preferisce a norma de’ proprj studj. Perciò in
questo primo libro darò ragguaglio degli autori che scrissero del Cenacolo: il
secondo ne conterrà la descrizione; nel terzo ragionerò delle copie: nel quarto
finalmente tratterò alcuni altri argomenti che a questa dipintura possono aver
relazione o direttamente o rispetto all’autore.
Intanto non solamente per chi fosse sì
digiuno della storia pittorica da ignorare chi e qual fosse Leonardo, ma per
quelli pure che amano richiamarsi prontamente a memoria l’epoche più importanti
della sua vita, spero che anche da coloro alla cui dottrina si fa torto
rammentandole, mi verrà concesso di qui brevemente accennarle. Io non prometto
in questo compendio nè nuove cose nè pellegrine notizie: mio solo vanto è il
non sostituire errori del mio, ove tralascio di copiare gli altrui; l’esporre
le congetture unicamente per tali, e non per fatti come fanno taluni; e il dare
in fine per fatti soltanto quelli che sono provati e sostenuti da una o più
ragionevoli autorità, e che non sono in contrasto colle storie contemporanee di
cose maggiori.
COMPENDIO
DELLA VITA DI LEONARDO.
Leonardo, figlio di Piero e d’una ignota donna da questo
amata probabilmente prima del suo matrimonio con Giovanna Amadori, nacque in
Vinci l’anno 1453. La bellezza, la grazia e gl’indizj d’un ingegno maraviglioso
lo distinsero fino dall’infanzia. Destro, irrequieto, intraprendente, si provò
e riuscì nelle cose più difficili, e specialmente in quelle che si compongono
del doppio artificio della speculazione profonda della mente e della industriosa
ed elegante imitazione della mano. Scoperta il padre una tal indole che porta
con forza l’ingegno e l’animo verso le arti del disegno, il pose sotto la
disciplina di Andrea Verocchio che tutte le professava lodevolmente. Egli
progredì tanto nell’esercizio di esse che in breve tempo fece cose per l’età
sua mirabili, specialmente in pittura ed in plastica. Pare che la sua
emancipazione dalla scuola del Verocchio avvenisse allorchè questi, vedendosi
vinto in pittura dal discepolo, non volle più dar mano ai pennelli. Se un tal
fatto eccitò tanta meraviglia, dee necessariamente essere avvenuto nella prima
età di Leonardo: di fatto il Vasari, cui però vuolsi credere con discrezione,
lo chiama a questa epoca giovinetto,
anzi fanciullo. Giovami di ciò osservare,
onde far vedere che al pari di Michelagnolo, di Raffaello e di altri molti che
in qualsivoglia facoltà apersero con gloria una strada mal tentata o
sconosciuta, anche Leonardo lasciò di buon’ora la scuola, e da solo attese allo
studio della natura che direttamente e non per mediatori ama di confidare i
suoi segreti agl’ingegni che predilige.
Che si facesse Leonardo in questa prima
epoca della sua vita pittorica, è assai incerto. Sì in questo tempo come nel
seguente, la tradizione è spesso in lite colla critica. Si dice che vivesse
splendidamente, e che quantunque di sua casa non ricco, signorilmente
esercitasse le varie sue professioni, mantenendosi servi e cavalli. Da ciò
apparisce ch’egli guadagnasse assai, e questo difficilmente avviene a giovane
artefice che poco si affatica. Però è da credere che a torto sia stato di ciò
accusato.
Gli uomini d’ingegno pronto ed acuto,
che sciolti dagl’inviluppi delle false discipline cercano da sè stessi il vero
nella natura, imparano rapidissimamente; e sebbene diano gran tempo allo
studio, ne avanza loro ancora molto da consumare nelle brigate, fra le quali
per lo più non sono spinti da vana curiosità e da leggerezza, ma dal desiderio
di conoscere i costumi degli uomini, scienza non men che al filosofo necessaria
al pittore. Il tempo che Leonardo spendeva allo svagarsi, non era perduto per l’arte,
come i suoi precetti in più luoghi ne fanno fede. Che se si legge nelle storie,
che grandissimi re e legislatori e filosofi gravissimi solean rallegrare i loro
ozj con piacevolezze che agl’ignoranti sembrano indegne di quelle alte
condizioni; non sarà da farsi stupore in vedere i men gravi magisteri delle
arti della fantasia accompagnati da qualche lieta bizzarria di costume. Il vero
artefice, pari al filosofo, non esce di scuola che coll’uscir di vita, ed a
ragione l’Aretino Bruni là dove parla della meraviglia che Dante eccitava
attendendo a un tempo ai profondi studj scientifici d’ogni maniera, alle cose
dello stato ed agli scherzi e a’ giuochi de’ giovani suoi pari, a ragione, dico,
si ride di coloro i quali credono che per apprendere qualche arte o scienza sia
necessaria la severa e continua solitudine e selvatichezza. Ma per tornare a
Leonardo che con questa corta digressione volli difendere dalla taccia datagli
da taluni, di distratto e bizzarro, io penso che in quegli anni suoi primi gli
si possano attribuire quelle sue pitture che tengono ancora della maniera
vecchia, e che sebbene non manchino di forza nel chiaroscuro, sono languide di
colorito e peccano di livido.
Per molte ragioni che forse mi avverrà
di più diffusamente esporre in seguito, io son d’avviso che Leonardo partisse
assai per tempo da Firenze, non sembrandomi sopra tutto credibile che ne sia
uscito mentre principe di quella città fioriva con tutte le arti belle il
magnifico Lorenzo de’ Medici, il quale fu chiamato a dirigere lo stato fino dal
1470. Avrà dunque o intorno a tal anno o ben pochi anni dopo lasciata la sua
patria, onde altrove cercare occasione d’impiegarsi nell’arte e poter godere di
quella quiete tanto ai buoni studj necessaria, che sotto il governo debole di
Pier di Cosimo fu sempre mal sicura fra le congiure, le parti e le guerre, nè
parea potere prontamente ristabilirsi nel nuovo ordine di cose che Lorenzo
andava componendo. Giudico che fin d’allora ei si recasse in Lombardia ed a
Milano, qui forse chiamato dal generoso premio della decantata rotella
comprata, a quanto si può congetturare, dal duca Galeazzo allorchè nel 1471 si
recò pomposamente a Firenze colla moglie.
Continuati in Milano i suoi studj e
rendutosi in processo di tempo famoso, preparossi a poco a poco la strada alle
grandi opere cui dee principalmente la sua riputazione. Che non rimanga ricordo
de’ lavori suoi di quel primo tempo, non è meraviglia, perchè forse versarono
principalmente intorno alla meccanica militare, arte che non suole di sè
lasciare piacevoli memorie; e ciò lo induco da una sua lettera in cui assai più
che delle altre arti che pure egregiamente professava, egli fa gran pompa di
questa, e vanta, probabilmente a buon diritto, grandi invenzioni che suppongono
le ricerche e l’esperienza di molti anni.[2] Nè senza fondamento
potrebbe anche taluno arguire che in Lombardia egli venisse, proponendosi di
fare la statua equestre di Francesco Sforza, della quale opera è verisimile che
vi fosse pubblico argomento immediatamente dopo la morte di quel grand’uomo,
come può giudicarsi da alcuni versi del Taccone, che pongo fra le note,[3] e da un modello che allo
stesso oggetto fa eseguito dal Verocchio. Forse anche il chiamò fra noi il
lieto principio del governo di Galeazzo Maria che pari a Nerone ebbe nei primi
anni nome di ottimo e liberalissimo principe. Chè se poi non si volesse credere
sì antico fra noi, parmi non si possa il suo spatriamento collocare più tardi
del ritorno di Lodovico dalla relegazione di Pisa nel 1477, alla qual
congettura potrebbe in qualche modo rispondere un passo del Bellincione.[4]
Salito ultimamente al governo della
Lombardia Lodovico il Moro che fece velo alla sua tirannide col prestar favore
a tutte le nobili discipline, la sorte di Leonardo fu stabilita. Una
ricchissima pensione e i replicati generosi doni del principe lo misero in
istato di attendere alle arti con tutti que’ comodi di che lo studio ed il
liberale esercizio di esse abbisogna. Allora fu ch’ei rifondò l’accademia
milanese, istituendone una nuova cui diede il suo nome, e insegnandovi tutto
ciò che al disegno appartiene, col fondamento delle scienze e colle attrattive
dell’eloquenza, nella quale era maraviglioso non solo per l’avvenenza dell’aspetto
e per la grazia de’ modi e del sermone natio, ma per la forza del sentimento,
per la perspicuità delle sentenze e per la profondità della dottrina.
Oltre minori opere delle quali è assai
incerto il catalogo e l’esistenza, ebbe allora l’incarico del gran Cenacolo
delle Grazie e del colosso equestre del duca Francesco. Questi due grandiosi
lavori l’occuparono probabilmente tutto il tempo ch’ei servì la corte presso
Lodovico. Sedici anni impiegò egli a fare il modello del colosso: quanti si può
giudicare che ne impiegasse al Cenacolo, si dirà in altro luogo. La direzione
dell’accademia di pittura e di molte opere d’ogni genere, lo studio delle
scienze tutte, ma specialmente delle idrauliche e delle meccaniche, l’esercizio
dell’architettura, il passatempo in fine della musica e della poesia, avranno
renduto assai brevi le ore che a Leonardo avanzavano dalle dette due grandi
opere di scultura e di pittura.
Caduto il Moro nel 1500, e involta la
Lombardia in tristissime vicissitudini, o fosse amore di patria riacceso dall’avversa
fortuna, o fosse quello stesso amore della quiete che io suppongo lo
allontanasse da Firenze durante la tempesta civile del governo di Piero, egli
vi si restituì e vi fece il famoso cartone della sant’Anna, non tralasciando
gli altri suoi studj. Nel 1504 viaggiò gran parte d’Italia, stipendiato dal
duca Valentino, come architetto militare.[5]
Tornato nuovamente a Firenze, fece il
celeberrimo cartone della Vittoria d’Anghiari, col quale, come già a Milano col
Cenacolo e col Cavallo, diede in patria un luminoso saggio della sua nuova
maniera della quale gli artefici tutti approfittarono, non eccettuati
Michelagnolo e Raffaello. Mentre piegavano in meglio le cose di Lombardia nel 1507,
egli ritornò a Milano, ed ebbevi stipendio dal re di Francia. Dopo altri viaggi
o incerti o poco importanti, recossi a Roma nel pontificato di Leone, ma poco
vi si trattenne, male accomodandosi la sua vita filosofica ed il suo lento
meditare le proprie opere, ad una corte romorosa, brigante ed avvezza in fatto
d’arti, specialmente dopo la furia di Giulio, a veder prontamente poste ad
effetto imprese grandissime da artefici risoluti, vivacissimi, quali erano
Bramante, Raffaello e Michelagnolo. In traccia sempre di quella tranquillità
che se in Toscana e in Lombardia gli venne turbata ora dalle fazioni, ora dalle
vicende della guerra, venivagli tolta in Roma dalla vigile emulazione e forse
dalle brighe, non de’ suoi grandi rivali, ma de’ cortigiani loro fautori, s’appigliò
al partito di andare in Francia agli stipendj del gran re Francesco. Ivi poco
operando si trattenne fino alla sua morte che avvenne il 2 di maggio del 1519 a
Cloux, e secondo alcuni scrittori, nelle braccia stesse del re. Della quale
circostanza, osservato il silenzio del Melzo ed alcuni passi del Lomazzo[6] e d’altri, e più le
recenti ricerche del chiarissimo signor Venturi, la critica non può ammettere l’incerta
tradizione, che d’altronde fa assai più onore al re Francesco che a Leonardo.
Pochi lavori sembra che facesse in sua
vita questo artefice sommo, il quale, profondissimo indagatore della
inesauribile natura, ora trovava, ora imaginava nuove perfezioni, seguendo le
quali non sapea torre le mani dalle sue opere, e tutte a parer suo le lasciò imperfette.
Questa lodevole insaziabilità, propria de’ grandissimi ingegni, diminuì
certamente il numero delle sue produzioni, ma ne accrebbe il pregio e l’eccellenza.
Se si crede ai cataloghi che delle sue opere si leggono, ed ai tanti Leonardi
che vantano le gallerie e i mercanti di quadri, si troverà fuor di dubbio
ingiusta la taccia data da più scrittori a questo grand’uomo, d’aver poco
dipinto; ma chi osservasse con cognizione la maggior parte delle opere
attribuitegli, troverebbe forse ingiusti altresì gli elogi che da tre secoli
gli si danno, per la perfezione con cui soleva condurle, e della quale sono
testimonio le opere veramente sue, e specialmente il Cenacolo per la parte che
ne rimane, e il ritratto di monna Lisa che ancora si ammira in Parigi.[7] Quale de’ due partiti sia
il ragionevole, è facile il giudicarlo. Certo parmi però, che chiunque si porrà
a considerare il gran numero delle sue invenzioni in meccanica, le grandi opere
idrauliche da lui condotte, i trattati che di molte facoltà ei compose; chi
esaminerà, a dir tutto in breve, quanto debbangli tutte le scienze e tutte le
arti, non troverà ch’egli abbia poco operato di pittura e di rilievo, quando
non facendo parola dei varj ritratti e storie minori, si abbia riguardo alla
grandezza ed importanza delle tre maggiori sue opere, il Cenacolo, il Cavallo e
la Vittoria d’Anghiari, tutte ora quasi interamente perite con incalcolabile
danno dell’arte. L’angusto confine d’un compendio non mi permette di qui
parlare delle altre opere sue, nè de’ suoi scritti de’ quali mi venne fatto di
scoprirne alcuni del tutto sconosciuti ed importantissimi. Mi limiterò dunque a
dire che Leonardo, una intera età prima di Galileo, di Bacone e degli altri
luminari della moderna filosofia, pose per fondamento universale d’ogni
scienza, l’osservazione della natura e l’esperienza: che primo spinse le arti
del disegno alla perfezione degli antichi; che in fine fu superiore al suo
secolo in ogni parte dell’umano sapere e che in molte parti di esso non è stato
ancora dai moderni sorpassato.
SCRITTORI
CHE FANNO MENZIONE DEL CENACOLO.
Troppo lungo sarebbe il qui riportare l’intero
catalogo degli autori, specialmente moderni, che parlarono del Cenacolo;
accennerò dunque i principali soltanto che giunsero a mia notizia; e
cominciando dai più antichi, scenderò per ordine fino a quelli de’ tempi nostri,
dandone più o men lungo ragguaglio a seconda dell’importanza e della rarità
delle loro opere.
LUCA
PACIOLO.
(1498)[8]
Il primo ne’ cui scritti veggo lodata questa
pittura, è frate Luca Paciolo dal Borgo S. Sepolcro. Nella prima sua opera
pubblicata sul finire dell’anno 1494, che ha per titolo Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità,
sebbene si faccia onorevole ricordo di molti artefici illustri, di Leonardo non
si parla affatto; il che fa congetturare che non solo Leonardo fu ignoto di
persona al frate innanzi che questi venisse alla corte del Moro, ma che la fama
sua non era a quel tempo uscita di Lombardia, nè prima, come il Vasari fa
credere, stabilita altrove. Perchè siccome il frate aveva avuto prima di quell’epoca
stanza e commercio in tutte le grandi città d’Italia, eccetto Milano, se avesse
trovato grande il nome di Leonardo o a Firenze o altrove, non l’avrebbe
dimenticato là dove nomina tanti artefici inferiori a lui. Ciò volli dire per
avvalorare la mia congettura che Leonardo uscisse di Toscana innanzi al fiorire
del governo di Lorenzo, e che fra noi facesse gran parte de’ suoi studj e
ottenesse quella riputazione che gli diede in seguito il primato fra i suoi
pari.
Nella seconda opera poi dal Paciolo
composta intorno al 1498, che venne alla luce nel 1509 e che porta per titolo Divina Proportione, non solo si parla di
Leonardo e del Cenacolo, ma ancora del famoso colosso equestre di cui il
Paciolo dà esattamente la misura, e fin anche il peso del metallo che vi
abbisognava per fonderlo. Nella dedica al Soderini ci assicura che le figure
del codice della Divina Proporzione erano di mano di Leonardo.[9] È ivi da osservare l’inesatta
espressione Schemata … Vincii nostri
Leonardi manibus scalpta, la quale fece dire al Tiraboschi dove parla di
tal opera, Aggiuntevi le figure scolpite
per mano di Leonardo da Vinci, nel qual caso si doveva dir disegnate. Nel
primo capitolo diretto al Moro accenna un consesso tenuto avanti a lui il dì 9
di febbrajo del 1498, al quale intervennero gli uomini della corte più distinti
per dignità e per sapere, e fra questi era Leonardo da Vinci, qual, dic’egli, de scultura, getto e pittura con ciascuno el cognome verifica, cioè
vince tutti.[10]
A prova di questo freddo elogio; dopo aver citata e descritta la statua
equestre di Francesco Sforza, rammenta il ligiadro
de l’ardente desiderio de nostra salute simolacro nel degno e devoto luogo de
corporale e spirituale refectione del sacro tempio de le Gratie de sua mano
penolegiato.
Nel capo III enfaticamente lodando la
pittura, Ohimè, dice, chi è quello che vedendo una ligiadra figura
con suoi debiti liniamenti ben disposta, a cui solo el fiato par che manchi,
non la giudichi cosa più presto divina che umana? E tanto la pictura imita la
natura quanto cosa dir se possa. El che agli occhi nostri evidentemente appare
nel prelibato simulacro de l’ardente desiderio de nostra salute, nel qual non è
possibile con maggiore attentione vivi gli apostoli imaginare al suono de la
voce de l’infallibil verità, quando disse: UNUS VESTRUM ME TRADITURUS EST. Dove con acti e gesti l’uno a l’altro,
e l’altro a l’uno con viva e afflicta admiratione par che parlino, si
degnamente con sua ligiadra mano el nostro Lionardo lo dispose.
Al capo XXIII, avendo negli antecedenti
parlato de’ tredici principali effetti della sua divisione proporzionale, si
protesta di non voler oltrepassare questo sacro numero a reverentia de la turba duodena e del suo sanctissimo capo … del qual
collegio, continua il frate, comprehendo
V. D. Celsitudine havere singolar devotione per haverlo nel preaducto luogo
sacratissimo tempio de Gratie dal nostro prefacto Lionardo con suo ligiadro
penello facto disporre.
Al capo VI delle cose architettoniche
ci assicura di nuovo ciò che disse al Soderini intorno alle figure de’ corpi.
Ho sperato invano qualche più utile notizia del Cenacolo, a compenso della
nojosa lettura di questo libro del quale avrò nonostante occasione di parlare
altrove.
Parmi dover qui avvertire essere
necessario di procedere con cautela nel prestar fede alle proposizioni di
questo autore. L’incerto ed imbrogliato suo fraseggiare è cagione di mille
dubbj, ed ha indotto molti in errore. Egli introdusse con pessimo esempio, e in
ciò fu forse il primo, lo stile contorto, affettato e ripieno di tropi, che in
quel tempo applaudivasi sul pergamo, nelle materie didascaliche che più d’ogni
altra esigono scrupolosa lindura, semplicità e proprietà, sia ne’ vocaboli sia
ne’ modi. La maniera con cui all’epoca del libro, non già della stampa di esso,
cioè al principiare dell’anno 1498, descrive il colosso equestre, lo fa credere
fuso in bronzo. Il secondo e terzo passo qui sopra citati intorno al Cenacolo
fanno quasi sospettare che quest’opera non fosse a quel tempo condotta al
termine a cui lasciolla l’autore, ma soltanto disposta, cioè abbozzata. La frase che indicai usata per dire di
Leonardo le figure del libro della Divina Proporzione, fa pensare che quelle
fossero incise in rame o in legno. Un passo[11] dove parla della sua
partenza da Milano farebbe credere che soli tre anni fosse stato Leonardo
pensionato dal duca Lodovico. E così dicasi di altri luoghi di detta opera che
ogni paziente può esaminare, e che risvegliano non irragionevoli congetture di
cose false. Intorno ai dubbj qui sopra indicati esistono fortunatamente notizie
e ragioni in contrario che tolgono ogni pericolo di errore: ma si può da questi
imparare con quanta precauzione, in grazia delle frondose sue frasi, si deliba
usare della sua autorità nelle cose che da altri autori non vengano dichiarate
o confermate. Ad ogni modo però le sue opere, sebbene ora quasi dimenticate,
sono per molti titoli assai pregevoli, ed è certo che le Matematiche gli hanno
gran debito, come può vedersi nello Ximenes ed in altri. Se egli poi siasi o no
fatto bello delle opere di Piero della Francesca suo maestro, come attesta
solennemente il Vasari, è difficile il chiarirlo ad evidenza, nè vi riuscì il
Tiraboschi. Il Della Valle, confratello del Paciolo perchè anch’egli dell’ordine
di san Francesco, il difende assai debolmente colla gran fama della quale
godeva in Italia e con altre men forti ragioni. La lettura de’ suoi libri mi ha
posto in istato di addurne una più valida, e che sola a mio parere può bastare
all’intento. Il Tiraboschi e il Della Valle credettero morto Piero della
Francesca prima d’assai che non fu in fatti; e l’opinione ch’egli abbia cessato
di vivere intorno al 1484 fu anche ultimamente accreditata dall’egregio abate
Lanzi nell’ultima impressione della sua Storia Pittorica. Se gli autori che
scrissero del Paciolo, avessero letto la sua Summa de Arithmetica stampata nel 1494,[12] avrebbero trovato farvisi
al bel principio menzione di Piero col nome di Monarca a li tempi nostri della Pictura, il che non avrebbe detto s’egli
era morto: che s’ei ripete la stessa enfatica frase al capo XIX delle cose di
architettura scritte nel 1509 a Venezia, vi aggiunge quanto basta onde far
credere che a quel tempo più non vivesse. Più chiaramente poi, a tergo della
pagina 68 parlando di Piero con nuove lodi, lo dice non solo, a li dì nostri ancor vivente, ma
recentemente autore d’un degno libro di prospettiva, nel qual altamente de la pictura parla ponendo sempre al suo dir ancora
el modo e la figura del fare. El quale, continua frate Luca, tutto habiamo lecto e discorso: el qual lui
feci vulgare; e poi el famoso oratore poeta e rhetorico greco e latino suo
assiduo consotio, e similmente conterraneo maestro Matteo lo recò a lengua
latina ornatissimamente de verbo ad verbum con exquisiti vocaboli. De la quale
opera de le 10 parole le 9 recercano la proportione. E così con instrumenti li
insegna proportionare piani e figure con quanta facilità mai si possa e vie
apertissime ecc. So bene che la Summa
sarà stata composta in parte alcuni anni prima, come apparisce in qualche luogo
dell’opera e specialmente nell’articolo Idem
notandum de caratteribus algebraticis, a tergo della pagina 67, dove si
legge una data di Perugia del 1487. Ma siccome l’edizione fu fatta sotto gli
occhi del frate, e dice egli stesso in fine che hanc summam... impressoribus assistens che noctuque proposse manu
propria castigavit, non è da credere che vi lasciasse correre errori di
fatto si gravi, come il dir vivo il famoso suo maestro quando a quel tempo
fosse stato morto.
Se poi il libro lungamente qui sopra
descritto sia lo stesso che quello citato nella dedica al duca d’Urbino e che
chiama Compendioso tractato de l’arte
pictoria e de la lineal forza in perspectiva, il lascio volentieri all’altrui
giudizio. Ciò che parmi sicuro egli è che se in un uomo distinto e stimato per
tanti titoli, qual era il Paciolo, è improbabile il plagio, supponendo morto l’autore
dell’opera trafugata, diventa una impudenza incredibile e del tutto nuova negli
annali delle ruberie letterarie, lo spacciare per propria un’opera altrui, vivente
l’autore, dedicandola a tali uomini quali erano il Moro, Guidubaldo da
Montefeltro e Pier Soderini. Il che se il frate avesse fatto, come attesta il
Vasari, più assai col titolo di pazzo che di sfacciato parmi dovrebbesi
nominare; perchè o da que’ principi o dai letterati delle lor corti, l’impostura
sarebbe stata immediatamente scoperta, e l’impostore ne avrebbe avuto danno e
vergogna perpetua. Restami a notare che il Vasari istesso nella seconda
edizione ch’ei pubblicò delle Vite, tralasciò l’epitaffio di Piero che aveva
stampato nella prima, nel quale veniva infamato il Paciolo,[13] la qual cosa fa supporre
che l’autore dell’epitaffio avesse cangiato opinione intorno al frate, e
temesse di offenderlo senza ragione. Aggiungasi in fine che il Paciolo promette
di dare un compendio da lui fatto dell’opera[14] del suo maestro, con che
si prova quanto ei fosse lontano dal defraudarlo non che del libro, della lode
dovutagli, da lui anzi con cieco amor patrio esagerata ad ogni occasione. Della
quale esagerazione, perdonabile ad un riconoscente discepolo, può esser
testimonio la citata frase di monarca
della pittura, con cui Piero fu da lui esaltato, non solo nella Summa pubblicata nel 1494, ma anche nel
Trattato architettonico del 1509, epoca in cui Milano e Firenze godevano le
meravigliose opere del Vinci e del Buonarroti, e Roma già vedea risorgere in
Vaticano per mano di Raffaello l’antica eleganza de’ Greci e de’ Romani.
Ma il Vasari non fu il solo nemico
della memoria del Paciolo. Un altro più antico accusatore di questo povero
frate fu Goffredo Tory de Bourges che pubblicò in Parigi l’anno 1529 il suo
curioso libro intitolato Champ fleury,
nel quale diede le proporzioni delle lettere attiche, dette romane o antiche, regolate secondo il corpo e il
viso umano, opera stravagante, ma ricca di varia erudizione, e nella quale si
fa menzione di varj artefici italiani. A tergo della pagina xxxiv pretende questo autore di
correggere il frate sulla proporzione della lettera A, e citando due righe
della sua Divina Proporzione, osa dire ch’ei ragiona di tal cose come un prete
ragionerebbe d’armi, e che cominciando a sbagliare dalla prima lettera, allo
stesso modo procede in tutte l’altre, come qua e là pel libro si studia d’avvertire.
Il quale rimprovero è esagerato non solo, ma del tutto disdicevole nel Tory che
mentre accusa il Paciolo in cose piccolissime, ne copia tutto il sistema con
poche aggiunte o riforme, come prima di lui, senza dirne nè bene nè male, aveva
fatto Alberto Durero. Aggiunge poi ciò che più mi preme di qui notare, cioè ch’egli
aveva inteso dire che l’opera del Paciolo fosse stata da lui segretamente
rubata al feu messire Leonard Vince, qui
estoit grant Mathematicien, Paintre et Imageur.
Ma di ciò non adduce il Tory prova veruna,
ed egli che fu in Italia e a Roma, e che potè conoscere Leonardo in Francia,
avea facile via di verificare ciò che aveva udito susurrarsi, nè avrebbe
mancato di farlo, qualora per effetto delle sue ricerche avesse sperato
verificare la colpa del frate, non l’innocenza. Ma contento di screditar l’opera
del Paciolo onde dar credito alla sua, nè potendo positivamente asserir nulla
del suo plagio, si accontenta di dargli mala voce, con che non si accorge di
una patente contraddizione, cioè che poco dopo aver detto che il Paciolo tratta
della forma delle lettere, comme clerc d’armes,
dice che il lavoro dato per suo era del grande matematico, pittore e scultore
Leonardo. Col qual colpo in fallo verrebbe a dire che Leonardo parlava di tali
cose da presontuoso ignorante, il che non accordandosi con gl’infiniti elogi da
lui ripetuti a questo grand’uomo, scuopre all’evidenza la sua cattiva fede
contro frate Luca. Chè se poi il frate si fosse servito per l’opera delle
lettere della mano di Leonardo, non avrebbe mancato di parlarne onde accrescer
pregio al suo lavoro, come fece pei corpi regolari da Leonardo delineatigli.
Con tale ingenuo modo egli si professava di cavare la maggior parte della sua
grande opera, non solo da Euclide e da Boezio, ma da Leonardo da Pisa, dal
Giordano, da Biagio da Parma, da Giovanni Sacrobosco e da Prodocimo Padovano. E
se finalmente il frate avesse tolto a Leonardo il sistema delle lettere, il che
sarebbe avvenuto di reciproca intelligenza, ciò in sostanza è sì poca cosa per
un tanto artefice, e sì piccola parte della gloria matematica del frate, che la
fama di questo non avrebbe detrimento da tale mancanza o superchieria, anche
qualora venisse provata.[15] Mi rimane ad avvertire
che dopo tante vane ricerche la fortuna mi ha renduto nel mio ultimo viaggio d’Italia
possessore del libro di Prospettiva di Piero della Francesca, prezioso codice
colle figure di sua mano e colla traduzione latina di Matteo dal Borgo, quale
in somma il Paciolo lo descrive; e nulla in esso si legge che il Paciolo abbia
usurpato nelle opere sue. Solo dalla maniera di molte teste in tal codice
disegnate, si scorge ad evidenza che le due incise in legno nel libro della
Divina Proporzione sono prese da disegni di Piero, e male furono da taluni
attribuite a Leonardo; e da ciò si può congetturare che anche le cose
architettoniche abbiano la stessa origine, perchè, al pari delle accennate
teste, sono di troppo lontane e dallo stile di Leonardo e dalla perfezione cui
questi era giunto tanti anni prima dell’epoca di quel libro.
Dalle quali osservazioni, sfuggite alla
diligenza del Tiraboschi, del padre Della Valle e d’altri che parlarono di
questo autore, sembrami aver sufficiente argomento onde assicurargli la
proprietà e il merito de’ suoi scritti. Bramo mi sia perdonato questo lungo
diviamento dalla materia: io ho creduto di dovermivi abbandonare per conservare
all’Italia in frate Luca, non l’inventore delle lettere attiche, che ciò poco
monterebbe, ma uno de’ ristauratori delle matematiche, il cui nome, siccome di
plagiario, sarebbe scomparso dalla storia letteraria, o vi sarebbe rimasto con
infamia. Così, restituendogli il suo senza tor nulla a Piero della Francesca,
parmi d’aver fatto due grandi uomini di coloro de’ quali il Vasari volea fare
un solo, seguendo inconsideratamente una falsa tradizione.[16]
GIORGIO
ROVEGNATINO.
(1500)
Da un Dialogo ms.
di Giorgio Rovegnatino col Taegio, opera ch’esisteva presso i domenicani alle
Grazie, trasse il Pino[17] il seguente passo circa
il Cenacolo: Quæ vero in refectioms domo,
ipsius (Ludovici) pariter jussu, apostolorum tabula depicta est, quam multorum
per longissimas horas defixit obtutus. E a lungo e più volte debbonsi
osservare le opere famose da chi ne brama vera istruzione e vero diletto.
POMPONIO
GAURICO.
(1503)
Nel Libro de Sculptura
di Pomponio Gaurico si loda il Vinci in ispecie pel Cenacolo e pel Cavallo. Postremo (commendatur), ecco le parole
dell’autore, et ipse Alverochii
discipulus Leonardus Vincius, equo illo, quem ei perficere non licuit, in Bois
maximo, Pictura Symposii, nec minus
et archimedæ ingenio notissimus.
RAFFAELLO
MAFFEI.
(1516
= 17)
Ne’ Commentarj urbani di Raffaello Volterrano al libro XXI
dell’Antropologia, là dove l’autore ricorda alcuni illustri artefici e qualche
lor opera principale, a ragione cita il Cenacolo in proposito di Leonardo. Leonardus Vincius, dic’egli, XII Apostolos Mediolani in æde divæ genitricis
de gratiis, opus prædicatissimum (vi si sottintende dipinse). Scrisse il
Volterrano un tal passo poco dopo il 1516, come apparisce dalla morte di
Giovanni Bellino, ivi presso accennata come caso recentissimo.[18] L’inesattezza circa il
luogo ove trovasi la pittura, è compensata dal giudizio nella scelta dell’opera
che l’autore elesse per saggio del valor dell’artefice. Il contrario fecero a
gran torto il Moreri e il Milizia che molte inutilità affastellarono ne’ loro
brevi articoli sul Vinci, e del Cenacolo non fecero parola.[19]
BERNARDINO
ARLUNO.
(1520
= 30)
Tra i molti valenti uomini di ogni
facoltà riccamente stipendiati da Lodovico il Moro, novera l’Arluno Leonardum pictorem mollissimum, cujus in hunc
diem picturæ vivunt. Quantunque il Cenacolo non sia qui specificato, è
chiaro accennarvisi complessivamente; e il non leggersi anzi in questo passo
verun ulteriore ragguaglio di tal opera, fa pensare che all’epoca dello scritto
dell’Arluno non avesse essa sofferto alcun detrimento notabile. Questo lezioso
latinista scrisse prima del 1530, e le parole qui citate si leggono alla pagina
56 dell’edizione delle sue storie, procurata dal Magioragio in Basilea co’
torchj dell’Oporino, e al foglio 98 del codice ambrosiano della stessa opera.
PAOLO
GIOVIO.
(15..)
La vita di Leonardo scritta latinamente
dal Giovio, e già fatta pubblica dal Tiraboschi, doveva ricomparire alla luce
unita a quelle di Michelagnolo e di Raffaello similmente stampate nella Storia letteraria, illustrate tutte da
copiose note del conte Anton Giuseppe Rezzonico. Questo eruditissimo scrittore
dopo averle tutte tradotte in italiano, o il seducesse l’amenità dell’argomento
o l’allettasse la messe abbondante de’ materiali raccolti per le note, s’invogliò
di fare una più ampia storia di Leonardo nelle due lingue; ma qual che ne fosse
la cagione, sgraziatamente non la condusse a termine. Il signor Marco Cigalini,
degno erede de’ Rezzonici, mi ha cortesemente comunicato l’autografo dal quale
si comprende che il conte Anton Giuseppe non era contento del modo con cui le
dette vite furono pubblicate, e che riconosciutivi molti errori e mancamenti,
pubblicando la sua di Leonardo, pensava a quella premetterle corredate di varie
illustrazioni. La nuova vita del Rezzonico, quantunque sembri la metà circa di quello
a che parrebbe doversi estendere, non giunge a descrivere il Cenacolo, e un
solo foglio volante che alla descrizione di questa opera appartiene, comecchè
lo scrittore appaja sempre buon critico nelle cose storiche, nol prova tale
nelle cose della pittura. Imperocchè in quel foglio dice finita la testa del
Salvatore, e loda la mediocrissima copia del Lomazzo, eseguita da questo negli
anni giovanili senza badare altrimenti all’originale, con pessimo colorito e
con grandissime scorrezioni di disegno.
La brevità e l’eleganza dell’opera mi
consiglia di qui riprodurre intera e corretta la vita del Giovio, alla quale
unisco la traduzione del Rezzonico.
Ex
codice Paul. Jovii extante in bibliothecula
Antonii
Joseph a Turre Rezzonici.
Leonardi Vincii vita.
Leonardus
a Vincio, ignobili Etruriæ vico, magnam picturæ addidit claritatem, negans ab
iis recte posse tractari, qui disciplinas nobilesque artes veluti necessario
picturæ famulantes non attigissent. Plasticem ante alia penicillo præponebat,
velati archetypum ad planas imagines exprimendas. Optices vero præceptis
nihil antiquius duxit, quorum subsidiis fretus luminum et umbrarum rationes
diligentissime vel in minimis custodivit. Secare quoque noxiorum hominum
cadavera in ipsis medicorun scholis inhumano fædoque labore didicerat, ut varii
membrorum flexus et conatus ex vi nervorum vertebrarumque naturali ordine
pingerentur. Propterea
particularum omnium formam in tabellis usque ad exiles venulas interioraque
ossium mira solertia figuravit, ut ex eo tot annorum opere infinita exempla ad
artis utilitatem excuderentur. Sed dum in quærendis pluribus angustæ arti
admimculis morosius vacaret, paucissima opera levitate ingenii naturalique
fastidio, repudiatis semper initiis, absolvit. In admiratione tamen est
Mediolani in pariete Christus cum discipulis discumbens, cujus operis libidine
adeo accensun Ludovicum regem ferunt, ut anxie spectando proximos interrogavit
an circumciso pariete tolli posset, ut in Galliam vel diruto eo insigni Cænaculo
protinus asportaretur. Extat et infans Christus in tabula cum matre Virgine
Annaque avia colludens, quam Franciscus rex Galliæ coemptam in sacrario
collocavit. Manet etiam in comitio Curiæ Florentinæ pugna atque Victoria de
Pisanis, præclare admodum sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores
juglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis; cujus inexpectatæ
injariæ justissimus dolor interrupto operi gratiæ plurimum addidisse videtur.
Finxit etiam ex argilla colosseum equum Ludovico Sfortiæ, ut ab eo pariter æneus
superstante Francisco patre illustri imperatore funderetur; in cujus vehementer
incitati ac anhelantis habitu et statuariæ artis et rerum naturæ eruditio summa
deprehenditur. Fuit ingenio valde comi, nitido, liberali, vultu autem longe
venustissimo; et cum elegantiæ omnis delitiarumque maxime theatralium mirificus
inventar ac arbiter esset, ad lyramque scite caneret, cunctis per omnem ætatem
principibus mire placuit. Sexagesimum et septimum agens annum in Gallia vita
functus est, eo majore amicorum luctu, quod in tanta adolescentium turba qua
maxime officina ejus florebat, nullum celebrem discipulum reliquerit.
Traduzione.
«Leonardo nato in Vinci, terretta della
Toscana, recò alla pittura grandissimo onore col dichiarare non potersi
esercitar rettamente da quelli i quali non avessero apparate le scienze e l’arti
liberali che servono di sostegno necessario alla stessa pittura. Voleva egli
che il travaglio di plasma la precedesse, come vero modello da cui trarne le
pianate immagini. Niente ebbe più a cuore che le ottiche istruzioni, coll’agiuto
delle quali attenne per fino in parti minutissime la teoria delle ombre e della
luce. Per seguire le tracce della natura, e dalla disposizione dei nervi e
delle vertebre rappresentare le differenti piegature e sforzi dei membri, non
si era stancato di apprendere con applicazione inumana e stomachevole nelle
stesse scuole anatomiche a tagliare i cadaveri dei malfattori. Figurò con ciò
in tavolette ogni esile particella, non tralasciando le sottili venuzze e la
tessitura interiore delle ossa, con tale accuratezza che da un travaglio di
tanti anni si dovessero incidere in rame innumerevoli sposizioni a benefizio
dell’arte. Mentre però nella ricerca di moltiplicati sussidj ad un arte
ristretta soverchiamente moroso affaticavasi, condusse a termine pochissime
opere, spinto da naturale leggerezza e volubilità di talento a scartarne sempre
le prime idee. Si ammira non pertanto con istupore la Cena di Gesù Cristo co’
suoi Apostoli dipinta sul muro in Milano, la quale tanto piacque a Luigi XII
che rimirandola con passione, richiese agli ascoltanti se si avesse potuto
trasportare in Francia col tagliarla dal muro, sebbene con un tal fatto si
minasse il famoso refettorio ove campeggiava. Esiste in tavola il fanciulletto
Gesù scherzante colla Vergine madre e l’avola sant’Anna, quadro che comperato
dal re Francesco venne da lui posto tra gli ornamenti più preziosi del suo
gabinetto. Campeggia nella sala del Consiglio di Firenze la battaglia e
vittoria riportata contro i Pisani, incominciata con una grandezza
incomparabile, ma che ebbe un esito infelice per difetto dell’intonacato il
quale non sosteneva i colori stemprati all’olio, sebbene grande fosse stata la
diligenza nell’applicarli. Sembra che il rammarico giustissimo d’un tale
accidente abbia accresciuto il pregio all’opera lasciata imperfetta. Travagliò
per Lodovico il Moro in creta un cavallo colossale da fondersi susseguentemente
in bronzo, e sopra vi doveva figurare il di lui padre Francesco celebre
guerriero, nella stessa materia. Ammirasi in questo travaglio la veemente
disposizione al corso e lo stesso anelito, nelle quali cose si comprende la
somma perizia dello scultore, e quanta fosse la sua intelligenza in tutto ciò
che appartiene agli effetti della natura. Spiccarono in Leonardo doti di grande
compitezza, accostumatissime generose maniere accompagnate da un bellissimo
aspetto; e poscia che egli era raro e maestro inventore d’ogni eleganza e
singolarmente dei dilettevoli teatrali spettacoli, possedendo anche la musica
esercitata sulla lira in canto dolcissimo, divenne caro in supremo grado a
tutti li principi che lo conobbero. Trovandosi in Francia nell’età di
sessantasette anni cessò di vivere, con pena tanto più sensibile de’ suoi
amici, che tra sì grande copia di giovani i quali studiavano sotto la di lui
disciplina, non lasciò verun scolare di primo grido.»
Troppo aspro è il giudizio del Giovio
intorno ai discepoli di Leonardo. Ben altro era il giudizio del modesto
Raffaello che quasi si mettea del pari con Cesare da Sesto, e il confondersi
con quelle di Leonardo le opere del Melzi, del Boltraffio e del Luino che pure
può dirsi della sua scuola, distrugge l’opinione del Giovio, e fa onor grande
ai discepoli non meno che al maestro.
Ho creduto per ordine di tempo dover
qui porre questa vita, perchè quantunque non si sappia in qual anno sia stata
scritta, non debb’essere di molto posteriore alla morte di Leonardo; imperocchè
quella che segue, di Michelagnolo, non parla della famosa pittura del Giudizio
universale, con che è da credere che il Giovio la scrivesse non solo vivente
Michelagnolo, come fecero il Vasari e il Condivi, ma prima che fosse fatta o
almeno scoperta quella pittura, cioè verso il 1540.
Le migliori cose inedite de conti Anton
Giuseppe e Gastone Rezzonici non rimarranno ignote lungamente. Il lodato erede
le ha di già in gran parte diligentemente ordinate onde elegantemente
pubblicarle.
MATTEO
BINDELLO.
(15..)
Le vicende della guerra che lungamente
turbò la Lombardia, ruppero il corso felice delle arti e delle lettere in
Milano nel momento in cui preparavano frutti migliori, e per l’appunto allorchè
Leonardo stava per gettare in bronzo il colosso equestre e forse per dare l’ultimo
finimento al Cenacolo. Questa è, a mio credere, la ragione per la quale sì
pochi sono gli autori di tal epoca che parlino di queste due opere insigni.
Sbandati qua e là nè ad altro volti che alla propria salvezza, male potevano
dar pensiero a commendare le opere altrui; e allorquando attesero a scrivere,
si volsero a lodare i potenti, da che se traevan poca fama, avean oro e
protezione in mezzo alle pubbliche calamità. Da questa fame degli scrittori
avviene che presso ogni nazione ed in ogni tempo abbondano i più minuti
ragguagli intorno agli abusi sanguinosi della forza umana, e mancano le memorie
delle opere d’ingegno che più onorano l’umanità. L’Italia certamente si onora
assai più dell’unico Leonardo che de tanti feroci ed astuti guerrieri del
secolo XV e XVI, e pure di costoro abbiamo lunghi elogi e storie minute di ogni
azione, mentre non abbiamo dell’altro che poche e mal certe notizie. Dopo il
poco che ho citato, per quante diligenze mi abbia fatte, non mi venne alle mani
altro scrittore che parli del Cenacolo, più antico di Matteo Bandello, autore
delle famose Novelle. Mi è necessario di riportare intiero il passo che fa
menzione della nostra opera, perchè sparge moltissima luce sulla storia di
essa, e rinforza diverse congetture sul tempo e sul modo con cui fu eseguita.
Esso è tratto dalla dedica della Novella LVIII della Parte I, diretta a Ginevra
Rangona Gonzaga.
Erano
in Milano al tempo di Lodovico Sforza Vesconte Duca di Milano alcuni
gentiluomini nel monastero delle Grazie dei frati di s. Domenico, e nel
refettorio cheti se ne stavano a contemplare il miracoloso e famosissimo Cenacolo
di Cristo con i suoi discepoli, che allora l’eccellente pittore Leonardo Vinci
Fiorentino dipingeva; il quale aveva molto caro che ciascuno veggenda le sue
pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere. Soleva anco spesso, et
io più volte l’ho veduto e considerato, andar la mattina a buon’ora e montar
sul ponte, perchè il Cenacolo è alquanto da terra alto: soleva, dico, dal
nascente sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma
scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne ne sarebbe poi
stato dui, tre o quattro dì che non v’avrebbe messa mano, e tuttavia dimorava
talora una o due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava et
esaminando tra sè le sue figure giudicava. L’ho anco veduto (secondo che il
capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzo giorno, quando il sole è
in lione, da corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e
venirsene dritto alle Grazie; et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o
due pennellate dare ad una di quelle figure, et di subito partirsi et andar
altrove. Era in quei dì alloggiato nelle Grazie il cardinal Gurcense il
vecchio, il quale si abbattè ad entrar in refettorio per vedere il detto
Cenacolo in quel tempo che i sovradetti gentiluomini v’erano adunati. Come
Lionardo vide il cardinale, se ne venne giù a farli riverenza, e fu da quello
graziosamente raccolto e grandemente festeggiato. Si ragionò quivi di molte
cose et in particolare dell’eccellenza della pittura, desiderando alcuni che si
potessero veder di quelle pitture antiche che tanto dai buoni scrittori sono
celebrate, per poter far giudicio se i pittori del tempo nostro si ponno agli
antichi agguagliare. Domandò il cardinale che salario dal duca il pittore
avesse. Le fu da Lionardo risposto che d’ordinario aveva di pensione duo mila
ducati, senza i doni et i presenti che tutto il dì liberalissimamente il duca
gli faceva. Parve gran cosa questa ed cardinale, e partito dal Cenacolo, alle
sue camere se ne ritornò. Lionardo allora a quei gentiluomini che quivi erano,
per dimostrare che gli eccellenti pittori sempre furono onorati, narrò una
bella istorietta a cotal proposito. Io che era presente al suo ragionamento,
quella annotai nella mente mia, et avendola sempre tenuta nella memoria, quando
mi posi a scriver le Novelle, quella anco scrissi
ecc.
La Novella che segue, e che conta un
caso avvenuto a frate Filippo Lippi, è di fatto posta in bocca di Leonardo, che
incomincia la sua narrazione dal farsi beffe dell’ignoranza del cardinal
Gurcense e della sua poca pratica dei buoni autori che narrano le glorie della
pittura. Li qual tempo sia stata scritta la prefazione, non trovo indizio
alcuno onde congetturarlo. Siccome però parmi da credere che tutto il libro delle
Novelle sia stato dal frate composto avanti ch’ei fosse fatto vescovo, ciò mi
basta per porre questo suo passo prima delle notizie del Vasari le cui Vite
videro la luce nel 1550, cioè appunto nell’anno in cui Francesco I diede il
vescovado di Agen al Bandello. È anche da osservarsi, per giudicare dell’età
del Bandello, ch’egli era già frate nell’ultimo decennio del secolo antecedente,
e che la licenza delle sue Novelle, se male conveniva al vescovo, non è
naturale, anzi diventa incredibile nel settuagenario. Aggiungasi in fine che è
nota la data di molte sue Novelle che retrocede d’assai dall’epoca della prima
edizione delle Vite del Vasari, il che ognuno può scorgere dalle sole dediche;
e chi di ciò bramasse più ampie notizie, le cerchi nelle opere del Napione e
del Mazzucchelli. Per le stesse ragioni ho citato il Bandello prima del Sabbà
da Castiglione e del Biondo che d’un solo anno prevennero il Vasari co’ libri
de’ quali si fa qui menzione. Di ciò volli avvertire il lettore, perchè le
Novelle del Bandello furono stampate, la prima volta, quattro anni dopo la
detta prima edizione del Vasari.
SABBÀ
DA CASTIGLIONE.
(1549)
Nei Ricordi
ovvero Ammaestramenti di monsignor
Sabba da Castiglione, al ricordo centesimonono Circa gli ornamenti della casa, nel quale vengono accennate le
opere varie con cui soglionsi abbellire le camere secondo il gusto di
ciascheduno, leggesi il seguente curioso passo intorno a Leonardo. E chi (le adorna di opere) di mano di Leonardo di Vinci, uomo di
grandissimo ingegno e nella pittura
eccellentissimo e famosissimo discepolo del Verocchio, come alla dolcezza delle
arie si conosce, e primo inventore delle figure grandi tolte dalle ombre delle
lucerne, ancora che dal Cenacolo di santa Maria delle Grazie in Milano in fuora
(opera certamente divina, e per tutto il mondo famosa e celebre) pochi altri lavori
si trovano di sua mano, perchè quando doveva attendere alla pittura nella quale
senza dubbio un nuovo Apelle riuscito sarebbe, tutto si diede alla geometria,
all’architettura e notomia; e oltre ciò si occupò nella forma del cavallo di
Milano ove sedici anni continui consumò, e certo che la dignità dell’opera era
tale che non si poteva dire avere perduto il tempo e la fatica. Ma la
ignoranzia e trascuragine di alcuni (li quali siccome non conoscono le virtù,
così nulla l’estimano) la lasciamo vituperosamente roinare, et io vi ricorda (e
non senza dolore e dispiacere il dico) una così nobile et ingegnosa opera fatta
bersaglio a’ balestrieri guasconi.
In niun altro autore, cred’io, tranne
questo, si legge come invenzione di Leonardo l’ingrandire le figure coll’ombre
delle lucerne. Quest’uso debb’essere certamente di grande antichità, e secondo
alcuni retrocede fino all’invenzione della pittura attribuita a varj nomi
favolosi. Ma io opino che egli si servisse delle lucerne non già per ingrandire
le figure, ma per disegnare prontamente gli scorci i più difficili, metodo
usato anche dal Buonarroti, secondo che narra il Cellini. Ad ogni modo questa
invenzione, sia pur sua, trattandosi di cosa volgare e continuamente sotto gli
occhi di ognuno, non è tale da far onore ad un ingegno qual era quello di
Leonardo; e l’uso che se ne può fare per ritrarre figure in iscorcio, non potrà
esser utile che per coloro che le saprebbero disegnare anche senza un tal mezzo,
e non gioverà che per farle più presto senza notabili scorrezioni. L’eccezioni
per altro alle quali questo modo va soggetto e per la collocazione del lume, e
pel piano su cui dee battere l’ombra, e per gli angoli degli aggetti del corpo
ombreggiante varj secondo le distanze, e per le diverse distanze del corpo e
dal lume e dal piano ombreggiato, sono tante, che l’utilità vera di quest’uso
si riduce a pochissimo, e il pericolo di gravi errori è grande e continuo,
quanto in copiare le figure dal vero direttamente. Può forse giovare ad
abituare l’occhio allo scorciare delle membra; ma per comporre con esattezza
una figura stranamente atteggiata, sarà più sicura guida il telajo graticolato
che fin dal tempo del Paciolo, e certamente molto prima, era comunemente in uso
nell’arte.
L’edizione dalla quale trassi il passo
citato, è la veneta del 1555, che credo sia l’edizione originale dell’opera
accresciuta, in vece di quella del 1560 riportata per tale dall’Haym.
Il Sabbà debbe aver conosciuto Leonardo
personalmente: egli era vecchissimo nel 1549 nel qual anno scriveva la
prefazione de’ suoi Ricordi. Egli scriveva colla mano manca, conforme dicesi
essere stato uso del Vinci.
MICHELAGNOLO
BIONDO.
(1549)
Fra le tante mediocri opere mediche e
filologiche pubblicate da Michelagnolo Biondo avvi un raro libercolo di piccola
mole e di prolisso titolo, in cui questo autore tratta della pittura come ne
avrebbe trattato il noto calzolajo d’Apelle. Non vi ha cosa delle infinite che
il frontispizio fastosamente promette, alla opale il libro soddisfaccia
ragionevolmente. Nulla, a dir vero, in esso si leggerebbe intorno al Cenacolo,
se si badasse all’autore cui viene attribuito: ecco ad ogni modo il passo che
riguarda a quest’ opera.
Nel capitolo XIV che ha per titolo Della memoria di Mantegna mantovano e delle
sue pitture e dove, per accrescere gli esempj de’ grandi artefici, Sappiate, dice, o voi innamorati della pittura, che non molti anni addietro vi è stato
Mantegna mantovano pittore raro di quei tempi, il che vi accerta la sua quasi
impreziabil pittura, come si dice e vede, cotesto pittor eccellente dipinse l’istoria
di Cristo e delli sua discepoli, cioè la tavola della Cena di Jesù, e tal
pittura si vede in la città di Milano, la qual pittura Francesco Cristianissimo
re di Francia volse portare nel suo reame. Nondimeno egli non potè soddisfare
al suo desio per essere tal cosa pinta nel muro.
Ognun vede che l’ignorante medico
confuse il Mantegna con Leonardo, non potendosi dubitare che queste parole non
si riferiscano al nostro Cenacolo. Di Leonardo poi appena fa menzione nel
capitolo di Maturino e d’altri, nel quale dopo molti nomi di secondo grado, è
chiamato raro pittore e autore di un libro di anatomia. E pure il Biondo era
scolaro del famoso Nifo che scrisse un libro del bello; era amico del Doni e
dell’Aretino ch’entrambi facevano da dottori in pittura; ed era nato ventidue
anni in punto prima che Leonardo morisse. Ciò prova che il solo buon giudizio
fa l’autorità degli scrittori; e dove manchi il giudizio, poca autorità
procacciano i tempi e le circostanze. È utile combinazione che i più rari libri
siano per lo più cattivi.
GIORGIO
VASARI
(1550)
Un gran numero di valenti critici ha
ora purgato da una notabile quantità d’errori la dilettevole istoria di questo
scrittore; ma siccome tali correzioni, oltre che non sono sempre senza
eccezione, non si possono introdurre nel testo senza ruinar l’opera, rimarrà ad
ogni giudizioso lettore il dispiacere di ricorrere, leggendola, a nojosi
commenti pei passi dichiarati, e il dubbio intorno a ciò che la mancanza di
monumenti o di notizie non ci lasciò verificare. Sarebbe lungo l’elenco delle
inesattezze nelle quali incorse il Vasari nella vita di Leonardo, facendolo ora
nipote, non figlio di Piero;[20] ora conducendolo a Milano
sotto il duca Francesco, ora dopo la morte di Galeazzo, ora solo nel 1494
regnante Lodovico; ora infine confondendo le opere, ora l’epoche, ora le
persone. E gli sbagli della prima edizione s’incontrano ripetuti nella seconda
ch’egli ampliò, a dir vero, d’assai, ma di poco corresse. Pure in questo autore
le cose ch’egli fu costretto ad apprendere dalla tradizione, debbonsi
considerare diversamente da quelle che dice sulle opere che prende a
descrivere, perchè da lui viste ed esaminate per l’arte. Ecco pertanto la
descrizione del Cenacolo quale sta nell’edizione del 1550, pubblicata da
Lorenzo Torrentino.
Fece
ancora in Milano ne’ frati di san Domenico a santa Maria delle Grazie un
Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa; ed alle teste degli apostoli diede
tanta maestà e bellezza che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando
poterle dare quella divinità celeste che all’immagine di Cristo si richiede. La
quale opera rimanendo così per finita, è stata dai Milanesi tenuta del continuo
in grandissima venerazione, e dagli altri forestieri ancora, attesochè Lionardo
s’imaginò e riuscirli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli
di voler sapere chi tradiva il loro maestro. Per il che si vede nel viso di
tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non poter
intendere lo animo di Cristo. La qual cosa non arreca minor maraviglia che il
conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e’l tradimento di Giuda, senza
che ogni minima parte dell’opera mostra una incredibile diligenza. Avvenga che
insino nella tovaglia è contraffatto l’opera del tessuto d’una maniera che la
rensa stessa non mostra il vero meglio. La nobiltà di questa pittura, sì per il
compimento, sì per essere finita con una incomparabile diligenzia, fece venir
voglia al re di Francia di condurla nel regno; onde tentò per ogni via se ci
fossi stato architetti che con travate di legnami e di ferri l’avessino potuta
armare di maniera ch’ella si fosse condotta salva, senza considerare a spesa
che vi si fosse potuta fare, tanto la desiderava. Ma l’esser fatta nel muro
fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, ed ella si rimase ai Milanesi.
Nella edizione poi del 1568 dopo l’elogio
della tovaglia aggiunge:
Dicesi
che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che
finisse l’opera; parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzogiorno
per volta astratto in considerazione, et avrebbe voluto come faceva delle opere
che zappavano nell’orto, ch’egli non avesse mai fermo il pennello. E non gli
bastando questo, se ne dolse col duca, e tanto lo rinfocolò che fu costretto a
mandar per Lionardo e destramente sollecitarli l’opera, mostrando con buon modo
che tutto faceva per l’importunità del priore. Lionardo conoscendo l’ingegno di
quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con
quel priore) discorrere col duca largamente sopra di questo. Gli ragionò assai
dell’arte, e lo fece capace che gl’ingegni elevati talor che manco lavorano, più
adoperano, cercando con la mente le invenzioni e formandosi quelle perfette
idee che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute nell’intelletto.
E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare, quella di Cristo della
quale non voleva cercare in terra, e non poteva tanto pensare che nella
imaginazione gli paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia che
dovette essere quella della divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda
che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma da
esprimere il volto di colui che dopo tanti benefizi ricevuti, avesse avuto l’animo
si fiero che si fosse risoluto di tradire il suo signore e creator del mondo:
pur che di questa seconda ne cercherebbe; ma che alla fine non trovando meglio,
non gli mancherebbe quella di quel priore tanto importuno et indiscreto. La
qual cosa mosse il duca maravigliosamente a riso, e disse ch’egli avea mille
ragioni. E così il povero priore confuso attese a sollecitar l’opera dell’orto,
e lasciò star Lionardo. Il quale finì bene la testa di Giuda che pare il vero
ritratto del tradimento et inumanità. Quella di Cristo rimase, come si è detto,
imperfetta.
Dopo questa aggiunta segue, come nella
prima edizione: La nobiltà di questa
pittura ecc.
Nella vita poi di Girolamo da Carpi
leggiamo che il Vasari fu a Milano nel 1566, e vide il Cenacolo di Leonardo
tanto mal condotto che non vi si scorgeva più se non una macchia abbagliata. Quivi parla anche della copia di s.
Benedetto di Mantova, sulla quale veggasi il terzo libro.
È cosa strana che il Bottari[21] asserisca che poco o
nulla si dica dal Vasari intorno al Cenacolo nella sua prima edizione, mentre,
eccettuatane la storia del priore, vi si legge precisamente altrettanto quanto
nella seconda. Ma il correggere gli errori di giudizio e di fatto che abbondano
nei lunghi commenti di diversi al Vasari, sarebbe lunga impresa, ed è meglio
dare al Vasari stesso siffatti studj, e ciò anche qualora non si abbia qualche
cosa di meglio a fare.
Ho posto sotto un solo articolo le due
edizioni che parlano dell’opera con osservazioni di diverse epoche: il lettore
le accomoderà alla cronologia con facilità, e risparmierà un articolo dello
stesso autore. Farò lo stesso del Lomazzo e degli altri scrittori di cui cito
più d’un’opera. Questo metodo mi sembra aver meno inconvenienti dell’altro che
ponesse i passi d’ogni autore secondo i tempi, su di che troppo sovente s’incontrano
oscurità, incertezze e contraddizioni.
Il Lanzi, umanissimo scrittore, gentile
ed elegante sempre, e non di rado felice nel dipingere i caratteri veri, sia
delle scuole sia degli artefici, diede intorno al Vasari un mirabile squarcio
che vorrei posto in fronte a tutte l’edizioni delle sue Vite, acciò fosse letto
da chiunque imprende a scorrerle, ignaro o mal prevenuto dell’autore.[22]
Il Comolli che ne descrisse diffusamente
le varie edizioni, solo non avvisò o non seppe esservi un diverso frontispizio
all’edizione seconda, il che avea debito di notare essendosi assunto l’impegno
di dare gl’interi titoli di tutti i libri della sua Bibliografia.
GIOVAMBATISTA
GIRALDI.
(1554)
L’opera del Giraldi che fa al caso
nostro, intitolata Discorsi intorno al
comporre dei romanzi, delle commedie e delle tragedie ecc., fu quella che
il pose in acre contesa col Pigna che ne stampava una simile nel tempo che questa
veniva alla luce; su di che può vedersi il Fontanini e il Barotti. Molte utili
cose leggonsi in questi Discorsi, e non vi manca qua e là qualche paragone
pittorico che prova che il Giraldi dilettossi o della pittura o del conversar
co’ pittori. Allorchè, per esempio, ci parla della perfezione alla quale
condusse Virgilio la latina poesia raccogliendo in un bellissimo corpo il bello
sparso nella moltitudine delle antiche composizioni greche e latine. Mi pare, dicagli, che Virgilio in ciò imitasse gli eccellenti dipintori, i quali volendo
formare una imagine singolare che rappresenti la donnesca bellezza, mirano
tutte le belle donne che mirar panno; e da ciascuna togliono le parti migliori,
ed accoltene tante, quante lor pajono bastare a compire la idea ch’hanno nell’animo,
si danno poscia a fare la conceputa figura la quale essendo composta dell’eccellenti
parti di molte bellezze, riesce ella non pur bella ma eccellentissima, tale che
non si trova forma umana che in viva donna le si possa rassomigliare: tanto
desiderano i nobili artefici asseguire l’ultima perfezione. Dal qual
periodo ognuno scorge finamente sviluppato il principio del bello ideale, e con
tanta chiarezza che sarebbe desiderabile che altrettanta ne splendesse ne’
trattati di questa pericolosa materia. Vi si trova ancora una curiosa
spiegazione del famoso quadro di Galatone descrittoci da Eliano, una definizione
della bellezza pittorica[23] e degli esempj d’Apelle e
di Leonardo. Ma l’esempio che riguarda il nostro pittore, vuol essere
trascritto per intiero.
Giova,
dice il Giraldi, anco al poeta far quello
che soleva fare Leonardo Vinci eccellentissimo
dipintore. Questi, qualora voleva dipingere qualche figura, considerava prima
la sua qualità e la sua natura: cioè se doveva ella essere nobile o plebea,
giojosa o severa, turbata o lieta, vecchia o giovane, irata o d’animo
tranquillo, buona o malvagia: e poi conosciuto l’esser suo, se ne andava ove
egli sapea che si ragunassero persone di tal qualità; ed osservava
diligentemente i lor visi, le lor maniere, gli abiti ed i movimenti del corpo:
e trovata cosa che gli paresse atta a quel che far voleva, la riponeva collo
stile al suo libricino che sempre egli teneva a cintola. E fatto ciò molte
volte e molte, poichè tanto raccolto egli aveva quanto gli parea bastare a
quella imagine ch’egli voleva dipingere, si dava a formarla e la faceva
riuscire maravigliosa. E posto ch’egli questo in ogni sua opera facesse, il fè
con ogni sua diligenza in quella tavola ch’egli dipinse in Milano nel convento
dei frati predicatori, nella quale è effigiato il Redentor nostro co’ suoi
discepoli che sono a mensa.
Mi
soleva dir M. Cristoforo mio padre che fu uomo di acutissimo giudicio e di
grandissimo discorso, quando del comporre egli meco ragionava (il che era
sovente), che avendo il Vinci finita l’imagine di Cristo e di undici discepoli,
egli aveva dipinto il corpo di Giuda solo insino alla testa, nè più oltre
procedeva. Laonde i frati di ciò si lamentavano col duca il quale per questa
dipintura dava gran premio al Vinci. Il duca, intesa la querela dei frati, fe’
chiamare a sè Leonardo, e gli disse che si maravigliava ch’egli tanto
prolungasse il fine di quella dipintura. Gli rispose il Vinci ch’egli si
maravigliava che Sua Eccellenza di ciò si lamentasse, perchè non passava mai
giorno ch’egli intorno non vi spendesse due ore intere. Acquetassi il duca a
queste parole, e tornando i frati a querelarsi della tardanza del Vinci, disse
egli loro che n’aveva parlata con lui, e che gli aveva risposto che non era mai
giorno ch’egli non spendesse intorno a quella tavola due ore. A cui dissero i
frati: Signore, vi resta solo a fare la testa di Giuda, che tutte le altre
imagini sono compite; ed avuto rispetto al tempo che egli ha speso per fare le
altre teste, se vi lavorasse due ore di un giorno, come dice a Vostra
Eccellenza che fa, sarebbe ornai compita tutta la tavola; ma è più d’un anno
intero che non è stato a vederla, non che vi abbia messa mano. Allora il duca
adirato mandò a dimandare il Vinci, e con viso turbato gli disse: Ch’è questo
che mi dicono questi frati? tu mi di’ che non passa mai giorno che tu non
spenda due ore intorno alla tavola; ed essi mi dicono ch’è più d’un anno che tu
non sei stato al lor convento. Il Vinci allora disse: Che sanno questi frati di
dipingere? dicono il vero ch’è gran tempo ch’io non sono ito là; ma non dicono
già vero, negando ch’io non spenda ogni giorno almeno due ore intorno a quella
imagine. E come può egli ciò essere, disse il duca, se non ci vai? Allora il
Vinci, quasi ridendo, rispose: Signore Eccellentissimo, restami a fare la testa
di Giuda il quale è stato quel gran traditore che voi sapete: e però merita
essere dipinto con viso che a tanta scelleraggine si confaccia. E quantunque io
ci avessi potuto aver molti tra quelli che mi accusano, che si sariano
maravigliosamente assimigliati a quel di Giuda: nondimeno per non gli far
vergognar di lor medesimi, ha già un anno e forse più, che ogni giorno, sera e
mattina, mi son ridotto in Borghetto ove abitano tutte le vili ed ignobili
persone e per la maggior parte malvage e scellerate, solo per vedere se mi
venisse veduto un viso che fosse atto a compir l’imagine di quel malvagio. Nè
insino ad ora i’ l’ho potuto trovare: tosto ch’egli mi verrà innanzi, in un
giorno darò fine a quanto mi avanza a fare. O se forse nol troverò, io vi porrò
quello di questo padre priore, che ora mi è sì molesto, che maravigliosamente
gli si confarà. Rise il duca a queste ultime parole del Vinci, e restò appagato
di quanto egli gli disse, e conosciuto con quanto giudicio egli componeva le
sue figure, non gli parve maraviglia se quella tavola riusciva negli occhi del mondo
così eccellente.
Avvenne
dopo queste parole, che un giorno gli venne per ventura veduto uno ch’aveva
viso al suo desiderio conforme, ed egli subito preso lo stile, grossamente il
disegnò, e con quello e con le altre parti ch’egli in tutto quello anno aveva diligentemente
raccolte in varie facce di vili e malvage persone, andato ai frati, compì Giuda
con viso tale che pare ch’egli abbia il tradimento scolpito nella fronte. Così
deve anco fare il poeta, volendo egli co’ colori delle scritture mostrare gli
abiti, i costumi, i ragionamenti, le azioni di diverse persone, perchè non
potrà indi trarre se non utile incredibile.
Sembra che da questo squarcio del
Giraldi traesse il Vasari l’aggiunta che fece alla storia del Cenacolo nella
seconda edizione delle sue Vite. Se si potesse prestar fede intera a questo
scrittore in una cosa che non appartiene nè alla sua professione nè all’argomento
del suo libro, si potrebbero da questo passo dedurre varie conseguenze che si
oppongono parte alle altre storie, parte al costume di Leonardo. Primieramente
converrebbe credere che Leonardo avesse compiuta la testa del Salvatore, al che
contraddicono il Vasari e il Lomazzo, entrambi pittori di buon giudizio.
Converrebbe poi cangiare opinione intorno al metodo di dipingere di Leonardo, o
alla sua lentezza, o alla perfezione colla quale conduceva le sue figure, qualora
si voglia credere che in un giorno ei potesse, come qui si legge, cominciare e
finire la testa di Giuda, sebbene da oltre un anno l’andasse studiando. Nell’accennare
le quali cose sarebbe stato più circospetto il Giraldi se avesse avuto qualche
idea della pratica dell’arte, come pare che intendesse la teorica, e
soprattutto se avesse conosciuto i metodi pratici di Leonardo, il quale per
quanto si apparecchiasse innanzi di por mano al lavoro, sappiamo dalla storia
che sempre vi si accostava tremando. È dunque da giudicare che il Giraldi dica
finita la testa del Salvatore, perchè da quel tempo nulla più il pittore vi
facesse, o perchè come di cosa finita se ne accontentavano i frati, sebben
Leonardo volesse forse riporvi le mani. Similmente parmi da credere che non vi
mancasse già del tutto la testa di Giuda, come il Giraldi asserisce, ma che vi
mancassero soltanto que’ tratti principali coi quali voleva Leonardo
caratterizzarlo, e che costavangli sì lunghe ricerche. In fatti, essendo l’opera
dipinta a olio, ed avendo egli il costume di ripassare più volte che non è d’uopo,
i suoi lavori, ed essendo necessario un certo tempo tra l’uno e l’altro ritocco
acciò il precedente sia ben secco, chi credesse altrimenti, mostrerebbesi affatto
ignaro dell’arte.
Il costume poi di Leonardo, qui
proposto dal Giraldi in esempio agli scrittori, non si può abbastanza
raccomandare agli studiosi del disegno, come il solo metodo onde perfezionarsi
nell’espressione degli affetti, ch’è la vera vita dell’arte, e quella parte che
la rende più cara alla generalità degli uomini, essendo non solo una imitazione
muta delle loro forme, ma, direi quasi, una parlante rappresentazione degli
animi loro.
LEANDRO
ALBERTI.
(1561)
Vedi Francesco Sansovino = 1575
GASPARE
BUGATI.
(1570)
Nel libro sesto della sua Storia
universale dà il Bugati un ragguaglio delle qualità e della fortuna del Moro, e
ragionando dell’amore ch’ei portava ai virtuosi, e della sua liberalità, dice: Diede mille scudi l’anno a Giasone Maini,
trecento a Giorgio Merula d’Alessandria istorico, cinquecento a Leonardo da
Vinci pittore eccellente fiorentino, che pinse il miracoloso Cenacolo di Cristo
alle Grazie: amò grandemente e donò a Bramante grande architetto e pittore, da
cui egli fece fare la chiesa di s. Satiro e piantare quella di s. Celso: gli
furono cari Ambrosio Rosate dotto in ogni cosa, Caradosso statuario, e Giacobo
lapidario.
La pensione qui stabilita dal Moro a
Leonardo non si accorda con la notata di sopra, che il Bandello udì dalla
propria bocca di lui, presente il cardinal Gurcense. Potrebbe darsi che all’epoca
in cui il Bandello conversò col Vinci, cioè negli ultimi anni della dimora di
questo presso il Moro, la pensione gli fosse stata aumentata, e che i
cinquecento scudi gli fossero stati assegnati fino da quando si pose al
servizio del duca, cioè forse intorno al 1477.[24] È da notarsi che il
Bugati nella postilla al luogo qui citato, chiama Bramante architetto milanese, per distinguerlo dall’urbinate
che forse fu suo discepolo e certamente fu maestro del Cesariano. Si aggiunga
anche questa alle tante autorità che provano esservi stati almen due Bramanti
contemporanei, oltre varj Bramantini.
FRANCESCO
BOCCHI.
(1571)
Nel Ragionamento
del Bocchi sulla statua di s. Giorgio di Donatello, diconsi parti allo scultore
necessarie il costume, la vivacità e la bellezza. In proposito poi del costume, Fu, dic’egli, felice in
questo Leonardo a maraviglia, come si dice del miracoloso Cenacolo che in
Milano egli dipinse; dove negli apostoli espresse il costume tanto nobilmente,
che sempre perciò da tutti è stato commendato; ma nella testa di Cristo (in cui
sovrana bellezza e maestà mirabile e ogni divina perfezione volea dimostrare)
non potè fornire il suo avviso, e non trovando co’ suoi pensieri come a questo
rispondesse degnamente, lasciò quella senza fine e imperfetta. Questo
scritto fu composto dal Bocchi nel 1571, e si stampò la prima volta nel 1583.
PAOLO
MINI.[25]
(1572)
Il Mini, nella sua Difesa di Firenze e dei Fiorentini, ove parla delle glorie
pittoriche della sua patria, seguendo il piano del Vasari, di cui fa un epilogo
in pochi fogli, fa morire tutte le arti in Italia per poi risuscitarle per
opera de’ suoi concittadini. Quindi pianta il solito albero genealogico
pittorico, alla radice del quale sta Cimabue, sebbene questi fosse in fasce
quando in altre città d’Italia s’eran già fatti i funerali a varj artefici
forse migliori di lui, fra i quali a Guido da Siena. Da Cimabue scendendo in
Gaddo, in Giotto e nella scuola di quest’ultimo che pe’ suoi tempi fu in vero
uom grande e meraviglioso, passa a Masaccio, a fra Giovanni, al Gozzoli, al Lippi,
ed in fine a Leonardo, intorno a cui ecco le sue parole:
Lionardo
da Vinci fnalmente abbracciando tutte queste forze vendute alla pittura, con la
vivacità, con la grandezza è con la perfezione del disegno gne nè confermò di
maniera, che non pure per risuscitata, ma ella ne’ suoi tempi per le sue
onorate mani fu conosciuta ritornata in tutto e per tutto al suo antico fiore.
Testimonio ne è lo stupendissimo Cenacolo che di sua mano principiato,
ammezzato e finito, è nella città di Milano in s. Maria delle Grazie, e
testimonio efficacissimo ne è il re Luigi duodecimo il quale non si sdegnò ch’ei
gli morisse nelle braccia: là onde Giovambatista Strozzi non si peritò, sendo
egli morto, di dire di lui,
Vince
costui pur solo
Tutti
altri, e vince Fidia e vince Apelle
E
tutto il lor vittorioso stuolo.
E le notizie e l’epigramma sono, come
ognun vede, tratti dal Vasari. Egli vi aggiunse di suo lo sproposito di far
morire Leonardo nelle braccia di Luigi XII che morì molti anni prima di lui.
Rimarrebbe ad investigare che si voglia
intendere con quel principiato, ammezzato
e finito, parlando del Cenacolo. Forse volle con ciò asserire che Leonardo
non permise che alcuno dessegli ajuto o ponesse mano in questa opera; o pure
che in diversi tempi, e forse in tre riprese la conducesse.
FRANCESCO
SANSOVINO.
(1575)
Il Sansovino nel Ritratto delle più nobili e famose città d’Italia, ove ragiona del
monasterio delle Grazie, soggiunge che nel refettorio di esso si dimostra il Cenacolo di Cristo con gli apostoli
dipinto tanto maravigliosamente da Leonardo da Vinci fiorentino. Nel quale
appare il gran magisterio di lui, cosa da ognuno nella pittura perito sommamente lodata. Questo passo è copiato
dalla Descrizione di tutta Italia di F.
Leandro Alberti. Solo in questa si legge, per errore forse di stampa, Lorenzo Vincio in vece di Leonardo: ciò almeno nell’edizione del
1561 che ho sott’occhio.
RAFFAELLO
BORGHINI.
(1584)
Un breve estratto dal Vasari senz’alcuna
aggiunta, se si eccettua un freddo epitaffio, è tutto quello che intorno a
Leonardo abbiamo nell’opera del Borghini, che ha per titolo il Riposo. A parer
mio, che però volentieri sottometto all’altrui, questo libro è più utile per la
lingua che per la pittura.
GIO.
PAOLO LOMAZZO.
(1584
e 1590)
Ad onta di moltissimi difetti, errori e
pregiudizj de’ quali sono sparse le opere del Lomazzo, a lui si debbe il più
compiuto trattato che ci rimanga della pittura. Lo stesso aureo libro di
Leonardo, quale dalle stampe si conosce, ottimo per lingua e per filosofia
nelle parti che tratta, è troppo breve in altre; d’altre, come lavoro
incompiuto, non parla affatto. A ragione l’illustre autore della Storia
pittorica brama la ristampa degli scritti del Lomazzo, e ne vorrebbe tale
editore, che, per usar di sua frase, sceverandone
le foglie, ne serbasse i frutti. Ma un editore di tal tempra è più
difficile a trovarsi che non si crede, e qualora si accoppjno in un solo
ingegno il sapere, la costanza e il giudizio che sarebbero necessarj ad un
simile lavoro, è difficilissimo che un tale ingegno s’impieghi in opera altrui
con poca speranza di fama, mentre con minor fatica e maggiore lusinga potrebbe
tentare qualche cosa di proprio ed originale. E ad ogni modo le opere, per chi
meglio sa, vogliono essere lette come furono scritte, ed il giudizio che il
lodato Lanzi vorrebbe nell’editore, io lo bramo nel lettore. Se questi non è in
grado di scernere le buone dalle cattive autorità storiche e poetiche che il
Lomazzo prende a fascio indistintamente; se non è erudito abbastanza per
intendere ove l’autore è troppo credulo o si abbandona a pazzie astrologiche,
che in lui sono piuttosto modi d’esprimere che opinioni scientifiche; se in
fine non è munito di molta pazienza e discrezione per penetrare dentro la mente
dell’autore, supplendo anche, ove bisogna, ai gravi errori tipografici che
accrescono sovente le difficoltà del testo, poco profitto trarrà da queste
opere, e non compenserà il tempo e la fatica ch’è d’uopo impiegarvi. Che pei
lettori d’altronde leggieri e di minor vista, che non conoscono l’oro se non
quando è depurato da ogni lordura, bastano e parranno auree molte opere minori
delle quali abbiamo gran copia in molte lingue; poichè, se non erro, non
giungerebbero ad intendere le cose buone di queste, comunque si riducano, le
quali esigeranno sempre attenzione grandissima, e non volgare acume d’ingegno
ond’essere intese e proficue.
Ma venendo al proposito nostro, nel
capo nono del primo libro del gran Trattato dove questo autore ragiona della
proporzione del corpo virile di otto teste, leggesi il seguente passo:
Fra
i moderni Leonardo Vinci, pittore stupendissimo, dipingendo nel refettorio di
s. Maria delle Grazie in Milano una Cena di Cristo con gli apostoli, e avendo
dipinto tutti gli apostoli, fece Giacomo Maggiore e il Minore di tanta bellezza
e maestà, che volendo poi far Cristo mai non potè dar compimento e perfezione a
quella santa faccia, con tutto ch’egli fosse singolarissimo; onde così
disperato, non vi potendo far altro, se ne andò a consigliarsi con Bernardo
Zenale, il quale per confortarlo gli disse: O Leonardo, è tanto e tale questo
errore che hai commesso, ch’altro che Iddio non lo può levare. Imperocchè non è
in potestà tua nè d’altri di dare maggior divinità e bellezza ad alcuna figura,
di quella che hai dato a Giacomo Maggiore e Minore, sì che sta di buona voglia,
e lascia Cristo così imperfetto, perchè non lo farai esser Cristo appresso
quegli apostoli; e così Leonardo fece, come oggidì si vede, benchè la pittura
sia rovinata tutta.
Al capo secondo poi del secondo libro,
dove ragiona de’ moti secondo la diversità delle passioni ed affetti dell’animo,
dice che in questa parte Leonardo non fece mai alcuno errore. Del che, aggiunge egli, tra tutte l’altre sue cose fa chiarissima
prova la maravigliosa Cena di Cristo e de suoi apostoli, che si vede dipinta nel refettorio di santa
Maria delle Grazie in Milano; nella quale espresse di maniera i moti delle
passioni degli animi di quelli apostoli, nei volti ed in tutto il resto del
corpo, che ben si può dire che il vero non fosse punto diverso da quella
rappresentazione; e che quell’opera sia stata una delle maravigliose opere di
pittura, che giammai in alcun tempo fosse fatta da alcuno pittore, per
eccellente che fosse, a olio; del qual modo di dipingere ne fu a quel tempo inventore
Giovanni da Bragia. Imperocchè in quelli apostoli appartatamente si vede l’ammirazione,
lo spavento, la doglia, il sospetto, l’amore e simili passioni ed affetti, in
che tutti allora si trovarono; e finalmente in Giuda il tradimento concetto nell’animo
con un sembiante di punto simile ad un traditore. Si che ben dimostrò quanto
perfettamente intendesse i moti che l’animo suol cagionare ne corpi, de’ quali
siccome di necessarissima parte al pittore quasi in tutto questo libro ne sarà
trattato.
Nel libro terzo al capo quinto dove
parla del colorare a pastelli, segue a dire: Il che si fa in carta, e fu molto usato da Leonardo Vinci, il quale
fece le teste di Cristo e degli apostoli a questo modo eccellenti e miracolose
in carta.
Nel capo secondo finalmente del settimo
libro, parlando della forma di Dio e della necessità che gli atti che gli si
attribuiscono, siano corrispondenti alla maestà di lui, soggiunge che l’artefice
deve sforzarsi di rappresentarvi dentro la
deità con l’eccellenza e differenza della forma, statura, moto, collocazione e
lume dagli altri corpi che si fingono attorno a lui, cosa tanto difficile che
l’istesso Leonardo non potè conseguirla nel Cristo che dipinse nel refettorio
delle Grazie di Milano.
In altri cinquanta e più luoghi del
Trattato fa menzione il Lomazzo del nostro pittore, senza però parlare del
Cenacolo. Chi fosse curioso di vederli, li riscontri coi numeri delle pagine
che pongo fra le note.[26]
Trovo poi nuovamente ricordo della
nostra opera nel capo decimoterzo della sua Idea
del Tempio della Pittura, libro che sebbene fosse composto, per quanto
apparisce, prima del Trattato, fu stampato dopo di quello sei anni. Nel qual
capo, dopo aver detto che Leonardo ha colorito a olio quasi tutte le opere sue,
continua come qui trascrivo:
Ora
Leonardo fu quello che lasciato l’uso della tempera passò all’olio il quale usava
di assottigliare con i lambicchi, onde è causato che quasi tutte le opere sue
si sono spiccate dai muri, siccome fra le altre si vede nel Consiglio di
Fiorenza la mirabile battaglia, ed in Milano la Cena di Cristo in santa Maria
delle Grazie, che sono guaste per l’imprimitura ch’egli gli diede sotto. Di che
abbiamo grandemente da dolerci che opere così eccellenti si perdano, restando
solamente i disegni, i quali certo nè il tempo nè la morte nè altro accidente
sarà mai per vincere, ma con grandissima lode e gloria di lui viveranno in
eterno.
In una ventina d’altri luoghi ne quali
in questa Idea del Tempio della Pittura occorre il nome e l’esempio di Leonardo,
non si parla della Cena, sebbene non ne manchi occasione, sopra tutto dove il
Lomazzo rammemora le migliori opere di lui. Ma ciò avvenne probabilmente perchè
era in allora del tutto perduta.
E questa perdita, di sì gran danno per l’arte,
già accennata dal Vasari sotto l’anno 1566, non dee credersi dal Lomazzo
confermata sotto la data delle opere stampate, ma prima di molto; perchè tanto
il Tempio quanto il Trattato furono dall’autore composti in
età assai giovenile, come dalle sue stesse parole apparisce chiaramente. Che se
in taluno de’ suoi capricciosi sonetti ne’ quali l’estro e la bizzarria lo
allontanano per costume e sistema dalla verità, ei dice a caso altrimenti, debb’essere
preferita l’autorità de’ suoi trattati e quanto assicura nelle dediche a re ed
a principi contemporanei ai quali non potea mentire senza ignominia, nè avrebbe
mentito con vantaggio. Imperocchè del suo Tempio così egli parla nell’epistola
al re di Spagna, che sta in fronte all’opera: Questo è parto che uscì da me negli anni della mia gioventù, concetto
in quelle ore che stanco del dipingere avea bisogno di ricreazione ecc. E
con quella espressione concetto
avvalora la mia congettura che quest’opera sia stata da lui composta prima del
Trattato; di cui, sebbene a taluni sembri un compendio (nel qual caso dovrebb’essere
posteriore, nè quella espressione sarebbe opportuna), è piuttosto un apparato o
prolegomeno, anzi il primo seme, per così esprimermi, di quella maggior opera
che divenne un Trattato compiuto, allorchè fu arricchita in tutte le sue parti
di tutto ciò che la susseguente pratica dell’arte e gli studj profondi nelle
materie d’erudizione vi poterono recare in tributo. Del Trattato poi, se mai fu,
come è probabile, fatica di molti anni, basti l’assicurarci che i primi libri
dove trovansi i passi più importanti che ho citati, sono stati da lui scritti
assai prima della sua cecità, la quale non già in vecchiaja, come male
asserisce l’Orlandi, ma nel fiore dell’età e nel momento migliore di mettere in
pratica le sue speculazioni, lo tolse per sempre alla pittura. E di ciò verremo
facilmente assicurati dall’osservare ciò che scrive egli stesso poche linee prima
del secondo passo sopra trascritto, nel qual luogo avverte che il trattare de’
moti delle passioni e degli affetti è
opera piuttosto da uomo consumato che da giovane: per il che, continua
egli, non senza qualche rossore io mi
pongo a volerne trattare ecc. E o si stabilisca l’epoca della sua cecità
all’anno trentesimo della sua vita, cioè nel 1568, come egli stesso avvisa nell’ultimo
capitolo del Trattato; o si ponga di tre anni più tardi, secondo quanto ei dice
nella dedica del Tempio, nella sua Vita e in un distico in fine dei Grotteschi
(il che si concilia col corso della malattia ch’ebbe il funesto fine che il
gran Cardano ed il Vicenza gli avevano predetto), avuto riguardo alla età
giovenile in cui assicura aver composti gli scritti suoi, è evidente che quanto
ei dice intorno al Cenacolo, si debbe considerare anteriore non che
contemporaneo a quanto ne fu detto dal Vasari, il che si scorgerà ancora più
patentemente da alcuni suoi versi che fra poco mi accadrà di citare.
Nulla d’importante allo scopo nostro ho
tratto dalle altre tre opere stampate di questo autore, che sono i Grotteschi, la Forma delle Muse e i Rabisch
o Versi del compare Zavargna ecc. Il
poco di alcuna di esse che vi avrà qualche relazione, verrà citato nel corso
dell’opera o nelle note.
Filippo Picinelli nel suo Ateneo, forse coll’autorità del Morigia,
registra di lui un’altra opera stampata, intitolata Esposizione sopra il Trattato dell’arte della pittura. Io credo che
non esista affatto, almeno alle stampe, se pure non fosse (il che mi pare assai
probabile) l’Idea del Tempio, cui il Lomazzo, come vedemmo, diede forma d’introduzione
al suo Trattato, sebbene la pubblicasse alcuni anni dopo, cosa ch’egli stesso
non manca d’avvisare nell’ultimo capitolo. Dal quale avviso si prova l’errore
del Tiraboschi che suppone esservi una edizione dell’Idea del Tempio
contemporanea al Trattato, come altro errore del Tiraboschi, del Du Fresne e d’altri
è il credere che il Lomazzo dettasse le sue opere dopo aver perduta la vista.
Su di che abbiamo già osservato ch’egli stesso dice d’aver fatto in prima
gioventù le due opere sue principali, almeno in gran parte; e per ciò che
spetta ai suoi versi, comechè pajano per lo più versi da cieco, siccome il
Lanzi nota facetamente, s’egli fece, come asserisce, il proprio ritratto colle
insegne di principe dell’accademia della Val di Bregno, è facile il vedere ch’egli
si era ottenuto quell’onore per mezzo delle sue poesie anche anteriormente alla
sua cecità. A provare più ampiamente che i Grotteschi suoi furono scritti prima
che perdesse la vista, mi è venuto alle mani un curioso codice tutto di suo
pugno, che ha per titolo Gli Sogni e
Ragionamenti composti da Giovan Paolo Lomazzo milanese con le figure de’
Spiriti che gli raccontano, da esso disegnate. Nell’avviso al lettore non
solo ei parla delle sue poesie, ma si scorge che questi Sogni furono da lui composti per farne una sola opera con quelle,
frammezzando la recita de’ versi con dialoghi e ragionamenti stranissimi. E
come nel decorso del libro si ragiona di Michelagnolo vivente, è chiaro che
quest’opera fu scritta prima del 1563 all’uso fiorentino e 64 al volgare, anno
di lutto per la morte di quel sommo uomo, ristorato in parte dalla nascita del
gran Galileo: così essendo tal opera posteriore ai suoi poetici capricci, si
può giudicare che questi siano di ben due dozzine d’anni anteriori alla stampa.
In fatti, checchè si dica circa il tempo di tali scritti dal Lanzi, dal Ghilini,
dal Le Comte e da molti altri autori, e fin anche dal Lomazzo stesso in qualche
luogo,[27] quelle sue poesie, poche
eccettuate, sembrano più esuberanze di sfrenata e confusa fantasia giovenile,
che produzioni d’uomo maturo. Chè se alcune ne aggiunse di poi cogli stessi grilli
e stravaganze insignificanti onde sono stipate le antecedenti, ciò fu per migliorare
ed arricchire il suo volume, senza allontanarsi dal metodo tenuto negli anni
primi del suo furore poetico. Così rendendo all’età del molto estro e del poco
giudizio queste bizzarre composizioni, se ne viene a scusare la stranezza e la
mediocrità. Ma chi non fosse appieno soddisfatto delle prove da me qui addotte,
e ne volesse sott’occhio una più autentica e solenne che smentisce quanto dal
più degli scrittori fu asserito intorno all’epoca di questi ghiribizzi, legga
le terzine dello stesso Lomazzo a Carlo Emanuello duca di Savoja, da lui
cantate veramente da cieco in ogni senso nel 1587. In queste egli dichiara d’aver
composti i suoi sette libri di Grotteschi nella
etade terza, quella, cioè, che vien dopo la puerizia e l’adolescenza; e per
togliere ogni dubbio intorno alla sua espressione, soggiunge:
Se
quella vuol sapere il fermo chiodo,
Ciò
che la terza età, c’ho detto, sia,
Acciò
non sia lasciato oscuro nodo;
Ella
è quella di Vener[28] dove stia
La
forza del mostrar di ciascun opra,
Quel
che dianzi Mercurio ha fatto in via.
Ove
col fare ancor convien adopra
Il
dir unito insieme in cotal anni
Dai sedici a li venti, e qua si scopra.
Allor
così scrivendo quanti affanni
Recava
il finger seco, io mi scemava.
Ai quali versi debbonsi aggiungere gli
altri della sua vita ne’ quali, dopo avere parlato del suo maestro e delle sue
prime opere, soggiunge:
E
ne’ ritratti ancor io posi il piede
Di
piccioli e di grandi, et alfin poi
Mi
dipartii da lui, spiegando in versi
E
in prosa tutti i miei varj concetti;
Che
strani mi venian qual recar suole
La
lieta gioventude, e così scrissi
In
rime i miei Grotteschi, dove espressi
Molti
caprizzi c’havea in cor concetti,
Ai
guai poi cieco ancor molti ne aggiunsi.
Poco
da poi trattai della pittura
In
molti libri, di or si veggon fuori.
E
allor fu eretta ancor l’alta Accademia
Di
Bregno ecc.
Da che si vede anche quanto per tempo
stendesse il suo Trattato, cioè poco dopo i vent’anni: per la qual cosa i passi
che riguardano il Cenacolo, verrebbero a riportarsi intorno al 1560 circa. Nè
men chiaro apparisce che non da cieco, ma una quindicina circa d’anni prima
della sua cecità, compose il Lomazzo in gran parte le sue poesie che in buon
numero sono citate coi primi versi nel codice di cui ho parlato di sopra. E si
scorge parimente che qualora s’imprende a parlare di coloro che hanno
pubblicato delle opere, è necessario prima di tutto di leggerle diligentemente,
oppure si è in pericolo di cadere in gravi errori. Ciò però sia detto con pace
de’ chiarissimi uomini che furono d’altra opinione intorno a quanto mi sforzai
di provare, ed in ispecie degli egregi autori delle due storie, la Letteraria e
la Pittorica. La vastità d’altronde di que’ classici lavori, che di sua natura
dispensa gli autori dalle letture mediocri, e più il merito cospicuo di quelle
opere nell’essenziale, riconosciuto oramai da tutta Europa, scusano abbastanza
tali piccioli nei che io mi prendo la libertà di notare unicamente per amor del
vero, e perchè importa alla mia storia del Cenacolo il sapere a qual epoca si
possano riferire que’ passi del Lomazzo che parlano di questo singolare
dipinto.
GIO.
BATISTA ARMENINI.
(1586)
Quantunque il maggior numero degli
esemplari del libro dell’Armenini porti la data del 1587, egli è certo che
quest’opera vide la luce nell’anno precedente, come prova non solo la dedica
dello stampatore, ma anche qualche raro esemplare del 1586 che soltanto in
pochi fogli differisce dall’edizione posteriore.
Anche i Precetti dell’Armenini appajono
composti assai prima che venissero pubblicati. Egli stesso assicura nella
conclusione del suo libro, che gli avrebbe condotti a miglior perfezione, se,
oltre varie disavventure, la poca età in cui era allorchè gli scrisse, non
glielo avesse impedito. In qual tempo però fossero composti, noi trovo scritto
da nessuno. Il Mazzucchelli non dice altro di lui se non che fioriva intorno al
158o. Il libro non fu pubblicato dall’autore, ma dallo stampatore Francesco Tebaldini
il quale, comunque trovasse l’originale, dice d’aver faticato sommamente a
ridurlo quale il diede, il che farebbe dubitare che l’opera sia postuma. Da
varj passi pertanto[29] si deduce che l’autore,
di quindici anni recossi a Roma, e che dopo avervi passato qualche tempo, corse
per nove anni tutta Italia. Passati questi, ritiratosi non so se in Faenza sua
patria o altrove, lasciò la pittura e forse si fece frate, cangiando, com’ei
dice, per ordine di chi potea disporre di lui, abito e professione. Si crederebbe ch’ei fosse stato a Milano prima
del 1546, anno in cui morì il marchese di Pescara, presso il quale dice d’aver
visto alcuni maravigliosi ritratti di Sebastiano Dal Piombo. Concorre a farlo
credere fra noi sì anticamente, il sentirlo in Genova al passaggio di alcuni
pittori che andavano in Ispagna, fra i quali nomina il Ruviale che morì nel 1550.
Trovossi poi certamente in Roma nel 1556, anno da lui notato all’occasione che
racconta la vendita de’ disegni di Perino Del Vaga. Ma pare che in quell’anno
stesso ne uscisse, se si avverte ai disordini che al capo ultimo dice
avvenutivi, che rispondono esattamente al primo anno del feroce governo di
Paolo IV, e che il costrinsero a cercare altrove miglior sorte e quiete. Dopo
quel tempo avendo peregrinato qua e là lungamente, tornò di nuovo a Milano, e
stette con Bernardino Campi cui abbozzò un quadro, e pare che il servisse bene,
poichè il Campi il volle seco qualche mese. Non parve contento degli studj
pittorici della nostra città, e parlando de’ nostri giovani, dice d’averli
trovati più dediti all’ornarsi con varj
abiti e con belle armi lucenti, che all’adoprare penne ovver pennelli. Da
questa ultima epoca sembra dover avere principio la sua stabile dimora ovunque
fosse, e da questo tempo fino poco oltre il 1570 può essere stato da lui steso
o riordinato con accrescimenti il suo libro, accennandovisi in un luogo morto
Michelagnolo, ed in un altro pubblicata di fresco la Prospettiva del Barbaro che
uscì l’anno 1567. Sembra da tutto ciò potersi congetturare ch’ei fosse nato tra
il 1520 e il 1530, e ch’ei si recasse a Roma poco dopo il 1540. Mi sono
alquanto dilungato intorno a questo autore, perchè non vi è libro che dia conto
di lui.
Il passo più importante che tratta del Cenacolo,
trovasi nel libro terzo a carte 173. Ragionando ivi degli ornamenti de’ refettorj,
Fra gli altri, dice, io vidi in Milano quello de’ frati di san
Domenico in santa Maria delle Grazie, nel quale a man manca vi è dipinto a olio
sul muro un Cenacolo da Leonardo Vinci, che, abbenchè fosse allora mezzo guasto,
mi parve però in tal modo un miracolo molto grande per aver egli espresso
mirabilmente negli apostoli quel sospetto ch’era entrato in loro di voler
sapere chi era che tradir volesse il loro maestro.
Nel libro antecedente poi, a carte 148,
già aveva parlato delle difficoltà che Leonardo sostenne onde comporre la testa
di Giuda; ma nulla vi si legge di nuovo, anzi sembra ripetere ciò che già
aveano pubblicato il Vasari ed il Giraldi intorno al modo di studiare di
Leonardo. Non ostante l’accordarsi l’Armenini con quegli autori contemporanei,
aggiunge loro autorità intorno alle cose che a Leonardo hanno relazione.
Imperocchè l’Armenini che sembra essere stato più volte a Milano, dice aver ivi
veduti alcuni mirabili disegni del Vinci in mano di alcuni vecchi pittori,
probabilmente della sua scuola; ed essendo, com’egli asserisce, suo uso d’interrogare
tutti gli artefici specialmente intorno ai modi de’ migliori antichi maestri, è
da credere che quanto di Leonardo ei lasciò scritto, non fosse tolto soltanto
dal Vasari e dal Giraldi, ma anche dalle informazioni ch’ei prese dove esisteva
più grande la memoria di lui.
Il libro de’ Veri precetti[30] dell’Armenini può giovare
assai nella pratica, e diletta non di rado raccontando alcuni piacevoli
fatterelli avvenuti ai grandi maestri di quel tempo. Scarso però nella teorica,
e, senza la base della filosofia, fondato in gran parte sull’esempio, è per l’essenziale
dell’arte dannoso anzi che utile. I veri precetti dell’arte non si possono
trarre che dalla natura e dalla ragione: gli esempj dichiarano i precetti e li
confermano; ma ove li facciano, l’arte è caduta, perchè perde l’originalità.
Ben altrimenti furono i precetti di Leonardo, ed è bello lo scorrere tutti i
suoi libri senza trovarvi un solo esempio, quasi ch’egli credesse far torto all’evidenza
delle verità che si traggono direttamente dalla natura, sostenendole colle
prove dell’arte, figlia di troppo debole autorità a petto di siffatta madre.
GREGORIO
COMANINI.
(1591)
Il seguente passo, importantissimo per
la singolare notizia che ci dà d’una copia del Cenacolo, eseguita probabilmente
a cesello in argento, d’ordine di Francesco I, è estratto dall’opera che ha per
titolo: Il Figino ovvero del Fine della
Pittura. Dialogo del Rever. Padre D. Gregorio Comanini, Canonico Lateranense.
Ove quistionandosi se il fine della Pittura sia l’utile ovvero il diletto, si
tratta dell’uso di quella nel Cristianesimo, e si mostra qual sia imitator più
perfetto e che più diletti, il pittore ovvero il poeta. L’opera fu scritta,
a quanto apparisce, nel 1690, e fu subito pubblicata fanno seguente in quarto
coi torchi di Francesco Osanna in Mantova. Si espone in essa un dialogo, a dir
vero, prolisso, ma non povero di buona erudizione e di utili notizie, tra il
padre don Ascanio Martinengo, Stefano Guazzo e Giovanni Ambrogio Figino pittore
milanese. Sì il Martinengo come il Guazzo si resero celebri al declinare del
secolo decimosesto e colle opere proprie e col prestar favore alle lettere. Il
Martinengo fondò in Padova l’accademia degli Animosi, della quale trovansi
memorie nelle lettere di Diomede Borghesi e presso altri autori, e di cui
furono membri Sperone Speroni, il Tomitano, il Macino, il Piccolomini. Il
Guazzo poi fu fondatore dell’accademia degl’Illustrati in Casale di Monferrato,
che fu pure feconda di non ignobili ingegni. E il Figino da ultimo, in casa del
quale accade il dialogo, essendo egli visitato dai detti due illustri ospiti che
nol conosceano che di fama, fu il preddetto scolare del Lomazzo, e valse più di
lui, sebbene fosse ineguale assai nelle opere e perdesse spesso la gloria dell’originalità,
dandosi troppo all’imitazione de’ grandi maestri ed abbandonando lo studio
diretto della natura. Egli merita nondimeno un posto distinto nella storia
pittorica, e fa dispiacere il vedere tanto silenzio sopra questo degno maestro
ne’ prolissi cataloghi de’ troppo lodati artefici di quest’epoca. I suoi
disegni furono sovente confusi con quelli di Batista Franco, del Salviati, del
Parmigianino, e talora fin anche del Buonarroti di cui ritrasse più volte le
opere principali. Oltre ciò che da questo dialogo si può ricavare, trovansi
sparsi grandi elogi di lui nel Trattato e ne’ Grotteschi del suo maestro, nelle
poesie del Marino, in quelle di Giuliano Goselini e in quelle del Borgogni.
Ecco il passo posto in sua bocca nel
dialogo del Comanini, a carte 264.
Il
re di Francia Francesco volle portare di là dall’Alpi tutto il muro del
refettorio delle Grazie di questa città, dove Leonardo Vinci avea dipinto la
Cena del Salvatore. Qual cosa stimava egli più? i denari o pure la pittura?
pensate voi quanta spesa avrebbe quel re fatta nella trasportazione di tanta
macchina quando fosse stato possibile il conducerla senza pericolo di
guastamento. Ma poichè non la potè trasferire nel suo reame, ne fece fare un
estratto in argento[31] il quale poscia fu da lui mandato a
donare a papa Clemente Settimo al tempo delle nozze di Margherita de’ Medici e
di Enrico il Secondo.
Ho scorse alcune altre opere del
Comanini, e nulla vi ho trovato di pittorico. Il Figino aveva un libro di
disegni[32] di Leonardo, come
sappiamo dal Lomazzo, dal Du Fresne e più chiaramente dal Venturi. Qual fosse
in parte quel volume, spero poterlo indicare allorchè pubblicherò molti scritti
e disegni inediti di Leonardo; perchè in un gran numero di schizzi che ho
raccolti del Figino, molti ne ho scoperti che sono bensì di sua mano, ma che
traggono origine da altri del Vinci senz’ alcun dubbio.
GIROLAMO
GATTICO.
(1600
circa)
In una storia manoscritta di Girolamo
Gattico domenicano, la quale tratta di tutte le cose appartenenti al convento
delle Grazie, là dove si fa parola delle pitture del refettorio, leggesi come
segue:
Leonardo
Vinci dipinse il Cenacolo che alterato si vede nel fine del medesimo refettorio,
e il duca e la duchessa che si vede a’ fianchi della suddetta Gerusalemme
(cioè la Crocifissione dipinta dal Montorfano dirimpetto al Cenacolo), quali si sono infracidite per essere dipinte
a olio, e l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre, ed egli
contro suo volere la face, perchè così onninamente volle il duca.
Il manoscritto del Gattico che conta
due secoli circa, stava altre volte nella libreria del convento delle Grazie.
Non s’intende abbastanza a che si riferisca quella frase ed egli contro suo volere la fece. Ad ogni modo non si può riferire
al Cenacolo, nè al metodo di dipingere a olio ch’era il consueto di Leonardo.
Io inclino pertanto a credere che Leonardo contro volere s’inducesse ad
aggiungere all’opera del Montorfano i ritratti della famiglia ducale; e che
però o li facesse eseguire da qualche suo discepolo o li trascurasse assai,
perchè a giudicarne dagli avanzi, che che se ne dica dal Vasari e da altri,
sono, a dir vero, opera assai mediocre. Egli è ben certo che se essi erano
consunti già da dugento anni per testimonio del Gattico, tanto più il sono
adesso, e fuor di dubbio hanno anch’essi subito, come il Cenacolo, la mano
micidiale del Bellotti o d’altri sia prima sia dopo di lui. Quindi il vero loro
stato antico non si può giudicare. Ma se le molte false asserzioni degli
scrittori de’ fasti pittorici permettono qualche congettura a quelle contraria,
allorchè si trovi l’appoggio di buone ragioni, io oserei dire che dal
Montorfano stesso, non già da Leonardo, fossero eseguiti tali ritratti.
Primieramente essi sono troppo evidentemente d’accordo col rimanente della
composizione per dover essere giudicati opera intrusa o aggiunta. In secondo
luogo, dove il colore è scomparso del tutto, si vede trasparire chiaramente
rintonaco generale della pittura, fatto con sola calce senza alcun’altra
preparazione o mistura, modo diverso dall’usitato da Leonardo. Vedesi in terzo
luogo impiegato l’oro puro col mordente ne’ panneggiamenti contro il sistema di
Leonardo che voleva che l’oro s’imitasse, come ogni altra cosa, coi colori.
Finalmente la maniera dell’opera non solo è conforme, come si disse, al
rimanente del dipinto nella composizione, ma lo è parimente nello stile, il che
non si potrebbe asserire senza far grave torto a Leonardo. Circa poi l’esser
tali ritratti fatti a olio e non a fresco, come il resto, dico che il pittore
fu costretto a questo genere, perchè è il solo che conceda quel tempo e comodo
che dal dipingere a fresco non si può ottenere, e ch’è sopra tutto necessario
allorchè si debbono ritrarre principi e personaggi grandi, i quali per pochi
istanti e con molta loro noja e con altrettanta angustia del pittore si
prestano all’arte de’ cui effetti poi sono rare volte contenti. Aggiunge peso a
questa mia congettura il sapere, all’epoca di questi ritratti, cioè intorno al
1495, impiegato Leonardo nel Cenacolo, nel colosso equestre ed in varj lavori
idraulici di grande importanza. Ne aggiunge la nota sua lentezza nell’operare e
finalmente la mediocrità dell’opera che fa contrasto troppo visibile colla
perfezione a cui Leonardo portava le poche sue pitture in questo tempo migliore
della sua vita. Parrai anche travedere l’origine dell’errore che a Leonardo fe’
attribuire l’opera del Montorfano, nell’esser essa eseguita a olio come il
Cenacolo, e non a fresco come la crocifissione. Così giudico che il Montorfano
richiesto dal duca di tali ritratti, si sarà scusato per la difficoltà d’improvvisarli
a fresco, ed il duca che vedeva Leonardo dipingere a olio la parete opposta,
gli avrà ordinato di farli a olio, alla qual cosa, per la diversità del genere
in uno stesso lavoro, il Montorfano si sarà mal volentieri prestato, come il
Gattico dice essere avvenuto a Leonardo.
Comunque però stia il fatto, io non
pretendo mai che l’altrui opinione pieghi alla mia; e solo oso esporre questa
congettura, perchè non so risolvermi a credere di mano di un tanto uomo, qual
era Leonardo, un lavoro dozzinale che per niun lato dell’arte è superiore a
quanto si facea da’ suoi contemporanei, nella nostra scuola.
GIOVANNI
BOTERO.
(1608)
Nel libro primo de’ suoi Detti memorabili di personaggi illustri,
sotto l’articolo Facezie riporta il
Botero il seguente fatterello, già variamente narrato da altri.
Leonardo
Vinci fu pittor di molta eccellenza. Hor mentre ch’egli dipingeva in Milano nel
convento delle Grazie la Cena di nostro Signore, menava l’opera più in lungo di
quel che il padre priore di quel convento avrebbe voluto. Il padre dopo averlo
pregato, e più e più volte instato a finire, veggendo ch’egli non si moveva,
ricorse al duca Francesco Sforza. Il duca, chiamato il Vinci, gli disse molto
seriamente che non mancasse di por quanto prima fine all’opera. Signor, rispose
egli, io spero di darvi tosto soddisfazione, perchè non mi mancano se non due
teste, cioè quella di s. Pietro e quella di Giuda. La prima mi pare d’averla
abbozzata assai a mio gusto; la seconda, cioè quella di Giuda, se mi mancherà
altra invenzione, io mi servirò di questa del priore che mi pare assai a
proposito. Con la qual risposta fece rider non poco il duca, e si sbrigò d’impaccio.
Il Botero scriveva le sue storielle,
raccogliendole dai cortigiani,[33] e non curandosi di confrontarle
cogli scrittori donde i narratori le prendevano. Quindi non è strano se molte
cose nel suo libro si leggono da altri autori narrate diversamente. Fa però
meraviglia che un uomo tanto versato nella storia, e che fu lungamente a Milano
segretario di s. Carlo, cadesse nell’errore di confondere il duca Lodovico col
duca Francesco: assai minor fallo fu l’accennare la testa di Pietro in vece di
quella di Cristo, anche in ciò senz’autorità.
I Detti
memorabili furono stampati la prima volta in Torino nel 1608, e ristampati
in Brescia ed in Venezia. La seconda edizione torinese, posta in luce da
Domenico Tarino nel 1614, fu notabilmente accresciuta dall’autore. Da questa,
alla pagina 536, si scorge che il Botero compose un’altra opera intitolata Il Pellegrino, la quale sfuggì alla
diligenza dell’accuratissimo Mazzucchelli che d’ogni altro lavoro di questo
autore dà esatte notizie.
PIETRO
PAOLO RUBENS
(1610
circa)
Il De Piles possedeva un manoscritto
latino di Pietro Paolo Rubens, dal quale fedelmente, secondo asserisce, egli ha
tradotto il seguente squarcio.
Leonard de Vinci commençoit par
examiner toutes choses selon les regles d’une exacte Théorie, et en faisoit
ensuite l’application sur le Neturel dont il vouloit se servir. Il observoit
les bienséances, et fuïoit toute affectation. Il sçavoit donner à chaque objet
le caractere le plus vif, le plus specificatif et le plus convenable qu’il est
possible, et poussoit celuy de la majesté jusqu’à la rendre divine. L’ordre et
la mesure qu’il gardoit dans les Expressions étoit de remuer l’imagination, et
de l’élever par des parties essentielles, plûtôt que de la remplir par les
minuties, et tâchoit de n’être en cela, ni prodigue, ni avare. Il avoit un si
grand soin d’éviter la confusion des objets, qu’il aimoit mieux laisser quelque
chose à souhaiter dans son Ouvrage, que de rassasier les yeux par une
scrupuleuse exactitude: mais en quoy il excelloit le plus, c’étoit comme nous
avons dit, à donner aux choses un caractere qui leur fût propre, et qui le
distinguât l’une de l’autre.
Il commença par consulter plusieurs
sortes de Livres. Il en avoit tiré une infinité de lieux communs, dont il avoit
fait un Recueil, il ne laissoit rien échapper de ce qui pouvoit convenir à l’expression
de son sujet et par le feu de son Imagination, aussi-bien que par la solidité
de son jugement, il élevoit les choses divines par les humaines, et sçavoit
donner aux hommes les degrez différens qui les portoient jusqu’au caractere de
Héros.
Le premier des exemples qu’il nous a
laissez, est le Tableau qu’il a peint à Milan de la Céne de Nôtre-Seigneur,
dans laquelle il a répresenté les Apôtres dans les places qui leur conviennent,
et Nôtre-Seigneur dans la plus honorable au milieu de tous, n’ayant personne
qui le presse, ni qui soit trop près de ses côtes. Son attitude est grave, et
ses bras sont dans une situation libre et dégagée, pour marquer plus de
grandeur, pendant que les Apôtres paroissent agites de côté et d’autre par la véhémence
de leur inquiétude, dans laquelle néanmoins il ne paroît aucune bassesse, ni
aucune action contre la bienséance. Enfin par un effet de ses profondes spéculations,
il est arrivé à un tel degré de perfection, qu’il me paroît comme impossible d’en
parler assez dignement, et encore plus de l’imiter.
Il De Piles dice che Rubens veniva in
seguito dichiarando gli studj anatomici di Leonardo tanto su gli uomini quanto
sui cavalli: indi spiegava le osservazioni fatte da Leonardo sulla Fisionomia,
e all’ultimo le proporzioni del corpo umano, delle quali cose tutte egli aveva
esaminati gli originali disegni presso Pompeo Leoni. Di quanta importanza sarà
stato questo scritto, si può giudicare dal frammento conservatoci, dalla
gravità degli argomenti, dall’ingegno grande del Rubens e dalla eccellenza
delle opere che facevano il soggetto del suo esame. E fu in vero perdita
notabile che il De Piles nol pubblicasse tutto, perchè intorno al 1720 un
incendio consumò lo scritto originale insieme colla famosa raccolta di stampe e
disegni dell’ebanista Bullo, come si legge nelle note dell’edizione romana del
Vasari. Nè si creda riparato un tal danno dall’opera del Rubens pubblicata nel 1773,
che ha per titolo Théorie de la figure
humaine. Fu anch’essa, a dir vero, tradotta dal latino, ma è in tutto
diversa, e giudicandone dal solo saggio conservatoci dal De Piles, d’assai
inferiore alla perduta d’importanza e di pregio.
FEDERICO
BORROMEO.
(1635)
Quanto finamente sentisse le delicate
bellezze dell’arte l’insigne cardinale Federico Borromeo, scorgesi dal libretto
ch’egli stampò per descrivere le pitture da lui raccolte e donate al pubblico.
Tale operetta ha per titolo Museum, e
vide la luce nel 1635. Io tradurrò alla meglio il passo che bramo noto al
lettore: chi lo può leggere nella lingua in cui fu scritto, tralasci la
traduzione e lo legga fra le note.
Ove l’ottimo porporato, all’occasione d’una
copia ch’ei fece fare del Cenacolo, prende a ragionare di quest’opera, Del suo pregio, dic’egli, comechè da molti ne sia stato scritto, io
dirò soltanto ciò ch’agli altri è forse sfuggito, cioè che negli affetti varj e
ne’ diversi moti dell’animo sta la principal gloria di questo lavoro; lode,
alla quale specialmente mirò Plinio nell’esaltare la tavola del Giudizio di
Paride, nel cui solo volto ammiravansi riuniti tre affetti fra loro differenti.
Nè limitossi il pittore ad esprimere il dolore e le lagrime il che altri per
avventura farebbe, ma nel movimento di tutte le membra si fattamente aperti
descrisse i sentimenti dell’animo che a chiunque attento riguarda questa
pittura, sembra gli suonino all’orecchio le parole che gli apostoli si dissero
a vicenda allorchè Cristo pronunciò quella terribile sentenza: Quei che meco intinge la mano nel piatto, mi
tradirà. La Veneranda faccia del Salvatore indica la mestizia profonda
dell’animo, che soppressa si scorge e velata da gravissima moderazione. I detti
degli apostoli su tanta atrocità e il dialogare e fra loro e col maestro, pare
in certo modo di udirli. L’uno minaccia il traditore: altri promette soccorso e
difesa al suo signore: taluno stupisce penetrato dall’enormità del misfatto:
avvi chi si sforza di allontanare da sè il sospetto dell’orrido attentato: avvi
chi interrogando, insistendo vuol sapere il modo e l’ordine della preparata
congiura: chi si adira, chi ammutolisce, chi si maraviglia, chi attende a ciò
che dagli altri vien detto. Ma sovra tutti distinguesi il volto di Pietro
acceso di furore e di desiderio di vendetta, e vi si legge l’animo impaziente d’indugio
per l’amore del maestro: notinsi in lui la forza, la fermezza, la generosità:
tu il vedi avvampar d’ira secreta, minacciare il traditore di castigo, ma non
palesando ad altri il suo intento, fra sè volgerlo e maturarlo: così adirato a
un tempo e dissimulante, ei chiede a’ Giovanni che gli spieghi gli arcani del
tradimento e il significato delle divine parole. Presso il principe degli
apostoli così atteggiato, l’artefice collocò Giuda il traditore, acciocchè per
l’opposizione, il contrario talento meglio e più chiaro apparisse: nè le
contrarie facce potean essere più fra loro diverse: torva, ispida e vile è la
deformità del fellone, come onesto e pieno di dignità è il volto vivace di
Pietro; inoltre Giuda inquieto tra l’odio e la paura d’essere scoverto, tende l’orecchio
onde ascoltare il colloquio tra Pietro e Giovanni, e sembra raccoglierne le
parole codardo a un tempo e fermo nell’infame proposito. E veramente spiegò
Leonardo nel viso di Giuda i profondi misteri della Fisionomia, e mostrò quanto
addentro conoscesse quest’arte: imperocchè il fece fosco, irsuto, con occhi
incavati, squallido di adusta magrezza, con naso schiacciato e con irti capelli;
le quali cose sogliono essere indizio del pessimo abito dell’animo presso
coloro che dalle fattezze ne giudicano. Alle stesse leggi di Metoposcopia
corrisponde al contrario l’ira di Pietro, espressa con artifizio dal pallore
delle labbra, dalla guancia infiammata e dalle tumide nari; siccome il naso
curvo e virile e l’occhio severo sogliono essere segnali di nobile ed elevato
animo. I quali indizj della natura io volli avvertire acciocchè i nostri
dipintori intendano che siffatti studj non sono fuori del limite dell’arte
loro, e che di rado commetterà errore quegli che crederà necessario l’occuparsi
lungamente di tali considerazioni.
Chiunque confronterà con questo i passi
varj qui riuniti si antichi come moderni, potrà facilmente scorgere quanto il
Borromeo sentisse squisitamente e giudicasse le cose pittoriche più in là d’ogni
altro anche pittore, e in modo veramente degno dell’artefice la cui opera con
tanto affetto descrive. Le altre descrizioni accanto alla sua non provano ne’
loro autori quella fina maniera di vedere ch’è necessaria per penetrare dentro
i secreti dell’arte, e che per dono naturale e per certo esercizio possedeva
assai bene l’ottimo cardinale in un secolo per l’arte già corrottissimo.
A questo valente mecenate d’ogni buona
disciplina debbe la nostra città la pubblica biblioteca ambrosiana e l’annessavi
accademia di pittura, oltre infinite altre utili e magnifiche istituzioni. Suo
non meno, sebbene eseguito in parte dopo di lui, fu il progetto del colosso in
bronzo di san Carlo, la cui massa risponde a quella di oltre duemila e
settecento uomini, mole unica di tal genere in Europa.
BARTOLOMMEO
DA SIENA.
(1636)
Nel libro che ha per titolo De vita et moribus beati Siephani Maconi
Senensis Cartusiani, Ticinensis Cartusiæ olim Cænobiarchæ etc., composto da
Bartolommeo sanese, monaco della Certosa di Firenze, dove si descrive il
refettorio della Certosa di Pavia, parlandosi della copia che ivi conservavasi,
si fanno grandissimi elogi dell’originale di Leonardo e delle virtù pittoriche
di questo grande artefice.
VINCENZO
CARDUCHO.
(1633)
Vincenzo Carducho o Carducci fiorentino,
stabilitosi da giovinetto alla corte di Spagna, vi fece molte opere di pittura,
e vi pubblicò non un dialogo, come dicono il Lanzi e il Baldinucci, ma ben
otto, De la Pintura, su defensa, origen, essència,
definicion, modos y diferencias. Leggonsi in quest’opera molte utili
notizie specialmente circa le pitture de’ palazzi reali di Spagna. Intorno alle
altre cose, quantunque il Bermudez lo chiami il miglior libro di pittura che
sia scritto in castigliano,[34] poco di originale vi si
legge; e il Vasari, il Borghini ed altri furono di scorta al nostro autore, com’egli
lo fu in seguito, secondo l’opportunità, al Pacheco ed al Palomino. Nel primo dialogo[35] che al pari degli altri
succede tra discepolo e maestro, parla del Cenacolo di Leonardo per bocca del
discepolo che dice aver vista a Milano questa
insigne opera tanto dai dotti ammirata, nella quale si vede a qual alto punto
di perfezione sali l’ingegno di questo uomo divino. Poichè, segue egli a
dire, non avvi apostolo che al moto, all’atto,
al volto non dimostri l’intenzione e l’affetto che internamente ed esternamente
il commuove, il turbamento, la santità, la pietà, la fedeltà e l’amore: come non
meno si scorge la malignità e il tradimento nell’atto plebeo e nel viso falso e
discortese di Giuda. Dice da poi d’ignorare la cagione per la quale
Leonardo lasciò imperfetta la testa del Salvatore, con che dà occasione al
maestro di narrare la storiella del priore, imitando il racconto del Vasari.
Si rinnuova menzione del Cenacolo nel
dialogo terzo che tratta della definizione ed essenza della pittura e delle sue
differenze, nel quale il maestro dice che il dotto Leonardo non avrebbe potuto
sì egregiamente esprimere i concetti dell’animo negli apostoli che dipinse in
Milano, se non fosse stato si grande filosofo e fisionomico, conoscendo e applicando a misura delle cause
gli affetti esterni ed interni dell’animo e del corpo.
Le altre cose di questo autore che si
riferiscono a Leonardo, non sono importanti o sono tratte dal Vasari, dal
Borghini e dal Lomazzo. Solo mi parve cosa notabile un Trattato di Fisionomia
di cui, come di opera di Leonardo, dà cenno nel dialogo primo, e che è indicato
dal De Piles nel manoscritto del Rubens sotto il titolo di Osservazioni. Parla
ivi anche di alcuni mirabili discorsi manoscritti di Michelagnolo, ora
sconosciuti o perduti, non senza gran danno e desiderio dell’arte.
FRANCESCO
BISAGNO.
(1642)
Dalle opere del Lomazzo principalmente
e dall’Armenini estrasse il Bisagno il suo libretto che intitolò largamente Trattato di Pittura, stampato nel 1643 e
nel 1644. Nel capo decimosesto fa menzione degli studj che Leonardo fece per
più mesi intorno alla testa di Giuda. Nel vigesimottavo consiglia come cose
opportune ne’ refettorj varie storie di conviti, e fra le altre il Cenacolo degli apostoli con esprimer
mirabilmente in loro quel sospetto ch’era entrato del voler sapere chi era che
tradir volesse il loro maestro, come divinamente lo significò Leonardo Vinci in
s. Maria delle Grazie dei frati di s. Domenico in Milano.
Il Trattato del Bisagno è un meschino
ed inutile libro.
FRANCESCO
SCANNELLI.
(1642)
Lo Scannelli, medico fisico forlivese
scrisse nel bel mezzo del seicento, e sparse a larga mano nel suo Microcosmo i modi affettati e ridicoli
del suo secolo nel quale, dic’egli a
chi gli vuol credere, si riconosce all’ultimo
segno di perfezione l’arte della bella dicitura. Egli non professava
pittura, ma l’amava, per quanto egli asserisce, per una inesplicabile simpatia, come si volge al polo la pietra, che (mi sia qui permesso di
cogliere uno de’ suoi fiori) tiene
lapidati gl’ingegni tutti, nasce gravida di meraviglie, e col nome di calamita
partorisce calamitadi alla messe degli umani pensieri. Giudichi il lettore
quanto fastidiosa cosa sia il cercare notizie negli scritti di questo genere.
Pure il Microcosmo ne contiene molte non inutili, che non trovansi altrove, e
sebbene sia un cattivo libro per lo stile sempre e pel giudizio assai spesso, è
però abbastanza importante per la storia pittorica da meritare un posto nelle librerie
degli amatori della pittorica erudizione. Importantissimo è il luogo dove parla
del Cenacolo: mi è d’uopo riportarlo intiero.
Al
cui proposito (di Leonardo) sarà
forsi a grado l’inserir qui qual sia l’opera di così rinomato Cenacolo; sendo
che si ritrova talmente viva la memoria appresso d’ogni professore e gustoso di
questa virtù, che la straordinaria fama di tal nome pare che per se stessa sia
sufficiente per far conoscere il migliore fra gli operati del famosissimo
maestro, et un raro prodigio della buona pittura; di maniera tale che io in
estremo stimolato dal comune grido de’ virtuosi, bramoso in ogni tempo d’incontrare
le maggiori eccellenze di tal professione, sino dell’anno 1643 partii di
Romagna per godere una tal opera, come nel centro di Lombardia i più rari
dipinti d’Antonio da Correggio, e perciò mi portai sino a Milano, dove appena
giunto, reso impaziente di scoprire gli effetti straordinarj del
commendatissimo Cenacolo, tantosto m’avanzai nel refettorio de’ padri
predicatori per ristorar una tanta avidità, e posso attestare in tal caso che
in riguardo d’incontro inaspettato mi restasse il gusto in estremo instupidito,
scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia, nelle figure, e con
modo così confuso che a gran fatica potei distinguere la già stata historia, e
le teste, come mani e piedi ed altre parti ignude con chiari, lividi e meze
tinte, trovai quasi affatto annichilate, et al presente stimo non siano che del
tutto estinte, e le figure per lo più dal muro divise, et in parte fatte
oltramodo oscure davano a conoscere le buone reliquie d’opera già resa del tutto
mutile, non restando al riguardante hormai che il credere alla buona fama del
passato. E mi potrei anco rammaricare di non haver procurato una tal vista qualche
tempo avanti per ritrovarlo di bramata conservatione, quando nel leggere autore
del secolo passato (cioè l’Armenini) non
havessi sentito in questo caso le seguenti parole. » Vidi nel refettorio delle
Gratie di Milano ad oglio dipinto il Cenacolo di Leonardo da Vinci mezo guasto,
benchè bellissimo. » E però non pensavo che indarno di ritrovare in buon stato l’opera,
la quale un secolo prima non era che in parte rovinata.
Segue indi a ragionare della cagione di
tanta ruina, intorno a che ci accadrà di nuovo ricordare l’autore nel quarto
libro. Per quanto poi non gli si debba negar fede circa il misero stato che
descrive, del Cenacolo, è facile l’avvedersi della sua abitudine d’esagerare
dal chiamare del tutto inutile un opera che pure vantava ancora delle buone
reliquie.
ILARIO
MAZZOLARI.
(1648)
Compilò il Mazzolari monaco girolomino
il libro che ha per titolo Le reali
grandezze dell’Escuriale di Spagna, ed in esso alla pagina 87 ove parla d’una
copia del Cenacolo, descrive e loda ampiamente l’originale. Ad onta di qualche
sbaglio intorno agli accessorj, la descrizione di questo buon frate sembrami
degna d’essere riportata per intero.
Stanno,
dic’egli, tutti gli apostoli come
inquieti e che non trovino posa udendo dire al loro maestro e signore che un di
loro l’avea a vendere. In solo Giuda si conosce chiaramente un riposo ritenuto
e finto come di traditore che sta aspettando in che abbi a parar quel
ragionamento. Sta egli appoggiato col braccio sinistro sulla tavola, e col
destro getta la saliera, come chi infrangeva e guastava la pace di quel celestiale
collegio; maggior peccato che anco quello di Lucifero che scompigliò e mise
sottosovra il cielo e la terra. Nella stessa mano tien vicina al petto la
borsa, come chi la tenea nel cuore, o quello in essa, ove il tengono molti che
se gli rassomigliano non poco. Le facce pajono vive. Pare udiamo san Pietro
quello addimanda a san Giovanni sopra quel caso per cavarne il delinquente,
secondo sta il vecchio inquieto e mutato ‘l colore e mezzo in piedi. Le robbe,
i vasi, i mantili e le tovaglie, come se fossero le cose medesime. Sarebbe
bastante quest’opera a dargli eterno nome (a Leonardo), quando non vi avesse lasciata altra di sua
mano. Non so io ponderar altri segreti nell’eccellenze che qui veggono quei che
sanno dell’arte. A quanti la veggono, s’hanno in ciò alcun sentimento, gli pone
in ammirazione; che ‘l ben fatto e conforme all’arte imitatrice della natura a
tutti gradisce, benchè non tutti sappiano il perchè.
Questo scrittore che sembra essere
stato osservator diligente, è il solo in cui leggo che essendosi lasciato
imperfetto da Leonardo il Cenacolo, fu di mestieri cercare un altro pittore che
lo finisse, cosa inverisimile, anzi ridicola. Le reali grandezze ecc. descritte dal Mazzolari videro la luce nel
1648, sebbene il più degli esemplari porti la data del 165o sì nel frontispizio
come nella dedica dell’autore al Malvezzi.
FRANCESCO
PACHECO.
(1649)
Nel libro che ha per titolo Arte de la Pintura su antiguetad, y
grandezas ecc. por Francisco Pacheco
Vezino de Sevilla,[36] trovasi un breve cenno
del Cenacolo e del vano desiderio ch’ebbe il re Francesco di portarselo in
Francia. Tutto quello però che in tal libro si legge intorno agli artefici
italiani, come per lo più anche ciò che spetta all’arte per teorica e per
pratica, è tratto dai nostri autori (fra i quali comprendo il Carducci) e
specialmente dal Vasari. Solo mi parve nuovo il leggervi sempre nominato
Leonardo col titolo di maestro di Raffaello d’Urbino, cosa per Leonardo molto
onorevole, ma non sostenuta da alcun’altra buona autorità a me nota.[37] Che se Leonardo insegnò a
Raffaello in Firenze col suo cartone della Battaglia o in Roma coi consigli, si
può dire che Raffaello ebbe a maestri non solo fra Bartolommeo, Bramante e
Michelagnolo, ma tutti coloro dai quali credea poter imparare per opere o per
parole, non esclusi il Masaccio e il Ghiberti che fiorirono un secolo prima di
lui.
Il Palomino che molte cose prese dal
Pacheco, dice al capo decimo del secondo libro, ch’ei scrisse con sensillo y claro estylo, y copiosa
explicacion de la theorica y pratica de esta arte, cioè della pittura, e
molti elogi ne fece al tomo terzo nelle Vite de’ pittori. Giacchè si era
utilmente servito del suo libro, avrebbe potuto per gratitudine risparmiargli quel
satirico epigramma[38] in cui è tassato di
secchezza, e che pur volle riportare al fine delle sue memorie.
RAFFAELLO
TRICHET DU FRESNE.
(1651)
Nella vita di Leonardo che in italiano
scrisse il Du Fresne, e pose in fronte al suo gran Trattato che vide la prima
volta la luce in Parigi nel 1651, sebbene il più di essa sia preso dagli autori
italiani, leggonsi molte cose a quel tempo nuove, specialmente intorno ai
famosi codici de’ quali Leonardo aveva lasciato erede Francesco Melzi. Ciò però
che spetta al Cenacolo è tratto dal Vasari e dal Lomazzo, ed anch’egli ripete
ch’essendo stata quell’opera dipinta a olio sopra un muro umido, era al suo
tempo del tutto guasta.
Tutti gli artefici del disegno, e
specialmente gl’italiani, debbono infinita riconoscenza a questo illustre
francese per la pubblicazione dell’aureo libro di Leonardo,[39] tanto più che la sua
edizione supera tuttavia in eleganza e in ricchezza le molte posteriori in
tutte le lingue, e sarà la sola che meriterà di essere conservata, allorchè
porrò in luce l’intero assai più lungo Trattato del nostro pittore filosofo,
che con altri singolari suoi scritti la fortuna e la compiacenza di dotti amici
mi ha posto fra le mani.
GIANDOMENICO
OTTONELLI E PIETRO BERRETTINI.
(1652)
L’Ottonelli da Fano e il Berrettini da
Cortona, l’uno teologo, l’altro pittore, composero un Trattato della pittura e scultura, uso et abuso loro, e nascondendo per cristiana modestia i loro nomi,
siccome scrissero nell’avviso a chi legge, li trasfusero poi in barbari
sciocchissimi anagrammi nel frontispizio.[40] Il libro è ricco di
erudizione, specialmente teologica, profusavi spesso inopportunamente; ma
diretto ad insegnare la più stretta morale cattolica nell’esercizio dell’arte,
nulla insegna che alla pratica e alla teorica di essa appartenga, e ciò che
spetta alla sua storia vi è tratto dai libri più noti. Così quantunque non di
rado vi si faccia menzione del Vinci, nulla affatto di nuovo vi si legge, e ciò
che spetta al Cenacolo, è copiato di pianta dal Vasari.
FRANCESCO
SCOTO.
(1654)
Nell’Itinerario d’Italia dello Scoto,
ove parlasi della chiesa e convento delle Grazie, Se desideri, dice l’autore, vedere
le più illustri e maravigliose pitture che si possano veder in tutto ’l mondo,
fa che quei padri ti mostrino il refettorio dove vedrai la Cena del nostro
Signore con gli apostoli, nei quali Leonardo Vinci con maravigliosa maniera ha
dimostrato una vivacità e uno spirito che par veramente che si muovano.
Dimostrano questi apostoli nei lor volti chiaramente tremore, stupore, dolore,
suspizione, amore et altre qualità d’affetti che allora avevano.
Particolarmente nel volto di Giuda si vede espresso quel tradimento che aveva
concetto nell’animo.
Racconta in seguito la disperazione di
Leonardo per la testa di Cristo, e il consiglio di Bernardo Zenale, com’è
narrato dal Lomazzo. Altrove[41] dice che non si scorgeva
nel Cenacolo la maestà di prima, perchè
la lunghezza del tempo l’ha scemata.
ROLANDO
FRÉART.
(1663)
In un libercolo che ha per titolo Idée de la perfection de la peinture
ecc., il Fréart parla a lungo del modo con cui si debbe rappresentare l’ultima
cena di Cristo, e a tal proposito ragiona dell’opera di Leonardo, tentato com’era,
di metterla in confronto colla Istituzione dell’eucaristia di Nicolò Possino.
Nulla però ivi si legge che importi d’esser citato; e se pur vi fosse qualche
cosa di nuovo, non farebbe autorità alcuna, tanto in quest’opera è, contro il
suo costume, stravagante e bisbetico questo scrittore. Ove egli porta a cielo
il suo amico Possino, ogni Italiano farà eco agli encomj di sì degno e savio
artefice, e solo si dorrà che non ricevano credito da miglior giudice. Ma
quando parla con disprezzo, non dirò del Vasari o d’altri minori, ma del
sublime Michelagnolo le cui opere non poteva intendere, gli si fa grazia a
dargli del pazzo. Lo stesso parmi si debba ripetere allorchè dice che la
proporzione o simmetria dell’uomo è una cosa facile, anzi uno studio
interamente meccanico: lo stesso, per tacer d’altri luoghi, allorchè taccia di
poca espressione la Strage degl’innocenti di Raffaello, nella quale, per darci
un’idea del suo delicato buon gusto, avrebbe voluto che il suolo fosse coperto di braccia, di gambe, di teste trinciate, di
corpi mozzi e scannati, e simili leggiadrie. Che se poi, ad onta delle sue
eccezioni, Raffaello e Leonardo sono per lui i due gran capi de’ moderni
pittori, ciò non può ridondare in loro lode dopo il lungo sfogo di orribili
villanie, al quale si abbandona contro il Buonarrori cui chiama fanfarone della
pittura, temerario, empio, inetto, sterile, ridicolosissimo, che non ha pur il
minimo talento di pittore ecc.[42]
Intanto questo libro stampato la prima
volta a Mons nel 1662, in 4.°; tradotto quindi in inglese dall’Evelyn e
pubblicato a Londra nel 1668, in 12; recato di poi in italiano da Anton Maria
Salvini, e dimenticato sempre come meritava, fu pubblicato l’anno scorso nella
patria di Michelagnolo. Il cavaliere Onofrio Boni vi aggiunse per correttivo
una dotta, forse troppo moderata difesa del suo grande compatriota, senza la
quale sarebbe stato cosa vituperevole il dar luce in Toscana a simile
produzione.
Miglior giudizio mostrò il Fréart nel
suo Paralello dell’architettura antica colla moderna, sebbene non
manchino errori d’ogni genere anche in questa opera, come in parte mostrarono
il Desgodetz, l’espositore dell’Architettura Lodoliana, il Pompei e il Milizia.
Ma dove a mio parere si rendè più commendevole, egli è nella traduzione
francese che fece e pubblicò del manoscritto di Leonardo, che ornato delle
figure del Possino era stato donato a suo fratello dal cavalier Del Pozzo nel
1640. Ma non ci voleva meno, se pur questo basta, acciocchè gli si perdoni il
torto ch’ei si è fatto da poi colla sua Idea della perfezione della pittura.
Rimane però da verificarsi se tale traduzione sia veramente sua o pure del
signor De Charmois, siccome è scritto nella vita di Leonardo, premessa alla
edizione parigina del Trattato, uscita nel 1716. Ad ogni modo il libello del Fréart
è dannoso per l’arte non meno che per la riputazione dell’autore.
FÉLIBIEN.
(1666)
Intorno alle vecchie cose italiane,
poco di nuovo può trarsi da questo autore che pubblicò la prima volta i suoi Trattenimenti sulle vite e sulle opere de’
più eccellenti pittori antichi e moderni l’anno 1666, e poi nel 1685 con quasi
niuna differenza in quanto riguarda il nostro argomento.
Parlando de’ lavori pittorici di
Leonardo, dice che il Cenacolo è il suo capo d’opera, e che ve n’ha una copia
assai stimata a san Germano d’Auxerre in Parigi. E anch’egli d’opinione che non
abbia finito la testa di Cristo; ma ciò non fa meraviglia perchè questo autore
ha per lo più seguito i vecchi scrittori italiani in ciò che non aveva sott’occhio.
RICCIARDO
LASSELS.
(1671)
Nel Viaggio
d’Italia del Lassels, del quale non ho potuto vedere se non una traduzione
francese del 1671, si trova un cenno del Cenacolo che vi si attribuisce a
Lorenzo Vinci, errore pur anche preso da Leandro Alberti. Il famoso codice poi
di Leonardo vi si legge attribuito ad Alberto Durero. Gli sbagli di nomi e di
cose, i più grossolani, si trovano in questo libro in gran numero ad ogni
pagina.
AGOSTINO
SANTAGOSTINO.
(1671)
Nel catalogo delle pitture milanesi
pubblicate dal Santagostino pittore, a carte 44 si rammemora la Cena, Ma, soggiunge l’autore, per aver patito assai, poco se ne può godere
con l’occhio.
PIER
PAOLO BOSCA.
(1672)
Nel libro dell’Origine e dello Stato della Biblioteca Ambrosiana ci ricorda il
Bosca il Cenacolo e la sua ruina, in proposito della copia fattane fare dal
cardinale Borromeo. Riporterò il passo nella descrizione delle copie.
CARLO
TORRE.
(1674)
Il canonico Torre nel suo Ritratto di Milano, dopo avere descritta
la chiesa delle Grazie e i portici del convento, Se volete poi stupire, continua egli al modo del suo secolo, ritiriamcene in refettorio, che sebbene egli
è loco per togliere la fame, questi lascia famelici più che mai chi a lui si
appressa, mentre s’ha occasione di rimirare un avanzo del nominato Cenacolo di
Cristo fatto da Leonardo da Vinci: eccovelo, e rimirandolo quasi omai smarrito,
dite esser egli un sole sull’ultime ore del giorno, i cui cadenti raggi, se non
appajono risplendenti, danno però notizia d’essere stati lucidissimi; veggonsi
ancora vivi sembianti, figure in iscorci sforzosi, colori risplendenti e
positure a meraviglia disegnate.
Dà cenno in appresso di alcune copie
delle quali si ragionerà al loro luogo.
Aggiunge una cosa osservabile, cioè che
nello stesso refettorio dove è dipinto il Cenacolo, fu aggregato Leonardo alla
famiglia del Moro, non già come pittore, ma come musico sonatore di lira. Se
ciò è vero, può credersi fatto dal duca onde avere pretesto di accrescergli la
pensione; con che si verrebbero ad accordare le differenze degli scrittori
intorno allo stipendio che il duca gli dava, dal Bandello suo contemporaneo
indicato di duemila ducati.
GIOACHINO
SANDRART.
(1675)
Anche il Sandrart ripete, come tant’altri,
ciò che disse il Vasari. È strano che tanto nell’edizione tedesca della sua
Accademia pubblicata nel 1675, quanto nella latina stampata nel 1683, si dica
Leonardo venuto a Milano nel 1434. È chiaro che questo errore va corretto coll’anno
1494 indicato dal Vasari, la cui autorità sebbene non di rado contrasti col
vero, è sempre dal Sandrart ciecamente seguita.
ISACCO
BULLART.
(1695)
La vita di Leonardo pubblicata dal Bullart
nella sua Accademia delle Scienze e delle
Arti, è estratta da quella del Vasari con poche aggiunte di nessuna
importanza. Quindi non è meraviglia che il Cenacolo vi sia abbastanza bene
descritto. Parlando poi della testa di Giuda, per la quale nacque quistione tra
il priore e Leonardo, dice che il pittore non mancò di mettere in quella figura
qualche tratto del frate ignorante a cui attribuisce un visage chagrin et refroignè. Credo che il Bullart sia il primo che
positivamente asserisca come fatto, ciò che presso gli scrittori precedenti
sembra doversi intendere, anzi che altro, una minaccia scherzevole onde
acchetare il fastidioso priore.
DE
PILES.
(1699
= 1715)
Non so se più si debba al De Piles per
quanto di suo ci dice intorno al Cenacolo, o pel passo ch’ei ci conservò di
Pietro Paolo Rubens. Già vedemmo lo
scritto del Rubens; ecco il suo:
Il fit entr’autres dans le Réfectoire des
Dominicains de Milan, une Cène de Notre-Seigneur d’une beauté exquise. Il n’en
acheva pas le Christ, parce qu’il cherchoit un modèle propre au caractère qu’il
imaginoit lorsque les Guerres l’obligèrent de quitter Milan. Il en avoit fait
autant de Judas; mais le Prieur da Couvent, dans l’impatience de voir finir cet
Ouvrage, pressa si fort Lèonard, que ce Peintre peignit la Tête de ce Religieux
importun à la place de celle de Judas.
Asserisce dappoi di possedere un
disegno di mano di Leonardo, rappresentante questa famosa Cena, della quale
soggiunge non rimanere più ormai alcun vestigio. Cita in fine lo squarcio del
manoscritto del Rubens, che avrebbe fatto bene di pubblicare per intiero.
FLORENT
LE COMTE.
(1702)
Il Le Comte, autore del libro
intitolato Cabinet des singularitez d’architecture,
peinture, sculpture et gravure, diede un brevissimo cenno del Cenacolo di
cui, ad onta del suo piano compendioso, avrebbe dovuto parlare più lungamente.
Egli fa Pietro Perugino discepolo di
Leonardo, come già leggemmo lo stesso di Raffaello presso il Pacheco, seguito,
come vedremo, dal Palomino.
DE
ROGISSARD E H***
(1707)
Nell’opera intitolata Délices de l’Italie, che fu compilata
dai signori Rogissard e H***, si nomina al quarto tomo il Cenacolo del Vinci
come quadro tenuto in grande estimazione. Poche pagine dopo si trova poi con
assai maggior lode ricordato il Cenacolo di Gaudenzio alla Passione, e ciò ch’è
strano, mentre vi si legge che nulla si può veder di più bello, non vi si fa
motto dell’autore.
SEBASTIANO
RESTA.
(1707)
Fra i disegni raccolti dal padre Resta
e descritti nell’Indice del libro intitolato Parnaso de pittori,[43] si fa menzione come di
mano del Vinci d’un ritratto del padre
priore delle Grazie che viveva nel tempo che Leonardo dipingeva la famosa Cena
de’ padri domenicani di Milano in tempo di Lodovico il Moro; opera, segue
il Resta, che non potendo Francesco I re
di Francia trasportar in Francia per essere dipinta ad olio sopra il muro largo
16 braccia,[44]
la portò in copia e la pose in s.
Germano, della quale poi ne fece tessere un arazzo che è quello che, donato dal
re a papa Clemente VIII (dee dir VII), si
espone tra gli arazzi di Raffaele pel Corpus Domini.
Il resto però dell’articolo sopra
Leonardo, specialmente circa l’epoche, è sì pieno di errori che non si può
contare nemmeno su quanto si è qui riportato. Ed anche questo disegno del
priore sarà un sogno de tanti del Resta intorno ai disegni antichi raccolti da
lui.
Gli scritti del Resta debbono valutarsi
quando si aggirano intorno a cose del suo tempo o al suo tempo prossime; non
così quando trattano di cose antiche: sopra tutto poi non bisogna per qualsivoglia
epoca dar fede ai suoi giudizj, perchè per lo più falsi ed esagerati.
PALOMINO
VELASCO.
(1715)
Sull’autorità, cred’io, del Pacheco
anche il Palomino nel capo nono del suo Museo
pitorico, chiama Leonardo maestro di Raffaello. E nel capo undecimo, dopo
aver narrato varie novelle d’imagini mirabili fatte senz’arte umana, viene a
far menzione del Cenacolo,[45] e pretende che Leonardo
non vi perfezionasse la testa di Cristo per modestia e per cristiana diffidenza
di sè stesso. Quindi consiglia i mezzi spirituali onde vincere le difficoltà
dell’arte: consiglio, a dir vero, assai comodo che risparmierebbe grandi
fatiche, ma d’un effetto non abbastanza certo, a quanto pare dalla storia. Però
Leonardo, Michelagnolo, Raffaello, Tiziano e Correggio preferirono i mezzi
soliti, e riuscirono sommi studiando la natura ed esercitando del continuo nell’arte
la mano e la mente. Quindi per coloro che hanno sortito buon ingegno per l’imitazione,
consiglierei i mezzi usati da questi maestri: agli altri che considerano la
pittura come arte non umana e che sperano di progredire in essa coi mezzi
consigliati dal Palomino, darei per parere di cangiar professione.
ANONIMO.
(1716)
L’autore della vita di Leonardo
premessa all’edizione francese del Trattato, pubblicata nel 1716, sebbene abbia
copiato quasi il tutto dalla vita del Du Fresne, accresce autorità a quanto
scrive, avvertendo nella prefazione ch’egli trasse varie cose da un manoscritto
del padre Mazzenta, che conteneva delle memorie per servire alla storia di
Leonardo. Non vedendosi per altro in questa vita dell’Anonimo nulla di nuovo
intorno al Cenacolo, è da credere che niente più di tal opera si leggesse nel
manoscritto. Questo padre Mazzenta debb’esser quel Giovanni Ambrogio barnabita
che diede la storia de famosi codici, pubblicata prima dal Du Fresne, poscia
meglio dal Venturi.
ODOARDO
WRIGHT.
(1723)
Nell’opera che ha per titolo Some Observations made in travelling through
France, Italy, etc. in the years 1720, 1721 and 1723, scritta da Odoardo
Wright, si lodano i disegni posseduti dal marchese Casnedi. Ma quelli, segue a dire l’autore, che sono più da ammirarsi in questa raccolta,
sono i cartoni di Leonardo da Vinci fatti a pastelli (done in chalks) e alquanto rinforzati con altre matite. Son
essi sì eccellenti che Raffaele, come ivi si assicura, li copiò tutti. Egli, ha
preso certamente da uno di quelli l’aria d’una delle teste della sua
Trasfigurazione, ed è quella figura nel piano inferiore che tiene il fanciullo
ossesso: almeno l’una mi fece ricordar l’altra. In undici di que’ cartoni
sonovi i disegni di tutte le teste e di alcune mani che dipinse Leonardo nel
celebre suo Cenacolo, eseguito a fresco nel refettorio delle Grazie, opera che
ora è pressochè ruinata. Due di tali cartoni contengono due teste per
ciascheduno, talchè negli undici indicati vi son tutte le tredici teste
ecc. È difficile il sapere se tali disegni erano orginali o copie, giacchè ora
non si hanno che vaghe e contraddicenti tradizioni intorno alla vendita di
essi. Si dicono passati a Venezia e di là in Inghilterra. Lo scrittore inglese
segue a dire che il marchese Casnedi gli aveva comprati dal conte Arconati,
discendente da quello che donò i famosi volumi del Vinci alla biblioteca
ambrosiana: la qual cosa si accorda con quanto ne ha scritto il padre Monti. L’origine
sarebbe buona, ma non s’intende come l’Arconati che fu sì generoso verso il
pubblico, ritenesse poi per sè il meglio oscuramente, e senza che ne rimanesse
notabil ricordo. Al tempo però che questo autore scrisse, poca e trascurata era
la critica dell’arte, specialmente circa i disegni, e le raccolte fatte in
quell’epoca ridondano di copie sovente pessime che si asseriscono originali di
sommi autori. Prova di quella poca critica sia per questo autore la novella de’
disegni copiati da Raffaello, e l’asserzione che il Cenacolo di Leonardo sia
dipinto a fresco.
BÖHM.
(1734)
Dal Vasari e dal Du Fresne trasse
Giovangiorgio Böhm la vita che prepose alla traduzione tedesca del Trattato di
Leonardo: quindi ciò che del Cenacolo vi è scritto, si legge con poca
differenza negli autori nominati. Il Böhm fu il primo che tentò di ordinare i
varj capi del Trattato sotto i titoli delle facoltà cui spettano, come sarebbe
Proporzione, Anatomia, Ponderazione, Prospettiva ecc. La sua traduzione
arricchita d’alcune note comparve la prima volta l’anno 1734 in Norimberga. La
seconda edizione del 1747 è una delle solite imposture de’ libraj, cioè è la
prima, cangiato il frontispizio e qualche foglio del principio. Se ne cita un’altra
di Lipsia del 1751 che non mi è riuscito di vedere.
RICHARDSON.
(1728)
Il Trattato di pittura de’ due
Richardson, padre e figlio, fu due volte pubblicato dagli autori: la prima
volta in inglese, la seconda in francese con molti accrescimenti. Io cito la
seconda edizione.
Il solo figlio vide l’Italia e fu a
Milano nel 1720, cioè prima che il Cenacolo fosse ritoccato dal Bellotti. Dell’epoca
della sua venuta fra noi siamo assicurati dalla prefazione di Richardson padre,
preposta alla prima parte del terzo tomo del Trattato. Ecco la descrizione del
Cenacolo di Richardson figlio, dalla quale possiamo conoscere lo stato della
pittura in quel tempo, e il poco conto che i frati ne facevano.
On voit dans le réfectoire (dans le couvent
des Dominicains) au dessus d’une porte fort haute le fameux tableau de la Cène
peint en huile sur la muraille par Léonard de Vinci. Les figures en sont aussi
grandes que le naturel, mais extrêmement ruinées; et tous les apôtres qui se
trouvent à la droite du Sauveur sont entièrement effacés: le Christ et les figures
qui sont à sa gauche sont encore assez visibles, à cela près, que les couleurs
en sont tout à fait ternies; il y a des endroits où il ne reste que la simple
muraille. La seconde figure après le Christ, je veux dire l’apôtre qui croise les
bras sur sa poitrine, est celui qui s’est le mieux conservé; et l’on y remarque
une expression merveilleuse et beaucoup plus forte que dans aucun des dessins
que j’en ai vu. Armenini qui a écrit environ l’an 158o rapporta que ce tableau étoit
déjà gâté à moitié.
Dopo ciò racconta per minuto la storia
del priore, aggiungendovi le frange opportune onde avvivarne la narrazione.
Dice inoltre che suo padre possedeva il ritratto di quel frate; sogno pari a quello
del padre Resta. Che se anche una testa di frate fosse stata fatta da Leonardo
nell’atto del suo Giuda, come mai si potrà dimostrare che tal frate fosse il
priore anzi che un altro?
Finalmente decidendo a suo modo, Ce
qu’on dèbite, segue a dire, de la tête
du Christ, qu’on prétend que le peintre a laissée imparfaite, pour n’avoir pu exécuter
dignement l’idée qu’il en avoit conçue, est tout-à-fait faux; puisqu’il est
certain que la partie qu’on en voit encore, est très-finie selon sa manière
ordinaire. On y a cloué, segue chiudendo l’articolo, si bas les armes de l’empereur, qu’elles touchent presque les cheveux
du Christ, et couvrent une bonne partie du tableau.
È notabile in questa descrizione l’errore
circa la misura delle figure che vi si dicono grandi al naturale, mentre sono
una metà di più della statura ordinaria, cioè circa quattro braccia e mezzo, se
fossero in piedi. È anche inesatto l’autore dove parla della seconda figura
dopo il Cristo, intendendo ragionar della terza. Giudicò da ultimo assai male
circa la testa del Salvatore, dichiarandola perfetta per alcune parti finite
che vi scorgeva, senza riflettere che la sua imperfezione, secondo la mente di
Leonardo, non istava già nel modo con cui era condotta, ma nel mancarvi que’
tratti che Leonardo ebbe in idea, e che non potè da poi esprimere con l’arte.
GIO.
PIETRO MARIETTE IL GIOVANE.
(1730)
L’ottantesimaquarta lettera del secondo
volume delle Pittoriche forma una operetta di una trentina di pagine, tutta
consecrata ad illustrare gli studj e le opere di Leonardo. Essa fu scritta da
Gio. Pietro Mariette il Giovane al conte di Caylus intorno al 1730, come si
prova da una lettera dello stesso Mariette al cavaliere Gaburri, che leggesi
due carte dopo. Quanto contiene di relativo al Cenacolo, è tratto dagli autori
italiani. Contro l’opinione del De Piles, del D’Argenville e d’altri, egli non
crede che Leonardo ritraesse in Giuda il priore, ma che solo nel minacciasse,
come si legge ne’ nostri vecchi scrittori. Dà in fine molti utili ragguagli
intorno alle stampe tratte dalle opere di Leonardo.
CARLO
DE BROSSES.
(1738)
Nella, lettera di questo autore al
signor De Neuilli, ch’è l’ottava delle sue lettere istoriche e critiche sull’Italia,[46] dà un cenno del Cenacolo
colle seguenti parole:
Notez ecc., au réfectoire
(des Graces) l’Institution de l’Eucaristie, peinte à fresque par Léonard de
Vinci; je n’ai rien vu de plus beau ici après la Famille Sainte du Raphael. Je
puis dire que c’est le premier morceau de fresque qui m’ait véritablement fait
plaisir, tant pour l’expression de chaque partie en particulier, que pour l’ensemble
du tout; mais j’y trouverois à redire que tous les visages sont fort laids.
Il signor De Brosses deve aver vista
questa pittura l’anno 1738, perchè in quella stessa lettera che è senza data di
tempo, si parla della famosa Agnesi come di un prodigio di scienza, quantunque
non avesse che vent’anni.[47] È strano il vedere questo
autore encomiare largamente quest’opera, e finire l’elogio con dire che le
facce sono bruttissime. Gli si perdonerebbe più facilmente l’errore da lui
preso nell’asserirla dipinta a fresco.
D’ARGENVILLE.
(
1745 )
Già da molti scrittori furono notati
gli sbagli del D’Argenville nella vita di Leonardo, parte suoi, parte copiati.
Se ne potrebbe accrescere il catalogo, ma sarebbe fatica di poca utilità. Del
Cenacolo non dice altro se non che avendo egli fatto bellissime le teste degli
apostoli, non seppe imaginare perfezione degna della testa di Cristo; e che non
trovando ceffo abbastanza brutto per rappresentar Giuda, ritrasse in esso il
priore del convento.
Il D’Argenville è il solo che dica che
Leonardo venisse a Milano appena lasciato il Verocchio, e che qui si rendesse
abile in tutte le parti dell’arte. Duolmi che questa asserzione, cui non manca
appoggio di fatti e di congetture, riceva discredito dalla penna poco
autorevole del D’Argenville, e vorrei trovarla in qualche più antico e più sano
scrittore.
LÉPICIÉ.
(1753)
Nel catalogo ragionato de’ quadri del
re di Francia, pubblicato nel 1752 dal signor Lépicié in due volumi in 4.o,
si legge una breve vita di Leonardo, tratta in gran parte dalla famosa lettera
del Mariette. In ciò che vi si dice del Cenacolo, non v’è novità alcuna, se non
che l’autore sembra considerarlo come l’occasione la più importante ch’ebbe
Leonardo d’impiegare la sua pratica nel disegnare le fisionomie. Sembra anche
attribuire parte della fama di quest’opera alla lite insorta tra Leonardo e il
priore, in che non si manifesta quel buon giudizio che pur apparisce in varie
parti di questo catalogo. Loda in fine le due copie di Parigi e d’Escovens, e
il disegno originale conservato nel gabinetto del re.
DE
LA CONDAMINE.
(1757)
Nell’estratto di un Giornale di
viaggio,[48]
scritto dal signor De la Condamine, leggesi, al proposito di Leonardo, quanto
segue:
Son chef d’œuvre de peinture est un
tableau à fresque représentant la Cène de J. C. avec les douze apôtres un peu
plus grands que nature: il a vingt pieds de long sur dix de haut. On le voit à
Milan dans le réfectoire des Dominicains. On est étonné de trouver aujourd’hui
très-frais un tableau qui parut si noir et si gâté à Misson, il y a
quatre-vingts ans, que ce voyageur assure qu’il n’y put rien distinguer. Il ne
suffit donc pas de supposer que depuis vingt-cinq ou trente ans il ait été nettoyé
par un secret inconnu, commne on le dit aux voyageurs: mais il faut qu’il ait
été repeint entièrement. C’est ce qui m’a été confirmé de bonne part. Il y a donc
bien de l’apparence que la belle ordonnance, le choix des attitudes, la
distribution des figures, la composition en un mot est aujourd’hui prèsque la seule
chose dans ce tableau qui appartienne bien sûrement à son premier auteur. Je ne
m’écarterai point de l’objet que je me suis proposé dans ce mémoire en remarquant
que non-seulement les régles de la perspective, trop souvent négligées par les
plus grands peintres, sont régulièrement observées dans ce tableau, mais aussi
celle de l’optique. On en peut juger par la différente position du point
lumineux diversement réfléchi par les vases de cristal selon leur différente
forme, et leur situation plus ou moins oblique par rapport au rayon de lumière qui
les frappe.
Se il signor De la Condamine ha
misurato la terra colla stessa precisione colla quale ha misurato il Cenacolo,
i suoi calcoli saranno di una grande utilità. Egli lo dice largo venti piedi,
mentre è circa ventotto, e trenta lo dice il Du Fresne il cui libro poteva aver
sott’occhio: nell’altezza ha sbagliato in proporzione. Lo dice poi dipinto a
fresco, non si sa perchè, ma forse coll’autorità del Cochin. Assai più
ragionevole è nel resto, e la sua descrizione ci assicura che il ritocco del
Bellotti era ancora florido all’epoca ch’ei lo vide, cioè nel 1757. Torna a
diventare stravagante il suo giudizio intorno alla prospettiva e all’ottica di
questo quadro, desunta dai lustri de’ bicchieri, dopo aver detto che seppe da
buon canale che tutta l’opera era stata ridipinta. Nello squarcio che citerò
fra poco, tratto dal viaggio del La Lande, si vedrà con quale appoggio egli abbia
espresso tale opinione. Ciò che dice del Misson, non l’ho potuto verificare,
non essendomi venuta alle mani niuna antica edizione di quell’autore. Nelle più
recenti nulla ho trovato che abbia relazione al Cenacolo. Del resto il La
Condamine intendeva poco la pittura, e comprò a Roma e a Napoli, per dipinti
antichi, degl’intonachi moderni fatti da un impostore con arte mediocre.[49] Il Barthélemi nelle cui
lettere si dà ragguaglio di questo fatto, prese l’istesso errore, ma ciò non
basta a scusarlo, essendo anche il Barthélemi poco esperto delle cose
pittoriche; il che non fa meraviglia nel bel mezzo dello scorso secolo non
ancora fastoso per la pittura.
Il La Condamine, anche allorquando
voleva essere esatto, aveva poca fortuna. A Roma per essere sicuro della misura
dell’antico piede di Campidoglio, lo fece formare e gettare in gesso, senza
pensare che il gesso disseccandosi si accorcia notabilmente.
COCHIN.
(1758)
Non mi è caduta sott’occhio la prima
edizione del Viaggio d’Italia del signor Cochin, pittore e incisore parigino.
Il passo seguente è trascritto dalla terza. Il Pilkington che lo cita, dice che
il Cochin fu a Milano nel 1757; il Dizionario storico francese dice in vece ch’egli
è morto nel 1704, in età d’anni sessantasei. Stando però al Pilkington e ad
altri, sembra che l’opera del Cochin non sia stata scritta prima del 1758.
Farà meraviglia come un artista possa
in poche righe adunare tanti farfalloni. Il testo che qui copio non ha bisogno
di commento.
On croit que c’est dans le couvent de
cette église (delle Grazie) ou à s. Victor que l’on voit dans le réfectoire
un grand tableau peint à fresque sur le mur (figures plus grandes que nature)
de Léonard de Vinci: il représente la Cène et saint Jean appuyé sur la poitrine
de notre Seigneur. Ce tableau a de grandes beautés; les têtes sont belles, de
grand caractère et bien coëffées; il est bien drapé, et en général fort dans le
gout de Raphaël. Il y a un défaut assez singulier: la main du Saint Jean a six
doigts.
VOLFANGO
KNORR.
(1759)
Se il Cochin mostrò poco giudizio nel
citato articolo, assai meno ne mostrò Volfango Knorr traducendolo in tedesco
parola per parola, nè altro aggiungendo intorno al Cenacolo. Veggasi la sua Istoria degli artefici ecc., stampata
dal Bieling in Norimberga.
LA
LANDE.
(1765)
In meno di due anni il La Lande corse
tutta l’Italia, e studj, costumi, critica, politica, arti belle, arti utili,
storia antica, storia naturale, antichità, monumenti, uomini illustri, tutto in
fine fa argomento del famoso viaggio che questo autore pubblicò nel 1769, colla
data di Venezia. La vastità del piano di tal opera sopra un paese, qual è l’Italia,
sì ricco di materiali di ogni genere, fu forse cagione dell’enorme
affastellamento di spropositi che vi s’incontra, e ne è la sola scusa. Chi
volesse darne un elenco, limitandosi anche a que’ soli che spettano alle arti e
alle lettere, avrebbe materia di molti volumi. Quanto egli dice del Cenacolo
vuol essere riportato per intiero: lascio al lettore la cura di commentarlo.
C’est dans le réfectoire de cette
maison, qu’est le tableau le plus célèbre de Leonardo da Vinci, qui représente
la Cène de N. S. Ce tableau est à fresque, bien composé, vigoureux
de couleur, il n’est point dans la manière sèche de ce peintre, et il est moins maniéré qu’aucun de ses ouvrages; la salle y est bien en perspective, mais il y faudroit un peu plus d’intelligence de clair-obscur; on y trouve aussi quelques mouvemens de bras
et de mains un peu outrés. M. Cochin
(T. I, p. 42) da que ce tableau a de grandes beautés,[50]
les têtes sont belles, de grand caractère et bien coiffées, il est bien drapé,
et en général fort dans le gout de Raphaël. Ce tableau du tems de Misson, dans
le dernier siècle, étoit si noir qu’on n’en distinguoit plus les figures. Un
Anglois vers 1725, au rapport des religieux du couvent, entreprit de le nettoyer. M. de la Condamine soupçonne
qu’il l’avoit repeint, et le cardinal Pozzobonelli, alors légat à Milan,
approuva sa conjecture, de manière à lui persuader qu’il étoit sûr du fait. Si
cela est, on ne peut plus regarder que le trait comme l’ouvrage de Léonard; et
le préjugé quant au coloris, pourroit avoir influé sur les jugemens qu’on en a
portés dans les derniers tems (Mém. de l’Acad. 1757, p. 404). Actuellement les religieux prétendent qu’on avoit
seulement blanchi cette peinture, et que
l’Anglois n’avoit fait qu’ôter l’enduit; au reste le tableau n’est point si
frais qu’on soit obligé de croire qu’il a été repeint.
RICHARD.
(1766)
L’abate Richard intendeva le cose della
pittura assai grossamente, e ne scriveva allo stesso modo, non dilungandosi dal
costume di non pochi altri autori oltramontani che hanno descritta l’Italia
senza vederla o vedendola male. Egli ha sciolto bene la quistione dell’essere a
olio o a fresco il Cenacolo, dicendolo dipinto a tutte due le maniere ad un tempo
istesso, cioè en huile à fresque,
metodo segreto morto con lui. Egli è bello, dopo sì ridevole sproposito, il
sentirlo correggere, non dico il Cochin che a spropositi non cedeva la mano a
nessuno, ma il Richardson che in ciò andava con maggior parsimonia, e ne sapea
cento volte più del suo censore. Eccone il passo:
Dans le réfectoire de cette maison (delle Grazie) au-dessus
de la porte d’entrée, on voit le fameux tableau de la Cène, peint en huile à
fresque par Léonard de Vinci; je remarquerai que ni Richardson qui parle fort
au long de ce tableau, et qui rapporte à ce sujet beaucoup d’anecdotes, ni M.r
Cochin, qui paroît l’avoir vu, n’en parlent exactement. Le premier dit qu’il
est effacé a plus de moitié, ce qui n’est point vrai, et qu’il est placé si haut,
qu’on ne peut le voir;[51]
il est au-dessus de la porte du réfectoire qui est d’une hauteur médiocre, et
les figures sont de grandeur plus que naturelle, et on les voit très-bien. Il y
a des parties mieux conservées les unes que les autres; mais il n’y en a point d’absolument
effacées. Le s.t Jean n’est point appuyé sur la poitrine du Sauveur,
comme le dit M.r Cochin; je n’ai pas pris garde s’il avoit
effectivement six doigts à la main, comme il l’avance. Je fais exprès cette
remarque pour montrer combien peu sont exactes la plupart des relations des
voyageurs même pour les faits dont ils sont plus en état de juger. Cette grande
composition est digne de la réputation de son auteur, et est précieuse par
rapport à son ancienneté et à sa conservation. Il ne paroît pas que l’on ait touché à ce tableau depuis le tems de Léonard
de Vinci.
Il correttore di Richardson, vedendo
abbastanza vivace l’impiastramento del Bellotti, nè più in là sapendone, ammirò
la rara conservazione d’un’opera che all’epoca sua era perita da due secoli.[52]
GIUSEPPE
PIACENZA.
(1770)
Nelle giunte al Baldinucci dell’edizione
torinese, l’architetto Piacenza compose una Vita di Leonardo, tratta dal
Vasari, dal Lomazzo, dal Du Fresne, dal Mariette e da altri. Vi riportò i passi
importanti di varj autori che gli servirono di guida, corresse alcuni sbagli
del D’Argenville e del Cochin, ma sebbene abbia diligentemente riunito il
meglio che al suo tempo fosse stato scritto, il suo lavoro non presenta nulla
di nuovo nè per l’arte nè per la storia. Ciò che del Cenacolo vi si legge, è
copiato, come il resto, da cose già note per le stampe. Lagnasi in fine, e con
ragione, tanto più al suo tempo, che ancora non esistesse una stampa degna di
tanto originale; Intrapresa, dice
egli, che farebbe molto onore alla
fioritissima città di Milano.
PILKINGTON.
(1770)
Nel Dizionario de’ Pittori che il
Pilkington pubblicò a Londra, non si legge una linea di nuovo intorno a
Leonardo. Circa il Cenacolo, vi si cita il passo del Rubens, conservatoci dal
De Piles, e tolto dalla traduzione inglese di questo autore. Vi si legge in
fine che il ceffo del priore servì mirabilmente a Leonardo onde rappresentare
in Giuda tutta la perfidia del suo infame carattere.
DURAZZINI.
(1771)
Nel libro pubblicato in Firenze,
intitolato Serie degli uomini i più
illustri in pittura, scultura e architettura, che in ciò che riguarda a
Leonardo, fu compilato dal medico Durazzini, si copiò specialmente il Vasari e
il Du Fresne. Lo stesso può dirsi degli elogi varj che corrono del nostro
artefice, e degli articoli de’ dizionari storici italiani, francesi e tedeschi.
FRANCESCO
BARTOLI.
(1776)
Nella Notizia che il Bartoli pubblicò delle
pitture, sculture ed architetture d’Italia, non teme d’asserire che
Michelagnolo Bellotti ravvivò co’ suoi segreti il Cenacolo quasi smarrito, e
che ha resa questa pittura stimabile e bella quale fu un giorno. Siffatti
stranissimi giudizj leggonsi ne’ libri italiani di cose italiane; non è dunque
da maravigliarsi se tante stravaganze si veggono circa le cose nostre negli
scritti oltramontani.
CARLO
ROGERS.
(1778)
Fra gli schizzi di varj maestri, fatti
incidere e commentati da Carlo Rogers, vedasi primo il Cenacolo di Leonardo,
tratto dal disegno a matita nera, esistente nel gabinetto del re d’Inghilterra,
e che fu già, secondo ch’egli dice, della raccolta d’un Bonfigliuoli di
Bologna. Il Rogers ragiona a lungo del Cenacolo in generale, raccogliendo varie
cose dagli scrittori, ma poco aggiungendo del suo, e nulla che faccia al caso
nostro. Se la stampa di tal disegno che fu inciso dal Ryland, imita con
esattezza l’originale donde è cavata, ognuno che ha qualche pratica del
disegnare di Leonardo, non vi riscontrerà que’ tratti caratteristici che
distinguono le opere di quella leggiadra mano. Fra le molte cose che il fanno
sospettare essere una copia, basti l’osservare che mentre le teste mancano e di
forme a d’energia d’espressione, qualità che non mancano mai nelle cose anche
più trascurate di Leonardo, non v’è parte di panneggiamento che non imiti l’andamento
dell’originale finito; ed è impossibile che chi schizza con pochi tratti, si
abbandoni a pensare ove collocare le cinture, le borchie e simili cose, a poi
trascuri il più importante, cioè le teste. Non ostante senza la presenza del
disegno, per quanto sia bene imitato dalla stampa, è pericoloso il giudicare
dalla sua originalità.
FRANCESCO
MARIA GALLARATI.
(1779)
Fino dal 1768 il padre Gallarati, abate
olivetano, intraprese una copia in miniatura del Cenacolo, e dopo avere in essa
lavorato undici anni, ne cominciò una Descrizione
ragionata alla quale fece continue aggiunte e note. La copia, opera di
molte mani, riuscì una mediocre cosa, perchè lo zelo e la buona volontà non
erano agguagliate nel Gallarati dal sapere e dalla pratica dell’arte. Si può
dire lo stesso della meschina descrizione che non vide la luce. Nondimeno si
debbe elogio a questo buon frate per aver dato il suo entusiasmo ad un’opera
che n’era meritevole. Egli pensò inoltre eternar la sua copia col bulino del
celebre signor Morghen, allorchè ambedue trovavansi in Roma nel 1786; ma la
cosa non ebbe effetto, perchè il premio dall’incisore richiesto, sebbene fosse
moderato, superava le forza o la volontà del padre abate.
CARLO
BIANCONI.
(1787
e 1795)
Nel 1787 pubblicò la prima volta il
Bianconi la sua Guida di Milano, della quale diede nel 1795 una ristampa con
infinite riforme. La storia del Cenacolo e la sua descrizione occupa ben
tredici pagine della prima edizione, ma fu ridotta nella seconda a un terzo
circa. Il libro è nelle mani di tutti; io ne andrò citando i passi importanti,
ove me ne occorra il bisogno. Il Bianconi in quest’opera pose tante cose
cattive, che anche le buone vi perdono il pregio.
DOMENICO
PINO.
(1796)
Il padre Domenico Pino di cui qui si
ragiona, è quegli stesso che voleva che il sole girasse intorno alla terra,
perchè la terra non girava a suo modo, e stampò intorno a ciò una dissertazione
colla quale egli credeva d’avere atterrato il sistema del Newton. Fu priore nel
convento delle Grazie, e volle pubblicare una Storia genuina del Cenacolo insigne ecc., o gliene desse occasione,
com’ei dice, la ristampa della Guida di Milano, o fosse, come appare, premuroso
di distruggere la volgare credenza che i suoi frati avessero imbiancato la
parete dipinta dal Vinci, e che un di lui antecessore nel priorato fosse stato
il modello di Giuda. Comunque stia il fatto, la di lui storia comparve nel
1796, e ciascuno può riconoscere se meriti in ogni sua parte il titolo di genuina. Ei non sapea nulla di pittura;
quindi non si dee badare alle cose del suo libro, che risguardano a quest’arte.
Gli si debbe obbligo nondimeno e perchè fu il primo che stampò ex professo su tale argomento, e per
aver fatte alcune ricerche negli archivj; ed io mi varrò di lui nelle poche
cose non dette da altri, e nelle quali entri l’autorità altrui, o la sua pei
fatti soltanto, non già pei giudizj.
CHAMBERLAINE.
(1796)
Il gabinetto del re d’Inghilterra vanta
molti mirabili disegni di Leonardo ed il signor Giovanni Chamberlaine nel 1796
ne pubblicò otto benissimo incisi dal Bartolozzi. Prepose a questi una vita dell’autore,
nella quale però nulla di nuovo leggesi intorno al Cenacolo, e si riscontrano
copiati molti vecchi errori, quantunque già emendati da altri.[53] S’ignora in Italia se l’opera
del Chamberlaine continui, il che, quanto a’ disegni, è certo da desiderarsi,
perchè è un vero esempio del modo con cui dovrebbersi pubblicare quelli dei
grandi maestri.
FIORILLO.
(1798)
La Storia
delle arti del disegno dal loro rinascimento fino a’ nostri giorni,
pubblicata in tedesco dal Fiorillo, è poco nota in Italia, non essendo stata,
ch’io sappia, finora tradotta. Debbo alla compiacenza e gentilezza del signor
barone di Ramdohr la traduzione di quanto in quell’opera risguarda il Cenacolo
di Leonardo. Essendovi però tratto il tutto dai principali autori citati, io
non farò che accennare alcune cose che non s’accordano col vero, e che possono
ricevere d’altronde autorità dal resto dell’opera che mi si dice buona ed
accreditata. Primieramente si asserisce il Cenacolo dipinto a fresco, ed è
invece a olio. In secondo luogo si fanno grandissimi elogi delle copie, molte
delle quali son dette essere eccellenti e di mano degli scolari del Vinci: il
che tutto è da desiderare. Dice inoltre ch’esse copie hanno il merito non meno
della bellezza che dell’esattezza; le quali cose quanto poco si conformino al
fatto, il dimostrerò nel terzo libro. Quando poi l’autore scende al novero
delle copie, ripete gli errori del De Pagave riportati dal Della Valle. Perciò
cita una copia a fresco del Lomazzo nel Monastero maggiore, che non esiste.
Dice esser dipinta sul muro la copia in tela della Certosa di Pavia. Dice
stimatissima per l’esattezza dell’imitazione una copia del Luino a Lugano; ed è
in vece opera originale del Luino con qualche figura imitata dall’opera del
Vinci. Finalmente accusa il Della Valle ed il De Pagave di non notare che l’antico
disegno, già de’ conti Casati, è passato nel gabinetto di Parigi, ed in vece il
disegno non è mai uscito di Milano, ed è ora posseduto dal signor dottore
Curti. Tralascio molte altre inesattezze, siccome di minore importanza; e delle
qui notate mi scuso coll’egregio autore, così esigendo la natura del mio
scritto e la verità che, parlando di cose presenti, io ho potuto meglio
riconoscere.
GIOVANNI
SIDNEY HAWKINS.
(1802)
Al Trattato di Leonardo tradotto in
inglese dal Rigaud, e fatto pubblico in Londra nel 1802, venne preposta una
Vita dall’Hawkins, la quale nel frontispizio dicesi estratta da materiali autentici finora inaccessibili. La Vita è
ricca di notizie prese qua e là da varj scrittori, ma que’ materiali inaccessibili non sono che quanto il Venturi aveva reso
accessibile ad ognuno, pubblicando nel 1797 il Saggio intorno agli studj fisici e matematici di Leonardo. Ciò che
vi si legge del Cenacolo, è copiato dal Vasari, dal Giraldi e da altri già
citati.
GAULT DE SAINT-GERMAIN.
(18o3)
Devesi al signor di Gault la recente
edizione francese del Trattato di Leonardo, preceduta da una nuova prefazione
in cui si rende conto dell’opera, da una Vita tratta dalle antecedenti e da un
catalogo delle opere del Vinci. Sonovi oltre ciò varie note sparse nel
Trattato. L’autore ebbe ottime intenzioni; ma molte notizie gli mancarono, e in
molte cose fu negligentissimo. Non s’intende come, avendo sotto gli occhi il
Saggio del Venturi, sbagliasse d’otto anni l’epoca della nascita di Leonardo, e
trascorresse in altre considerabili inesattezze che non è qui luogo d’osservare.
Circa il Cenacolo nulla dicesi da questo autore che non si legga in altre opere;
ed anch’egli cadde nell’errore di asserirlo dipinto a fresco.
AMORETTI.
(1804)
Le Memorie
storiche di Leonardo compilate dal chiarissimo signor Amoretti contengono
non solo tutto l’importante che trovasi nelle Vite stampate, ma un gran numero
altresì di notizie da lui medesimo raccolte, e quanto di utile potè trarre
dalle annotazioni e dai ricordi dell’Oltrocchi e del De Pagave. Ma sebbene il
di lui lavoro, per la quantità specialmente delle notizie, superi finora tutti
gli altri, Leonardo è tale uomo per la storia delle arti e della filosofia, che
di quanto gli appartiene, ci rimane ancor molto a desiderare. Fu certamente
gran danno che l’Amoretti non abbia avuto sott’occhio gli autografi di Leonardo
in vece degli estratti dell’Oltrocchi che molte cose trascurava, altre non
intendeva del tutto. Si fidò fors’anche talvolta troppo delle altrui relazioni,
intorno alle quali non si è mai abbastanza circospetto in materia di opere di
disegno. Quanto leggesi circa il Cenacolo nelle Memorie storiche, è compendiato
eruditamente da varj degli autori qui citati, e specialmente dalla Storia genuina del padre Domenico Pino.
LUIGI
LANZI.
(1809)
Già chiarissimo nell’Europa colta per
altre opere di erudizione, l’abate Lanzi pubblicò fino dal 1793 un Compendio di
Storia pittorica dell’Italia inferiore, il quale sparse grandissimo desiderio
che tutte le scuole italiane fossero illustrate col metodo usato in quel libro.
Soddisfece l’egregio autore alla comune brama assai prontamente, e circa quattro
anni dopo stampò in Bassano per mezzo del Remondini la Storia pittorica dell’Italia in tre volumi, che, non ha guari,
ridotta a sei è ricomparsa cogli stessi torchi, arricchita di notabili
accrescimenti nel testo e nelle note.
In opere di tal natura e di tanta
estensione trovasi sempre qualche cosa da ridire. L’autore non ha pratica dell’arte;
non può veder tutto; spesso dee veder troppo presto; talora vede ciò che meno
importava di tal pittore, di tale scuola, di tale città. Ecco le origini di
alcuni errori ora di fatto, ora di giudizio. Sulle cose non viste gli è d’uopo
attenersi o ai libri stampati o alle altrui relazioni. Queste relazioni e
questi libri, per dirlo al modo con cui il Lanzi tratta i nemici del Vasari,
sono per lo più di scrittori municipali,
spesso fatti con parzialità, e per lo più da uomini che non hanno visto un
sufficiente numero d’opere per poter confrontare l’arte colle sue forze
generali, non con gli sforzi fatti da un piccolo numero d’artefici in un limite
angusto. Ed ecco l’origine de’ giudizj ineguali, dello stesso entusiasmo nelle
migliori e nelle deboli epoche dell’arte, e finalmente delle lodi esagerate di
molti artefici mediocri, cosa assai più dannosa all’arte che gli errori di fatto.
Se poi avviene che col rinnovare dell’edizioni si facciano delle aggiunte che
cangino qualche punto essenziale di storia, non si prevedono tutte le
conseguenze di tali cangiamenti, e rimane sovente qualche parte dell’opera, in
cui si ragiona come se il cangiamento non fosse stato introdotto. Non mancano
dunque di queste mende nella Storia pittorica; ma ciò non basta ad offuscarne
lo splendore; e questo classico lavoro, condito dall’amenità e facile eleganza
dello stile, dai fiori dell’erudizione e dalle più vivaci pitture de’ caratteri,
sarà sempre considerato non ultima gloria della letteratura de’ nostri tempi.
Nella descrizione del Cenacolo che vi
si legge nell’Epoca seconda della Scuola milanese, comechè vi si ripeta molto
di quanto abbiamo citato, solo accennerò alcune cose che non si trovano altrove,
e che non vorrei sostenute da una sì degna autorità quale è quella di questo
amabile scrittore. Die’ egli primieramente che se Leonardo avesse dipinto il
suo Cenacolo a tempera, questo tesoro tuttavia si conserverebbe. Sembra che in
ciò ei s’appoggiasse alle asserzioni del Requeno; ma è però fuori d’ogni
probabilità, perchè la ruina di tanta opera fu principalmente cagionata dall’umidità
della parete, la quale offende egualmente le tempere e l’olio; e gli altri
malanni che ne precipitarono la perdita, furono tali che avrebbero minato, non
la tempera solo, ma qualsivoglia più tenace mestica, fosse anche triplicata
come quella del Gialiso di Protogene.
Dice in appresso, copiando altri, che
rimangono ancora tre teste di mano del Vinci, ed anche ciò non si verifica,
perchè tali teste furono bensì salve dall’ultimo eccidio del Mazza, ma erano
già state ruinate dalla mano del Bellotti e forse d’altri. Di queste cose
pertanto darò maggiori ragguagli dove ragionerò delle vicende di questa
infelice pittura. E se credo dovermi in ciò allontanare dall’opinione di questo
autore, mi vi soscrivo con alacrità allorchè asserisce essere il Cenacolo il compendio non solo di quanto
insegnò Leonardo, ma eziandio di quanto comprese co’ suoi studj. Il quale
passo che sento verissimo, se a sentir rettamente mi valgono tre anni di
meditazione e d’esercizio intorno a quest’opera, debbe animare assai gli
studiosi del disegno ad indagare in essa, per quanto si può, i principj d’un artefice
che superò tutti in profondità d’ingegno ed in estensione di scienza, e che,
precedendo d’età i primi luminari dell’arte, può chiamarsi il vero primo
restitutore della pittura de’ Greci.
CONCLUSIONE
DEL LIBRO PRIMO.
Dai principali testimonj che qui ho
riuniti colla maggiore diligenza che per me si è potuto, potrà ognuno
verificare quanto osai d’asserire nel principio dell’Introduzione, cioè che di
questa grande e straordinaria opera che segnò l’epoca della perfetta pittura,
non si è ancor fatto abbastanza grave argomento delle ingegnose osservazioni di
quegli scrittori ch’erano degni di parlarne.
Il Pino e il Gallarati che soli ne
trattarono di proposito, il primo senza sapere dell’arte, l’altro sapendone
poco e male, il che è forse peggio, non ebber forze eguali al carico assuntosi,
e rimane a loro il merito della buona volontà, agli altri il desiderio di
sapere più e meglio di quanto essi insegnarono. Gli autori poi che più si
avvicinarono al vero, come il Vasari, il Lomazzo, il Borromeo e pochi altri,
non parlarono del Cenacolo se non accessoriamente in opere vaste o d’altro
tema. Dal maggior numero degli altri non si possono raccogliere che alcune
notizie storiche, ma v’è sempre gran vôto di ciò che al progresso dell’arte può
direttamente contribuire.
Intanto dalla sopra esposta
compilazione, che se è nojosa per chi la scorre, nol fu certamente meno per chi
la stese, potrà il paziente lettore comprendere quanto in ogni tempo e presso
ogni nazione fosse tenuta in pregio l’opera di Leonardo. Avrà altresì campo di
farsi in mente un autorevole apparato della sua storia e della sua descrizione,
attenendosi ai passi migliori che anche senza le brevi mie note avrà potuto
facilmente riconoscere.
Sarebbero da unire ai citati il Bottari,
il Monti, il De Pagave, il Della Valle ed altri varj commentatori, giornalisti,
viaggiatori, biografi e critici;[54] ma oltre che non se ne
vedrebbe il fine, di alcuni mi accadrà far menzione ne’ libri seguenti, e varj
ne lasciai o per la poca loro importanza, o perchè ripeterono ciò ch’era stato
detto senza aggiungere autorità alcuna per sapere o per tempo.
E se molti sono, come ognun vede, gli
scrittori che parlarono del Cenacolo, da infiniti poi fu scritto dell’autore, e
sempre con ammirazione. I varj rami dell’umano sapere in cui riuscì eccellente,
fanno che si trovi spesso ricordo di lui anche in que’ libri ne’ quali meno si
aspetterebbe. Pure, ad onta del molto che si è detto, molto ancora rimane da
dire di tanto uomo; il quale veramente, come benissimo scrisse Pier Leone
Casella,[55]
nulla lasciò d’intentato colla costante
persistenza del suo finissimo ingegno. Ma non si speri una notizia compiuta
di lui e de’ suoi studj, se non da chi otterrà di riunire e leggere tutti gli
scritti suoi, molti de’ quali giacciono ancora dispersi ed incogniti in varj
angoli dell’Europa.
FINE
DEL LIBRO PRIMO.
NOTE
[1] Fu questi Francesco Melzo o Melzi da Vaprio, gentiluomo
milanese, di cui le case e gli averi sono ora posseduti da Francesco Melzi
d’Eril, duca di Lodi.
Come
siano stati infelicemente dispersi i libri lasciati da Leonardo a questo suo
prediletto discepolo, si legge nel ragguaglio scritto da Giovannambrogio
Mazzenta in fine del codice che servì per la prima edizione del Trattato di
Leonardo procurata dal Du-Fresne. Veggansi Venturi, Essai sur les Ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci,
ecc. ed Amoretti, Memorie storiche di
Leonardo, preposte all’edizione milanese del Trattato pubblicata nel 1804.
Francesco
fu valente pittore, e pare che specialmente nella miniatura si esercitasse, dal
che vien detto Miniatore dal Lomazzo
e da altri. Fe’ nondimeno tali opere ad olio, che con quelle del suo maestro
vennero confuse. Il Du-Fresne asserì di Leonardo un quadro rappresentante una
Flora che vedevasi a Parigi in casa il duca di Saint-Simon, ed il Mariette nol
riconobbe esser del Melzi se non iscoprendovi inscritto il suo nome. Non è
quindi meraviglia se il Lomazzo in un sonetto diretto a Francesco, che leggesi
nel secondo libro de’ suoi Grotteschi, gli dica:
Veggio natura con oltraggio e scorno
Vinta dalle belle opre vostre, e il
morso
Posto all’invidia, ecc.
Il
Vasari che il conobbe nel 1566, dice ch’era allora bello e gentile vecchio,
com’era stato bellissimo fanciullo al tempo di Leonardo. Per conseguenza errò
forte il Baldinucci, dicendo che Francesco morisse nel 1490; che a quell’anno,
se pure era nato, doveva essere in fasce.
Vedesi
inciso un suo disegno d’una bella testa di vecchio, fra i disegni di Leonardo
pubblicati da Giuseppe Gerli nel 1784. La stessa testa vedesi fra quelli incisi
dal Mantelli, che apparvero nel 1785. Nell’originale leggesi che tal disegno fu
fatto dal Melzi mentre non aveva che diciassette anni.
[2] Questa lettera che può leggersi nelle citate Memorie storiche dell’Amoretti, a pag.
24, non ha data, ma fu scritta assai probabilmente ne’ primi tempi che Leonardo
fu a Milano, e certamente avanti che intraprendesse per la corte opera alcuna
considerabile. Si dice diretta a Lodovico il Moro, ma potrebbe anche essere
stata diretta al duca Galeazzo, suo fratello.
Agli
argomenti che fanno credere Leonardo venuto assai giovane fra noi, aggiungasi
quello che si può desumere dall’iscrizione sepolcrale del Boltraffio. Questo
egregio suo allievo, nato l’anno 1466, s’era posto a studiare la pittura fin
dalla fanciullezza: dunque il Vinci, suo precettore, era a Milano e vi godea
credito di buon maestro, mentre il Boltraffio era ancora in età puerile. Ecco
l’iscrizione copiata esattamente dalla lapida, che una volta vedevasi nella
chiesa di san Paolo in Compito, e che ora conservasi nell’Accademia Reale.
Io. ANTONIO BELTRAFIO
ET CONSILII ET MORUM
GRAVITATE SVIS CIVIBVS
GRATISS. PROPINQVIORES
AMICI DESIDERIO AEGRE
TEMPERANTES P.
VIXIT ANN. XXXXVIIII.
PICTVRAE AD QUAM PVERVM SORS
DETVLERAT STVDIO INTER SERIA
NON ABSTINVIT NEC SI QVID
EFFINXIT ANIMASSE OPVS
MINVSQVAM SIMVLASSE
VISVS EST
MDXVI.
Se
credesi al Borsieri ed al Sassi, il Boltraffio diresse l’accademia del Vinci,
allorchè questi si allontanò da Milano per la caduta del Moro nel 1500.
[3] Vedi che in corte (il
Moro) fa far di metallo
per memoria dil
padre un gran colosso
i credo fermamente
senza fallo
che gretia e Roma
mai vide el piu grosso
guarde pur come e
bello quel cauallo
Leonardo uinci a
farlo sol se mosso
statuar bon pictore
e bon geometra
un tanto ingegno rar
dal del simpetra
E se più presto non se principiato
la voglia del Signor
fu sempre pronta
non era un Lionardo
ancor trouato
qual di presente
tanto ben linpronta.
che qualunche chel
vede sta amirato
e se con lui al
parangon safrunta
Fidia: Mirone:
Scoppa e Praxitello
diran chal mondo mai
fusse el più bello.
Coronatione e sponsalitio de la
serenissima Regina. M. Bianca. Ma. Sf. Augusta ecc. per Baldassare
Taccone Alexandrino ecc. Impssit
Leonardu pachel. m. ccc. lxxxxiii.
in 4.°
Leonardo
passò sedici anni intorno al modello per la statua equestre del duca Francesco.
Se dunque, secondo il Taccone, tardi si diede principio a tal opera perchè non
si trovava chi si assumesse di condurla, è chiaro ch’essa fu proposta molto
tempo prima che Leonardo la intraprendesse; e sempre più probabile diventa la
congettura che ve ne fosse proposito appena morto Francesco.
[4] Qui come l’ape al mel
vienne ogni dotto,
Di virtuosi ha la
sua corte piena:
Da Fiorenza un
Apelle ha qui condotto.
Così è
citato dall’Amoretti questo passo del Bellincione, che farebbe quasi arguire
che Lodovico tornando di Toscana seco conducesse il giovine Leonardo. Ma
nell’antica edizione leggesi in vece è
qui condotto, con che il senso riman cangiato del tutto. Per rettificare
tale importante lezione sarebbe d’uopo consultare dei codici del Bellincione,
ma non mi venne fatto di trovarne.
[5] La patente data dal duca Valentino a Leonardo, pubblicata
dal padre Della Valle nell’edizione sanese del Vasari, andò perduta negli
ultimi tempi.
[6] Nella lettera che Francesco Melzi scrisse ai fratelli di
Leonardo dopo la morte del suo maestro, non parla affatto di questa visita del
re, circostanza troppo notabile per esaere taciuta in simil caso.
Pare
anzi che il Melzi stesso recasse al re Francesco la notizia della morte del
Vinci, se si dee credere al Lomazzo che in un suo sonetto dice:
Pianse mesto Francesco re di Franza
Quando il Melzi che
morto era gli disse
Il Vinci ecc.
Nè meno
presso il Giovio, ch’è il più antico scrittore della vita del Vinci, non si
trova ricordo di questa importante particolarità. Il Venturi poi provò l’alibi
del re nel giorno in cui Leonardo è morto, Veggasi il suo Essai ecc.
[7] Erra il Lomazzo che fe’ due ritratti di quello di monna
Lisa e di quello della Gioconda. Il ritratto fu un solo, come una sola fu la
donna che chiamossi con que’ due nomi. Vedi Lomazzo, Trattato pag. 434.
[8] L’anno che pongo sotto i nomi degli autori citati indica o
l’epoca degli scritti o quella delle opere stampate donde sono tratti i passi
che risguardano il Cenacolo.
[9] Nel Trattato del Lomazzo, a carte 325, si fa menzione di
frate Luca e della sua Divina Proporzione, opera,
dice il Lomazzo, disegnata col braccio di
Leonardo da Vinci. Questo passo alquanto oscuro può far credere che tutte
le figure dell’opera siano di Leonardo; ma non vi sono di sua mano se non i
corpi regolari.
[10] Il Paciolo è il più antico scrittore che abbia fatto uso di
questo giuoco di parole in encomio di Leonardo; ma ebbe grandi seguaci.
Veggansi i versi per lui fatti dallo Strozzi, da Fabio Segni, da Vincenzo di
Buonaccorso Pitti, ai quali aggiungasi il tetrastico di Girolamo Casio de’
Medici, che leggesi nel suo libro intitolato Cronica ove si tratta di epitaphii di amore e di virtute,
pubblicato nel 1525, il qual tetrastico qui trascrivo perchè ignoto per la
somma rarità di quel libercolo.
Vinta Natura da Leonardo Vinci
Toscan Pittore
eccelso ad ogni etade.
Spinta da invidia e
priva di pietade
Va, disse a Morte, e
chi mi ha vinta, vinci.
Da che
si scorge che assai per tempo cominciò il mal gusto de’ fredduraj, ed il Vasari non andò esente da un giocarello di
parole consimile ai citati, allorchè parlò del Vittoria, scolaro del Sansovino.
[11] Pag. 28, a tergo, in fine.
[12] Il Montuela stesso, che a lungo parlò del Paciolo, non vide
la prima edizione della Summa
d’Aritmetica, ecc., la quale fu ristampata in Toscolano senza notabile
differenza nel 1523. Perciò questo scrittore, famoso per la sua Storia delle
Matematiche, ritenendo che la ristampa del 1523 fosse la prima edizione, la
credè assistita dall’autore; e riportandone il nuovo ridicolo frontispizio,
scherza fuor di proposito sul povero frate che a quell’epoca era certamente
morto da qualche anno.
Sbaglia
non meno gravemente intorno alle dediche al Sanuto e a Guidubaldo da
Montefeltro, dicendo al primo intitolata la prima edizione, al secondo l’altra,
mentre entrambe le dediche leggonsi egualissime in ambedue l’edizioni, e il
gran Guidubaldo (chè non saprei del Sanuto) era morto da quindici anni,
allorchè comparve la ristampa di Toscolano. Nè minori sbagli rinnuova, parlando
del libro che il Paciolo stampò nel 1509, della Divina Proporzione. Comincia
dal dirlo dedicato a Lodovico il Moro ch’era morto da un anno, come il frate
dimostra che, parlando di lui in tempo passato, dice: Illi adhuc viventi ecc., e che la morte del Moro sia avvenuta nel
15o8, sebbene il Guicciardini dica altrimenti, si prova non solo da questo
passo del frate, ma da Leandro Alberti e da Giacomo Mainoldi Gallerati
nell’opuscolo De titulis Philippi Austri
ecc., stampato in Bologna nel 1573. Al Moro bensì fu dedicato nel 1499 il
codice, e diretta l’opera come si legge e nell’opera e nella vera dedica che è
diretta a Pier Soderini. Così pure credette che le lettere capitali poste nel
libro fossero tratte dai monumenti di Toscolano, de’ quali si fa menzione nel
titolo della seconda edizione della Summa;
e quel titolo è un mero capriccio dello stampatore Paganino, e le lettere che
poi furono usurpate da Alberto Durero e dal Tory, sono bensì fatte, come
l’autore accenna a tergo della pag. 32, sui monumenti antichi, ma le espone con
principj geometrici e suoi, e per mostrare, secondo ch’egli si esprime, che le due linee essenziali, retta e curva, sempre
sanno tutte cose che in agibilibus se possano machinare.
Finalmente
vantasi il Montuela d’avere scoperto un nuovo libro del Paciolo, che ha per
titolo Libellus in tres partiales
tractatus divisus, ecc., e questo, che tratta de’ cinque corpi regolari, va
necessariamente congiunto alla Divina Proporzione, come il Paciolo stesso
avverte nella dedica al Soderini, al quale, non parendogli sufficiente il
dedicare la stampa del codice scritto per Lodovico, congiunse questo libro, qui, com’egli dice, quasi gradus nescio quos architectis struit, et marmorariis nostratibus,
e l’altro delle Lettere, entrambi particolarmente a lui consacrati. Conto poi
per error tipografico la data del 1508 stabilita dal Montuela a quest’opera che
pretende avere scoperta, la quale ha la stessissima data d’anno e mese, che è
posta al fine della prima parte.
Dopo
tutto ciò egli si pavoneggia lungamente, e si dà vanto di bibliografo,
accusando da sè la negligenza di che in addietro altri il tacciarono; ma dando
sì poca prova del suo ravvedimento, e dimostrando al contrario grande
trascuratezza, non fa se non freddamente aggradire gli elogi con cui chiude il
suo articolo intorno al nostro Paciolo. Chi bramasse poi vedere le inesattezze
del Montuela circa la scienza di questo buon frate, le legga nella Storia
dell’Algebra pubblicata, anni sono, da Pietro Cossali.
[13] Ecco l’epitaffio riportato dal Vasari nell’edizione del
Torrentino, e soppresso nella seconda de’ Giunti. Parla Pietro della Francesca.
Geometra e Pittor, penna e pennello
Così ben misi in opra, che natura
Condannò le mie luci a notte scura,
Mossa da invidia: e de le mie fatiche
Che le carte allumar dotte et antiche
L’empio discepol mio fatto si è bello.
Quest’empio discepolo, secondo il Vasari ed
altri che seguirono la sua autorità, fu frate Luca Paciolo, il che non è
assolutamente credibile per le ragioni riportate.
[14] Leggasi la pag. 23 del Libro della Divina Proporzione.
[15] A compenso del torto fatto dal Tory al Paciolo cui accusò
di furto, mentre egli stesso il derubava, piacemi qui citare un suo passo col
quale rende giustizia agli Italiani, e che certo non fu mai letto dal marchese
d’Argens che paragonava Leonardo a Giovanni Cousin. Allorchè il Tory prende a
lodare il compasso e la riga, come il Paciolo ad ogni istante innalza la
potenza della linea retta e della curva, così siegue a dire: «Mi verrebbe qui a
proposito il descrivere le lodi e le perfezioni del detto compasso e della
riga, ma lascerò che se ne occupi chi è di me più studioso. Io mi limiterò per
ora a dire che non giungerà mai a scrivere bene in lettere attiche o d’altra maniera chiunque non farà uso della riga e del
compasso; e che non v’è ragione ne ordine in quelle cose che non son fatte
colla debita proporzione che alla riga ed al compasso è soggetta. Perciò,
signori e divoti amatori del sapere, amate la riga e il compasso e con essi
divertitevi ed esercitatevi onde conoscere la ragione e la verità delle cose
ben fatte. Gl’Italiani, sovrani in prospettiva, in pittura ed in iscultura,
hanno sempre questi strumenti alla mano; e però sono perfettissimi nel ridurre
al punto, nel rappresentare la natura e nell’imitare le ombre meglio di ogni
altra colta nazione del mondo. Eglino hanno di più quasi a privilegio l’essere
austeri e studiosi, sobrj del mangiare, del bere e delle vane parole, nè
premurosi di spingersi anzi tempo nelle brigate. Coi quali modi imparano meglio
e con più sicurezza, e dánnosi nome, di che fanno grandissimo conto. Noi non
vantiamo da questo lato tante belle qualità: quindi non appare fra noi tale che
si possa misurare col fu messer Leonardo da Vinci, nè con Donato, nè con
Raffaello d’Urbino, nè con Michelagnolo. Non voglio però dire che non sianvi
anche fra noi de’ belli e buoni ingegni; ma non si adoprano ancora abbastanza
le righe ed i compassi.»
Le quali
parole, per chi non è schifo dell’antica lingua ed ortografia francese, meglio
si leggeranno nell’originale che per la rarità del libro qui trascrivo.
J’aurois icy
coleur de dire et descrire les lounanges et perfections du dict Compas et de la
Reigle, mais ie le lairray pour quelque autre plus studieux que ie ne suis a y
passer le temps. Je nen diray pour ceste fois autre chose, si non que iamais
homme nescripura bien en lettre attique, ny en autre lettre sans Compas ne sans
Reigle. Et que en toutes choses ou il ny a deue proportion, qui consiste subz
Compas et Reigle, il ny a ordre ne raison. Parquoy doncques Seigneurs et devots
Amateur de Science aymes le Compas et la Reigle, en vous y recreant et
exerceant pour cognoistre la raison et verite des bonnes choses. Les Italiens
souverains en Prospective, Painture, et Imagerie, ont tousiours le Compas et la
Reigle en la main, aussi sont ilz les plus parfaicts a reduyre au point, a
representer le naturel, et a bien faire les vmbres quon sache en Chrestiente.
Ilz ont dauantage une grace, quilz sont froicts et studieux avec soubriete de
boyre, de menger, de parler legierement, et de ne eult trop tost trouuer en
compaignye, en quoy faisant ilz aprennent plus scurement et myeulx, et se
donnent reputation, quilz nestiment pas petite chose. Nous nauons pas tant de
telles belles vertus en cest endroit quilz ont, aussi nen voyons nous par dessa
qui soient a comparer a feu Messire Leonard Vince, a Donatel, a Raphael Durbin,
ny a Michel lange. Je ne veulx pas dire quil ny aye entre nous des beaulx et
bons esperits, mais encore ya il faulte de continuer le Compas et la Reigle.
[16] Di si fatte inconsiderazioni del Vasari, che talvolta da sè
stesso si contraddice, si possono vedere molti esempj ne’ suoi commentatori, e
molti altri se ne potrebbero notare che rimasero finora inosservati.
[17] Veggasi la Storia
genuina del Cenacolo insigne ecc. pubblicata dal Padre Maestro Domenico Pino
ecc. Milano mdccxcvl in 8.o.
[18]
Poche parole dopo il passo che risguarda il Vinci, dice il Volterrano Joh. Bellinus hoc tempore decessit. Non
si sa con certezza l’anno della morte di Giovanni variamente riportato dagli
scrittori; ma sembra ch’egli cessasse di vivere subito dopo il 1514, anno in
cui fece, sebben decrepito, il bel Baccanale, già di casa Aldobrandini in Roma,
ora presso i signori Camuccini, la qual opera, rimasta imperfetta, fu poi
finita da Tiziano che vi fece un mirabile paese.
[19]
Lo stesso torto del Moreri e del Milizia ebbero il Negri e il Crescimbeni. Nel
Crescimbeni trovansi in oltre molti grossolani errori intorno alle circostanze
della vita del Vinci; di cui veggasi l’elogio nel terzo volume dei Commentarj
intorno all’istoria della Volgar Poesia (edizione di Venezia del 1730). Nel
Negri poi, la cui opera apparve nel 1722 e nella quale si ricorda Leonardo
siccome scrittore, non si parla di alcuna sua opera scritta, e nè meno del gran
Trattato pubblicato dal Du-Fresne.
[20] Forse Leonardo fu detto nipote di Piero, perchè suo figlio
naturale.
[21] Veggasi la pag. 16 del secondo volume dell’edizione romana
del Vasari.
[22] Tal passo leggesi alla pagina 198 del primo volume della
terza edizione della Storia Pittorica.
[23] La bellezza non è
altro che una convenevole ordinata e misurata proporzione delle membra cosperse
di dicevoli colori. Veggasi la pagina 153 de’ Discorsi ecc.
[24] Ho posto l’anno 1477 perchè, come accennai nel compendio
della vita del Vinci, intorno a tal anno al più tardi sembra ch’egli stabilisse
la sua dimora in Milano. Circa alla pensione di Leonardo veggasi l’articolo di
Carlo Torre.
In
proposito poi di ciò che in fine di questo articolo ho aggiunto intorno a
Bramante, chiamato milanese dal Bogati, siccome vi sono parecchi eruditi che
vanno riunendo tutto ciò che può illustrare la vita di questo rianimatore della
greca architettura, piacemi qui raccogliere alcune notizie delle quali non
trovo ricordo nè presso il Lazzari nè presso altri che scrissero di lui. Prima
di tutto, sebbene io creda che il Bramante urbinate sia diverso da un altro
Bramante nostro, non mancano autorità per farci congetturare che anche il
famoso architetto di Giulio secondo, sebbene originario d’Urbino o luoghi
vicini, sia nato in Lombardia, e fors’anche in Milano. Oltre il passo del
Bugati che lo dice milanese, ne abbiamo un altro di Federico Zuccaro nel Lamento della Pittura, che lo pone fra i
Lombardi; nè si può supporre che del Bramante lombardo egli intenda parlare,
perchè ogni qual volta si trova il nome di Bramante senz’altra distinzione, è
naturale che s’intenda il più famoso, cioè l’architetto del San Pietro di Roma.
L’oscurità in cui, ad onta di molte erudite ricerche di varj, siamo tuttavia
intorno al luogo dove Bramante nascesse, può rendere più autorevoli le parole
del Bugati e dello Zuccaro. Ma sì lo storico come il pittore, sebbene non molto
lontani dall’epoca di Bramante, non si procaccerebbero molta fede contro tante
gravissime autorità contrarie, se in loro ajuto non venisse quella d’un
contemporaneo, cioè di Jeronimo Casio, di cui ecco un tetrastico tratto da’
suoi Epitaffj.
Lo Architetto Bramante in Milan nacque;
Servì la patria in fin che visse il
Moro:
Con Giulio in Roma accrebbe fama e oro;
Lassò qui il vel; in del l’alma
rinacque.
Qualunque
sia il valore che si vuol dare e a questi versi e ai passi citati, egli è certo
che per essi crescono le oscurità intorno ai Bramanti, e non è ancora facile
cosa il determinare quale sia l’urbinate, quale il milanese, quale il poeta,
quale l’autore delle Quadrature de’ corpi, quale il nominato dal Labacco a
quale lo scrittore del Trattato di Architettura notato dal Doni, quale o quali
finalmente gli autori delle varie insigni fabbriche che in Milano si veggono
tutte ad un Bramante attribuite. Parimente difficile è lo stabilire quale
relazione avesse il Bramante d’Urbino col Bramante lombardo, e donde avesse, o
a chi desse il suo nome. S’intralcia assai più la storia col passo del Sabbà da
Castiglione, e con quelli del Cesariano dove di lui si ragiona. Lo stesso
imbroglio avviene de’ Bramantini, ai quali si attribuiscono fabbriche, pitture
e libri per quasi un secolo dal Vasari, dal Lomazzo, dall’Orlandi e fin anche
dal Lanzi, che sebbene nell’ultima impressione della sua Storia rifiutasse il
Bramantino più antico, si avvisò poi di ritenerlo di nuovo dove parla di
Melozzo. Qualcuno anche de’ Bramantini si sarà chiamato talvolta Bramante, con
che si accresce la confusione e l’oscurità. Ciò lo induco da una carta che il
dotto e diligentissimo signor Mazzuchelli, bibliotecario dell’Ambrosiana, trovò
recentemente, sottoscritta nel 1519 da un Bramante architetto del Sepolcro de’
Trivulzj, il qual Bramante non può essere che uno de’ Bramantini, cioè
Bartolommeo Suardi. Bramante l’Architetto di San Pietro era già morto in Roma
fino dal 1514 ed Andrea Guarna da Salerno in un suo strano dialogo stampato nel
1517 ne fa parlar l’ombra in cielo in modo da dipingerne il carattere con
vivaci colori. E giacchè mi accade di far menzione di questo rarissimo
opuscolo, che al pari de’ versi del Casio non vidi ricordato da nessun di
coloro che di Bramante hanno scritto, piacemi qui tradurne un pezzo dal quale
si giudicherà come dai coetanei si pensasse di questo artefice, e allo stesso
tempo come liberamente in tutto si scrivesse e si stampasse. Servirà anche
questo passo a dar luce a quei del Sabbà e del Condivi, e a confermare molte
congetture ed opinioni intorno all’origine della nuova fabbrica del Tempio di
San Pietro. Coloro in fine cui poco importa di tali notizie, avranno a grado di
conoscere questa curiosa satira che è certo di bizzarra ed ardita invenzione.
L’operetta
adunque del Guarna, scritta in latino, non senza eleganza e con molto brio, è
intitolata Simia, e fu stampata, ciò
che è notabile, da Gottardo da Ponte in Milano, dove era recente la memoria di
Bramante. Vi sono interlocutori, oltre Bramante, varj personaggi noti, e vi si
satirizzano con grazia i curiali, i ricchi, gli avari e i viziosi d’ogni
maniera. Nel pezzo che qui riporto, parlano San Pietro, Bramante e Alessandro
Zambeccari bolognese, chiamato splendore
e gloria della curia romana. La scena si rappresenta alle porte del
Paradiso.
S. Pietro ... E questi miseri famigliari di Cardinali, collocateli, o
spiriti beati, fra i martiri, chè tal compenso esige la loro lunga tolleranza.
Vorrei però vedere chi sia costui che solo ascende la montagna. Bada, Alessandro,
se mai ti fosse noto.
Alessandro. Se non isbaglio, questi è Bramante.
S. P.
Qual Bramante?
A.
Il nostro architetto.
S. P.
Il distruttore del mio tempio?
A.
Anzi di Roma tutta e del mondo, se avesse potuto.
S. P.
Bada bene s’egli è desso.
A.
Non v’è dubbio.
S. P.
Dici vero?
A.
È egli, vi ripeto, in persona: non traveggo: lo riconosco benissimo.
S. P.
Oh, desideravo di conoscerlo; godo sia giunto.
A.
Bada a te, Pietro: da vivo canzonava tutti a meraviglia.
S. P.
Lascialo fare: avrò gusto in udirlo.
Bramante. Bramante reverente e pronto dà salute al sommo duce del
gregge di Cristo.
S. P.
Salute anche a te, o Bramante; se pur rechi frutti degni di salute.
B.
Che vuol egli dire questo recar degni
frutti? Con tua buona grazia, tu mi tratti al bel principio con poca
civiltà. In verità, se gli altri beati ti somigliano, nè salutati salutano, non
desidero questa vostra beatitudine.
S. P.
Eh, questo è il costume nostro: non diamo salute se non a chi la merita.
B.
E quali sono cotesti che voi chiamate degni di questa vostra salute?
S. P.
Coloro che ci rendon conto d’aver vissuto bene.
B.
Affè, io sono il più degno degli uomini, che null’altro ho più avuto a cuore
quanto il viver bene.
S. P.
Di ciò parlerai quando ne sarai fra poco richiesto, e avrò piacere che sia così
in fatto.
B.
Io non ho mai lasciato di secondare il genio; nè badai a spendere per viver
bene.
S. P.
Ha ha! hai secondato il genio, e non badasti a spendere per viver bene?
B.
No certo; se allontanando quanto potei la melanconia e le noje, ho pasciuto
sempre l’animo di allegria e di piacere.
S. P.
Ti abbandonasti dunque al tuo genio quanto ti piacque?
B.
E che? volevi che mi macerassi spontaneamente di dispiaceri e di digiuni?
S. P.
Eh, non si doveva viver così, o Bramante.
B.
E come dunque?
S. P.
Dovevi odiar i vizj, sollevare gli oppressi, e far bene quanto potevi.
B.
Niuno ha fatto tutto questo meglio di me.
S. P.
Godrò che ciò sia vero.
B.
Quanto lo sia, te lo provo, se mi ascolti.
S. P.
Ti ascolto.
B.
Quelle che tu hai testè indicate, sono le proprie parti e i doveri
dell’architetto; ed io spero pel lungo esercizio di tal arte non essere
annoverato ultimo fra questi.
S. P.
Fammi un po’ la grazia di dichiararmi come quelle siano le proprie parti
dell’architetto.
B.
Allorchè un architetto debbe fare qualche opera, è d’uopo che prima pensi in
qual luogo porre le fondamenta, di qual forza consolidi le mura, e di qual
grossezza le debba fare, acciocchè se poi l’opera è viziata in qualche parte,
ei non ne sia uccellato, e vada in fumo la gloria della sua professione. Quindi
è che ogni architetto che sa bene il suo mestiere, ha sempre odiato i vizj.
S. P.
Seguita pur via colle tue facezie.
B.
Io poi ho sollevate a migliaja le statue giacenti degl’Iddii antichi e degli
uomini illustri, oppresse dalle ruine; e per ispicciarti alle corte, quanto io
feci vivendo, il feci con le migliori proporzioni e con le giuste dimensioni
che l’arte prescrive talchè mi posso gloriare di essermi fra gli altri artefici
distinto in far bene.
S. P.
Bravo Bramante; tu te la vai oggi passando meco colle celie; ma voglio che tu
risponda ad una piccola interrogazione.
B.
Interroga pur poco, che io risponderò molto, come soglio.
S. P.
Perchè hai ruinato quel mio tempio di Roma, che colla sola antichità sembrava
chiamare a Dio gli animi più irreligiosi?
B.
È falso ch’io l’abbia ruinato: furon gli operaj, e per comando di Papa Giulio.
S. P.
Tua fu questa trappola: dal tuo consiglio e dai tuoi malefizj fu indotto
Giulio: per tua direzione ed ordine lo abbatterono gli operaj.
B.
Tu la sai lunga: confesso il fatto.
S. P.
Perchè ardisti di far ciò?
B.
Per alleggerire alquanto il borsotto del Papa, che crepava, tant’era gonfio e
grosso.
S. P.
Che mal ti faceva la borsa di Giulio piena d’oro?
B.
Faceva male a tutti. Era brutta cosa il tener tant’oro sepolto in un solo
luogo. Gli antichi fecer tonde le monete, perchè le avessero a correre.
S. P.
Sei poi riuscito nel tuo progetto?
B.
No; perchè Giulio lasciò che si ruinasse la chiesa vecchia; ma per rifar la
nuova non diè mano alla borsa, ma solo la diede alle indulgenze e ai
confessionali; invadendo però la mia provincia, il soldato spagnuolo l’ha
asciugata quasi del tutto.
S. P.
E il Francese si vendicò bene sullo Spagnuolo a Ravenna.
B.
E lo Svizzero servì non male il Francese a Novara.
S. P.
Lasciamo tal piati ai mortali; le cose si avvicendano, ed è sempre varia la
sorte delle guerre. Torniamo a bomba.
B.
Dovunque mi chiami, io son sempre pronto, versatile come la ruota di un
vasellajo.
S. P.
Io ti dissi salute al tuo venire, a condizione che tu recassi frutti di salute
degni; e tu, come ho visto, hai preso tal complimento alquanto in mala parte.
B.
Più che alquanto; nè mi parve civil cosa che tu salutato non risalutassi: ma
sediamo un poco perchè son vecchiccio, e mi sento stanco pel lungo viaggio.
S. P.
Siedi pure, tel concedo volentieri.
A.
Ci vorrebbe or qui Apelle che dipingesse la Fortuna sedente.
(Si ha da Stobeo che Apelle dipinse la
Fortuna a sedere, e che interrogato perchè così la facesse, rispose perchè
non istà, non si regge in piedi, che è
quanto a dire, per la sua instabilità. Comunque non si regga molto nè pure la
ragione di Apelle, questa novella è
qui accennata dal Guarna onde mordere la volubilità di Bramante.)
B.
Alessandro, bada a te, che stuzzicherai la serpe col dito.
S. P.
Ho detto, o Bramante, che qui non si dà salute se non a chi n’è degno; e che
non fu mai lecito impunemente a persona il vivere a capriccio e non curarsi che
de’ piaceri.
B.
Non fu mai lecito?
S. P.
No di certo.
B.
Affè che ti provo che ciò è indegno ed ingiusto.
S. P.
Provalo.
B.
Non ha dato Iddio all’uomo ciò che chiamate libero arbitrio?
S. P.
Lo ha dato.
B.
Dunque ad uomo libero, cui fu dato il
libero arbitrio, non sarà lecito di vivere liberamente? Per altra parte i
chiosatori della tua censura diranno che dove la disposizione dell’atto dipenda
dall’arbitrio altrui, ivi non sarà libertà.
S. P.
Confesso che l’uomo ha libero arbitrio, bene o male ch’ei voglia usarne; ma ha
inoltre la legge, e ove la trasgredisca, ne pagherà il fio.
B.
Asserisci dunque che all’uomo è data la libertà, non la licenza?
S. P.
Ciò per l’appunto.
B.
Or vedi! quasi ch’esse non fosscr entrambe sorelle, nate ad un parto dallo
stesso ventre, e si congiunte d’amore, che l’una non potrebbe vivere senza
dell’altra! Pietro mio, ciò che m’è permesso di liberamente fare, io credo mi
sia anche lecito di ottimo diritto, e purchè non sovverta le leggi della madre
delle cose la natura, so bene che l’uomo è libero onninamente?
S. P.
E quali sono queste leggi della natura?
B.
Che l’uomo non ammazzi, non rubi, non ingiurj alcuno: del resto mangi, bea,
faccia tempone, e se avrà senno, seguirà a parer mio la beata indolenza di
Epicuro.
A.
Rispondimi una parolina, o Bramante, ma senza andar in collera.
B.
Di’ pure.
A.
Hai tu ben serbate le leggi della natura? .... Di che ridi?
B.
I tuoi sali, Alessandro, mordono troppo acutamente.
S. P.
Che è questo?
B.
Nulla nulla: costui non si occupa che d’inezie.
S. P.
Che è dunque, Alessandro?
A.
Il vedrai quando gli ordinerai che si spogli.
B.
Spogliarmi? Come! forse anche spogliate gli ospiti che vi capitano? anche in
paradiso de’ masnadieri? bel paradiso! a Roma io era più sicuro. No! io
dichiaro a voi tutti che o sia questo Pietro, o sia Paolo, o sia chi si voglia
gran satrapone di questo vostro paradiso, si guardi bene dal pormi le mani
addosso, e dal permettere che mi si perda il rispetto, o ch’io gli farò sentire
quanto valga Bramante con queste pugna: farà, spero, fra questi scogli
inaspettato dentifragio.
A.
Troppo iracondo Bramante!
B.
Vien pur qui tu, e sovrapponi pure quanto vuoi labbro a labbro, come facevi
allorchè da vivo ti prendea la stizza; farò che tu parta da me più dotto che
non venisti; un architetto insegnerà ad un procurator veterano che cosa siano gli articoli contratti.
A.
Io non amo le discipline che s’insegnano a pugni.
S. P.
Via chetati, Bramante: non sarai spogliato, nè ti si farà contumelia.
B.
Il credo bene, se a pugni non mi superate.
A.
Bramante vuol torsela a pugni con noi!
B.
Certo a pugni, all’uso degli antichi; che a pugni, non con armi, combattean gli
antichi, da che venne il nome di pugna.
A.
Capperi! stando teco, diventerò più dotto ogni giorno.
B.
Uh, voi patrocinatori di cause non istimate dotti altri che voi stessi; e noi
siete che in far male.
A.
Perchè?
B.
Perchè da lupi rapaci ed affamati divorate le pecore che si pongono sotto la
vostra tutela, o pure le tenete per l’orecchie finché han latte e lana.
A.
Tu mi calunnj falsamente, o Bramante, io non adoprai così vivendo.
B.
È vero, e perciò hai lasciato poco argento e buona fama; ma se continuerai ad
irritarmi, il gusto che hai di dir male, il perderai in sentir peggio, e ti
tratterò a misura di carboni. Ma qui, o Pietro, si fan troppe chiacchiere: ora
intenderò qual sia la sentenza vostra, e se vedrò che mi vogliate con voi,
esporrò, quando piacciavi, le mie condizioni.
S. P.
Bravo: di’ pure.
A.
Che dunque, o Pietro? anche al paradiso intimerà Bramante le condizioni?
S. P.
Lascialo dire: sentiamolo; mi diverto delle sue bizzarrie.
B.
Prima di tutto io voglio tor via questa strada sì aspra e difficile a salire,
che dalla terra conduce al cielo: io ne farò un’altra sì dolce e larga, che le
anime dei deboli e dei vecchi vi abbiano a salire a cavallo. Poi penso buttar
giù questo paradiso e farne un nuovo con più belle e più allegre abitazioni pei
beati. Se queste cose vi accomodano, son con voi; se altrimenti, io me ne vo a
casa Plutone.
S. P.
E dove vuoi che stiano i nostri inquilini fin che tu fabbrichi il nuovo
paradiso?
B.
Questi vostri cittadini sono assuefatti agl’incomodi, e han vissuto alle merie:
altri furono scorticati; altri macerati dalle vigilie; altri nutriti ne’ boschi
colle fiere: tutti a forza di malanni hanno acquistata questa vostra
cittadinanza. Nè in quest’aria si salubre v’è pericolo che piglino qualche
infreddatura.
S. P.
Bramante, tu fai condizioni troppo dure, ed ai vecchi non piace mutare stanza.
B.
Dunque con tua buona grazia me n’andrò a Plutone, ch’ivi farò meglio le cose
mie.
S. P.
Forse che sì.
B.
Farò un inferno tutto nuovo, rovesciando il vecchio, cadente e consunto dalle
antiche fiamme.
S. P.
Non avrai ozio per tal impresa.
B.
Andrò nondimeno con tua licenza.
S. P.
Non andrai.
B.
Perchè?
S. P.
Tel dirò poi: ma dimmi ora, o Bramante, hai tu veramente ruinato quel mio
tempio di Roma?
B.
L’ho ruinato, è vero, ma papa Leone lo farà di nuovo in breve tempo.
S. P.
Bene: questo breve tempo lo passerai qui avanti le porte del paradiso, nè
potrai entrare se non quando sarò bea certo che il mio tempio sia finito.
B.
E se non si finisse mai?
S. P.
Oh! il mio Leone lo finirà di certo.
B.
Forse il finirà; così mi giova sperare. Starò dunque ad aspettare, poichè non
m’è dato di fare altrimenti.
Qui
termina ciò che spetta a Bramante in questa stravagante satira la quale,
comechè irreligiosa e fantastica, pure non è disadatta a recar luce alla
storia. La sentenza colla quale san Pietro esclude Bramante dal paradiso, fa
credere che il Guarna stimasse impossibile che il gran tempio da lui
architettato si potesse finire. In fatti vi vollero gli sforzi di molti
pontefici per oltre due secoli.
Null’altro
si legge in questo strano dialogo che risguardi le arti: solo si accenna da san
Pietro che a quell’epoca si era in dubbio dove le porte del suo gran tempio si
dovesser fare. Di fatto nella croce greca ideata da Bramante si poteano aprire
in ciascheduno de’ punti cardinali senza offendere il disegno; e Simia aggiunge
che nulla stabilì Bramante, morendo, circa alle porte, da che si può desumere
che qualche cosa stabilisse intorno al resto.
È comune
desiderio degli amatori della buona architettura e della erudizione delle arti,
che non solo si raccolga tutti ciò che spetta alla storia di Bramante e de’
varj Bramanti, ma che si disegnino e si pubblichino le molte belle fabbriche
che portano degnamente un sì bel nome, delle quali ve n’ha molte in Lombardia,
e specialmente in Milano. L’Accademia milanese spera un tale lavoro da qualcuno
degli alunni suoi pensionati.
[25] S’ignora il tempo della nascita e della morte di Paolo
Mini. Io ho trovato un di lui manoscritto del 1592. Contiene esso un catalogo
delle famiglie che hanno governato Firenze, con varie notizie storiche tratte
dagli archivj pubblici dì quella città. Fu medico in Lione per lo meno dal 1572
al 1583, se pure non fu altrove tra queste due epoche; perchè del 72 è data in
Lione la sua Difesa di Firenze,
fatta, com’egli asserisce, da molti mesi: del 1583 è dallo stesso luogo scritta
una lettera di Jacopo Dalechampio a Pier Vettori, nella quale si parla di lui
come di medico celebre. L’opera che io posseggo manoscritta del 1592, è
dedicata a Tommaso Strinati, e ha la data di Firenze del 15 marzo. Il
Tiraboschi osserva che nè il Negri nè le notizie dell’Accademia fiorentina lo
dicono medico in Lione: avrebbe potuto più facilmente osservare che nella
Difesa suddetta, stampata da lui in Lione presso Filippo Tinghi, egli da sè
stesso si nomina nel frontispizio Medico e Filosofo.
[26] Il Lomazzo fa menzione di Leonardo nel suo Trattato a carte
27, 31, 5o, 71, 100, 101, 106, 107, 111, 125, 127, 158, 159, 164, 171, 177,
178, 182, 183, 185, 192, 193, 198, 212, 217, 227, 237, 264, 282, 283, 284, 289,
299, 316, 325, 336, 347, 354, 36o, 384, 430, 434, 437, 438, 455, 453, 483, 487,
53o, 614, 616, 633, 635, 637, 632 e 676; e nel suo Tempio della Pittura a carte
7, 17, 18, 38, 42, 45, 46, 49, 51, 52, 54, 58, 68, 101, 118, 129, 13o, 132,
146, 148 e 149. Se la noja della lettura o l’attenzione ad altro non mi ha
distratto, non credo si trovi altrove importante cenno intorno a Leonardo
dentro queste due opere.
[27] Veggansi le pagine 120 e 129 de’ Grotteschi.
[28] Come dai sedici ai venti anni pone il Lomazzo la terza età
sotto l’influenza di Venere; così pone, cred’io, la quarta dai venti forse ai
ventiquattro sotto l’influenza del Sole. Ciò ricavasi dagli endecasillabi posti
in coda al Sonetto diretto a Pietro Martire Stresi (pag. 181 de’ Grotteschi),
ne’ quali, avendo detto d’aver copiati i Cesari di Tiziano, soggiunge:
E questi feci nell’età del Sole,
Abbandonando l’amorosa Dea.
[29] Veggansi le pagine 65, 74, 132, 143, 172, 191, 209, 210,
220 e 226. In ciascuna si trova qualche cosa che ha relazione sia all’Armenini,
sia al Vinci. Veggasi anche la Conclusione dell’Autore, nella quale, per
iscusar sè di dar precetti senza aver fatto nessuna opera di grido, osa
asserire che anche Leon Batista Alberti e Baldassar Peruzzi non fecero alcuna
fabbrica, contenti d’aver lasciato delle opere scritte; il che ognuno sa quanto
sia contrario al vero.
[30] Antonio Possevino, gesuita, fece, a quanto sembra, molto
conto del libro dell’Armenini, al quale concesse quasi tre pagine del suo
libretto De Paesi et Pictura ethica,
ecc., riportandone i principali argomenti, mentre poi non fece menzione di
nessuna delle opere del Lomazzo.
[31]
Io ho fatto fare diligenti ricerche in Roma di questo lavoro in argento,
specialmente coll’ajuto del chiarissimo monsignor Marini, alla cui amicizia son
debitore di molte utili notizie. Non se n’è però trovato conto alcuno, e avrà
anch’esso corso la sorte di tante altre rare opere de’ primarj artefici,
ch’essendo state fatte di metalli preziosi, giran ora in forma di monete; per
lo che non sarebbe fuor di luogo il ripetere ciò che Petronio diceva al suo
tempo, cioè che più diletta una massa d’oro, quam quidquid Apelles, Phydiasve græculi delirantes fecere.
[32] Il libro del Figino secondo il Lomazzo (vedi il Trattato a
carte 632) era, composto di trenta fogli con diversi molini, torchi, presepi,
ecc. Nel Tempio poi della Pittura si legge che tali macchine andavano per mozzo
di cavalli (vedi questo libro a carte 17); e per l’appunto di bellissimi
cavalli provegnenti da’ disegni del Vinci abbondano gli schizzi del Figino, de’
quali ragiono nel testo.
[33] Si legga la sua lettera a Carlo Emanuele di Savoja, posta
in fronte all’edizione de’ Detti
Memorabili, pubblicata in Torino del 1614, con molte aggiunte.
[34]
Veggasi il primo volume del Diccionario
historico pubblicato dal Bermudez a Madrid nel 1800, a pag. 251.
[35]
Pag. 18 a tergo.
[36] En Sevilla, por Simon
Faxardo ecc., 1649, 4.°
[37] Il Vasari dice che Raffaello fe’ ogni sforzo onde prendere
la maniera di Leonardo; ma egli fosse realmente stato discepolo suo qualche
tempo (il che poteva forse avvenire in Firenze), non avrebbe per onor
d’entrambi lasciato di dirlo.
[38] L’epigramma che fu posto sotto un Cristo ignudo del
Pacheco, è il seguente:
¿Quien os puso assi, Señor,
Tan desabrido, y
tan seco?
Vos me direis, que
el amor,
Mas yo digo, que Pacheco.
[39] Sfuggì al Du-Fresne un grosso errore geografico, ove ci fa
navigar l’Adda per dugento miglia; nè lo scusa il veder ripetuto sì strano
sbaglio da varj anche modernamente. Sono anche eccessive le lodi di cui ricolma
l’Errard, pittore del quale il Possino non faceva alcuna stima. Ma i diviamenti
dal vero, sia nel giudicare, sia nelle cose di fatto, i quiali s’incontrano nel
Du-Fresne, non gli scemano il merito di aver reso pubblico con elegante
edizione il Trattato del Vinci, che, incompiuto com’è, sempre è la migliore e
più utile opera che nel suo genere esista.
[40] Odomenigico Lelonotti
da Fanano e Britio Prenetteri che
voglion dire Gioan Domenico Ottonelli da
Fano e Pietro Berrettini.
[41] Alla pagina 73 della prima parte dell’Itinerario, stampato nel 1654.
[42] Queste parole del Fréart sono tolte dalla traduzione di
Anton Maria Salvini che sporcò la sua penna con sì spregevole originale. Anche
anticamente non mancarono critiche a Michelagnolo, come ad ogni altro
grand’uomo è avvenuto; ma quegli autori che disapprovarono i suoi metodi o le
sue invenzioni o le sue opinioni, non eccettuati i teologi, procedettero sempre
con rispetto e moderazione; e per lo più hanno frammischiato alle accuse encomj
grandissimi. Lo stesso Milizia che, pasciuto di letture francesi, satirizzò
Michelagnolo goffamente, si è da poi disdetto, e lo chiamò per l’eccellenza
nelle tre arti un uomo triplo. Certamente se il Fréart avesse voluto giudicare
degli artefici della sua nazione co’ modi impiegati a giudicare il Buonarroti,
credo avrebbe trovato il vocabolario sterile di termini ingiuriosi e villani.
Debbo qui avvertire
che parlando della prima edizione del libello del Fréart, la dissi impressa a
Mons sulla fede del Comolli, che aveva debito di essere esatto in cosa
essenziale per la natura e l’argomento dell’opera sua. Avuto poi di recente il
libro, il trovo impresso Au Mans. De
l’Imprimerie de Jacques Ysambart etc. MDCLXII.
[43] Questo raro libercolo in 8.o piccolo fu stampato
nel 1707 in Perugia pel Costantini.
[44] Il padre Resta sbaglia d’un braccio la sua misura: è
nondimeno più esatto del signor De la Condamine, come in appresso si vedrà.
[45] Veggasi la pag. 185 del Tomo primo.
[46] Lettres historiques et critiques sur l’Italie, de Charles de Brosses
etc., avec des notes etc., à Paris chez Ponthieu an. VII.
[47] La celebre Agnesi nacque in Milano il t6 maggio del 1718.
[48] Mémoires de l’Accademie roy. des Sciences, an
1757.
[49] Questi chiamavasi Giuseppe Guerra. Veggasi ciò che ne
scrissero Zarillo e Paciaudi: veggasi anche la prefazione al secondo Tomo delle
Antichità d’Ercolano.
[50] Era naturale che il La Lande volendo servirsi dell’autorità
altrui per parlar del Cenacolo, scegliesse la peggiore; perciò si attenne a
quella di M. Cochin, anzi parve volerlo emulare, facendo con esso lui a chi le
dice più grosse.
[51] Il Richardson dice soltanto che è situato au-dessus d’une porte fort haute.
[52] Precisamente due secoli prima il Vasari aveva detto che nel
Cenacolo non vedevasi che una macchia
abbagliata.
[53] Anche il Chamberlaine ci fe’ navigare per l’Adda dugento
miglia.
[54] Fra i giornalisti che ragionarono di Leonardo e del
Cenacolo non si dee dimenticare Demetrio Pieri, corcirese, tolto alle lettere
in età di anni ventiquattro. Egli inserì in un giornaletto letterario di Corfù
un lungo articolo col quale si sforzò di confutare coloro che antepongono il
Correggio a Leonardo. Volli lasciar memoria di questo erudito giovane per
dimostrare quanto sia estesa la fama di Leonardo anche in que’ paesi ove le
arti del disegno sono quasi del tutto abbandonate.
[55] Negli Elogi o Iscrizioni degli artefici, di Pier Leone
Casella (Lugduni 1606), leggesi sotto
l’articolo Inventio, Leonardus Vintius
acutioris ingenii pervicacia intentatum reliquit nihil. Il Casella colse
nel segno almeno in parte per Leonardo, ma non pesò egualmente bene i meriti
de’ molti artefici che prese a lodare.
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