martedì 16 settembre 2014

1810 - BOSSI, Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, libro secondo




DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI.
LIBRO SECONDO.

DESCRIZIONE GENERALE.

In quelle arti nelle quali talora ha parte il caso o la varia estranea cooperazione di persone o di cose, come sono la guerra, la nautica o simili, male dall’evento felice di una sola operazione si giudicherebbe del valore dell’operante; ed i filosofi, accordandosi a conceder vita alla fortuna in soccorso di quelle facoltà, non danno stabile fama di grandi se non a coloro i quali a lungo e in molte diverse occasioni confermano coll’opera il loro sapere. Ma nelle arti d’imitazione ed in ispecie nel disegno ed in argomenti come quello di che parliamo, complicati per numero di figure, per varietà d’affetti o per altre circostanze, il buon esito anche di una sola opera è una giusta misura del sapere dell’autore, e da tal esito si dee giudicare la profondità delle ricerche e degli studj che alla meta proposta il condussero. Quante e quali pertanto fossero le indagini di Leonardo, fra tutti gli artefici ingegnosissimo, intorno al suo Cenacolo, si può a buon titolo dedurre dalla riuscita ch’ei n’ottenne, e dalla meraviglia che quest’opera potè eccitare nel secolo migliore dell’arte, non che dal primato ch’essa ha mantenuto fino a noi per tre secoli consecutivi, sostenendolo anche allorquando la pittura si allontanò da que’ severi principj ai quali doveva l’antica sua gloria e perfezione. Mi verrà perciò, spero, perdonato, se tratto dall’abbondanza della materia, mi dilungherò forse talvolta oltre il limite conveniente al tema propostomi, e sembrerò qua e là deviare dall’oggetto diretto della mia descrizione, per meglio internarmi dentro le intenzioni e gli studj dell’autore. Le minute osservazioni delle quali una tanta opera porgerà occasione, non saranno inutili alla ricerca del bello ed al progresso della vera arte di vedere.
Venendo adunque al proposito nostro, dico che il convento delle Grazie, cui Leonardo che tanta fama, fu poveramente incominciato al tempo di Francesco Sforza nel 1464; ed il refettorio che suol essere sempre la parte più vasta ed ornata di ogni convento, essendo già stato intrapreso meno meschinamente, fu allungato nel 1481 a sessanta braccia sopra la larghezza che di braccia quindici fu ad esso probabilmente da principio stabilita. Una delle teste di questo refettorio fu data a dipingere a Leonardo; e o per iscelta del pittore o per comando di chi commise l’opera, ne fu argomento l’ultima Cena di Cristo cogli apostoli. È da credere che Leonardo abbracciasse con trasporto una sì bella occasione di mettere in pratica le profonde speculazioni da lui fatte sull’arte della pittura, e di mostrarsi capace di fare in essa, non meno che in altre arti, meglio di ogni suo competitore qual si fosse, come egli stesso non temea d’asserire. Egli è certo che tanto studio ei pose in comporre quest’opera, tanta diligenza in eseguirla, che allorquando la scoperse, provò di quanto si poteva estendere il confine dell’arte, e ne cangiò affatto l’aspetto, spingendola a tal colmo che d’allora in poi non salì a maggiore.
Lo spazio destinatogli prendeva tutta la larghezza del refettorio, e tanta parte dell’altezza della parete, che l’opera riusciva alta la metà circa della sua larghezza. Egli adattò perfettamente la sua composizione a tal campo, ponendo per traverso una gran mensa alla quale fe’ seder Cristo nel mezzo e sei per banda gli apostoli, collocando gli ultimi a seder di profilo. Le figure sono la metà circa maggiori del naturale, quali appunto convenivano al luogo che può ammettere spettatori fino a sessanta braccia di distanza. Converrà nominarle ad una ad una, acciocchè si vegga con quanta finezza d’artificio Leonardo contrapponendo i caratteri, alternando le fisionomie e le età, variando gli affetti, le attitudini, i costumi, seppe comporre un tutto sì vario a un tempo e si equilibrato ed armonico, che più quest’opera si contempla, più occupa la mente e più riempie l’animo di meraviglia e di diletto. Nè si creda che a capriccio o a congetture, come altri fecero, io proceda nella mia nomenclatura: essa ha l’appoggio dell’autorità in un’antica copia che descriverassi in appresso, sotto la eguale da sincrona iscrizione veniamo assicurati del nome di ciascheduno degli attori del quadro.
Quel primo adunque alla sinistra dello spettatore che, appoggiandosi alla mensa, si alza onde meglio udire le parole del Maestro, è l’apostolo Bartolommeo: lo segue Giacomo il minore che, appoggiando la destra alla spalla del vicino, tende la sinistra in atto di chiedere informazione delle parole pronunciate da Cristo. Il terzo è Andrea che apre le mani in atto di stupore. Il quarto è Pietro che, oltrepassando Giuda, chiede a Giovanni l’autore della congiura. Non si può non riconoscere Giuda e Giovanni, col quale termina il gruppo alla destra del Salvatore. Alla sua sinistra il primo che apre le braccia in atto misto di orrore e di meraviglia, è Giacomo, fratello di Giovanni. L’altro che alza il dito, quasi minacciando il traditore, è Tommaso. Il terzo che ponsi le mani al petto, è Filippo. Quel giovine che volgesi in atto di confermare quanto udì dal Maestro, è Matteo. Taddeo è il quinto; l’ultimo è Simone.
Quanto finalmente esprimesse Leonardo il vario carattere di ciascheduna figura, seguendo la storia e la circostanza, sarà prezzo dell’opera l’esaminarlo partitamente, cominciando dalla figura principale. Un tale esame che porta seco di sua natura l’analisi dell’opera, potrà anche servire a confermare questa nuova nomenclatura, ove sia in contrasto coll’altrui opinione.

CRISTO.

Se in ogni parte del nostro quadro si manifesta la profondità del sapere di Leonardo, parmi in singolar modo esigere ammirazione nella figura del Salvatore. In essa può dirsi posto l’argomento di tutta l’opera, e l’autore la collocò in maniera, ch’essa vi chiede i primi sguardi; e poichè avrete scorse le altre parti tutte del quadro, è di necessità che su di essa torniate coll’occhio, il quale da essa non sembra potersi staccare senza una specie di sforzo.
Il collo nobilmente elevato col capo inclinato lievemente a sinistra, gli occhi con modestia e gravità abbassati, la bocca semiaperta quale di chi finisce appena di parlare, una moderata commozione de’ muscoli della fronte, l’apertura delle braccia, le gambe raccolte, tutto in fine il complesso della semplice a un tempo e artificiosa attitudine annunzia un contegno, un sentimento, un pensiero, un affetto così proprio ed individuo alla persona ed alla circostanza, che in vano si cerca fra le altre famose opere dell’arte una più vera e più grande imitazione dell’Uomo Dio in una sì singolare situazione morale.
Ma questa stessa situazione è frutto dell’ingegno sublime del pittore filosofo. Tutte le rappresentazioni di questo passo della storia evangelica che precedettero questa di Leonardo, non ottennero mai un effetto intero ed universale, perchè gli autori di quelle, non penetrando abbastanza profondamente addentro nell’argomento, non conobbero la vera fonte degli affetti che da esso potevansi derivare, e pare che non avessero in vista altra imitazione che quella di una religiosa cerimonia, o al più della istituzione d’un sacramento. L’esame che col mezzo delle stampe ognuno può fare sopra i più celebri cenacoli, porrà in chiaro quanto qui accenno di passaggio; e ciò che debba far più meraviglia, questa mia asserzione non solo si verifica delle opere dello stesso argomento, che prima della nostra furono eseguite, ma anche di quelle che le vennero appresso, i cui autori avrebbero potuto approfittare della scorta d’un esempio così luminoso.
Il vangelo aveva narrato a tutti i pittori anteriori a Leonardo, che Cristo, radunati i suoi eletti, aveva detto che uno di loro Io tradirebbe. La conseguenza di tali terribili parole egualmente dal vangelo descritte, presentava uno sviluppo felice di tutte quelle passioni, la cui imitazione forma il pregio principale dell’arte. E pure chi prese di mira la frazione del pane; chi la benedizione del vino; chi la distribuzione dell’uno o dell’altro, situazioni tutte egualmente consacrate dalla storia e dalla religione, ma non atte certo a destare passioni nè varie nè forti, e quindi per loro natura di effetto debole e monotono, tanto più in una scena ove, come in questa, è grande il numero degli attori principali. Il vero punto altamente degno dell’arte era ancora intatto, allorchè venne il pittore de costumi, il vero Aristide italiano, il divino Leonardo che non si accontentò, come i suoi antecessori, del tributo degli animi religiosi o degli occhi che si appagano di una seducente superficiale imitazione; ma volle a sè gli animi di tutti gli uomini capaci di sentire, di ogni tempo e di ogni religione; volle a sè tutt’i cuori cui non è ignota l’amicizia e l’orrore del tradimento. Egli ponderò colla scorta della filosofia di quanto e quale aumento tali sentimenti fossero capaci per rispetto al suo principale personaggio, cioè all’Uomo Dio; ma compose in tal modo l’opera sua, che, astraendo anche la divinità del protagonista, rimane ancora tanto d’importanza generale al soggetto, che nulla vi sagrifica l’arte alle private opinioni o alle cerimonie religiose, non eterne e non generali come i sentimenti umani.
Cristo aveva già annunziato ai suoi amici ch’egli era venuto al mondo per dare il suo sangue a comun salvamento: aveva già detto che per poco sarebbe stato con essi: raduna i dodici più eletti e fedeli, quelli che, paragonando sè stesso ad una vite, chiamava suoi palmiti, quelli ai quali aveva commessa la riforma del mondo, ai quali preparava dodici troni nel cielo; siede con essi a mensa solenne, ed annunzia ch’un d’essi è il traditore che lo consegnerà ai suoi nemici e alla morte. Chiunque non comprende quale debba essere il turbamento di ogni cuore a simile annunzio, non solo sarà affatto insensibile alle arti d’imitazione, ma debbe aver chiuso l’animo ad ogni virtuoso sentimento. A questo momento pertanto, sfuggito a tutti gli artefici che precedettero Leonardo, appoggiò egli la sua composizione, e si propose d’imitare l’effetto delle parole di Cristo negli undici amici e nel traditore. La diversità delle indoli, delle età e de’ caratteri di ciascheduno, affidata per quanto potè alla storia, fece base all’infinita prodigiosa varietà che in quest’opera Leonardo introdusse, vincendo con arte la più fina il monotono argomento di tredici figure tutte virili. E mentre l’ira, l’amore, il desiderio della vendetta, il dolore, le proteste di fedeltà, lo stupore, l’orrore, il sospetto, e tutti in fine quegli affetti che dovevano avere movimento dalle parole del protagonista, preparavano all’ingegno imitatore di Leonardo una varietà infinita di espressioni e di attitudini; questi stessi affetti raccolti attorno ad un movente universale e nati da una stessa origine, sebbene diversamente modificati a seconda dell’animo di ciascheduno, preparavano all’opera una non meno singolare e meravigliosa unità.
Pieno Leonardo la mente di questa morale situazione de’ suoi tredici interlocutori, li dispose come di sopra accennai brevemente. I pochi e deboli tratti coi quali in appresso descrissi la figura del Salvatore, sono certamente insufficienti a darne idea a chi non vide o l’originale o qualche copia ragionevole: ma in vano spererei di darne con parole un idea migliore, tanto fine e moltiplici sono le degradazioni degli affetti, la cui mistura prese Leonardo a rappresentare in questa figura con singolare cimento dell’arte e dell’ingegno, ma con esito veramente unico e mirabile. Lasciando dunque questa parte del pittorico artificio, che si può assai meglio sentire che esprimere, parlerò alquanto delle altre avvertenze dell’autore, che contribuiscono ad accrescere in questa figura la maestà e l’espressione.
Un ricco panneggiamento, composto di una tunica talare e di un vasto pallio, l’adorna con pieghe semplici e grandiose, le cui linee si accordano con aggradevole contrasto alternando le direzioni. La tunica è a maniche larghissime, ed al petto si raccoglie sotto la fimbria o scollatura in pieghe minori e più fine, delle quali si fa maggiore e più stretto gruppo nel mezzo, dove una gran gemma adorna la fimbria. Al di sopra di questa apparisce parte dell’interula o indusio che pure si scorge uscire alquanto presso le mani. Il pallio attraversa la figura con pieghe larghe e molli dalla spalla sinistra al fianco destro, e scende ricco ai piedi, coprendo le ginocchia e in parte le gambe. I colori sono i soliti che dannosi alle imagini del Salvatore, cioè azzurro è il manto, rossa la tunica. I piedi sono, tranne le dita, coperti da sandali, e sono posti parallelamente, l’uno di poco più avanti dell’altro, attitudine semplicissima che aggiunge decoro, e che fu imitata, sebbene con poco accordo col rimanente, da Tiziano nella sua Cena d’Emaus, e da Gaudenzio Ferrari nel quadro che ancora vedesi nella nostra chiesa della Passione. Di alcune cose che riguardano l’atto delle mani, avrò occasione di parlare allorchè darò ragguaglio della mia copia.
Sarebbe qui luogo d’indagare se Leonardo perfezionasse o no la testa del Salvatore; ma non è grave rischio di sana critica l’abbandonarsi piuttosto all’autorità del Vasari e del Lomazzo, che assicurano che Leonardo lasciolla imperfetta, anzi che credere il contrario a chi ne sapea troppo meno di loro per arte e per giudizio, e vide l’opera o del tutto guasta, o in tempi ai nostri vicini, quindi ricoperta dai ritocchi, come sono il Richardson, il Monti, il Della Valle ed altri.[1] L’autorità poi di que’ primi viene confermata dal costume di Leonardo che non finì alcuna delle opere sue, non sapendone staccare la mano per desiderio di perfezione. Fanno di ciò testimonio le varie tavole cominciate di sua mano, indi abbandonate, che si trovano in Parigi, in Firenze ed in Milano,[2] che nondimeno sono tenute in grandissima estimazione, come già presso gli antichi la Venere di Apelle, l’Iride d’Aristide e la Medea di Timomaco. Fino il ritratto di monna Lisa che gli costò quattro anni di studio diligentissimo, e in cui parea battessero le arterie, tanta era l’imitazione del vero, fu da lui dato per imperfetto. Tanto meno strano deve parere che anche il gran Cenacolo imperfetto rimanesse nella testa del Salvatore, nella quale la singolare mistione dell’Uomo e del Dio doveva più che altri atterrire Leonardo, perchè egli più che altri dovea colla profonda perspicacia del suo ingegno sentire la difficoltà di tanta imitazione, e se n’era forse fatta un’idea superiore, non che alla propria, alla potenza dell’arte. Così leggiamo in Valerio Massimo essere avvenuto ad Eufranore il quale nella tavola in cui rappresentò i dodici Dei maggiori, avendo consumato tutte le forze dell’arte e dell’ingegno in perfezionare la testa di Nettuno, dovette poi lasciare imperfetta quella di Giove.
Ma l’imperfezione in senso di Leonardo era assai diversa da ciò che per tal vocabolo comunemente s’intende, e parmi si possa paragonare a quella di Virgilio il quale, anch’egli secondo il proprio giudizio, lasciò imperfetta l’Eneide ch’è forse tra i grandi poemi il più squisitamente finito che ci sia rimasto di tutta l’antichità.

GIOVANNI.

La figura di questo apostolo forma gruppo colle vicine di Giuda e di Pietro. Anche il singolare contrasto che risulta dalla vicinanza e dall’aggruppamento di questi tre diversissimi personaggi, ha l’appoggio dell’autorità storica, e non vedo che da niuno siasi tratto profitto di tale autorità nè prima nè dopo Leonardo. Questo divino ingegno non si lasciava sfuggire niuna di quelle circostanze che potevano giovare alla sua composizione, sapendo benissimo che alcune cose, talora semplicissime e di niuna cospicuità nelle storie delle quali si segue l’autorità, acquistano un tal peso nell’imitazione, che, dimenticata la fonte donde si trassero, tutta al pittore rimane la gloria dell’effetto che producono poste sott’occhio dall’arte della pittura. Così Timante trasse probabilmente da Euripide l’invenzione di quel velo con cui avvolse il capo d’Agamennone nel Sacrifizio che dipinse d’Ifigenia; ma niuno de’ greci culti, non immemori certo d’una tragica rappresentazione tanto famosa, osservava un tal felice ritrovato in Euripide, mentre tutti l’ammiravano in Timante come una singolare e mirabile invenzione.[3] E sia pur questo un privilegio della pittura, o sia, com’è in fatti, pregio de’ soli distintissimi ingegni il sapere scegliere quelle circostanze, negli scrittori secondarie, ma di grande opportunità ed effetto allorchè sono imitate col disegno, egli è certo che questo artifizio forma una delle parti più ingegnose della pittorica invenzione, e che Leonardo provò di possederlo in un grado eminente.
Sappiamo dal vangelo dello stesso Giovanni, che questo giovane apostolo sedeva a mensa vicino al Redentore, giacchè dice che appoggiava, riposando, il capo al suo petto. Sappiamo che Pietro, udite le parole del Maestro che annunziavano un traditore, interrogò Giovanni per sapere di chi intendesse Cristo di parlare. Sappiamo che Giovanni ripetè a Cristo questa interrogazione, e che Cristo rispose che il traditore era quegli cui avrebbe dato un pezzetto di pane intinto, che in fatti diede, senza muoversi dal luogo suo, a Giuda Iscariote. Doveva dunque Leonardo, seguendo la storia, porre Giovanni vicino a Cristo e alla sua destra come distinto e prediletto sopra tutti gli altri commensali: doveva poco discosto collocar Pietro, acciocchè questi potesse interrogare Giovanni intorno alle parole del Redentore: doveva parimente collocar Giuda poco discosto da Cristo, affinchè questi potesse offerirgli il pane intinto, di che aveva parlato a Giovanni. Il frapporre adunque più d’un commensale fra Cristo e Giuda, fra Pietro e Giovanni, avrebbe posto ostacolo o difficoltà al corso di que’ piccoli avvenimenti renduti importanti dalla circostanza e dalla sacra tradizione, dei quali l’artefice seppe si acconciamente approfittare. Serbò d’altronde Leonardo il secondo luogo presso al Redentore pel fratello del suo diletto Giovanni, Giacomo il Maggiore. Non gli rimaneva quindi per Giuda che un posto presso Giacomo; ma allontanandolo da Pietro e da Giovanni, avrebbe dimezzata l’attenzione e perduto tutto l’effetto che doveva produrre il vicino confronto della fellonia di quel vile con lo zelo ardente e generoso di Pietro, e coll’amore sviscerato di Giovanni che solo seguì il divino Maestro fino al sepolcro. Ecco dunque come l’arguto Leonardo rendè naturalissimo e consentaneo alla sacra autorità l’artificioso collocamento di questi tre personaggi, dopo Cristo, principalissimi della sua composizione, i più importanti per la storia rappresentata, e i soli forse che l’arte poteva coi mezzi proprj far riconoscere senza confusione.
Dalle cose fin qui dette è facile l’immaginarsi l’attitudine dell’apostolo Giovanni. Stava egli quasi riposando nel seno di Cristo, allorchè questi annunziò l’orribile tradimento. È naturale che un tale annunzio lo dovesse scuotere, e tornatolo sopra di sè, porlo in atto d’interrogare o il maestro od altri intorno alla persona del traditore.[4] In questo istante Pietro iracondo sorge, e passando col capo dietro le spalle di Giuda, si volge a Giovanni per lo stesso motivo. Giovanni dunque è in atto di tender l’orecchie alle parole del principe degli apostoli, ed alzando lievemente la spalla accennasi ignaro di chi intenda Cristo di parlare, mentre nell’accigliamento e negli occhi modestamente chini mostra sentire l’orrore del tradimento ed il dolore profondissimo della vicina sciagura dell’amato Maestro. Egli tiene inoltre le due mani insieme incrocicchiate e le posa mollemente sulla mensa, col quale atto indicò il pittore il riposo al quale s’era abbandonato in seno di Cristo prima del momento rappresentato.
Ciò mi suggerisce di far osservare che nelle attitudini di qualunque figura mossa repentinamente da forte cagione, deve distinguere tanto l’artista che la imita, quanto il buon critico che la osserva, due tempi diversi che fanno, direi quasi, due diverse attitudini, l’una antecedente che lascerà scorgere nella figura la situazione che si suppone precedere il momento rappresentato; l’altra esprimente lo stesso momento e quel precipuo effetto che si vuol far intendere e sentire. Lascio qui da parte che questo è un mezzo insigne onde far pensare a quanto è per avvenire in seguito al momento che si rappresenta, oggetto ch’ebbero sempre di mira i migliori antichi, come ne fanno fede i monumenti più singolari dell’arte loro che il tempo ci ha conservati, e le memorie degli scrittori intorno a quelli che più non esistono. Ma se l’arte dell’imitatore non dà nella sua figura qualche cenno della situazione che precede l’atto che prende a rappresentare, difficilmente riuscirà a dare idea di atto pronto e momentaneamente eccitato: e senza questa prontezza e momentaneità negli atti e movimenti, l’arte ha poca vita, perchè la vita sta nel moto, e il dare idea di moto pronto e vivace con mezzi immobili è il sommo dell’arte.
E giacchè il caso ci ha condotti a queste osservazioni, non sia discaro al lettore che alcun poco in esse io lo trattenga, avuto riguardo alla loro importanza per l’arte, ed alla luce che se ne può trarre onde spiegare l’origine del pellegrino effetto di alcune più rare produzioni del disegno.
Perchè al subentrare d’una nuova attitudine cessino in tutte le membra d’una figura le conseguenze d’un’attitudine qualsivoglia, sia di moto, sia di quiete, è necessario un certo tempo, o, per ispiegarmi meglio, una serie o successione di momenti, de’ quali l’artista accorto che vuol dar anima alla sua imitazione, dee sempre scegliere il primo.
Conseguenza d’una tale scelta sarà che, oltre l’espressione dell’atto momentaneo e primario, si trovi a quel primo momento indizio, o, direi quasi, avanzo della precedente situazione che il nuovo stato non ha per anco intieramente distrutta.
L’effetto poi dell’unione di queste due situazioni, delle quali la primaria si rappresenta, la secondaria e precedente si accenna, debb’essere naturalmente tanto maggiore, quanto maggiore sarà l’opposizione e il contrasto di esse situazioni fra loro.
A rendere più chiare queste proposizioni, e ad effetto di avvicinarle allo scopo loro, mi gioverò d’un esempio solenne, tratto dalla maggiore opera del sublime Michelagnolo, dal Giudizio universale della cappella di Sisto. Osservinsi in esso alla sinistra dello spettatore quelle figure che, oppresse ed immerse da secoli nel sonno della morte, sono improvvisamente risvegliate dal clangore della tromba celeste. Chi non iscorge in esse i resti della prima loro situazione, cioè di quel letargo mortale che le tenne immote ed insensibili tant’anni? L’uno apre a stento gli occhi gravi e schivi della nuova terribile luce che li percuote: questi riceve la vita, ma non l’ha ancora disseminata per tutte le membra; quest’altro solleva il petto respirando con meraviglia e sembra stare incerto fra la speranza e la tema: quegli è scosso dalla potenza straordinaria di quel mirabile suono, e già tenta tôrsi all’impaccio de’ lini mortuarj, sebbene non abbia ancora del tutto rivestite delle sue polpe le ossa denudate dai vermi e dal tempo: un altro, forse più recente cadavere, è in tutta sua carne, ma non ha ancora tanto di vita e di forza che gli basti onde muoversi senza l’altrui soccorso. A dir breve, la singolare mistura di queste due strane situazioni tanto fra loro contrarie, questo meraviglioso impasto d’una nuova vita che combatte la morte, fa un effetto tanto forte e potente in chi osserva quest’opera di Michelagnolo, che gli altri gruppi d’altronde mirabili, ne’ quali questa o simile mistura non si combina, rimangono addietro d’assai in merito ed in lode. Osservinsi in fatti le figure vicine alle descritte, nelle quali la vita trionfò compiutamente e rianimò tutte le membra, talchè con forza propria, la rivestita carne alleviando, s’innalzano al cielo, e ad onta della meraviglia ch’eccitano per la singolarità dell’artificio, se ne avrà da chi ben sente ed osserva, una sensazione meno potente e più breve, forse perchè, semplificata la cagione che la eccita, minore e più semplice ne debbe riuscire l’effetto.
Con lo stesso principio era composto dallo stesso Buonarroti il celebre cartone della guerra di Pisa, nel quale i soldati che pacificamente si bagnavano nell’Arno, erano repentinamente chiamati all’armi: e per tornare onde siamo partiti, con principio a questo uniforme fu dal nostro Leonardo inventato il Cenacolo, in cui ad una unione di dolce e religiosa effusione d’amicizia e di cordialità succede ad un tratto il tumulto dell’inquietudine, la paura del tradimento e l’acuta amarezza del sospetto. La quale composizione poi gode di un vantaggio segnalato ed unico sulle due indicate, quello, cioè, d’avere per attori tredici personaggi tutti nominati e famosi, e tutti assolutamente necessarj all’azione.
L’osservazione adunque sulla rappresentazione degli effetti d’un movimento che lasci ancora scorgere nelle figure qualche resto della situazione precedente, osservazione inculcata in più modi da Leonardo ne’ suoi scritti, spiegherà facilmente non solo l’attitudine dell’apostolo Giovanni, ma quella ancora di varj altri tra i commensali ne’ quali, a tutto studio, sicuro ed esperto del buon effetto della sua teorica, cercò Leonardo di combinare artificiosamente cogl’indizj della riposata precedente situazione le più vivaci dimostrazioni di quella che pose per argomento della sua grand’opera.
Era dunque importantissimo serbare nell’atto dato a Giovanni qualche vestigio dell’effetto del sonno o riposo, al quale prima delle terribili parole di Cristo lo consigliava l’ora del giorno o la stanchezza: e questo vestigio serbò industriosamente Leonardo, come abbiamo avvertito di sopra, col dare alle mani di Giovanni un atto di totale abbandono e di niuna prontezza a dimostrazione di risentimento o ad opera di vendetta. E sebbene la circostanza paresse disporre ogni animo alla vendetta o al risentimento, non debbe parere esagerato questo indizio dell’inazione di Giovanni, avuto rispetto a quanto sono per aggiungere. Egli è chiaro che quantunque l’effetto delle attitudini miste che abbiamo prese ad osservare, sia per riuscire maggiore allorchè, come si disse, le due situazioni imitate saranno contrarie fra loro; pure non si debbe tanto serbare della situazione precedente, che distrugga l’effetto di quella che come primaria e momentaneamente eccitata si prende a rappresentare. E in questo certamente l’arte corre pericolo di distruggersi colle forze proprie, se l’artista non è condotto dalla più squisita finezza di giudizio. Ma pel caso nostro converrà osservare che il detto effetto cambia in ragione de’ caratteri morali; e per tale osservazione si avrà nuova occasione di sempre più ammirare il fino ingegno del nostro autore. Il cuore amoroso di Giovanni, all’udire il minacciato tradimento dell’amico, doveva essere prima trafitto dal dolore che commosso dall’ira: e il dolore è naturale compagno dell’inazione, come l’ira del suo contrario. Il temperamento pacifico di questo apostolo predestinato alla contemplazione ed al ritiro, come gli altri lo erano all’azione ed alla predicazione, esclude da un’imitazione bene ideata ogni atto violento: quindi nella sua attitudine dovevasi conservare maggiore indizio della precedente sua situazione, che in quella di un altro non sarebbesi fatto; perchè la nuova situazione subentrata e rappresentata come primaria, quantunque fosse tale da fortemente scuoterlo ed attristarlo internamente, non poteva però mai spingerlo a dimostrazioni esagerate, siccome estranee affatto alla sua dolce e temperata natura. Rimaneva dunque all’arguto imitatore dei costumi il solo compenso di esprimere la contristazione ed il dolore coi moti gravi e moderati delle labbra e delle ciglia, ed a questa sola preferì d’attenersi, anzichè con più forte espressione ledere la verità di cui era sempre esimio scrutatore e seguace.
Se la storia avesse detto che Pietro o Tommaso, o qualche altro apostolo di temperamento pronto, ardente, vendicativo si fosse abbandonato al riposo o al sonno, e che poi, risvegliato alle note parole del Maestro, fosse stato rappresentato con mani oziosamente incrocicchiate anzi che in atto di cercare un ferro o di minacciare, tale rappresentazione peccherebbe gravemente di verità e di convenienza. Ma nel giovinetto Giovanni il cui carattere dominante che gli acquistò la predilezione di Cristo, è per testimonio del Grisostomo l’incredibile mansuetudine, la dolcezza e l’umiltà, e che secondo san Tommaso figura la vita contemplativa, come Pietro l’attiva, quel che in altri sarebbe stato mancanza, diventa un distintivo si proprio che di meglio in vano si desidererebbe. Leggo poi con piacere in Giampaolo Lomazzo,[5] là dove ragiona del significato degli atti e gesti delle membra del corpo umano, che le dita avviticchiate insieme di tutte due le mani mostrano animo alieno dalle fatiche. Egli sembra aver avuto di mira la positura di questo apostolo, e fortunatamente si combina che questo gesto di quiete, attissimo a rappresentare lo stato di lui precedentemente ai detti di Cristo, non è contrario, come già osservammo, al dolore che que’ detti dovevano eccitargli nell’animo. In fatti tanto la stanchezza e il bisogno fisico del riposo, quanto il dolore profondamente sentito, sono di loro natura contrarj a qualsivoglia fatica fisica: quindi un tal atto non sarà disanalogo ad esprimere l’una e l’altra di queste situazioni che si riscontrano per l’appunto nel nostro apostolo.[6] È prova di ciò l’uso che un gran numero di grandi artisti fece di quest’atto per esprimere isolatamente il dolore, non che la contemplazione che in Giovanni è simboleggiata. La figura di Giovanni stesso che guarda dolentemente Cristo fitto in croce, ed or l’una or l’altra delle Marie, come nel Cristo morto del Correggio, sono in molte tavole rappresentate colle dita delle mani incrocicchiate, unicamente per dimostrare l’inattitudine fisica ad ogni fatica, che ha ogni persona profondamente addolorata. Nella figura che descriviamo, anche il piede che si vede tra i sostegni della mensa, si scorge appartenere ad un corpo riposato, non premendo sul suolo, ma soltanto posando con abbandono. Molli parimente e semplici sono le pieghe del panneggiamento composto d’una tunica verde e d’un pallio rosso, colori soliti a vedersi nelle immagini di questo apostolo. Non ragionerò in questa prima descrizione, nè per questa nè per l’altre figure, delle cose più minute che spettano alle teste e alle fisionomie, perchè nulla affatto di ciò trovandosi di conservato nell’originale, mi riserbo a ragionarne dove renderò conto della copia da me eseguita, e delle autorità delle quali mi sono servito onde renderla in tutte le parti, per quanto ho potuto, meno indegna di un tanto insigne originale.

GIUDA.

Alla destra di Giovanni siede il vilissimo venditore di Cristo. Egli si ritrae meravigliato d’essere scoperto. Tende in avanti la sinistra in atto di stupore: colla destra tiene stretta la borsa in modo che rammenta quel pugno chiuso col quale dice Dante che risorgeranno gli avari dal sepolcro. Nel mentre ch’egli si tragge in dietro facendosi villanamente appoggio del cubito destro spinto quasi a mezzo la mensa, rovescia una saliera e sparge il sale, augurio funestissimo presso quasi tutte le antiche nazioni e fra molte anche delle moderne.[7] L’abito, il gesto, la fisionomia, tutto annunzia l’avarizia la più vile, la più inumana perversità, la frode, il latrocinio, il tradimento.
Ho udito taluno inconsideratamente accusare Leonardo di aver posto in mano a Giuda la borsa, credendo ch’essa contenga il prezzo del suo misfatto. Ben più strano è l’osservare questo istesso distintivo dato da Raffaello all’apostolo Matteo, da lui dipinto in una sala del Vaticano, che fu poi cogli altri tutti fatto abbattere da Paolo IV per non so quale stravagante capriccio.[8] Leonardo che pose tanto sottili considerazioni in questo singolare lavoro, appoggiandosi in tutto all’autorità della Scrittura, non poteva commettere un errore sì grossolano. Egli pose dunque la borsa in mano a Giuda, perchè questi soleva portarla come depositario del danaro della società apostolica, che, secondo ci assicura Teofilatto,[9] non aveva nè stabile dimora nè casa propria. Nel capo duodecimo del vangelo di Giovanni, là dove l’ingenuo evangelista, scoprendo sì bene il carattere dell’Iscariote, scrive che questi lagnavasi dell’unguento prezioso profuso sui piedi di Cristo, e diceva che sarebbe stato meglio il venderlo per darne il frutto ai poveri, avverte apertamente che quel vile diceva ciò, non perchè de’ poveri gl’importasse, ma perchè era ladro, et loculos habent ea quæ mittebantur portabat. E nel capo decimoterzo scrive che quando Cristo disse a Giuda, Quel che hai da fare, fallo presto, si credette dagli apostoli che ciò risguardasse qualche ordine di economia, perchè Giuda loculos habebat. Così Tertulliano, al capo undecimo del libro De Anima, lo dice a titolo di confidenza e di onore deputato cogli Eletti usque ad loculorum officium. Egualmente leggesi in san Girolamo:[10] Interroga eam cur Judam elegerit, cur ei loculos commiserit, ecc.
Da ciò si vedrà se fu sbaglio o capriccio di Leonardo il dare la borsa a Giuda; o s’egli, approfittando, come soleva in tutto, dell’autorità storica per potergli dare questo distintivo, glielo fece tenere, anzi stringere in tale atto, che anche mentre egli d’altro è occupato, fa scorgere in lui l’infame cupidigia del danaro, per la quale passò dal latrocinio al tradimento. Dalle quali osservazioni si scorgerà non meno quanto vadano errati que’ dipintori i quali, dando la borsa a Giuda, gliela fanno tenere di furto, talchè pretendono far intendere ch’essa contiene il prezzo della sua scelleraggine; nel qual fallo cadde con altri molti Alberto Durero, come dalle sue stampe si può vedere.
Narrano gl’istorici[11] che Leonardo mettesse lungamente a tortura l’ingegno e si affaticasse assai per ricercare forme di corpo e fattezze che convenissero al suo Giuda, e che rendessero, per così dire, credibile quella vilissima atrocità d’animo e quella inumana avarizia per cui il traditore potè vendere per poco argento il sangue del suo benefattore ed amico. Piccolo e volgare appoggio gli somministrava la volgare tradizione de’ suoi capelli rossi; o quell’altra della sua minore statura di cui si trova memoria nelle rivelazioni di santa Brigida.[12] Oltre la difficoltà dell’argomento, doveva egli combattere colla naturale ritrosia di un’anima gentile in darsi a meditare le fattezze della viltà crudele, dell’avarizia sanguinaria, dello spionaggio, del tradimento. La pittura nobile scenderà volentieri a rappresentare nelle sue imitazioni i tratti anche de’ vizj, qualora questi siano accompagnati da qualche magnanimità. Così la vendetta, la crudeltà, la fredda ferocia della gelosia, gli effetti tutti dell’ira nelle risse e nelle battaglie sono cose delle quali fa volentieri uso e studio la pittura. Ma queste son tutte di lor natura atte a destare quella specie di terrore del quale come si compiacciono le tragedie, così non meno felicemente che in quelle, riesce nelle opere di disegno: ed al contrario allorchè si rappresentano vizj vilissimi, cessa il terribile che diletta, e si eccita in sua vece l’orribile che disgusta, ributta e fa torcer l’occhio altrove. Da sì fatta imitazione debbe diligentemente guardarsi tanto il pittore quanto il poeta, come il vuole la ragione, non che i precetti e gli esempj; ancora più pericolosa e da fuggirsi nella rappresentazione pittorica che nella poetica, perchè la poesia può diligentemente descrivere personaggi anche pessimi e vilissimi, e al tempo stesso mostrarne ed ispirarne disprezzo; il che non può fare la pittura la quale più sembra essersi compiaciuta della sua rappresentazione, quanto più diligente fu in eseguirla ed accurata nel porla in vista. Allorquando pertanto il pittore e il poeta sono costretti dalla storia ad introdurre nelle loro opere personaggi di tal tempera, debbono aver riguardo di non dar loro giammai il posto principale, altrimenti le loro imitazioni, sebben perfette, dispiaceranno perchè male scelte, e quantunque sieno atte a provare molta industria ed acume d’ingegno, dando prova di poco giudizio, in vece di lode avransi biasimo e riprensione. Così abbiamo visto cadere le tragedie ben condotte e ben verseggiate, il cui protagonista fu privo di qualche grandezza e virtù; così lasciamo inosservati i quadri di argomenti o di espressioni orribili o vili. E il divino Alighieri che per la prima parte della sua maggior opera si prese l’Inferno per tema, ch’è quanto dire la propria città di ogni vizio, sdegnò di far parole di coloro che niuna fama di sè lasciaron nel mondo,[13] e si fe’ degli altri dannati nobile materia di discorso con dar loro una certa fiera magnanimità, un non so quale amor di gloria e un barlume di spirito profetico.
Leonardo, costretto a pur fare un Giuda, cioè il più ignobile modello dei più vili ed inumani tra i vizj, gli diede un posto meno che secondario, e il collocò in modo che, niuno degli attori del quadro volgendosi a lui, anche gli spettatori più tardi che agli altri gli rivolgono gli occhi, per sentirne prontamente disprezzo e per giudicarlo di aspetto ed atto conforme alla sua iniquità. Io ebbi di ciò sovente esperimento e prova, seguendo attentamente con l’occhio gli osservatori della mia copia. Noterà ancora, a gloria della riuscita di Leonardo in sì pericoloso argomento, che, oltre ciò che la storia e le presenti osservazioni c’inducono a credere intorno alla difficoltà ch’egli ebbe a comporre questa figura, altra valevole prova, sebben negativa, intorno all’asprezza di sì fatto tema l’abbiamo ne’ più celebri poeti che di Giuda ebbero occasione di parlare; i quali o col silenzio o con diverse stravaganti industrie si trassero d’impaccio, e sembrarono temere di profanare il pennello delle muse, facendo con esso il ritratto di quel traditore. Il Vida, freddamente accozzando gli aurei modi virgiliani, ci diede qualche cenno delle ree qualità di lui, ma neppur uno ci lasciò di quei tratti con cui Virgilio, imitando Omero, è spesso guida ai pittori, e sembra talora più dipingere che verseggiare. Dante che non trascurava mai di caratterizzare le fisionomie de’ suoi attori, e che sembra talvolta maneggiare lo scalpello anzichè la penna, si tolse d’intrico più destramente, mettendo a dirittura la testa dell’Iscariote in una dell’enormi bocche di Lucifero, talchè ei non ne potè vedere che lo springar delle gambe, e tranne il nome e il cognome, non ci lasciò di lui verun’altra descrizione. In modo a mio parere più strano, quantunque ingegnoso, saltò la difficoltà d’un tal ritratto modernamente il signor Klopstoch, il quale diede a Giuda bella statura, nobile portamento e bellissimo volto, solo con qualche tratto sinistro, acciocchè, fingendolo così dotato di bellezza corporale, maggiore apparisse la sua perfidia ed ingratitudine. Quanto siano antipittoriche queste invenzioni, ognuno per sè può facilmente giudicarlo. Nella nostra composizione non si poteva nascondere il ceffo di Giuda senza perdere molto dell’effetto morale dell’azione e del contrasto; e (se pure è approvabile nella imitazione poetica) in niuna imitazione di disegno sarà mai permesso di farlo bello di aspetto e di corpo aggraziato, perchè la bellezza fisica congiunta alla grazia è il solo mezzo del disegno onde rappresentare la bellezza e la grazia dell’animo. Da tante difficoltà che Leonardo volea pur vincere, non è meraviglia s’egli era ritardato nell’opera a segno d’essere spesso rimproverato di lentezza, e se stava a lungo senza dipingere, come vedemmo ne’ passi citati di varj autori, perchè, non ancora contento delle sue invenzioni, meditava il modo di perfezionarle, e finalmente vi riuscì mirabilmente, come in ispecie ci assicurano il Vasari ed il Giraldi.
Farebbesi qui luogo a dire qualche cosa intorno alla tradizione ricevuta specialmente dagli scrittori oltramontani, cioè, che Leonardo facesse nella figura di Giuda il ritratto del priore de’ domenicani che nojosamente affrettavalo di finire il Cenacolo. Sebbene già troppo e forse troppo gravemente per la materia ne fu scritto dal Monti, dal Pino e dal Bianconi, si conceda ancora qualche pagina alla bizzarria, non già all’importanza di questo frivolo argomento.
Varj scrittori della vita di Leonardo, o che delle opere di lui parlarono, danno il fatto come cosa certa, contenti di rallegrare di ridicolo aneddoto le loro storie o descrizioni. Gli autori nominati ed altri con loro si assottigliano il cervello per dimostrare questa tradizione priva affatto di fondamento. Io, cui poco importa di sapere qual fosse il vero modello del Giuda di Leonardo (non potendomene più al bisogno servire), trovo poco fondate le ragioni di chi afferma, e deboli quelle di chi nega. Mi prenderò dunque la libertà di porre in mezzo qualche nuova osservazione più pittorica che d’altra specie, la quale, senza intaccare direttamente alcuna delle due opinioni, sortirebbe il miglior effetto che io ne potessi sperare, se giungesse a far sì che questa quistione per l’avvenire si lasciasse del tutto, non solo come inutile per l’arte e futile per la storia, ma anche come una di quelle che per loro natura non si possono diffinire. Il padre Domenico Pino, male provvisto di ricerche intorno al tempo in cui il Cenacolo fu dipinto, nè avendo notizia alcuna dell’arte onde alla mancanza de’ fatti supplire con ragionevoli congetture su quella fondate, dice che il priore d’allora era il famoso teologo Vincenzo Bandello, e colla scorta del Monti che intorno a ciò fu richiesto dall’Allegranza, asserisce ch’egli era bell’uomo, provandolo coll’autorità di Leandro Alberti testimonio di vista; quindi non gli sembra modello conveniente pel brutto traditore Iscariote. Lasciando ora da parte che tutti questi autori sono, come il Bandello, domenicani, e perciò non del tutto esenti dal sospetto di parzialità; e menando buona a favor loro la testimonianza dell’Alberti sulla bellezza del priore, sebben l’Alberti fosse nato quarantaquattro anni dopo di lui, parmi dover avvertire che il padre Pino mostra ignorare un’abilità che vanta la pittura, e che non è rara anche negli artefici d’ingegno mediocre, quella, cioè, di contraffare ogni fisionomia qualsivoglia anche bellissima, rendendola deforme anzi orribile, e serbando tali tratti che pure tuttavia si riconosca donde è cavata. Leonardo possedeva in grado eminente questo artificio di cui se non fu l’inventore, fu certamente il perfezionatore, e sembra che molto se ne dilettasse. Egli era inoltre dotato di una tale memoria, che anche senza il vivo davanti faceva ritratti similissimi al vero. Quindi non sarebbe stata strana cosa nè difficile per Leonardo il dare a Giuda, quantunque brutto, qualche tratto del bel frate priore a quell’epoca più che sessagenario,[14] qualora gli avesse preso il capriccio di così vendicarsi della noja ch’egli ne ricevea. Segue a leggersi nella storia del padre Pino che il Bandello era carissimo al duca Lodovico, e che però non è probabile che Leonardo, come avveduto e discreto, scherzasse satiricamente coll’amico del padrone. Ma nemmeno questa ragione è abbastanza valida dopo ciò che si è detto, perchè l’artificiosa imitazione sarebbe stata tale da conservare la satira e salvare il pittore, come può intendere chiunque sa alquanto dell’arte. Di più l’argomento dell’amicizia del Moro pel priore e quell’altra prima ragione della sua bella e dignitosa fisionomia potrebbero avere qualche forza, qualora si potesse verificare con certezza che il priore che stimolava ed annojava Leonardo, fosse realmente il padre Bandello. Ma siccome niuno de narratori del fatto ci lasciò scritto nè il nome del priore nè l’anno in cui il fatto è avvenuto, e siccome non vi è prova alcuna valevole che c’induca a crederlo avvenuto negli anni ne’ quali il Bandello tenne il priorato, come potrà vedersi allorchè parlerò del tempo che probabilmente Leonardo impiegò in quest’opera, così la novella non cadrebbe per simili ragioni.[15]
Il Bianconi poi vorrebbe farla svanire con un mezzo più singolare, col provare, cioè, essere stato in brevissimo tempo dipinto il Cenacolo; quindi fuor di luogo ed improbabile affatto l’accusa e la noja del frate. Ma ciò è sì male da lui provato, come ognuno può leggere nella prima edizione della sua Guida, che non sarà per lui che la tradizione appaja incredibile. La soppressione in oltre di quel passo nella seconda edizione da lui pubblicata l’anno 1795, prova ch’egli medesimo avvisò dappoi diversamente.
Il solo padre Monti più assennatamente ragionando, sebbene prenda molti abbagli e specialmente quello dell’epoca della venuta di Leonardo in Milano, per la quale segue inconsideratamente il Vasari, nota che il Giraldi stesso dice che Leonardo propose scherzevolmente di ritrarre in Giuda il priore, ma che di fatto si volse altrove per cercarne modelli più a seconda del suo intento, checchè si dica dal Resta nell’Indice del suo Parnaso, e dal Richardson nel Trattato, come vedemmo nel primo libro. Anche il Vasari, quantunque non accenni che d’altri modelli il Vinci si servisse, non dice però ch’ei ritraesse il priore, ma che soltanto di ciò facetamente il minacciasse ragionando col duca. Nello stesso senso di faceta minaccia e di detto memorabile, non già di fatto, lo riporta il Botero che ne avrà raccolta la tradizione in Milano. Così in fine, seguendo le più antiche autorità, il riportarono gli scrittori più gravi e moderati.
Ma se il tentare di distruggere la tradizione come di fiuto, troverà facilmente appoggio; il contrario avverrà se si vorrà cercare, come fecero i citati autori, di distruggere come falsa la storia della scherzevole minaccia colla quale Leonardo avvisò probabilmente il priore che non s’impacciasse nelle cose ch’egli non intendeva. Le ragioni da loro addotte onde mostrare insussistente il racconto del Giraldi che è ragionevolissimo, provano la loro ignoranza nelle materie di critica pittorica; quella specialmente addotta dal padre Pino, colla quale pretende provare che Leonardo non poteva finire prima i panneggiamenti di Giuda che la testa, è assolutamente ridicola. Per altra parte, quale difficoltà a credere che Leonardo proponesse scherzando una simile cosa al suo principe in un tempo in cui la libertà del conversare, la facilità ed affabilità, l’amore delle celie e degli scherzi non distoglieva i principi italiani dal trattare con gravità gli affari dello stato, nè diminuiva la pubblica loro considerazione? Qual meraviglia che il Moro istesso, cui non dispiaceva il celiare, desse mano a Leonardo onde ne venisse satirizzato il Bandello? Oltre ciò non parlerò del modo ridicolo con cui l’Alberti descrive le bellezze di questo frate, dicendo che erat mediocri statura, facie magna, capite magno, ecc., ma per quel che risguarda anche il morale, non gli guarentiscono una fisionomia molto amabile e gentile nè l’acrimonia con cui tratta i suoi avversarj sostenitori dell’Immacolata Concezione, nè le brighe secolari in cui era intricato, nè l’esser confessore di un principe qual era il Moro, che secondo gli storici avea per massima da lui spesso e pubblicamente ripetuta, che l’utile proprio rendeva onesta la menzogna e peggio. Se poi dopo tutto questo il padre Bandello che già somigliava all’Iscariote nella statura, come ne è testimonio il citato encomiatore delle sue bellezze, avesse avuto anche nella fisionomia qualche tratto degno di lui, e che Leonardo per ragione di noja o di vendetta se ne fosse servito, e che il duca stesso si fosse di ciò divertito, non sarebbe poi così grande nè nuova meraviglia da menarne rumore, tanto più per chiunque sa alquanto della storia di que’ tempi. Casi a questo simili non sono rari nella storia pittorica ed in personaggi di ben altra importanza che non è un priore di convento. A chiunque ha scorso Plinio nelle cose che appartengono alle arti, risovverrà che Cleside, adirato d’essere stato poco onorevolmente accolto dalla regina Stratonica, se ne vendicò dipingendola in lotta amorosa con un pescatore che si vociferava essere suo amante. Il pittore pose in pubblico la sua tavola nel porto d’Efeso, ed ognuno riconobbe la regina e il pescatore, sì perfette erano le somiglianze. E pure, qualunque ne fosse la ragione, quella regina stessa proibì che la tavola, non che distruggersi, si togliesse dal luogo dove era stata posta dall’autore. Ma per lasciare gli antichi e le storie troppo da noi rimote, basti rammentare l’orecchiuto Minosso di Michelagnolo che con caso conforme a quello del nostro priore è anch’esso il ritratto di un cortigiano importuno; e il famoso motto che su di esso disse papa Paolo Farnese, può bastare per assicurarci dell’indulgenza del Moro verso Leonardo, qualora avesse artificiosamente scherzato a danno del frate, come di parole, anco di pennello. Nondimeno qualora si abbia da credere che nel ceffo di Giuda fosse ritratto un frate qualsivoglia, non credo che ciò si possa intendere del padre Vincenzo Bandello; ma questo per ragione ben diversa dalle addotte, ed è perchè Matteo di lui nipote e scrittore delle Novelle, che nella citata prefazione alla novella cinquantottesima ed anche altrove parla con tanto rispetto di Leonardo, in un’epoca in cui non era costume nè merito il perdonare le ingiurie, avrebbe fatto altrimenti o si sarebbe taciuto, quando il pittore avesse realmente insultato o satirizzato pittoricamente il di lui zio di cui fu veneratore, compagno ed amico.
È poi cosa osservabile che non solo ne’ cenacoli ove Giuda interviene, ma in tutti gli argomenti dove entrano figure odiose o ridicole, è uso comune degli artefici ingegnosi di ritrarre in quelle qualche loro contemporaneo, ora per satirizzare il vizio, ora per vendicarsi dell’ignoranza o dell’importunità. E quest’uso è talmente invalso che ove trovansi tali figure con volti strani, fieri o ridicoli, se la tradizione non ci dice le persone in quelli ritratte, o se il pittore non ci ha pensato, l’invenzione spesso supplisce a quella mancanza, e sono pochi i cenacoli dove il Giuda non sia qualche frate seccatore, pochi gl’inferni dove non si vegga il ceffo di qualche cattivo pagatore o d’altro nemico di chi lo dipinse. Ma per dar fine a questo tema e per diminuire la meraviglia e di simili fatti e di simili invenzioni di pittorici capricci, basti il leggere che Andrea del Castagno non si vergognò di ritrarre in Giuda sè medesimo, quasi preludendo alla confessione che in morte fece dell’orribile assassinio con cui tolse a tradimento di vita il suo amico e compagno Domenico Veneziano.

PIETRO.

Da quanto si è detto delle figure antecedenti, si potrà con facilità immaginare l’attitudine del principe degli apostoli. Acceso di onesta collera al suono delle divine parole, egli s’alza alquanto dal luogo ove sedea, per interrogare il confidente di Cristo, l’apostolo Giovanni. Colla sinistra indica il Salvatore in atto di chiedere il significato de’ suoi detti, mentre la sua destra va quasi naturalmente verso una specie di coltello o breve parazonio; con che il pittore diede cenno del desiderio in lui ardentissimo di vendicare il Maestro e della sua prontezza a dar mano alle anni, della quale ebbe poco dopo rimprovero da Cristo medesimo nell’orto di Getsemani.
È singolare ed unica l’opinione del Bianconi intorno a questo coltello. Egli lo crede un’aggiunta del temerario riattamento; quindi pare lo attribuisca al primo generale ritoccatore Michelagnolo Bellotti. Sembra impossibile come egli che visse sempre fra gli artisti e fra le cose delle arti, non sapesse che il Cenacolo stette certamente più d’un secolo e mezzo senza che alle altre sue disgrazie si aggiungesse quella dei ritocchi, e che nel gran numero delle copie da esso tratte anticamente non ve n’è una sola in cui non si vegga questo distintivo di san Pietro. E non è meno strano ch’egli lo supponga aggiunto unicamente perchè non si vede in una rara bensì ma pessima stampa che pare opera d’un incisore che non ha visto l’originale, se pure non fu fatta da qualche disegno o schizzo prima che l’originale fosse condotto a fine. Sembra però che il Bianconi stesso si ricredesse di questa stranezza, poichè nella seconda edizione della sua Guida cangiò la descrizione, e considerò come genuino ed originale l’attributo del nostro apostolo.[16]
Nel resto non potrei seguire a descrivere questa figura senza ripetere quanto accennai descrivendo quella di Giovanni, o senza usurpare le parole del cardinale Federico Borromeo, a cui rimetto il lettore. Bastimi aggiungere che il suo movimento pronto, il furore del suo volto, il gesto dell’una e dell’altra mano, tutto in somma il complesso della sua attitudine eccitata da viva e súbita commozione, contrasta mirabilmente colla patetica e dolce giacitura dell’apostolo Giovanni, e richiama felicemente la dissimiglianza che hanno tra loro le due vite, l’attiva e la contemplativa, delle quali sono, come si disse, simboli questi due primarj tra gli apostoli.
Il colore poi delle sue vesti è il solito che volgarmente gli si attribuisce, e che si vede fino nella cena di Cristo che Giotto dipinse in santa Croce a Firenze; cioè di un bel giallo è il pallio, e d’un vivace azzurro alquanto chiaro la tunica. Il qual metodo, comune ai buoni poeti, di secondare nella imitazione l’opinione volgare e l’autorità o delle tradizioni o delle antiche rappresentazioni, avremo luogo di notare in Leonardo per molte altre cose, come già lo notammo per le vesti del Salvatore e dell’apostolo Giovanni.

ANDREA.

La vicinanza di Pietro non sarebbe sufficiente argomento onde riconoscere in questo apostolo il suo maggior fratello Andrea, se l’antica copia di sopra mentovata che ci serve di scorta, non avvalorasse la congettura coll’appostavi iscrizione. Il padre Gallarati si abbattè fortuitamente a dargli lo stesso nome, a ciò indótto specialmente da un piatto di pesci, forse di moderno risarcimento, e che secondo lui indicano l’uom pescatore. Ma se in questa cena ogni pescatore si dovesse distinguere con un piatto di pesci, non vi rimarrebbe luogo per l’agnello, piatto essenziale per la cerimonia. Dopo la luce che la citata iscrizione ci apporta, è facile lo scorgere come l’attitudine di questo apostolo egregiamente corrisponda a quanto dalla storia si può raccogliere del suo carattere. Mansueto, pacato, costante, fedelissimo, egli fu il primo apostolo chiamato da Cristo, e gli serbò, in ciò migliore dell’ardente fratello, la sua fede intatta fino al martirio che si tenne beato di ottenere simile a quello che fu sopportato dal suo Maestro. Egli siede gravemente, e colpito dallo stupore all’udire l’annunziato tradimento, ne dà segno aprendo ambedue le palme delle mani e inarcando le labbra e le ciglia. Non posso inoltrarmi nella descrizione di questa testa senza far uso delle parole stesse di Leonardo. Nel capo CCLIV del suo Trattato, dove descrive gli atti da darsi a chi ascolta un oratore, Fa, dic’egli, la bocca d’alcun vecchio per maraviglia delle udite sentenze chiusa, e nelli estremi bassi tirarsi indietro molte pieghe delle guance, e con le ciglia alte nella giuntura, le quali creino molte pieghe per la fronte. Egli eseguì il primo il suo precetto in questa figura, cui aggiunse quanto era richiesto dalla qualità dell’oratore e delle sentenze, come potrà scorgere chi osserva finamente. Non sembra possibile a quel cuore onesto che uno de’ suoi compagni sia capace di tanta scelleratezza, e conscio di sè stesso e certo di non esser egli il traditore designato, sembra che la meraviglia e la sorpresa non lasci in lui luogo alla curiosità di sapere chi volesse il Maestro indicare. Risplendono nel suo volto la probità, la fede e l’amicizia unite alla pacatezza dell’animo che opportunamente contrasta con impeto del vicino Pietro. Infino il modo con cui il pittore disposegli il pallio sulle spalle, coprendole entrambe, e facendolo discendere davanti attorno alle braccia, è confacente ad esprimere l’uomo tranquillo e quieto ne’ suoi movimenti, e non disposto a far uso della propria forza o destrezza ove lo chiami l’ira o la vendetta. In ciò ben differente dall’ iracondo fratello che porta il pallio avvolto sulla sola spalla sinistra in modo da non averne ingombro al braccio destro ove abbisognasse usarne, come in fatti fece alla prima occasione. Egualmente i tuoni delle tinte delle sue vesti sono di poca forza e splendore in paragone della maggior parte dell’altre, essendo il pallio d’un verde alquanto chiaretto e freddo, e la tunica che discende in pieghe molli e finissime, d’un gialletto rossiccio che si accosta al color della noce. Poco in lui si scorge della fisionomia di Pietro, e quel poco ne’ tratti generali che più certamente provano la comune origine, dipendendo gli altri più minuti da abiti o passioni particolari all’individuo. Con tanta dissimiglianza di carattere in questi due fratelli sarebbe stato errore in un pittore sì esperto nella Fisiognomonica, qual era Leonardo, il rappresentarli più fra loro somiglianti di quello che qui si veggano.

GIACOMO IL MINORE.

Anche senza l’iscrizione della copia già più volte ricordata, è facile il riconoscere in questo apostolo il figliuolo d’Alfeo, il cugino del Redentore. Lo assicura la sua somiglianza col Nazareno, che in lui veramente si accorda fisicamente e moralmente, e della quale abbiamo un testimonio degno di nota nel commento di Niccolò di Lira ad un passo di san Paolo. Là dove questo apostolo scrivendo ai Corintj, dice che Cristo risorto apparve separatamente a Giacomo, il commentatore soggiunge che Giacomo ottenne questa grazia, non solo per la sua speciale divozione, ma per la sua somiglianza a Cristo. Più ampio testimonio poi può vedersi nel camaldolese Malermi di cui piacemi qui citare le parole, poichè le Vite de’ santi, che tradotte ed accresciute da questo autore, videro la luce coi torchi del Jenson nel 1475, cioè pochi anni prima che Leonardo intraprendesse il Cenacolo, debbono certamente essere state lette dal nostro pittore, almeno per ciò che concerne gli apostoli, e da quanto apparisce, gli hanno in molte cose servito di guida. Dice adunque l’autore citato che l’apostolo Giacomo è etiam detto fratello del Signore, conciossiachè per tutte le parti si dice essere stato simile a esso Signore: intanto che se ingannavano molti nella loro effigie. Onde andando li Judei a pigliare Cristo ebbero da Juda el signale del basio; perchè Juda per essere molto famigliare e domestico di Cristo ottimamente da Jacobo discerneva Cristo. Questo etiam testifica Ignazio nella epistola mandata a Joanne Evangelista, dicendo: Se a me è concesso, voglio venire alla parte di Jerusalem per vedere quello venerabile Jacobo cognominato Justo; el qual dicono essere stato molto simile a Cristo e della faccia e della vita, e con el modo della conversazione in tanto quanto che se fosse stato suo fratello nato insieme in un medesimo parto e di quel medesimo utero: el qual dicono che se io vedrò, mi parerà vedere esso Jesù Cristo secondo tutte le parti del corpo suo.
Quanto Leonardo fedelmente serbasse questa tradizione può vedersi e negli avanzi del Cenacolo originale, e in tutte le antiche e moderne copie nelle quali, mentre le altre teste variano a capriccio, questa sempre ritiene, ove più, ove meno, la fisionomia di Cristo. Anzi sembra che Leonardo si scrupolosamente a questa tradizione si abbandonasse, e che tanto studio ponesse onde imprimere in questo apostolo il nobile e sublime carattere del Redentore, che poi allorchè si pose intorno alla testa del Redentore medesimo, sentì mancarsi le forze e l’ingegno onde giungere all’idea ch’egli ne avea concepita, e cercando intorno ad essa inutilmente consiglio, come leggemmo nel Lomazzo, lasciolla imperfetta, credendo probabilmente per tal modo di dare alla posterità maggiore saggio dell’altezza del suo pensamento, di quello ch’egli dalla sua mano sperasse di poter ottenere.
Semplicissima è l’attitudine di questa figura. Come Pietro si volge a Giovanni, così questo Giacomo volgesi a Pietro onde avere qualche dichiarazione della misteriosa sentenza di Cristo. Egli sembra sperare che Pietro otterrà da Giovanni il segreto del Maestro, e un lieve alzamento di ciglia e una lieve apertura di bocca indicano abbastanza l’inquieta ansietà di uomo che interroga con animo dubbio, sospeso ed atterrito. Il di lui carattere moderato non permetteva commozion d’ira o altra violenta espressione. Egli appoggia la mano destra alla spalla di Andrea, e stende la mano sinistra dietro di lui in atto di accennare e cercare Pietro che in quell’istante non bada a soddisfare che la propria curiosità e la collera onesta che dentro il suo cuore zelante eccitossi alla parola di tradimento.
Non meno semplice è il suo panneggiamento, che anche nel vestire volle Leonardo che il nostro apostolo somigliasse a Cristo, onde così meglio rendere ragione della possibilità degli scambj che la storia susurra avvenissero fra Cristo e Giacomo, come sopra si è letto. Diedegli dunque una tunica rossa che si avvicina al colore della tunica di Cristo, a cui però volle serbare la tinta più nobile e più tendente al porporino. Diede altresì alla tunica un taglio conforme a quello dato alla tunica di Cristo, con maniche, cioè, larghissime, mostrando presso la mano una porzione dell’indusio. Per seguir poi la tradizione che ci avvisa che questo apostolo vestiva diversamente dagli altri, nè potendosi accomodar l’arte, e pel decoro e per altre ragioni, ad imitare quanto intorno a tal particolare ci narra Epifanio e si accenna anche nella Vita del Malermi, il distinse dalle altre figure non dandogli pallio alcuno o clamide, o altro che sulla tunica si ponesse. E in fine da non lasciarsi inosservata l’avvedutezza di Leonardo il quale, costretto dalla storia a fare in una stessa composizione due teste somiglianti, non trascurò di mettere l’una di profilo e l’altra di fronte, serbando però al suo soggetto principale la veduta più intiera, che molto opportunamente chiamavano gli antichi di maestà.

BARTOLOMMEO.

Il sesto ed ultimo luogo della mensa è da questa parte occupato dall’apostolo Bartolommeo. Senza la nota iscrizione sarebbe, a dir vero, difficile il distinguerlo, poco dal vangelo sapendosi di questo apostolo. Anzi è presso molti questione s’ei sia o no lo stesso che Natanaele del quale parla molto l’evangelista Giovanni che non nomina Bartolommeo, e sul quale tacciono per l’appunto gli altri evangelisti che di lui fanno menzione. Vi ha poi chi lo sogna di stirpe egizia, chi di siriaca e regale; su di che veggasi la Storia apostolica del Sandini. Similmente altri lo fa nobile, altri ortolano, come può vedersi nel libro che della Erudizione degli apostoli compilò Giovanni Lami. In mezzo a tanta incertezza ed oscurità è singolare e degno di nota il ragguaglio anzi ritratto che di questo apostolo leggesi nel Malermi, il cui libro volentieri preferisco ad ogni altra autorità, perchè certamente venne alle mani di Leonardo. Questo ritratto è descritto per bocca di un idolo indiano, dentro il quale parlava il demonio.
Li capelli suoi, diceva l’idolo, sono negri e crespi: la carne è candida: gli occhi sono grandi, e’l naso uguale e diritto: la barba lunga: ha pochi peli canuti: di statura eguale: è vestito d’ammanto bianco foderato di porpora; el quale ammanto per ciascuna parte ha le gemme purpuree; e sono ventisei anni, dal quale tempo non sono invecchiate nè deturpate le vestimenta sue e li calceamenti suoi.
Segue poi a dire ch’egli era nutrito e servito dagli angeli, d’umore allegro, indovino e potentissimo, il che non fa al nostro proposito.
Per quanto spetta agli occhi, al naso ed al colore de’ capelli, sembra che Leonardo non si allontanasse da questa tradizione, avuta avvertenza alla età diversa in cui lo ha rappresentato. Per quanto poi risguarda il color della pelle, è da credere che l’idolo lo chiamasse candido in paragone de’ suoi cultori indiani fra i quali abitava allora Bartolommeo. Certamente Leonardo gli diede in vece un tuono di tinta quasi tendente al bruno, e più robusto che non diede alle altre figure, o volesse con ciò contrassegnare in lui l’origine egizia, o preferisse indicare la sua condizione più probabile, quella, cioè, di agricoltore.
Finalmente per quanto spetta al vestimento che più minutamente si legge descritto nella Storia di Abdia, dalla quale sono in gran parte tratte le vite degli apostoli che il Malermi ha tradotte, consistendo esso di un colobio bianco, cioè colletto o tunica senza maniche, e di un pallio egualmente bianco, ornato il tutto di porpora e di gemme, Leonardo non giudicò di seguire in questo la leggenda o perchè un tal vestire gli paresse poco apostolico, o perchè lo credesse usato da Bartolommeo dopo il fatto che prese a rappresentare, o perchè in fine, il che mi sembra più da credere, tutto quel bianco in un angolo del quadro male si accomodasse all’armonia della sua composizione.
Diedegli in vece una tunica celeste chiarissima tendente alquanto al pavonazzetto nelle ombre, e un manto o vasto pallio d’un bel verde, aggruppato con un nodo sopra la spalla diritta, come con le fibule si allacciavano le clamidi. La manica della tunica è ricca superiormente, e dopo una legatura o piccola fascia gialletta che la stringe ove finisce il deltoide, scende in pieghe minute, e segue la grazia del braccio fino al polso. La tunica è, come tutte le altre, talare, sebbene poco se ne vegga nella parte inferiore per l’ingombro del pallio e per l’incrocicchiamento de’ piedi.
L’attitudine di questo apostolo distinguesi notabilmente da tutte le altre, ed è convenientissima alla sua collocazione distante da Cristo. Egli vede tra i commensali a lui vicini il minor Giacomo occupato a dimandar Pietro, Andrea oppresso e tacito per lo stupore, e Pietro rivolto ad interrogar Giovanni: quindi dispera di ottenere da essi utile ragguaglio. Dunque, quasi dubitando di quel che ha udito, si alza appoggiandosi delle due mani alla mensa, onde accostarsi ad udir meglio ciò che Cristo è per soggiungere. Egli sedeva da prima colle gambe incrociate: Leonardo studioso di accrescere per mezzo del contrasto, come sopra notammo, l’istantaneità e prontezza dell’atto, conservolle nella stessa posizione: e facendo piegare le ginocchia alla sua figura, e sopra entrambi i piedi sostenendola mediante l’appoggio delle mani, le diede sì giusta espressione che non saprei come meglio si possa figurare un uomo perturbato dal dubbio di aver male udito, e desideroso di ascoltare cose di alta importanza.

GIACOMO IL MAGGIORE.

Descritti i sei apostoli collocati alla destra di Cristo, è or da tornare donde siamo partiti, e cominciando di nuovo dalle figure più a Cristo vicine, dar notizia del rimanente della scena e degli altri attori che la compongono.
Abbiamo di già detto che il primo alla sinistra del Salvatore è l’apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni. Egli inorridisce in ascoltare l’esecrabile attentato che da Cristo è predetto, e traendosi indietro ed allargando le braccia, sì nell’atto come nella fisionomia dimostra quella subitanea commozione che nasce dallo sdegno onesto in uomo che oda non solo, ma per prontezza d’imaginativa quasi vegga inopinatamente cosa che sia cagione di meraviglia e di orrore. China alquanto è la testa, come naturalmente avviene a chi improvvisamente si ritira: basse e congiunte sono le ciglia: gli sguardi fissi a un tempo ed incerti: aperta la bocca ed elevato il petto, come accade per improvvisa, indi tosto sospesa inspirazione alla vista impensata di spettacolo mirabile insieme e terribile.
Per questo non meno che per gli altri suoi attori, ricercò Leonardo diligentemente la sacra autorità, onde con qualche fondamento attribuirgli il carattere che gli diede d’immaginoso, ardente e prontamente eccitabile all’ira; non però a quell’ira che ad ogni occasione consigliava a Pietro pronta opera di vendetta, ma all’altra meno pericolosa, socia dell’onesto zelo, la quale, senza spingere la mano sul ferro, turba ed accende l’animo alla vista dei delitti che opprimono e tradiscono la virtù e ne commette la vendetta alla giustizia del cielo. Tanto potè Leonardo congetturare dal poco che di questo Giacomo si narra ne’ vangeli, e specialmente dalla sua imprecazione contro gl’inospiti Samaritani. Con tali ricerche riuscì mirabilmente a diversificare questa figura dalle altre di Pietro e di Tommaso, nelle quali sole rappresentò l’ira congiunta alle minacce e chiaramente disposta a mandarle ad effetto.
Quantunque la denominazione da noi data a questo apostolo trovi qualche ostacolo presso alcuni, giova avvertire ch’essa non è soltanto appoggiata alla ripetuta iscrizione, ma è sostenuta da altre forti ragioni che sole, senza quella, basterebbero a farla prevalere. Il Pino e il Gallarati credono che questa figura rappresenti san Tommaso, ed il La Lande parve accreditare tale opinione che diffusa in seguito colla voce e cogli scritti si è talmente radicata che anche il signor Morghen l’ha adottata nella sua stampa del Cenacolo, inscrivendo nella fimbria della tunica di questo apostolo le famose parole dette da Cristo a Tommaso: Quia vidisti credidisti. Il padre Pino che nella distribuzione degli altri nomi assai modestamente procede, dice qui francamente che il primo alla sinistra senza dubbio egli è san Tommaso, mentre vi si legge tuttavia scritto il nome nell’orlo superiore della veste. Ora nè io nè altri ha mai visto questo nome, e per quanto io mi sia affaticato osservando diligentemente da vicino per mezzo del ponte, e facendo uso anche d’una lente forte, non mi riuscì di riconoscere alcun rimasuglio di antica o moderna lettera. Bensì potei scoprire alcuni resti di meandri mistilinei che facevano ornato a quella specie di nastro che raduna le pieghe della tunica alla scollatura, il quale ornamento interpolato anticamente di forme tendenti ora alla quadrata ora alla circolare, e guasto in appresso dal tempo e dai ritocchi, potè ai prevenuti far travedere i frammenti delle lettere che latinamente compongono il nome di Tommaso. D’altronde se realmente in antico vi fosse stato scritto un tal nome, se ne avrebbe memoria in qualcun altro de’ tanti scrittori che precedettero il novello scopritore. Se dunque il Pino per nominare il suo apostolo si fece autorità di una iscrizione che non esiste, non dee darsi valore alcuno alla sua asserzione.
Non diversamente dal Pino scrive il Gallarati essere questi senza alcun dubbio l’incredulo Tommaso; ma siccome non si degna di dire prova alcuna di quanto afferma, non si può lagnare di non esser creduto. Nemmen egli fa parola del nome inscritto travisto dal Pino, della quale circostanza, qualora vi fosse stata veramente, non avrebbe mancato nè di procurarsene notizia in tanti anni ch’ei consumò intorno a quest’opera, nè di ragionarne nella sua descrizione in cui tenne conto di tutto ciò che vide e potè capire. Dietro questa falsa denominazione il Gallarati descrive il suo Tommaso assai stranamente, ed in quel volto che in ogni antica copia ed anche nel guasto originale si scorge compreso d’orrore e di meraviglia, egli travide un tal ghigno, con che, siccome incredulo, sembra farsi beffe delle parole del Redentore. La quale espressione quanto sarebbe sconvenevole e del tutto contraria ad ogni sana ragione, non che al sistema di Leonardo, non è necessario esser pittore onde poterlo giudicare. In fine conchiude che questo apostolo ha un doppio dito mignolo nella mano sinistra, cosa, dic’egli, degna di riflessione; su di che si legga la sua postilla che trascrivo tra le note.[17]
È qui tempo di dar ragione di questa misteriosa mano di sei dita, sulla quale tanti sogni hanno fatto col Gallarati il Cochin e il La Lande, come vedemmo nelle notizie degli autori che parlarono del Cenacolo.
L’apostolo del quale ora ragioniamo, aprendo, come sopra si è notato, le braccia, stende la sua mano manca sulla mensa e cuopre parte d’una mano dell’apostolo a lui vicino, la quale si combina avere le dita quasi nella stessa direzione per le linee, quantunque di questa si vegga il dosso, di quella la palma. Questa seconda mano rimansi poco osservabile, e perchè, come si disse, in parte coperta, e perchè sola isolata tra i panneggiamenti de’ personaggi che chiudono la figura alla quale appartiene, nulla si vede del suo cubito, e quantunque richiamata dall’atto della persona cui spetta, non ha alcuno apparente richiamo di braccio o panneggiamento. La notata eguale direzione delle dita, il danno del tempo e l’imperizia del primo ritoccatore, congiunta al pregiudizio di qualche sciocca tradizione, fecero scomparire la mano meno visibile e non ne fu serbato che un solo dito che si volle aggiungere alla mano del creduto Tommaso, pretendendosi per tale mostruosità di dar conto del di lui soprannome di Didimo o Gemello. Se poi l’eccesso di un dito in una mano abbia qualche ragionevole relazione con siffatto aggiunto che a tutt’altro si suole dagli anatomici impiegare, oppure se di tal cosa esista qualche antica leggenda o altro scritto che l’autorizzi, non mi è riuscito di poterlo sapere. Trovo bensì che quand’anche si sapesse storicamente che Tommaso avesse avuto una mano con tale deformità, sarebbe dovere del pittore che dipingesse questo apostolo, di nascondergliela artificiosamente o di rappresentarla come la suol fare comunemente la natura senza altrimenti curarsi della storia. In fatti sebbene nel Supplimento delle cronache di frate Jacopo Filippo da Bergamo[18] si legga che l’evangelista Marco si fosse mozzo il pollice per non essere sacerdote, non mi è accaduto di vedere mai alcuna imagine di lui, nemmeno di cattivo artefice, con sì orribile difetto. Dopo l’ultimo ritocco del Mazza è scomparso con gran dolore del padre Gallarati anche il sesto dito, unico avanzo della mano del vero Tommaso; ed è perciò che ne’ disegni fatti modernamente, non escluso quello che servì per la migliore stampa che vanti il Cenacolo, non si tenne conto nè del dito nè della mano che quel dito dovea far sospettare, mentre trovasi questa mostruosa mano ne’ disegni che furono eseguiti tra il ritocco del Bellotti e quello del Mazza. Dicasi però ad onore del vero che tutti que’ disegni ne’ quali ho visto questa stranezza, comprendendovi quello che fece il Gallarati prima della sua gran miniatura, sono meno che mediocri, e provano la pratica dell’arte parlai giudizio dell’artefice. Osservando poi attentamente da vicino il dipinto, si scorge sotto alle lordure de’ ritocchi qualche antica crosta di color di carne, in tale andamento che indica ancora abbastanza chiaramente esser ivi stata una mano, senza la quale, come ognuno può osservare, male si sarebbe potuto render conto del posto occupato dalla figura seguente. Un’altra prova finalmente dell’esistenza di questa mano e della sciocchezza di fare di due mani una mano di sei dita, si può vedere in una copia o dir si voglia imitazione del Cenacolo che ancora esiste nell’antico refettorio del convento di san Vincenzo di questa città. In essa la lunghezza del muro è maggiore di quella che convenisse alla composizione, avuto riguardo alla grandezza delle figure: quindi il pittore prese il partito di sviluppare e di dare visibili per intiero le figure che nell’originale sono sovrapposte l’una all’altra. Perciò l’apostolo che viene dopo Giacomo il Maggiore, e del quale non si vede che la maschera e le due mani, si scorge qui tutto intero e precisamente nell’atto che un artefice pratico potea desumere dalla mano collocata dietro quella di Giacomo e scancellata barbaramente dal Bellotti per più barbaramente deformarne un’altra.
Che se in qualche copia, specialmente moderna, questa mano non si trova, ciò non deve recare meraviglia e per gli arbitrj ordinarj de’ copisti, e per la posizione di essa, che, sebbene naturale, genera imbarazzo e sospende un momento il giudizio a qual figura appartenga. La qual sospensione di giudizio, prodotta dalla incertezza di un’attitudine o da qualche membro stranamente collocato e di non evidente pertinenza, debbe a tutto potere fuggirsi dal pittore; non vi essendo cosa che più prontamente distrugga l’effetto morale della pittura, quanto i dubbj che insorgono sulla conformazione fisica delle figure rappresentate. Mi si perdoni se, parlando di tant’uomo qual era Leonardo, oso dire che in questa minuzia non fu eguale a sè stesso, e non merita, come in tutto il resto, d’essere imitato; merita bensì d’essere scusato per l’obbligo che avea di render conto non solo del posto occupato dalla sua figura, ma della sua espressione, e quel che non meno importava, della sua ponderazione, della quale fu sempre Leonardo accuratissimo osservatore. Aggiungasi a sua discolpa che in una scena di tumulto e di disordine di affetti, quale è quella ch’ei prese a rappresentare, nella moltiplicità de gruppi e nella varietà delle mosse è impossibile che le parti tutte di una figura si possano combinare in mostra chiara ed evidente; ed il pittore è bensì costretto a renderne conto, ma non debbe ad una vana dimostrazione di parti sacrificare l’effetto del tutto e specialmente ciò che spetta all’espressione. Abbiamo intanto osservato di sopra non vi essere ragione alcuna che giustifichi la denominazione del Pino e del Gallarati. Vediamo se ve ne fosse qualcheduna per giustificare quella dell’iscrizione.
Cristo aveva di preferenza compagni nelle sue spedizioni i due figliuoli di Zebedeo. Li fece degni di vederlo segretamente trasfigurato sul Tabor, e gli ebbe seco all’Orto degli ulivi testimonj delle sue angosce e delle sue lagrime di sangue. A queste prove di speciale confidenza perchè non avrebbe egli aggiunto quella di averli vicini a mensa? e se soleva averli vicini ne’ conviti ordinarj, e perchè privarli di un tal onore all’occasione sacra e solenne dell’ultima cena? Sappiamo per altra parte dalla storia che Giovanni gli era vicino da un lato; e per quale ragione non avrebbe conceduto al fratello dall’altro lato il posto corrispondente? Il solo Pietro poteva aspirare a quest’onore, ma egli è facile il dimostrare che non l’ebbe, perchè il vangelo ci narra ch’ei si volse ad interrogare Giovanni intorno agli oscuri detti di Cristo, ciò che non avrebbe potuto fare in quel luogo, ne dovuto, potendo di ciò interrogare Cristo medesimo. Abbiamo inoltre uno speciale argomento delle distinzioni che Cristo concedea a questi due prediletti discepoli nella grandezza e costanza irremovibile della lor fede, per la quale virtù, secondo Girolamo,[19] si acquistarono il titolo, con cui li dinota il vangelo, di figli del tuono. Siamo anche accertati dell’abitudine di Cristo di averli sempre ai fianchi, dal desiderio che la buona loro madre Salome, assidua compagna della madre di Cristo, non temè di manifestare, di vederli, cioè, anche in cielo collocati su due troni, l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Dopo queste osservazioni parmi che sarebbe da tacciarsi di poco giudizioso il pittore che collocasse questo apostolo altrove che ai fianchi di Cristo, e mi sembra anzi che il dargli un tal posto possa servire a farlo riconoscere, non essendo esso riconoscibile per altro parricolar distintivo. E sebbene non abbiamo alcun positivo testimonio di antico autore intorno a questa denominazione, ne abbiamo uno d’altra specie nel Lomazzo, pel quale è facile congetturare che al suo tempo si tenea che questa figura rappresentasse il fratello di Giovanni. Egli ci avvisa che allorchè Bernardo Zenale consigliò a Leonardo che lasciasse pur Cristo imperfetto, perchè non sarebbe riuscito a farlo parer Cristo presso gli apostoli che avea dipinti, non mette al confronto di Cristo che le figure de’ due Giacomi. Egli è evidente per tal paragone che queste due figure doveano avere qualche riscontro di somiglianza alla testa che si suol dare a Cristo; che se fosse stato altrimenti, il perfezionamento della testa di Cristo non avrebbe avuto alcuno impedimento dalla perfezione delle teste de’ due indicati apostoli. Ed in fatti la testa di Giacomo il minore rassomiglia notabilmente al Salvatore, come indicammo di sopra, e di tutte le altre undici teste non ve n’è una sola che abbia carattere che a quel di Cristo si avvicini, tranne quella dell’apostolo che ora descriviamo, il quale, per nobiltà di colore, per età, per capellatura e per altre note, se ne venisse diversificata l’espressione e il vestimento, potrebbe anch’egli, al pari del minor Giacomo, parer Cristo ove Cristo non fosse. Per ultima prova della relazione che può passare tra la testa del Salvatore e quella del maggiore de’ Giacomi, piacemi unire qui incisa una bella testa di Cristo strascinato al Calvario tratta da un disegno originale di Leonardo,[20] la qual testa, nella distribuzione delle parti in generale, nelle forme del naso e delle labbra e in altre parti somiglia evidentemente all’apostolo di cui qui ragioniamo. Da che si scorge più chiaramente esser vero quanto citammo del Lomazzo, e che andarono errati coloro che copiando questa testa la caricarono stravagantemente, dandole piuttosto espressione di dolor fisico che d’inorridimento, e deformandola con tali esagerazioni nella bocca e negli occhi da torle quasi la forma umana, non che la somiglianza col Redentore. Dal fin qui detto e dalla sagacità colla quale, come

abbiamo osservato, solea Leonardo seguire e indagare fin dove l’arte il permette, le sacre tradizioni, mi pare non si possa più muover dubbio che in questa figura sia stato da lui rappresentato il maggior figlio del tuono con espressione convenientissima a quel carattere che senza offendere la storia, anzi seguendone la traccia, poteva venirgli attribuito dalla pittorica invenzione.

TOMMASO.

Mentre l’apostolo antecedente aprendo le braccia ed oscurando le ciglia all’annunzio del tradimento ritraggesi compreso d’orrore nell’attitudine che abbiamo descritta, Tommaso passandogli col petto dietro le spalle, e recandosi così più presso al Maestro, alza il dito della mano destra in atto di minacciare qualsisia il traditore e di giurarne vendetta. Colla sinistra, della quale si è lungamente ragionato nello scorso articolo, tiensi ancora alla mensa ed accenna di prendere un coltello con atto conforme alla forte espressione dello zelo animoso che accendeva questo deliberato seguace di Cristo, e del quale abbiamo un testimonio nel vangelo di Giovanni.[21] Ivi al capo undecimo il veggiamo spregiatore de’ pericoli e della morte, far coraggio agli altri onde scortare il Maestro in Betania alla casa di Lazzaro, offrendosi di perire con lui, perchè in que’ giorni i Giudei cercavanlo per lapidarlo. Soli Pietro e Tommaso, nella storia evangelica, diedero prove di coraggio intraprendente, e questi due soli fece Leonardo in azione e movimento che esprime minaccia e brama di vendetta per opera propria. Il dare ad altri che a questi una espressione consimile non avrebbe avuto appoggio alcuno di sacra autorità. Gli stessi figli del tuono Giacomo e Giovanni, allorchè volevansi vendicare dell’inospitalità de’ Samaritani, non fecero già azione alcuna di risentimento, ma soltanto volsersi a Cristo interrogandolo se doveano invocare sopra essi il fuoco del cielo.
Se ciò che abbiamo qui detto, giova a provare che questa figura rappresenta assai congruamente l’apostolo Tommaso, si renderà sempre più sicura la denominazione dell’apostolo antecedente che gli avea usurpato il suo nome. È poi probabile che tale usurpazione sia avvenuta per isbaglio di tradizione cagionato dalla prossima collocazione del vero Tommaso: perchè gli antichi dimostratori del Cenacolo che lo avranno dichiarato da principio secondo la mente dell’autore, a poco a poco costretti ad additare oggetti lontani, avranno per avventura scambiati questi due apostoli che sono tanto fra loro vicini che l’una testa è per metà coperta dall’altra; e così si sarà impresso nelle menti di que’ che venner dopo, l’errore che qui si è combattuto.


FILIPPO.

Anche di Filippo poco ci narra il vangelo e poco le leggende onde averne contrassegno nella nostra pittura. Troppo debole argomento per riconoscerlo sarebbe l’età sua giovenile che risponde abbastanza all’epoca assai tarda in che si crede avvenuta la sua morte. Non ho pertanto altro appoggio per riconoscerlo che la tanto ripetuta iscrizione.
Prima ch’io descriva l’atto di questo apostolo, piacemi trascrivere un passo con cui l’Epico tedesco lo caratterizza. I versi che cito sono tratti dalla traduzione della Messiade di Giacomo Zigno e posti in bocca all’angelo Libaniele che così distingue dagli altri l’apostolo confidato alla sua custodia.
……….L’affabile e tranquillo
Mortal che seco loro ivi tu scerni,
Egli è Filippo: io su lui veglio. Sempre
Gli scorgi in mito lampeggiare un riso
Di benefico amore a pro dell’uomo;
Nè ’l suo celeste cor altra conosce
Voglia più viva che d’amar fedele
Come fratel chiunque ha Dio creato
Ad immagine sua. L’alto Fattore
Più che mel dolci il eloquenza i fiumi
Nella sua bocca ha posti, e dal suo labbro
Colano in copia le soavi note
Qual dall’Ermon le rugiadose stille
Al raggio mattutin, o dall’ulivo
Le odorose a spirar fuggevoli aure.
Su quale autorità si appoggiasse questo poeta onde dare a Filippo un carattere sì dolce ed amoroso, aggiungendogli la gloria dell’eloquenza, ornamento proprio degli animi teneri ed inclinati all’amore, non mi è riuscito di trovarlo. A buon conto anche Leonardo si convenne con lui, anzi il prevenne in dare al suo Filippo un carattere precisamente conforme al descritto, e qualunque sia l’autorità che ispirò il pittore e il poeta, non poteano andare meglio d’accordo in esprimerlo nelle circostanze rispettive e coi mezzi rispettivi delle due arti.[22] Tra i caratteri delle altre figure di quest’opera non ve n’era ancora un solo totalmente amoroso che suggerisse all’artista l’espressione finora intatta del protestare fedeltà, dell’offerire il cuore e la vita, o simile altra che a sì fatti animi sia conveniente. Che se pure fra i caratteri tanto fin qui da Leonardo variati uno se ne riconosce di tal tempra, egli era quel di Giovanni, al quale per altro da particolare circostanza era qui impedito uno sviluppo analogo alla sua natura. In fatti rivolgendosi Giovanni a Pietro che l’interroga con instanza, non poteva allo stesso tempo rivolgersi a Cristo in attitudine che esprimesse proteste di fedeltà e d’amore. Dunque sebbene un atto che a sì fatti sentimenti convenisse, avrebbe potuto adattarsi benissimo a Giovanni, il pittore non gliel diede, perchè potè dargliene uno più confacente al suo scopo e nello stesso tempo appoggiato alla storia, serbando tuttavia nella sua fisionomia l’impronta d’un animo profondamente commosso, ma tenero, mansueto e dolcissimo. Rimanendogli così libero l’uso di un’espressione affettuosa senza alcuna mistura d’ira o di vendetta, a niuno meglio si confaceva che al giovane Filippo. Ciò si palesa ben chiaramente nella sua attitudine. Contristato egli improvvisamente nel sentirsi annunziare vicina la perdita dell’adorato precettore, e udendo ch’essa doveva accadere per tradimento d’uno degli eletti, sorge per protestare a Cristo la sua fedeltà e la costanza della sua amicizia. Egli si pone entrambe le mani al petto, quasi volesse con tal atto attestare la propria innocenza e la purità del suo cuore; o pure per esprimere la sua prontezza a dar l’anima propria per lui. In questo secondo senso anzi più strettamente intendevasi un tal gesto dagli antichi che credevano l’anima o almeno una delle anime risedere nel cuore;[23] ed anche adesso, quantunque si creda diversamente, poniamo naturalmente la mano al petto per esprimere l’anima nostra nelle promesse e ne’ giuramenti.
Il Gallarati sogna che questo apostolo, da lui creduto Giacomo il Maggiore, sia in atto di lacerare con una delle mani le vesti per dimostrazione di dolore. Sebbene quest’atto si costumasse dagli Ebrei in casi dolorosi, disperati od orribili, oltrechè non è naturale che ad esso s’impieghi una sola delle mani, non è qui certamente rappresentato; chè quando il fosse, male si accorderebbe collo sguardo affettuoso che questo apostolo rivolge al Salvatore, e col resto dell’atto che esclude ogni contrassegno di quell’entusiastico furore che spingeva gli antichi a simili dimostrazioni. A cotesto errore del Gallarati circa questo apostolo che motivo l’aggruppamento del pallio, artificiosamente combinato a dimostrare la prontezza e momentaneità dell’attitudine alla quale improvvisamente egli si compone, appena udita la terribile profezia di Cristo. La sua testa è quasi di profilo, e doveva essere espressivissima per quanto (più che da altro) per la scorta delle copie si scorge nella ruina dell’originale, e per ciò che ne scrisse il Richardson al principio dello scorso secolo. Il colore del pallio è di un rosso volgare: azzurra è la tunica a maniche ricche di pieghe, ma strette. Il pallio è tenuto da un fermaglio a mezzo il petto e scende ricco fino ai piedi.

MATTEO.

Molti si sono accordati a chiamar Matteo questo apostolo, non so se per la risoluzione dell’atto o per la migliore coltura dell’abito e de’ capelli, o, in fine, per la meglio conservata tradizione dell’intenzion dell’autore. Il Pino, il Gallarati e il Giornale di Roma gli danno un tal nome, confermatogli, come vedemmo al principio, dalla nostra iscrizione. Egli è in atto di volgersi ai due ultimi commensali che appajono immersi nella costernazione e nell’ansietà del dubbio inquieto e del sospetto; e pare che stia confermando loro la fatale predizione che da Cristo udì pronunciarsi. Mentre però a quelli si volge col viso che si vede di profilo, a Cristo tiene rivolte entrambe le mani, e mostra chiaramente di che ragiona. Con un tal movimento il sagace pittore, oltre la vivacità della pronta espressione, ottenne di legare il gruppo mirabilmente, e salvò con artificiosissimo avvedimento la direzione di questa figura all’oggetto principale, quantunque da esso rivolga la testa.[24]
Vario da ogni altro, non men che l’atto, è il partito del panneggiamento. Egli ha una tunica celeste chiaretta, tendente al color di cenere; ed il pallio è azzurro con fodera di una tinta tendente al giallo alquanto sparuto. La manica della tunica è ricca in alto, e, legata verso la piegatura del braccio, d’indi in giù si va restringendo sull’andare di quella che abbiamo descritta parlando dell’apostolo Bartolommeo. Scorgesi nel complesso di questa figura un carattere più colto che non è nelle altre, e si riconosce d’una condizione superiore alla pescatoria o alle altre umili professioni apostoliche. Anche circa questo apostolo abbiamo un gran vôto nella storia, almeno in quelle cose che possono servire all’arte della pittura.

TADDEO.

I soprannomi e gli epiteti perpetui usati dai poeti o riportati dagl’istorici onde distinguere i personaggi che la storia o la poesia prende a descrivere, non debbono essere trascurati dal pittore, siccome quelli che servono a rendere tali personaggi più chiaramente conosciuti, e che non di rado esprimono cose con vantaggio imitabili dall’arte del disegno. La ragione per cui simili aggiunti per lo più sono opportuni alla pittorica rappresentazione, nasce dall’officio comune dell’arte dello scrivere e del dipingere, di rappresentare, cioè, e quasi porre sott’occhio le imagini descritte o imitate. E così, come i Greci avean costume di esprimere con uno stesso vocabolo lo scrivere e il disegnare, sembra che allorquando il pittore coll’arte propria giungerà a fare ciò che dalla sua ottiene il descrittore, e quando questi a vicenda potrà esprimere colle parole quanto il pittore esprime col disegno, ciascheduno, dentro i limiti rispettivi dell’arte propria, otterrà, non dubito, effetto grande e gloria non volgare. Se però io mi dilungo alquanto dietro tali avvertenze, non sarà, credo, tempo perduto e per l’opera ch’esaminiamo, e per l’arte di cui è figlia quest’opera, e per più addentro conoscere il metodo con cui l’autore la condusse.
Or Giuda, or Lebbeo, or Taddeo venne chiamato l’apostolo del quale qui si ragiona, e fu grecamente cognominato Zelote[25] per l’ardore del suo zelo verso il divino Maestro, distinzione ch’egli ebbe comune col suo fratello Simone che ultimo gli siede vicino. Il suo nome o forse cognome di Lebbeo, secondo gli etimologisti dotti nella lingua ebraica, deriva da fiamma, la qual derivazione si accorderebbe in parte col greco soprannome da citi per la indicata virtù dello zelo venne distinto. Di questi nomi di due lingue e di analoga significazione non mancano altri esempj nella storia apostolica, e fanno spesso supporre un terzo nome primitivo, come vediamo in questo apostolo non che in altri. Così, se credesi ad Eusebio,[26] anche Tommaso chiamossi Giuda, ed il nome di Tommaso che suona in lingua ebraica come Didimo nella greca, gli sarà stato aggiunto onde distinguerlo da Giuda Taddeo e da Giuda Iscariote. Parimente Simone venne chiamato Cananeo che secondo alcuni suona come in greco Zelote, acciocchè si distinguesse da Simone fratello di Andrea, il quale, ond’essere a vicenda distinto, chiamavasi Pietro e talora anche Cefas e Bariona. Così l’un Giacomo chiamavasi il Giusto e l’altro il Figlio del tuono, se non venivano fra loro distinti dai nomi paterni.
Allorquando pertanto questi soprannomi non hanno veruna relazione a quelle personali qualità che la pittura può esprimere, sieno fisiche, sieno morali il pittore non debbe tenerne conto alcuno. Così se Iscariote indica la tribù o il paese natio di Giuda il traditore, e se Tommaso indica ch’ei nacque gemello, poco lume e soccorso avranne la pittura. Ma il contrario avverrà allorchè questi aggiunti porteranno, come spessissimo si osserva in quelli usati da Omero, indizio di tali qualità che diversifichino l’espressione, il costume o la forma della persona che per essi è distinta. Quindi sarebbe errore pittorico il rappresentare in attitudine esagerata e furibonda Giacomo il Giusto, o in attitudine fredda ed indifferente gli Zeloti e i Figli del tuono: come egualmente lo sarebbe il rappresentare Achille con gambe tarde e pesanti, o il dipingere con braccia brune e con occhi piccioli Giunone.
Leonardo lento meditatore ed indagatore acutissimo di tutto ciò che poteva renderlo più inteso de’ caratteri delle persone che aveva prefisso di rappresentare, non ha certamente trascurato, sia per mezzo de’ libri, sia col soccorso degli uomini dotti di simili materie, d’informarsi del significato de’ molti nomi e soprannomi apostolici. La cura ch’ei si prendeva di cercar notizia di ogni benchè minima particolarità che avesse relazione agli argomenti delle sue opere, ci viene confermata da tutti gli scrittori che parlarono di lui; e le opere sue stesse, con fede più autentica e piena di quella che la storia abbia diritto di ottenere, provano quanto attentamente ei considerasse le più minute circostanze che poteano recargli qualche lume sui veri costumi e sulle forme de’ suoi personaggi, o pure servir di guida alla sua invenzione ove mancasse l’autorità storica. Con sì fatti studj potè questo sublime a un tempo ed acutissimo ingegno dare tanta verità ed individualità di espressione e di carattere così a ciò che direttamente ritraeva dal naturale, come alle imitazioni di cui la natura non presenta alcun tipo proprio e diretto. Però l’analizzare minutamente tutto ciò che a questa sua principale opera appartiene, non dovrebbe, a mio parere, recar tedio a coloro che intendono ed amano le cose pittoriche; tanto più che le mie ricerche hanno per principale scopo ciò che riguarda l’imitazione degli affetti e delle passioni, la cui espressione fu sempre da Leonardo considerata come la prima e vera gloria del disegno.
Tornando or dunque al nostro apostolo che sulla fede della solita iscrizione ho chiamato Giuda Taddeo, giova avvertire alcune cose che si riferiscono alla sua parentela e che potrebbero fare ostacolo all’adottata denominazione.
Nelle antiche leggende e non senza gravi autorità chiamansi fratelli di lui Simone il Cananeo e Giacomo il Minore. Ora, accettando senza riserva questa fraternità, si può osservare che tra il Minor Giacomo e lui non vi è riscontro alcuno di somiglianza, tranne la foggia nazarena de’ capelli. Potrebbesi, in secondo luogo, notare che vi è tra essi una troppo considerabile differenza di età, la quale, sebbene sia possibile, non è però ordinaria tra fratelli uterini, nè certamente sarebbe da imitarsi in pittura se non quando la storia espressamente lo esigesse, il che non sembra avvenire nel caso nostro. Si può aggiungere in fine che la collocazione di questo apostolo, tanto lontano dall’uno de’ fratelli, non sarebbe scelta con quel giudizio di cui Leonardo ripetè prove solenni in ciascuna delle figure di quest’opera.
Se pertanto queste difficoltà sieno tali da muover dubbio intorno alla denominazione di questa figura, o se per esse sia da rimproverare Leonardo di averla qui e non altrove collocata, veggiamolo nelle seguenti osservazioni.
Primieramente, per rispondere all’argomento che ci oppone la dissimiglianza, giova rammentare ciò che abbiamo visto di sopra, cioè che Giacomo il Minore rassomigliava a Cristo sì perfettamente che Giuda l’Iscariote diede agli sgherri il segnale del bacio acciocchè non accadesse scambio tra Cristo e lui. E se tale somiglianza non fosse stata singolare ed unica e non l’avesse notabilmente distinto dai fratelli, non se ne sarebbero fatte si alte meraviglie. E se i fratelli avessero somigliato a lui e quindi anch’essi a Cristo, non sarebbe stata considerata sì miracolosa la somiglianza di Giacomo o vi sarebbe pur qualche memoria anche della loro, siccome vi fu di quella di Giacomo la quale parve stravagante e notabilissima in una parentela indiretta. Da ciò si può congetturare che Giacomo, se pure fu fratello carnale di Taddeo e di Simone, poco nel volto li somigliasse, come da essi si allontanava nell’istituto della vita solitaria e nell’estremo rigor del costume.
Ma siccome nel vangelo vengono chiamati indistintamente fratelli i cugini, come sorelle le cugine o cognate; così, poco chiaramente apparendo la vera fraternità, verrebbero a cadere, come la prima, anche le altre opposizioni. Egli è ben vero che Taddeo nella sua epistola cattolica si chiama fratello di Giacomo; ma non indica già di quale de’ Giacomi egli intenda; poichè tre se ne contano, secondo molti antichi e moderni scrittori, l’uno figliuolo di Zebedeo, l’altro di Alfeo, l’ultimo forse di Cleofa, cugino anch’esso di Cristo, e probabilmente fratello di un Simone diverso dal Cananeo che gli succedette nel vescovado di Gerusalemme, e che al pari di questo da taluni non si pone tra gli apostoli. Il vangelo di Marco dice fratelli di Cristo, Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone; ma come si potrà verificare se questi avessero, genitori comuni o pure fossero fratelli fra loro come erano fratelli di Cristo? Lo stesso evangelista fa menzione delle sorelle di Cristo senza nominarle; nè si può giudicare s’esse erano mogli, cugine o sorelle carnali de’ quattro nominati discepoli. Cresce il parentado con Elisabetta e Zaccaria genitori del Batista. Non mancano sorelle e fratelli sì a Maria come a Giuseppe suo sposo, diverso naturalmente dal nominato fratello di Cristo. Dopo ciò ognun vede quanto sarebbe facile l’accordare quelle cuginanze che più accomodassero senza costringere a fraternità carnale.
Anche intorno a Simone vi sono non poche difficoltà ed imbarazzi. Teodoreto dice che i fratelli di Cristo erano della tribù di Giuda, e che Simone l’apostolo fu della tribù di Zabulon o di Neftali. Beda credè da prima che quel Simone che dopo Giacomo fu vescovo di Gerusalemme, fosse lo stesso che l’apostolo di tal nome; indi cangiò parere e si ritrattò. Lo stesso fecero Isidoro, Eusebio ed altri. Il Klopstock,[27] non saprei dire su quale autorità, lo fa parente di Giuda Iscariote, se non è forse perchè questi vien chiamato nella Scrittura Giuda di Simone. Per altra parte Simone l’apostolo fu, secondo altri, uno de’ pastori che alla nascita di Cristo furono avvertiti dagli angeli del luogo ove il Messia era venuto alla luce: dunque si vegga di quanto dovea precedere in età a Giacomo il Minore, il quale non avrebbe altrimenti tanto somigliato a Cristo anche dopo la sua morte se non fosse stato o più giovane o almeno di pari età con esso lui. Anche il Sandini, che più chiaramente degli altri espose quanto potè raccogliere dai migliori autori intorno alle cose apostoliche, afferma che due soltanto de’ fratelli di Cristo furono apostoli, cioè Giuda Taddeo e Giacomo; la qual cosa, se fosse stata creduta da Leonardo, non sarebbe da lodare la posizione delle due figure che rappresentano questi apostoli, non atta ad esprimere la confidenziale amicizia di cui negli animi virtuosi è occasione la fraternità. Per le quali cose tutte parrebbe più probabile che questi fratelli non fossero figli d’uno stesso padre, come diventa assai verisimile che fossero soltanto fratellli cugini, comechè chiamati sempre indistintamente fratelli nel vangelo, costume seguito fors’anche da Taddeo nella citata sua epistola. Ma comunque nel vero stiasi la cosa, egli è bene di osservare che anche presentemente chiunque si volesse prendere la briga di porre in chiaro queste apostoliche parentele, non ne uscirebbe con onore, tanto è folta l’antica oscurità di queste materie. E se in tanta luce di critica qual è quella che nel nostro secolo risplende, e dopo i concilj che hanno tolto alla lettura de’ fedeli un gran numero di libri apocrifi, è ancora si tenebroso il cammino che si batte onde scoprire la verità in questi argomenti, quanto più lo doveva essere all’epoca di Leonardo, nella quale la scienza, forse maggiore in alcuni, era poco suddivisa per potere in queste parti progredire, e mancava, specialmente nelle materie storiche, tradizionali ed antiquarie, di quella accurata critica della quale noi, deboli nel resto, assai opportunamente ci vantiamo.
Dopo il fin qui detto, a giudicare e sopra la provata diligenza di Leonardo e sopra quanto nelle altre figure ha egli osservato, io sono di parere ch’ei credesse che il suo Giacomo non fosse carnal fratello di Taddeo, ma bensì che questi fosse fratello di Simone lo Zelote, che per tal ragione collocògli vicino. In questo caso sarebbe giustificata la distanza del posto, la dissimiglianza delle fattezze e la diversità notabile della età che osservammo passare tra Giacomo e Taddeo.
Chè se si vuol credere ch’egli stesse anche in ciò all’autorità delle leggende tradotte dal Malermi, che danno tre figli ad Alfeo ed a Maria figliuola di Cleofa, tutti apostoli, e sono Giacomo il Giusto e i due Zeloti, sebbene niuno di questi due venga mai chiamato figlio d’Alfeo nella Scrittura, allora crederei si potessero accomodare l’esposte difficoltà nel modo seguente.
Per ciò che spetta alla fisionomia, in che Giacomo discorda dai fratelli, si risponde con quanto già si è detto intorno al suo somigliare a Cristo. Per quanto concerne la differenza della età, dovendosi dare a Simone una età virile o almen giovanile nell’anno della nascita di Cristo, quindi quattro o cinque lustri più di Giacomo, è chiaro ch’era in arbitrio del pittore di porre il fratello Taddeo dentro l’età di que’ due in quel luogo che più convenivagli, e, considerati gli Zeloti compagni sempre ne’ viaggi, nell’evangelica predicazione e nel martirio, non li volle di molto diversi di età, come, seguendo la tradizione e i soprannomi loro, li fece simili di carattere. Finalmente, considerato il carattere rigido, solitario, austerissimo di Giacomo tanto differente da quello dei due maggiori fratelli, e sopra l’osservazione a Leonardo ben nota e nel suo Trattato ripetuta, che le persone di età e di costumi conformi volentieri naturalmente si avvicinano, come le dispari in queste cose fanno il contrario, parmi sufficientemente scusata anche la distanza alla quale fu posto dai fratelli il minor figlio d’Alfeo.
Ma è ormai tempo di descrivere il carattere e l’atto di questo Zelote.
Mentre l’amore il più intenso ed affettuoso che costituisce, come abbiamo visto, il carattere dominante di Filippo, chiamava nel comun turbamento questo apostolo alle proteste ed ai giuramenti di fedeltà, l’amore unito allo zelo che fa il carattere di Taddeo, dimandavano in lui una espressione che annunziasse l’inquietudine, la costernazione, il sospetto onde l’animo suo doveva essere esacerbato all’udire prossima per tradimento la ruina dell’amico. Ed in questa espressione per l’appunto riuscì a Leonardo di rappresentarlo mirabilmente, facendolo volgere alquanto al vicino fratello, e col cenno della destra e col posare della sinistra e col girare degli occhi in direzione diversa da quella della testa e coll’abbassare gli angoli delle labbra, diègli un atto sì nuovo e sì conforme al suo scopo che a niun’altra cede questa figura in esprimere quanto sente, e in far sentire e pensare quanto esprime, allo spettatore. Prima che i ritocchi fatali raddoppiassero sopra di essa la ruina del tempo, pari al Catone di Dante,
Lunga la barba e di pel bianco mista
Portava ai suoi capelli somigliante,
De’ quai cadeva al petto doppia lista.
Ora quasi nessun tratto vi si scorge che si possa credere originale, quantunque non sia giunto fino ad essa il pennello del Mazza. Ciò non ostante tanto e tale era il vigore dell’espressione in questa figura, che forse meno delle altre perdette nelle copie più autorevoli, e più d’altre molte l’ho veduta fermare l’attenzione di chi l’osserva, segno per me evidente che in essa più che nelle altre serbossi lo spirito del sublime autore.
Dopo le riflessioni fatte intorno alla cura con cui Leonardo e in questo apostolo e nel vicino Simone imitò il carattere ond’ebbero il nuovo nome questi due zelanti seguaci di Cristo, sarà bene il volgere lo sguardo dall’altro lato al posto che risponde all’occupato qui da Taddeo per osservarvi Giacomo il Giusto, sia o non sia per Leonardo fratello degli Zeloti. Egli, secondo il principio di già notato, è assai meno turbato degli altri tutti, perchè la virtù della giustizia ond’ei prese il soprannome, si accorda assai bene con un animo imperturbabile; e l’abbiamo in oltre osservato in atto d’interrogare, diversamente dall’iracondo Pietro, senza minaccia o alterazione considerabile, con eguale armonia alla sua principale virtù. In fatti gli animi suscettivi di pronta perturbazione sono sovente in pericolo di ledere la giustizia: dunque questa istantanea irritabilità, quantunque sia spesso indizio di carattere buono, non debbesi dal pittore imitare nelle persone in cui la giustizia sia la primaria e caratteristica virtù, alla quale meglio d’assai si conviene il pacato desiderio della conoscenza delle cose, espresso opportunamente dall’atto dell’interrogare. Di questo pericolo che la giustizia sia lesa dalla troppo vivace eccitabilità dell’ira anche onesta, ce ne somministra due chiari esempj la storia evangelica, l’uno in Pietro che, sebben ottimo, si avvilì stranamente fino a rinnegar Cristo, l’altro negli energici figli di Zebedeo che, contro i principi del loro istitutore e dell’umanità, volevano invocare il fuoco celeste sui Samaritani che rifiutaronsi di riceverli ad ospizio.
Queste morali osservazioni non debbono parere troppo sottili a chi sa quanto acutamente intorno a tal cose speculasse Leonardo. E chi tali le giudicasse, crederà favolosa la perfezione alla quale con argomenti sottilissimi i greci artefici aspirarono con successo, e di cui, sebbene le opere più famose non esistano se non descritte ne’ libri, abbiamo sufficienti esempj nelle mirabili sculture di Agasia, de’ fratelli Rodiotti, di Glicone, di Cleomene e d’altri.

SIMONE.

L’articolo antecedente mi dispensa di ripetere in questo varie cose che all’apostolo Simone appartengono. Comunque varj sieno i giudizj degli storici e dei critici intorno all’apostolato di Simone fratello di Giuda Taddeo, parmi qui evidente aver Leonardo voluto fare due fratelli di questi due ultimi commensali. E come collocò vicini, sebben differenti di carattere, Pietro ed Andrea, e non divise che col Salvatore i due figli di Zebedeo, era naturale che anche i due Zeloti non venissero disgiunti, eglino che non solo furono indivisi nella predicazione e nel martirio, ma che il sono fin anche nelle leggende e nel calendario.
Siede maestosamente questo apostolo nel luogo corrispondente a quello che occupa dall’altro lato Bartolommeo; sole figure di tutta l’opera che intere si veggano, perchè poste di profilo ai due capi della mensa. Bartolommeo che sembra dubitare di aver male udito, nè trova chi tra i vicini l’informi, s’alza curioso e turbato, e si sporge in avanti sperando avere qualche spiegazione di ciò ch’eccitògli turbamento e stupore. Simone in vece, accertato da Matteo di quanto asserì il Salvatore, rimane nell’angustiosa dubitazione sulla persona del traditore, e nella dolorosa credenza del vicino infortunio profetizzato dal Maestro. Entrambi questi affetti e di dubbio e di affanno sono ottimamente espressi in questa figura, consentaneamente a quel carattere infiammato di puro zelo che, come osservammo, ottennegli il soprannome di Zelote, e nello stesso senso quello di Cananeo. La fronte calva aggiunge maestà alla robusta vecchiaja di questo apostolo che secondo le tradizioni era, come qui appare, di tutti il più attempato. Ben gli si adatta il largo pallio che costretto a mezzo il petto, gli passa sopra entrambe le braccia, e da man destra rientra a coprirgli le cosce e le gambe; da sinistra rivolto all’insù cuopre doppio la spalla e ricade all’indietro con vaste e ricche falde. Anche il sedile su cui siede l’apostolo, rimane in gran parte coperto dal volume del panneggiamento. Leonardo raccomanda più d’una volta di vestir largamente i vecchi, e con panni di moderati colori alla età e gravità loro convenienti. Il colore di questo pallio pende in giallo nelle parti illuminate ed in rossiccio nelle ombrose, tinta di cui sono frequenti gli esempj ne’ dipinti di quel tempo e più ancora nel secolo seguente in cui questi tuoni cangianti si portarono ad abusi ammanierati e bizzarri, e screditarono l’arte antica che li trattò con avvedimento e moderazione. La sua tunica è bianca ed ha le maniche ricche e larghe, ma non quanto quelle del Salvatore e di Giacomo il Minore. Le mani finalmente non possono meglio accordarsi coll’espressione delle altre parti tutte di questa dignitosa figura.
Ecco dunque chiusa in Simone questa scena singolare in cui non si può abbastanza ammirare l’ingegno dell’autore in trovare ed autorizzare colla storia tanta varietà nelle forme, negli affetti, ne’ moti e nelle passioni, e ciò tutto in argomento per sè sterile e monotono che non permette varietà di stature, nè di sesso, nè altri ajuti dell’arte.
Se ricorriamo di nuovo con l’occhio i singoli attori di quest’opera, cominciamo ad osservare in Bartolommeo inquietudine, perturbazione e curiosità di schiarimento intorno a ciò che pargli per avventura avere frainteso, e su di che vuol essere confermato da Cristo stesso e non da altri. Giacomo il Giusto più pacatamente interroga quello tra’ vicini che crede più atto ad informarlo. Meraviglia e stupore comprendono Andrea. Pietro interroga con ira e minaccia. Giuda stupefatto d’essere scoperto si ricompone con affettazione ed impostura. Giovanni dolente volgesi a Pietro che l’interroga, e lascia così maggior campo e trionfo alla figura principale. Cristo mansueto e grave mostra e quasi dissimula dolore profondo che nulla toglie alla sua bellezza, grandezza e maestà. Inorridisce Giacomo il Maggiore; giura vendetta Tommaso; protesta amore Filippo. Matteo conferma dolente i detti del Redentore; Lebbeo sospetta; Simone dubita.[28]
I segnali di queste morali situazioni, sì naturali nella circostanza e sì artificiosamente variate, non possono essere più evidenti negli atti e ne’ volti: i moti non possono essere nè più pronti, nè meglio a reciproco effetto posti in contrasto; le forme tutte in fine sono belle e scelte per quanto simile argomento il comporta. Ma il pregio che, a mio parere, non si può con lodi sufficienti equiparare, sta nel carattere impresso da Leonardo in queste figure le quali null’altro fuor che uomini galilei ed apostoli possono acconciamente rappresentare. Ed in ciò veramente Leonardo pareggiò gli antichi e fu superiore ai primi luminari dell’arte risorta; perchè Raffaello stesso (non che altri, sebben grandi, dell’epoca posteriore) trascurando sovente d’improntare nelle figure questo carattere proprio ed individuo che ciascuna da ogni altra distingue, fece talvolta degli apostoli che si confondono con filosofi greci, ed a vicenda de’ filosofi che possono passare per apostoli. In prova della quale asserzione, lasciando le trasformazioni fatte da pittori non volgari delle sue Psichi in Maddalene, e di molte sue deità gentili in profeti e sibille, voglio che basti il solo esempio della per altro mirabile scuola d’Atene, nella quale non solo Platone ed Aristotile furono presi spesso da persone non indôtte per gli apostoli Pietro e Paolo, ma varie figure di giovani e di vecchi parvero allo stesso Vasari angeli ed evangelisti.

DEL LUOGO DELL’AZ IONE.

Di grandissima dignità, dice Leonardo, è il discorso de’ campi;[29] ma sebbene spesso e sottilmente ne ragioni nel suo Trattato, egli li considera soltanto generalmente, e più che per altro, per riguardo al rilievo ed al giovamento che, serbate certe leggi, possono arrecare alle figure. Noi abbiamo debito di esaminare questa parte del quadro, non solo come campo in generale, ma come luogo dell’azione, pel quale il pittore debbe aver cura di seguire in quanto può la tradizione, il costume e le circostanze, accomodando il tutto all’oggetto principale della sua storia. E sotto questo punto di vista giova qui specialmente osservare il fondo del Cenacolo, rimettendo il lettore per gli altri particolari a quanto ne dirò ragionando della mia copia.
Se tanto povera di notizie, confusa e tenebrosa è la storia intorno agli augusti attori del nostro quadro, non dee recar meraviglia che non ci sien giunte informazioni chiare circa il luogo in cui avvenne l’azione in esso quadro rappresentata. Dagli evangelisti non si sa più oltre, se non che Cristo fece l’ultima cena cogli apostoli in un gran triclinio che a tal uopo fu preparato da Pietro e da Giovanni in casa di un incognito loro amico. Questo luogo era sul monte Sion, ed è ne’ vangeli replicatamente chiamato Cænaculum grande stratum; ma ciò non basta a darci idea nè della sua decorazione nè della sua forma. I teologi antiquarj attesero a lungo ad indagare a chi questo cenacolo appartenesse, e poco del resto curandosi, niun soccorso prepararono alla pittura. Chi fosse curioso di conoscere le loro opinioni, può leggerle nel Quaresmio e negli autori ch’ei cita.
L’Adricomio che compose una specie d’indice architettonico dell’antica Gerusalemme, sotto l’articolo Cænaculum, memora i fatti importanti ivi accaduti, ma nulla dice della sua figura. Santo Brasca che pubblicò in Milano il suo Viaggio di Terra Santa, forse allorquando Leonardo si disponeva al suo lavoro, cioè nel 1481, nulla lasciò scritto che gli potesse servire, nè lo descrive altrimenti, se non dicendolo al suo tempo chiesia de li nostri frati minori. L’Amico nel suo Trattato degli edifizj di Terra Santa non diminuisce le oscurità in cui ci lasciano gli altri autori. Le piante che abbiamo dal Quaresmio e dall’Amico, come parimente le figure dello Zuallardo, sono informi anzi ridicole, e quand’anche esprimessero il vero, sarebbero inutili al pittore. Vi si notano i luoghi dove si arrostì l’agnello, dove si mangiò, dove scese lo Spirito Santo, dove morì la Vergine e cose simili. D’altra parte sembra per molti storici che questo luogo venisse da prima rinchiuso in un tempio edificato da sant’Elena; di poi fosse convertito in un convento; in appresso di nuovo in una chiesa; indi in un palazzo; e dopo tanti cangiamenti, sebbene si volesse supporre religiosamente rispettata l’antica struttura, non è probabile che un privato edifizio d’una città qual era Gerusalemme, resistesse alle ingiurie delle guerre e de’ secoli, mentre non vi è orma di verun antico privato edifizio in tutta Roma maestra della solida architettura.
Dopo ciò parmi da credere che, ad onta delle informazioni che Leonardo potè avere da Santo Brasca e ad onta delle altre relazioni scritte o verbali che l’uso ancor vigente de’ pellegrinaggi in Terra Santa poteva fornirgli intorno a quei luoghi, nulla con tutto ciò per tali sussidj trovasse di abbastanza degno d’essere seguito per merito d’autorità o di forma. Quindi opino ch’egli siasi attenuto semplicemente al vangelo, col metodo che osservammo da lui praticato nelle parti più importanti della sua composizione.
Dal vangelo pertanto sappiamo che il luogo era grande e che fu capace di contenere centoventi persone il dì della Pentecoste, e sembra che in maggior numero ancora i primi cristiani vi si adunassero in altre occasioni. Sappiamo in oltre ch’era ornato, e pare appartenesse a persona facoltosa; in che gli antiquarj si accordano, come si accordano, ignoro su qual tradizione, in asserire che non vi erano colonne, dalla qual cosa non dissentono le antiche icnografie, e ne abbiam cenno nel Trattato del Lomazzo.[30] Su queste sole autorità appoggiò Leonardo l’invenzione del luogo della sua storia, e fece una gran sala ad angoli retti che si vede sulla linea della sua lunghezza; mezzo con cui il pittore può dare idea di una gran vastità in poco spazio. Questa sala è coperta da una soffitta a travicelli che incontrandosi formano de’ lacunari quadrati senz’ altro ornamento. Sotto la soffitta girano due fasce d’architrave. Le pareti laterali sono decorate di tappezzerie a grandi quadrati incassati alquanto in esse pareti, e veggonsene quattro da ogni lato. Fra l’uno e l’altro di questi quadrati sonvi certe aperture, non saprei ben dire se di porticine, di piccole finestre o di ripostigli. Nell’originale queste vennero scancellate affatto: solo dalla parte luminosa del quadro ne traspare ancora sufficiente indizio. Indicherò altrove donde le ho tratte e a qual uso probabilmente servissero secondo la mente dell’autore. Nel bel mezzo del fondo avvi una porta ornata di stipite, e due finestre senz’ alcun ornamento, per le quali, come per la porta, viene rallegrato il campo dalla vista del cielo sereno e delle montagne che si perdono nel lontano orizzonte. Le tappezzerie sono ornate di rabeschi di un rosso gentile in campo verde. Il pavimento è distinto di fasce che seguono la distribuzione de’ travicelli secondo la lunghezza della sala. Tali fasce pendono in giallastro chiaro macchiato; il pavimento in rosso d’ocria; le pareti in fine e la soffitta in cenerognolo chiaro, ove le ombre e i riflessi non l’alterano.
Per ciò che concerne il costume, nella solita oscurità intorno alla forma de’ triclinj degli Ebrei, accontentossi Leonardo di dare al suo una tale architettura che non avesse troppo del carattere greco o romano. A tal fine escluse ogni ordine di colonne, accordandosi in ciò cogli antiquarj che sopra ho indicati. Abbondò poi nelle tappezzerie, seguendo l’uso degli orientali ed anche la sacra tradizione circa la ricchezza del padrone del luogo. E così come abbiamo osservato avere il nostro autore ne suoi apostoli impresso un carattere sì proprio che, quanto in queste figure riesce a meraviglia, poco opportunamente si adatterebbe ad altra rappresentazione, parmi lo stesso potersi dire della sua scelta del luogo dell’azione in che mantenne un carattere sì analogo al resto, che male ad altra storia converrebbe la quale non fosse ivi accaduta. E mentre i molti cenacoli di varj autori per altro celeberrimi, pel fasto e pel modo dell’architettura si confondono con triclinj greci o romani, il modesto Cenacolo di Leonardo non supera la fortuna o la scienza architettonica degli Ebrei di quell’epoca.
Nè cura minore pose Leonardo alle circostanze della sua azione. Sebbene ci consigli sovente copia, ricchezza e varietà in tutte le parti delle composizioni pittoriche, servì qui con ingegnosa sobrietà alla gravità dell’argomento. Col cielo che dalla porta più largo si vede, fece campo alla sua figura principale e la rese così più distinta e cospicua. Colla posizione della sua mensa secondo la larghezza della sala, oltre l’idea che, come già dissi, collo scorciare della lunghezza potè più facilmente dare di luogo vasto e capace, allontanò d’assai la porta da’ suoi attori, e facendola comunicare con luoghi che non appajono nè colti nè abitati, fe’ meglio sentire la libera solitudine che la sua scena esigeva. Nell’orizzonte non si veggono distinti nè alberi nè edifizj. Tutto spira quella quiete che regnava sul Sion e che, secondo narrano gli scrittori sacri, fece a Cristo preferire quel luogo per la celebrazione de’ suoi principali misterj.

DELLA MENSA E DELLE ALTRE PARTI ACCESSORIE.

Gli eruditi moderni hanno qui campo di far mostra di dottrina antiquaria, e di accusare Leonardo di aver tradito il costume e la storia. Egli ha osato fare i suoi apostoli seduti a mensa, e non a giacere, come dalle proprie parole della Scrittura si può giudicare che stessero nell’occasione che fa argomento del nostro quadro. Il Lazzarini[31] taccia in generale i pittori che non seguono tale costumanza del giacere, specialmente nell’ultima cena di Cristo, e crede quasi impossibile, se non isconciamente, che l’apostolo Giovanni venga rappresentato in atto di dormire appoggiandosi al petto del Salvatore, qualora entrambi non si facciano sdrajati sul letto. Io non so perchè egli trovi tanto difficile e strana la combinazione di tal atto, mentre, oltre l’osservazione in contrario che si può fare sul naturale, abbiamo non pochi antichi quadri ne’ quali Giovanni senz’alcun mal garbo riposa in seno di Cristo, come fra gli altri si vede nella tavola altrove citata di Gaudenzio da Varallo alla Passione. Ma si dia pur ragione al Lazzarini, tanto più che al suo tempo era sì grande la deviazione dalla buona strada nella pittura, in ispecie per ciò che spetta al costume, che non è da fargli aggravio s’egli non prende a considerare che il seguirlo troppo scrupolosamente può talora nuocere a qualche parte più importante dell’arte. Nè voglio che si valuti in conto alcuno l’autorità del Bellarmino, nè gli argomenti per altro ingegnosi di Giovanni Maria Ciocchi, il quale trattando espressamente di tale questione del giacere o sedere a mensa in proposito della cena di Cristo, nel capitolo settimo della sua Pittura in Parnaso, pretende dimostrare che gli antichi per costume vi sedessero sopra panche o sedili, e che non giacessero altrimenti sui letti se non le persone più molli, delicate e lascive. In una copia ch’io tengo di quel suo libro, leggonsi molte erudite prove contro tale opinione scritte di pugno del dottissimo Anton Maria Biscioni: ma maggiori e più chiare le abbiamo dai migliori classici e dai monumenti che dall’epoca delle postille del Biscioni scritte nel 1725 sono cresciuti notabilmente, e sono anche meglio spiegati nelle tante opere classiche d’antiquaria, onde è illustre lo scorso secolo, come l’Ercolanese, quelle d’Ennio Quirino Visconti, quelle del Winkelmann e d’altri. Le spiegazioni poi che il Ciocchi vorrebbe dare dei verbi accumbere e discumbere, provano che non avea molta pratica degli antichi scrittori, nè conosceva molto addentro la latinità: le altre sue ragioni dimostrano in lui poca critica e povertà di cognizioni si pittoriche come antiquarie. Però le difese di Leonardo non debbonsi prendere nè da lui, nè da quelli che il prevennero o il seguirono nella sua opinione, mentre si possono assai meglio desumere dalla vera ragion pittorica e dalla filosofia.
Allorchè una costumanza importante in un’opera di disegno, oltre l’essere d’assai lontana dalle ordinarie, è fuori affatto della notizia volgare, in vece di dar piacere qualora il pittore la segua, apparirà stravagante e sarà sovente cagione di riso e ne’ più moderati argomento di nojose interrogazioni che tutto distruggono l’effetto dell’arte. Quindi in casi simili è dovere del pittore l’accomodarsi all’opinione generale quantunque erronea; e così fece Leonardo, cui premea di commuovere per dilettare ed istruire moralmente, non di erudire in freddure, distruggendo quel che l’arte ha di meglio. Giudico pertanto ch’egli ciò facesse a disegno, e non senza aver prima ponderato se così o altrimenti l’arte esigesse. Il sapere che gli Ebrei cenando giacevano sui letti al pari de’ Greci e de’ Romani, non è sì recondita erudizione, nè si lontana notizia che non dovesse giungere fino a lui che pur tante cose sapea bene, e modestamente solea chiedere altrui quelle che temea d’ignorare. Dunque è da credere ch’egli avrà benissimo saputo che gli apostoli stavano al convito in altra forma che quella da lui scelta, perchè generalmente nota e ricevuta; ma sapeva altresì che il pittore debbe rifiutare il pennello a quel vero che, per usurpare la frase del nostro poeta, ha faccia di menzogna, o che s’egli vorrà fare altrimenti, quantunque nel resto senza colpa, verrà biasimato.
Giova aggiungere che sebbene presso di noi non vi fossero, come già presso gli Egizj ed i Greci, delle leggi destinate a prescrivere alle arti imitatrici le forme degl’Iddii e i modi di rappresentare i principali misterj della religione; pure parte per la tradizione, parte per la venerata autorità delle antiche imitazioni, comechè arbitrarie, si è stampato a poco a poco nelle diverse imaginative degli uomini un idolo di tali cose si fattamente uniforme, che ogni idiota, senz’avere a lungo posto mente ad alcuno speciale ritratto o a storico qualsivoglia lavoro di disegno, riconosce a colpo d’occhio le fisionomie di Cristo, di Pietro, di Giovanni, e le imitazioni delle principali storie evangeliche o bibliche. Da ciò nasce di necessità che se l’imitatore non seconda nelle sue opere questo idolo volgare scolpito in tutte le fantasie, non potrà, anche bene operando, ottener buon effetto, perchè non sarà inteso dalla generalità; e quand’anche si avvicinasse di più al vero reale e storico, combattendo fuor di proposito quel vero icastico insieme ed ideale che l’autorità antica imprime profondamente nelle menti umane, sarà biasimato o tenuto in non cale. Così un oratore dottissimo che egregiamente concionasse, ma con parole note a pochi e con modi fuori dell’uso comune, in vece di commuovere l’assemblea, farebbe ridere o sbadigliare.
Nè dee recar meraviglia che questi due veri che abbiamo distinto, l’ideale e il reale, sieno spesso fra loro diversi, specialmente nelle cose che appartengono alla nostra religione. È anzi naturale che le sacre rappresentazioni, sebbene antiche, sieno sovente lontane dal vero modo nel quale avvennero i fatti rappresentati, perchè il cristianesimo essendo fondato sulle ruine dell’idolatria dei Gentili, non permise le imagini se non molto tardi e non senza gravi difficoltà di guerre e di persecuzioni. Ed essendosi in oltre assai più tardi permessa la scultura che la pittura (perchè furono costituite, per timore d’idolatria, delle strane differenze fra queste due arti sorelle, quantunque in fatto sieno un’arte sola), periti i più antichi e più fragili monumenti della pittura, quanto d’entrambe le arti ci rimane, è assai lontano dall’epoca de’ fatti imitati, ed appartiene per lo più a’ secoli della più crassa ignoranza e della barbarie. Come dunque pretendere che a que’ tempi in cui l’arte era caduta, si rappresentassero con verità di costume le storie della religione? ma, per altra parte, come poter impedire l’impressione naturale che tali monumenti doveano produrre in quelle rozze fantasie, mobili in tutto, ma per natura tenaci di ciò che alla religione appartiene? E intanto questa impressione, per cui nacque quell’idolo uniforme che più sopra, ho indicato, divenne necessariamente in appresso la maestra e la guida degli artefici, fossero o no partecipi del volgare pregiudizio. Da tale necessità venne notabilmente ritardato lo studio diretto della natura, solo perchè tale studio avrebbe condotto l’arte a rappresentazioni diverse da quelle che i più antichi monumenti e le tradizioni aveano impresse nelle menti degli uomini. Così quella stessa religione, per cui rinacquero e furono a lungo nutrite le arti d’imitazione, si opponeva stranamente alla loro perfezione e ne ritardò di qualche secolo il conseguimento presso gl’Italiani e presso i Greci, come pare lo impedisse del tutto presso gli Egizj.
Il preparare pertanto le fantasie volgari a notabili cangiamenti in fatto di religiose rappresentazioni, è opera di molte età. Giotto prima d’ogni altro, forse colla scorta del divino Dante che anch’egli per testimonio di Leonardo Bruni fu ottimo disegnatore, sentì la necessità d’imitare direttamente la natura e non gl’idoli fantastici che più o men male s’imitavano prima di lui dai maestri greci ed italiani. Ciò non ostante ei di poco si scostò dagli antecessori nelle sacre rappresentazioni; e se ardì talora scostarsene, spintovi dall’obbligo di variare cui era astretto dalla copia immensa delle opere e dalla rara fecondità del suo genio, ciò avvenne con poca sua lode e talora con rimprovero d’irreligiosa bizzarria. La sua scuola preparò quella degli Orcagna, poi altre di ricchi e lieti inventori per quel tempo. Ma l’assuefare le fantasie volgari a tollerare nelle tavole destinate al culto ed anche ad amare degli episodj bizzarri e piacevoli, è ben altro che istruirle intorno al costume e renderle esigenti in questa delicata parte della pittorica verità. La totale rivoluzione del modo di studiare e di vedere, per quanto spetta alla figura umana, doveva operarsi dal gran Masaccio, se la morte non l’avesse interrotto nel fiore dell’età e nel vigore delle sue prove; ed a quell’epoca egli già aveva non solamente fatto meravigliare i contemporanei, ma aveva lasciato di che far meravigliare i posteri, e quali posteri! Michelagnolo e Raffaello. Ma neppur egli istruì in questa parte; e Donato e il Ghiberti e il Lippi confermarono bensì con nuove opere mirabili l’eccellenza del nuovo metodo, ma il miglioramento dell’imitazione delle figure e delle passioni umane non portò nessun sostanziale cangiamento al modo già ricevuto di rappresentare le sacre istorie; e solo fu permesso ed applaudito l’arricchirle a capriccio senza cura nessuna del costume, e spesso con danno del carattere e del decoro. Che se fu d’uopo del corso di più secoli per condurre le arti del disegno alla retta imitazione de’ corpi umani e de’ loro accidenti, de’ quali era pur sempre presente il modello, è da credere che molto maggiore periodo dovesse essere necessario per condurle a rappresentare rettamente i fatti della storia lontanissimi di tempo, spesso male descritti, e intorno ai quali la comune opinione era pregiudicata da antichi, quantunque pessimi, pur venerati monumenti. Intanto la ricchezza, le scienze e la filosofia cominciavano a sostenere e ad istruir l’arte, in Toscana sotto il vecchio Cosmo, in Roma sotto i papi che la riedificavano, in Lombardia sotto gli ultimi Visconti e i primi Sforza. Ma in quell’aurora che spuntava dell’aureo secolo ch’era per nascere, e le scienze e la filosofia non attendevano che alle cose morali, civili e teologiche, e la erudizione che pure indagava già tutta l’antichità, trascurando per anche i dispersi e non abbastanza stimati monumenti dell’arte, non potè contribuire a correggere gli errori del volgo e degli artefici. Il pregiudizio intorno al costume, in vece d’esser tolto, fu rinforzato da opere eccellenti per gli altri lati dell’arte, e spesso si videro Omero, Aristotile e Virgilio col lucco fiorentino o in abito da dottori, e ciò, anzi che parere strano, si adattava all’opinione generale e la confermava. Tanto meno l’arte osava ancora di allontanarsi dai modi vecchi di rappresentare i misterj e le visioni, e rimasero a lungo sacre e quasi invariabili le attitudini delle Nostre Donne, de’ san Rocchi, de’ san Bastiani e degli altri eroi della religione che più comunemente si offrono all’adorazione de’ fedeli. Così, ad onta della varietà nelle parti accessorie, si videro quasi sempre le stesse disposizioni di figure ne’ Presepj, nelle sacre Famiglie, ne’ Cristi crocifissi o deposti, e nelle altre storie principali in quella età eseguite. Questo rispetto dell’arte al vero ideale del volgo fa sì che in tutte le antiche rappresentazioni trovasi quasi sempre un embrione delle composizioni susseguenti, soltanto arricchite di nuovi ornamenti ed artifizj; e per tal riguardo non sarà senza torto nostro ed ingiusto aggravio di quegli antichi maestri, l’accusarli di poca originalità d’invenzione, giacchè presso loro era un debito l’accomodarsi alla tenace universale opinione; come similmente non possiamo a ragione tacciarli d’introdurre sovente ritratti d’uomini viventi nelle sacre storie, perchè ciò veniva comandato da coloro che pagavano le opere. Ma finalmente apparve Andrea del Verocchio. Egli era filosofo e conosceva tutte le arti del disegno per ragionevoli teoriche e per abbastanza lodevole pratica. Egli il primo rinnovò l’arte inventata da quel Lisistrato statuario, fratello di Lisippo, quella, cioè, di formare i corpi vivi con cera o gesso, e contribuì anche per essa non poco a perfezionare l’imitazione, specialmente nelle cose di rilievo. Sì per lui come per gl’illustri ingegni che il precedettero, lo studio della natura s’era di già renduto generale in tutti i buoni maestri, ed erano derisi coloro che operavano di sola pratica seguendo il metodo antico, che trova sempre de’ fautori più ostinati, quanto più è lontano dalla ragione. Ma, ad onta di tutto questo, non si era per anco conosciuto il bisogno di rappresentare col disegno le cose, come l’erudizione insegnava ch’erano avvenute, e ciò era in parte riserbato alla nuova scuola, di cui Raffaello doveva essere il fondatore in Roma, dove l’abbondanza de’ pubblici antichi monumenti avea predisposte le fantasie a questa utile rivoluzione.
Intanto fino all’epoca di Leonardo non vi era monumento alcuno noto, in cui si rappresentassero antichi triclinj o lettisternj; e una figura sdrajata su di un letto per porsi a mangiare sarebbe stata non solo cosa strana e nuova, ma assolutamente ridicola. Al contrario, molte opere di disegno e specialmente di pittura rappresentavano cene sacre, e più sovente l’ultima di Cristo, ed in ciascheduna i convitati si vedevano assisi sopra panche o sgabelli, come vedesi nella Cena di Giotto a Santa Croce di Firenze, e nelle molte che si trovano miniate ne’ codici antichi, e sopra tutto nell’antico bassorilievo del duomo di Lodi, che non solo rappresenta gli apostoli sedenti, ma li mostra nella lunghezza della mensa tutti su di una linea al modo a un di presso come li dispose Leonardo.[32] In fine era opinione generale che a mensa si sedesse, e appena poteva esser notizia di pochi che si giacesse. Dunque, dopo tutto l’esposto, parmi evidente che sarebbe stata una vera stravaganza se Leonardo, per appagare una meschina erudizione e il freddo giudizio di pochissimi, avesse nella sua grand’opera posposto e sagrificato l’opinione universale, perdendo l’effetto dell’arte nelle parti primarie e più sacre dell’imitazione.
Nondimeno, ad onta di quanto ho forse troppo diffusamente addotto, sembrami sia bene che quegli uomini grandi i quali possono con diritto influire sulle opinioni volgari, si sforzino di cangiarle ove queste siano in contrasto colla verità. Ma nelle arti d’imitazione ciò non si dee fare che allorquando, coll’allontanarsi dal pensar comune, si giunge ad ottenere uno sviluppo più vantaggioso delle forze dell’arte nelle sue parti migliori.[33] Nel caso nostro poi avveniva appunto il contrario; perchè volendo Leonardo, come altrove vedemmo, commuover gli animi coll’imitazione delle passioni espresse per moti pronti e vivaci, se avesse dovuto far giacere le sue figure e farle rimanere cubito presso, come Orazio descrive tal positura, non avrebbe potuto dare ad esse nè prontezza nè espressione nè vita, o almeno sarebbe stato notabilmente impedito di ottenere il suo intento, e ciò per darsi a seguire una costumanza dismessa, ignota, e per la generalità ridicola ed incredibile. Si sarebbero in oltre vedute molte figure in iscorci stranissimi, come ne sono prova i pochi cenacoli così trattati, non escluso quello di Niccolò Possino; i quali scorci, a ragione disapprovati da Leonardo nel suo Trattato, sono spiacevoli sempre, ma sono tanto più ingrati e da fuggirsi in argomenti gravi e maestosi, ed in figure nelle quali si volevano imitare i sentimenti che Leonardo nella sua opera pose per segno alla sua mente ed alla sua mano. Se pertanto dietro tali principj egli abbia o no bene operato secondo la ragion pittorica e la filosofia, posponendo l’erudizione storica per seguire la volgare opinione, io ne lascio all’altrui discrezione il giudizio. Ciò che ho detto per la mensa e pel modo di starvi, può dirsi per tutti gli altri accessorj, ne’ quali ogni stravagante novità fu dal nostro autore sfuggita per non distrarre l’animo de’ suoi spettatori dall’oggetto principale.
E giacchè da lieve argomento ci siamo condotti a ragionare dell’obbligo che ha l’artefice di seguire le opinioni generali e volgari, piacemi aggiungere a tale proposizione alcune distinzioni ed osservazioni che gioveranno a dichiararla, e ultimamente l’esempio della poesia che la può confermare.
Ciò che chiamasi volgo che giudica delle arti d’imitazione, è un volgo diverso da quello che comunemente per tal nome si vuole indicare, e debb’essere diversa la sua influenza sulle arti, a norma de’ cangiamenti cui è soggetto secondo i tempi, i costumi e lo stato civile delle nazioni.
Deesi per un tal volgo giudice intendere la pluralità delle fantasie, per le quali operano specialmente le arti d’imitazione; ma questa pluralità non ha dritto di dar norma alle invenzioni degli artefici, se non dove esiste, oltre un felice temperamento nazionale, un sentimento, una cultura ed una educazione generale alle arti, come già in Grecia un tempo e in varie epoche fu in Italia.
Quanto più colte e meglio educate saranno le fantasie, migliorandosi dentro esse gl’idoli de’ tipi dell’imitazione, tanto più le arti progrediranno verso il bello.
Questo tipo è duplice, l’uno in natura, l’altro in idea. Il primo produce il secondo, e da ciò nascono i grandi errori intorno al costume nelle imitazioni di cose seguite in tempi diversi dai correnti. Da ciò nasce non meno la bontà delle opere tratte direttamente dai tipi naturali, come sono i ritratti de’ quali se ne veggono di eccellenti, anche allorquando l’arte è debole nell’imitazione del tipo ideale.
Oltre ciò le arti imitative sono senza dubbio opera della ragione; ma la ragione le giudica, non già secondo l’esecuzione de suoi precetti, ma secondo l’effetto che producono sulle fantasie.
Se i precetti bastassero per fare un opera bella, il poema del Trissino sarebbe migliore di quello dell’Ariosto. Da ciò si deduce che la scienza si deve dissimulare nell’imitazione, sia pittorica sia poetica, e che il far sentir l’arte è uno de’ più gravi difetti ne quali possa incorrere l’artista.
La cagione, per la quale l’imitazione non fa volentieri sentire la scienza, quantunque per sè bella ed utile, viene da quanto si è accennato, cioè perchè la scienza si rivolge alla ragione e non alla fantasia cui l’arte vuol sempre dirigersi. Perciò ogni artificio visibile o sensibile che di necessità risveglia il raziocinio, interrompendo la commozione della fantasia, diminuisce o perde del tutto l’effetto dell’imitazione. Così un pittore che faccia inopportunamente pompa, per esempio, di anatomia, o un poeta che faccia il logico o il metafisico, non trarrà onore alcuno dall’opera sua. E per la stessa ragione se Leonardo per lusso di affettata erudizione antiquaria avesse fatto i suoi apostoli a mensa sui letti, avrebbe minato l’opera e sarebbe stato generalmente biasimato.
Che se poi, il che è però rarissimo, talvolta avvenisse che una volgare opinione si opponesse talmente al vero ed al bello, che l’imitarla recasse pregiudizio all’arte, l’arte anzi che tenerne conto, dee fuggir l’occasione di farsene argomento.
È d’uopo in oltre osservare che quanto si è asserito circa il rispetto dovuto alla volgare opinione, risguarda soltanto l’arte quando tratta temi noti alla generalità o pure appartenenti a cose religiose. Negli altri casi il pittore può a suo piacere seguire le opinioni private o istruire con opinioni nuove nelle sue imitazioni, come fanno i poeti didascalici o d’altro genere diverso dall’eroico. Ma questo sarà sempre un grado minore dell’arte del disegno, la quale non è grande se non allorquando, come l’Epopea, si slancia con tutto il fasto delle sue invenzioni dentro i grandi argomenti della storia e della religione.
E che in sì fatti argomenti sia debito dell’artista imitatore di seguire il vero volgare, il prova, come accennai, l’esempio di tutti i grandi poeti. Prima di tutto non vi è gran poema che non sia stato scritto in volgare; che se Omero avesse scritto in cofto, Virgilio in greco, Dante in latino, come per disgrazia aveva cominciato, non so quale conto si sarebbe fatto de’ loro mirabili poemi, quantunque le stesse cose avesser detto che ora di loro si leggono. Dante anzi ed Omero non ebbero riguardo nelle loro opere di frammischiare alla lingua generale le voci e i modi de’ diversi volgari dialetti. Il Petrarca e il Boccaccio sono grandi nelle opere volgari che son tali per lingua e per têma, mediocri nelle latine; e lo stesso può dirsi di tanti altri di ogni nazione. In oltre tutti gli argomenti delle grandi opere poetiche sono o di storie volgari o di passioni generali o di cose di religione. E in esse è tale il rispetto alle opinioni del volgo, che Omero non ebbe riguardo di offendere la teologia per seguirle: Virgilio offese la storia:[34] Dante dispose le sue invenzioni sulle volgari credenze e sulla tradizione di varie visioni ed in ispecie su quella di frate Alberico. E da per tutto sono grandi e sublimi ove parlano alle fantasie e dipingono le passioni e gli affetti generalmente sentiti; e se v’ha luogo ove la lettura si raffreddi, particolarmente in Dante e più assai nel Petrarca, ciò avviene quando, sceverandosi dal volgo, fanno pompa di qualche scienza ed obbliano di vestirla d’imagini volgari, perdendo di vista il principio dell’arte che alle mobili fantasie, non alla fredda ragione, dirige la sua imitazione.
Queste cose, dalle quali si possono trarre molte utili conseguenze, avrebber d’uopo di più ordinata esposizione, di maggiore sviluppo, e in fine d’una diretta applicazione alle arti del disegno; ma perchè ciò ci allontanerebbe di troppo dal nostro argomento, basti il fin qui detto, e aggiunga ognuno per sè quanto la brevità mi costringe di omettere.

DEI DIFETTI DEL CENACOLO.

Abbiamo, per quanto ho saputo mostrare, ammirato il raro artifizio e le bellezze di quest’opera; l’amore del vero e dell’arte ci consiglia di dare un breve cenno anche sui difetti di che alcuni credettero accagionarla.
Ogni grande opera ne contiene, anzi, parlando in genere, i difetti sogliono venire riconosciuti più agevolmente che non le fine e squisite bellezze, le quali sfuggono gli occhi volgari, e sembrano, come le Dee della favola, non mostrarsi ignude se non a chi è degno di giudicarle. Si aggiunga che gl’ingegni veracemente buoni, che son fatti degni di tal vista, sono in picciolo numero in paragone di que’ mezzi ingegni, i quali, contro il costume deprimi, altro non fanno che indagare i difetti e porli altrui sott’occhio, e parlarne e scriverne, non già per istruire, ma per isciocca invidia, siccome esclusi dal godimento di parte migliore. Quindi non vi è opera, per degna ch’ella sia, che non abbia avuto detrattori, e che non abbia sostenuti talvolta paraggi vilissimi. Che se di questa del Vinci ciò non è avvenuto che per piccola parte, essa dee tal ventura all’antica ammirazione in cui lo straordinario suo merito la pose, dalla quale furono a lungo disanimate l’invidia e la censura.
Io non intendo pertanto qui ragionare di que’ difetti di esecuzione che possono avere contribuito al suo pronto decadimento; nè sarebbe possibile di parlare di ciò che risguarda l’effetto, il colorito ed altre parti che non si possono, siccome perdute, giudicare. È d’uopo dunque limitarsi a riferire ciò che si dice intorno a quelle cose che ancora si ponno esaminare, nè molto io aggiungerò in difesa dell’autore, temendo io stesso accusa di parzialità. Ma anche nelle cose che si serbarono al nostro esame, si dee procedere con qualche cautela perchè le arti del disegno hanno modi e vesti a norma de’ costumi e de’ tempi, secondo i quali debbono essere giudicate. È anche bene considerare le qualità, le circostanze e le passioni de giudici, e pesar queste secondo la scienza e la verità, senza di che i giudizj sono cattivi o vani. Notisi in fine che avviene alle arti del disegno ciò che alle lingue, cioè che molte cose divennero difetti per noi, che tali non furono per gli antichi.
Ciò posto, ognun vede che a difetti di tal ultimo genere riguarda l’accusa che già riportammo, data a Leonardo perchè trascurò la costumanza de’ letti; accusa prima accennata dal Fréart, indi dal Lazzarini e dal Rogers, di poi ripetuta da altri e che tuttavia si ripete leggermente. Lo stesso può dirsi de’ censori di Leonardo per le forme de’ bicchieri, de’ piattelli e d’altre inezie, intorno alle quali egli, come già notai, volle piuttosto seguire le opinioni volgari che distrarre i giudizi dalle parti più gravi ed importanti dell’opera. Secondo tali zelatori di pedantesche erudizioni, bisognerebbe vestire il Laocoonte di abiti sacerdotali, e dare alle imagini di Cesare le maniche lunghe, che Svetonio assicura che solesse egli portare alla maniera de’ Frigi dai quali affettava di discendere. Che direbbero eglino del povero Raffaello che diede nel suo Parnaso un violino ad Apollo, e ciò che è peggio, un amanuense ad Omero?
Ma ben più grave è l’accusa fatta da alcuni a Leonardo per aver collocati tutti su di una linea i suoi apostoli, in che, se l’arte è ajutata, sembra offesa la verisimiglianza. Forse ebbe egli, oltre le ragioni dell’arte e dell’uso, qualche altra ragione a noi ignota o qualche autorità scritta che non ci è pervenuta; e ne dà indizio il citato bassorilievo di Lodi, il cenacolo del Ghirlandajo e quelli che in parte imitarono dal nostro, Andrea del Sarto e Raffaello.
Offende anche la ragione il vedere questa stessa lunghissima linea posta in senso contrario della lunghezza della sala; intorno a che si disse qualche cosa, ove si trattò del luogo dell’azione.
V’ha anche cui non piace di vedere undici figure dimezzate dalla mensa orizzontalmente: altri le trova collocate l’una troppo presso dell’altra.
Osservammo più sopra la mano dell’apostolo Tommaso, la quale imbrogliò a segno le fantasie, che, congiunta a porzione d’una mano vicina, se ne compose, da chi ridipinse l’opera, un’altra ridicola e mostruosa mano di sei dita…
Vi fu ancora chi trovò troppo simmetrica la distribuzione delle figure che sembrano a primo aspetto comporre de’ gruppi uniformi e ciascheduno di tre personaggi.
Nè mancò chi avrebbe voluto la storia rappresentata a lume di notte; del quale avviso fu il Fréart, perchè così la fece il suo Possino. Ma il vangelo la dice avvenuta a vespro, cioè nell’ora che precede la sera; e a quest’ora volentieri si attenne Leonardo, siccome opportunissima alla forza insieme ed alla dolcezza delle ombre, con evidente analogia al suo sistema in questa difficile e per lui importantissima parte della pittura.
Venne in mente anche a taluno che il momento rappresentato da Leonardo eccedesse d’alquanto i confini dell’arte, secondo le strette teoriche ora diventate comuni per l’ingegnoso libro del Lessing. Ma sebbene tutto il movimento degli attori del quadro dipenda dalle parole pronunciate da Cristo, che la pittura non ripete, queste parole sono sì generalmente note che pajono meritare un’eccezione di favore dai più rigorosi.
Finalmente, come dal De Brosses si dissero bruttissimi i visi degli apostoli, da altri si trovarono le teste esagerate nelle strane lunghezze de’ nasi, nell’aggetto de’ menti, negli archi delle labbra e delle ciglia; ma tal cose furono dette o sull’originale pessimamente ridipinto o sulle copie o sulle stampe.
Se però le censure qui esposte e quelle che altri sia per aggiungere, possano essere di forza da offendere la fama di quest’opera, lo lascio all’esame de’ sani critici: solo non so preterire di osservare che tutti questi difetti furono nel Cenacolo notati, allorchè, fatto cadavere dal tempo e dalla incuria degli uomini, era svanita in esso la prima eccellenza e poca parte mantenea dell’antico inarrivabile artifizio, al cui splendore anche le piccole macchie di che per avventura si può accusare, sarebbero sfuggite all’occhio del più gelido osservatore.
E per dar fine, assai acconciamente, a mio credere, chiedeva Longino[35] all’amico Terenziano, se ad onta degli errori o difetti che i critici riconosceano in Omero, in Archiloco, in Pindaro ed in Sofocle, avrebbe egli voluto piuttosto essere uno di questi o pure essere Teocrito per le Buccoliche, o Apollonio, o Eratòstene, o Jone Chio, ne’ quali autori la critica non trovava menda. Se Terenziano aveva buon senso, è facile l’indovinare la sua risposta; e ciò che dicesi degli scrittori, dee ripetersi degli artefici del disegno. Il compasso del freddo critico trova nell’Apollo di Belvedere una gamba più lunga dell’altra, nel Laocoonte un’orecchia fuor di luogo; gli occhi storti ne’ mirabili colossi del Quirinale: il vero artefice e l’osservatore che sa vedere e sentire, all’aspetto di questi testimonj dell’eccellenza della umana industria si commuove ed ammira, ed esclama nell’ardore dell’entusiasmo: Questi divini ingegni si elevarono sopra gli uomini colla sublimità de’ loro concetti, e fu utile consiglio che non si curassero di tôrre dalle loro opere le imperfezioni sfuggitevi nell’impeto di quelle nuove creazioni: per tal modo la posterità, mentre non cessa d’ammirarli, non dee disperarsi di poterli imitare, fatta certa ch’eglino erano uomini al pari degli altri, e che solo agli altri soprastavano coll’altezza della mente e colla meravigliosa nobiltà dell’artificio.

FINE DEL LIBRO SECONDO.





[1] L’Amoretti sulla fede, cred’io, del Bottari, dice che l’Armenini scrisse esser la testa del Salvatore finitissima; ma io non ho trovato tal cosa nell’Armenini, e quand’anche vi fosse, la di lui autorità sarebbe sempre inferiore a quella del Lomazzo e del Vasari. In oltre giova ripetere ciò che si è detto in fine dell’articolo del Richardson, cioè che la testa del Salvatore sarà stata forse finamente condotta al pari delle altre, ma la sua imperfezione, secondo la mente del Vinci, avrà consistito nel mancarvi certi tratti caratteristici, circa i quali la mano rimase al di sotto dell’idea.
[2] In Firenze il mirabile abbozzo dell’adorazione dei Magi, in Parigi la tavola della sant’Anna colla Vergine in grembo, in Milano nella galleria arcivescovile una Vergine col bambino, ecc.
[3] Pretende il Lessing che fosse comune uso delle persone che assistevano ai sacrifizj, il coprirsi il volto: con che svanirebbe l’ammirata invenzione di Timante. Ma l’autorità di Plinio debbe prevalere a quella del Lessing il quale confuse probabilmente il costume di velarsi il capo con quello di coprirsi il volto.
[4] Male il Bianconi, e dietro lui il Lanzi e qualche altro scrittore, disse che il san Giovanni è svenuto.
[5] Trattato, libro VI, cap. LIII, pag. 447.
[6] A conferma di questo veggasi il cap. CCXLV del Trattato di Leonardo, in cui sono mirabili principj.
[7] Lungo sarebbe il raccogliere le moltiplici sinistre interpretazioni che si davano e si danno all’accidentale o volontario rovesciarsi del sale a mensa. Quella però che più d’ogni altra fa al caso nostro, è la indicata da Ilario Mazzolari nella sua descrizione del Cenacolo, che leggemmo a carte 5c.
[8] Veggasi il Vasari nella Vita di Giovanni da Udine.
[9] In Marcum, cap. 14.
[10] Lib. 3. Advers. Pelag., cap. 2.
[11] Giraldi, Vasari, Armenini ed altri.
[12] Revel. lib. 4, cap. 99. Filius meus, dice Maria Vergine a santa Brigida, appropinquante Juda traditore suo, inclinavit se ad eum, quia Juda brevis statura erat.
[13] È anche degna osservazione e non lontana dal nostro proposito quella di Franco Sacchetti il quale dice aver Dante messo in bocca degli spiriti le parole di biasimo o di accusa, piacendosi di parlare in persona propria, allorchè può lodare; o pure quando può riprender tali ch’era onorevol cosa il riprendere, come le città di Firenze e di Pisa nell’Inferno, l’imperatore Alberto e l’Italia nel Purgatorio, ecc.
[14] Vincenzo Bandello nacque l’anno 1435 in Bologna.
[15] Il non nominarsi anzi dagli storici il priore, potrebbe far credere che quello de’ priori che Leonardo minacciò di ritrarre nel suo Giuda, fu uomo senza fama e ch’era inutile il nominare; il che non sarebbe avvenuto trattandosi del padre Vincenzo Bandello.
[16] È osservabile che Girolamo Vida nella sua Cristiade, vedesse o non vedesse la pittura del Vinci, diede al suo san Pietro un atto simile a quello datogli dal nostro pittore, facendolo, cioè, parlare ed allo stesso tempo sguainare la spada:
Sic ait, et pariter vagina liberat ensem.
Veggasi il libro secondo del detto poema.
[17] Non v’ha dubbio, (dice il Gallarati) che Didimus in Greco significa lo stesso che Tomas in Ebraico, cioè gemello. Donde il nostro Apostolo traesse un co tal nome, non è facile il decidere con sicurezza; con tutto ciò sapendo ognuno essere stata usanza degli Ebrei di dare talvolta i nomi ai loro figliuoli secondo le circostanze del loro nascimento, non andrebbe lungi dal vero chi pensasse essere stato il suddetto discepolo così chiamato, perchè di fatto nascesse gemello dall’utero della sua genitrice. Ma ben diversa dovea esser l’opinione del volgo intorno a questo fatto a’ tempi di Leonardo da Vinci, poichè credevasi forse allora in virtù d’una oscura e popolar tradizione, che Tommaso avesse sortito dalla natura un doppio dito anulare nella mano del sinistro braccio, e che per questa cagione fosse cognominato doppio o gemello. Servissi però il nostro professore di un segno materiale e sensibile qual era questo di rappresentarlo con un dito di più nella sinistra mano, come ivi si scorge, non già perchè egli non conoscesse la falsità della suddetta opinione, mentre egli era troppo erudito, ma solo il fece per contraddistinguere il nostro apostolo, e quasi direi segnarlo a dito agli occhi de’ risguardanti, come hanno fatto molti altri illustri dipintori, fra’ quali Michelangiolo Bonarroti nel Giudizio Universale, il eguale fecevi il S. Bartolommeo colla pelle sulle spalle, e ’l S. Lorenzo colla graticciuola in mano: Raffaelle, il qual dipinse l’adorazione del Sacramento, li Santi Pietro e Paolo l’uno colle chiavi e l’altro colla spada in mano, e varj altri che qui non giova nominare. E quivi io non voglio entrare in un nojoso esame su di ciò che da qualcheduno mi e stato opposto, se sia pentimento del dipintore, o siasi smarrita, e poscia ritoccata falsamente quella mano. Perocchè a me basta l’aver detto quel che mi pare, e di aver confermato col fatto quel che fin d’allora ho io veduto coi miei proprj occhi, lasciando però volontieri ad ognuno il decidere come più gli torni in grado.
Si giudichi da questa nota come stava a critica il padre Gallarati.
[18] Libro 8.°
[19] In cap. X. Matth.
[20] Debbo questo disegno alla gentilezza ed amicizia del chiarissimo cav. Appiani, come parimente all’amicizia e gentilezza dell’egregio cav. Longhi ne debbo la bella incisione. L’originale è eseguito in una carta alquanto azzurrina collo stile d’argento. La testa è alquanto mancante nel cranio, contro il costume di Leonardo; ma si vede che non volle in essa far altro studio se non dell’espressione, rinnovandone probabilmente altri studj per le altro parti.
[21] Il Rubens in più sue opere distinse l’apostolo Tommaso col dargli una lancia: il Durero ed altri gli danno un coltello.
[22] È osservabile che la descrizione che il Klopstock ci lasciò degli apostoli, si accorda in gran parte colla maniera nella quale ce li rappresentò Leonardo, Solo tenne altro modo nel suo Giuda, come vedemmo, ed in Lebbeo ch’egli fece giovine assai, mentre il Vinci il rappresentò attempato e canuto. Circa l’apostolo Lebbeo, non so da quale autorità o ragione fosse mosso il Klopstock per rappresentarlo in età giovanile e sì diverso da Simone. Circa il Giuda poi, leggasi il suo Ragionamento intorno alla Poesia Sacra, nel quale ei pretende che nulla in tal genere di poesia si debba ammettere che non sia vestito di certa dignità e decoro ch’ei chiama solenne. Del resto, dic’egli, questa dignità vuol farsi sentire eziandio ne’ più bassi personaggi del Poema Sacro. Ecco perchè egli abbellì il suo Iscariote. Ma tali precetti non possono nè sempre nè in tutto esser comuni alla pittura.
[23] Varj de’ filosofi antichi davano all’uomo due anime, collocandone una nel cuore per sentire, e l’altra nel cervello per intendere e pensare.
Circa lo star l’anima nel cuore veggasi il Vico nel suo libretto De antiquissima Italorum Sapientia, ecc. Intender col cuore si legge in Isaia al capo 6, e altrove nella Scrittura. Anche Dante sembra porre l’anima nel cuore o nel sangue (al cui moto il cuore è centro) con que’ versi posti in bocca di Jacopo del Cassero da Fano, anzi dell’anima sua:
…………………ma gli profondi fori,
Ond’uscì ’l sangue in sul qual io sedea,
Fatti mi furo, ecc.
Così in quegli altri pronunciati dalla testa di Bertrando dal Bornio, staccata dal busto e sostenuta con mano a guisa di lanterna:
Perch’ i’ partii così giunte persone,
Partito porto il mi’ cerebro lasso
Dal su’ principio ch’è in questo troncone.
Ma più chiaramente, parlando egli stesso alla sua bella Bolognese:
Io maladico il dì che vidi in prima
La luce de’ vostri occhi traditori,
E il punto in cui veniste in su la cima
Del core a trarne l’anima di fuori.
[24] Chi osserverà nel cenacolo di Raffaello inciso da Marcantonio, quanto quell’apostolo che rivolge le spalle alle spalle di Giovanni, divida il gruppo e l’attenzione di chi guarda, per aver le mani nella stessa direzione della testa, riconoscerà più chiaramente con qual fino giudizio abbia Leonardo atteggiato il suo Matteo.
[25] Hier. in Ep. ad Gal. cap. 4. Ob insignem zeli in se virtutem etiam Zelotis nomen accepit.
[26] Hist. Eccl. lib. I, cap. 13.
[27] Messiade, Canto terzo.
[28] Per più facilmente ritenere a memoria i nomi degli apostoli e l’interpretazione degli atti di ciascheduno, mi sforzai di stringere il tutto in un sonetto. È singolare combinazione che i versi che mi accadde di citare in questi libri, siano per la massima parte mediocri o cattivi. Ciò però non mi avrebbe dato sufficiente coraggio di esporre questi che riconosco mediocrissimi, se non mi vi avesse indotto una elegante traduzione latina di cui, quali ch’essi siano, li fece degni don Natale Rosnati.
Ai dodici ch’elesse, ammi a tradire,
Disse Cristo, un di voi. Jacob d’orrore
Freme; e a Giovan cui fiede alto dolore,
Pier chiede irato il reo, pronto a ferire.
Giuda a lui presso arretrasi, e l’ardire
Misto in lui scorgi a la viltà del core:
Qui vendetta giurar Didimo, e amore
Giurar Filippo ti par quasi udire.
Là stupe e tace Andrea: d’udir mal crede
Natanaello: a Pier Jacob d’Alfeo
Cerca il motto onde a Levi altri ha qui fede,
Dubbia Simon: sospetta il buon Lebbeo:
Cristo sol grave e mite al duol non cede.
Tanto pel Vinci arte e color poteo.
[29] Cap. 141 ed altrove.
[30] Pag. 404.
[31] Veggasi la dissertazione di questo autore sulla Invenzione Pittorica, nella Raccolta Calogeriana al tomo secondo, e nel primo delle sue Opere pubblicate in Pesaro nel 1806 per cura dell’eruditissimo signor Antaldo Antaldi, da cui aspetta la repubblica delle lettere una nuova edizione di Catullo con traduzione, commenti e molte rettificazioni di testo.
[32] Nel duomo di Lodi, a sinistra di chi entra, vedesi infisso nella parete un antico basso rilievo rappresentante l’ultima cena di Cristo. È d’un solo pezzo di marmo alto un braccio e largo circa cinque. Gli apostoli vi stanno disposti tutti su di una linea, sei per banda del Salvatore. Al di sopra del basso rilievo leggesi la seguente iscrizione:
CORTUS APOSTOLORUM LAUDE POMPEJA DIRUTA
HUC AD HANC NOVAM TRANSLAT: MCLXIII NONIS NOVEMBRIS.
Il lavoro del marmo è sufficientemente diligente per l’epoca barbara cui l’opera appartiene. Gli occhi di ogni figura sono di vetro bianco e azzurro. Vi sono molti ornamenti ne’ panni, e molti utensili sulla mensa. È strano l’osservarvisi certe mezze fette di frutti, che anche Leonardo pose sovra varj piattelli nel suo Cenacolo. Poco fra loro distinguonsi gli apostoli d’atti e di volto. Sei d’essi portano al petto la mano sinistra oziosamente, se pur l’artefice non intese di esprimere il numquid ego? del Vangelo. Altri tengono de’ coltelli, e stanno in atto di tagliare non saprei dire se pane o altro commestibile. Giovanni dorme in seno di Cristo, ma alla sua sinistra, che alcuni antichi tennero per la parte più nobile e più atta, come residenza del cuore, ad indicare predilezione. Cristo è in atto di dare a Giuda un pezzo di pane; ma non lo guarda in volto, il che, sebbene l’ignoranza dei tempi in cui fu eseguita l’opera, può far sospettare che sia stato fatto a caso, pure non lascia di avere una certa espressione, della quale un artefice accorto potrebbe con successo approfittare. Giuda mostra sorpresa e si distingue dagli altri non solo per l’atto di Cristo e pel proprio, ma anche per la caricatura della fisonomia assai differente dalle altre, che tutte fra loro si somigliano. Distinguerebbesi anche dal non avere come gli altri tutti il capo adorno dell’aureola, la quale nel Cristo è maggiore, e con tre raggi in forma di croce, allusivi forse alla sua morte o alla Trinità. Le aureole sono tutte dorate. Nel piatto posto davanti a Cristo v’è un agnelletto intero: per ognuno de’ lati ve n’è un quarto. L’antichità e la singolarità di questo monumento sono cagione che sì a lungo io il descriva, e sebbene l’arte non v’abbia di che imparare, vi troverà qualche utile osservazione la critica e l’erudizione. Nelle Memorie di alcuni uomini illustri della città di Lodi, pubblicate dal Molossi, ve n’ha una stampa, ma è sì male eseguita che non si ha per essa che una inesattissima idea dell’originale.
[33] Così fecero gli autori del gruppo del Laocoonte. Se pertanto è talvolta lecito all’artefice il lasciare la verità storica e la volgare opinione onde trarre miglior partito dall’arte, tanto più sarà lecito l’accomodarsi alle idee del volgo, allorchè queste si prestano meglio ai mezzi dell’arte, come nel caso di Leonardo.
[34] Il chiarissimo abate Andres in una dissertazione impressa in Mantova provò che al tempo di Virgilio gli amori di Didone con Enea erano generalmente creduti dal volgo romano.
[35] Sez. 33.




Per scaricare il file in formato PDF:
Visualizza il mio profilo completo > Informazioni > Link

Nessun commento:

Posta un commento