LIBRO SECONDO.
DESCRIZIONE GENERALE.
In quelle arti
nelle quali talora ha parte il caso o la varia estranea cooperazione di persone
o di cose, come sono la guerra, la nautica o simili, male dall’evento felice di
una sola operazione si giudicherebbe del valore dell’operante; ed i filosofi, accordandosi
a conceder vita alla fortuna in soccorso di quelle facoltà, non danno stabile
fama di grandi se non a coloro i quali a lungo e in molte diverse occasioni
confermano coll’opera il loro sapere. Ma nelle arti d’imitazione ed in ispecie
nel disegno ed in argomenti come quello di che parliamo, complicati per numero
di figure, per varietà d’affetti o per altre circostanze, il buon esito anche
di una sola opera è una giusta misura del sapere dell’autore, e da tal esito si
dee giudicare la profondità delle ricerche e degli studj che alla meta proposta
il condussero. Quante e quali pertanto fossero le indagini di Leonardo, fra
tutti gli artefici ingegnosissimo, intorno al suo Cenacolo, si può a buon
titolo dedurre dalla riuscita ch’ei n’ottenne, e dalla meraviglia che
quest’opera potè eccitare nel secolo migliore dell’arte, non che dal primato
ch’essa ha mantenuto fino a noi per tre secoli consecutivi, sostenendolo anche
allorquando la pittura si allontanò da que’ severi principj ai quali doveva
l’antica sua gloria e perfezione. Mi verrà perciò, spero, perdonato, se tratto
dall’abbondanza della materia, mi dilungherò forse talvolta oltre il limite
conveniente al tema propostomi, e sembrerò qua e là deviare dall’oggetto
diretto della mia descrizione, per meglio internarmi dentro le intenzioni e gli
studj dell’autore. Le minute osservazioni delle quali una tanta opera porgerà
occasione, non saranno inutili alla ricerca del bello ed al progresso della
vera arte di vedere.
Venendo
adunque al proposito nostro, dico che il convento delle Grazie, cui Leonardo
che tanta fama, fu poveramente incominciato al tempo di Francesco Sforza nel
1464; ed il refettorio che suol essere sempre la parte più vasta ed ornata di
ogni convento, essendo già stato intrapreso meno meschinamente, fu allungato
nel 1481 a sessanta braccia sopra la larghezza che di braccia quindici fu ad
esso probabilmente da principio stabilita. Una delle teste di questo refettorio
fu data a dipingere a Leonardo; e o per iscelta del pittore o per comando di chi
commise l’opera, ne fu argomento l’ultima Cena di Cristo cogli apostoli. È da
credere che Leonardo abbracciasse con trasporto una sì bella occasione di
mettere in pratica le profonde speculazioni da lui fatte sull’arte della
pittura, e di mostrarsi capace di fare in essa, non meno che in altre arti,
meglio di ogni suo competitore qual si fosse, come egli stesso non temea
d’asserire. Egli è certo che tanto studio ei pose in comporre quest’opera,
tanta diligenza in eseguirla, che allorquando la scoperse, provò di quanto si
poteva estendere il confine dell’arte, e ne cangiò affatto l’aspetto,
spingendola a tal colmo che d’allora in poi non salì a maggiore.
Lo
spazio destinatogli prendeva tutta la larghezza del refettorio, e tanta parte
dell’altezza della parete, che l’opera riusciva alta la metà circa della sua
larghezza. Egli adattò perfettamente la sua composizione a tal campo, ponendo
per traverso una gran mensa alla quale fe’ seder Cristo nel mezzo e sei per
banda gli apostoli, collocando gli ultimi a seder di profilo. Le figure sono la
metà circa maggiori del naturale, quali appunto convenivano al luogo che può
ammettere spettatori fino a sessanta braccia di distanza. Converrà nominarle ad
una ad una, acciocchè si vegga con quanta finezza d’artificio Leonardo
contrapponendo i caratteri, alternando le fisionomie e le età, variando gli
affetti, le attitudini, i costumi, seppe comporre un tutto sì vario a un tempo
e si equilibrato ed armonico, che più quest’opera si contempla, più occupa la
mente e più riempie l’animo di meraviglia e di diletto. Nè si creda che a
capriccio o a congetture, come altri fecero, io proceda nella mia nomenclatura:
essa ha l’appoggio dell’autorità in un’antica copia che descriverassi in
appresso, sotto la eguale da sincrona iscrizione veniamo assicurati del nome di
ciascheduno degli attori del quadro.
Quel
primo adunque alla sinistra dello spettatore che, appoggiandosi alla mensa, si
alza onde meglio udire le parole del Maestro, è l’apostolo Bartolommeo: lo
segue Giacomo il minore che, appoggiando la destra alla spalla del vicino,
tende la sinistra in atto di chiedere informazione delle parole pronunciate da
Cristo. Il terzo è Andrea che apre le mani in atto di stupore. Il quarto è
Pietro che, oltrepassando Giuda, chiede a Giovanni l’autore della congiura. Non
si può non riconoscere Giuda e Giovanni, col quale termina il gruppo alla
destra del Salvatore. Alla sua sinistra il primo che apre le braccia in atto
misto di orrore e di meraviglia, è Giacomo, fratello di Giovanni. L’altro che alza
il dito, quasi minacciando il traditore, è Tommaso. Il terzo che ponsi le mani
al petto, è Filippo. Quel giovine che volgesi in atto di confermare quanto udì
dal Maestro, è Matteo. Taddeo è il quinto; l’ultimo è Simone.
Quanto
finalmente esprimesse Leonardo il vario carattere di ciascheduna figura,
seguendo la storia e la circostanza, sarà prezzo dell’opera l’esaminarlo
partitamente, cominciando dalla figura principale. Un tale esame che porta seco
di sua natura l’analisi dell’opera, potrà anche servire a confermare questa
nuova nomenclatura, ove sia in contrasto coll’altrui opinione.
CRISTO.
Se
in ogni parte del nostro quadro si manifesta la profondità del sapere di
Leonardo, parmi in singolar modo esigere ammirazione nella figura del
Salvatore. In essa può dirsi posto l’argomento di tutta l’opera, e l’autore la
collocò in maniera, ch’essa vi chiede i primi sguardi; e poichè avrete scorse
le altre parti tutte del quadro, è di necessità che su di essa torniate
coll’occhio, il quale da essa non sembra potersi staccare senza una specie di
sforzo.
Il
collo nobilmente elevato col capo inclinato lievemente a sinistra, gli occhi
con modestia e gravità abbassati, la bocca semiaperta quale di chi finisce
appena di parlare, una moderata commozione de’ muscoli della fronte, l’apertura
delle braccia, le gambe raccolte, tutto in fine il complesso della semplice a
un tempo e artificiosa attitudine annunzia un contegno, un sentimento, un
pensiero, un affetto così proprio ed individuo alla persona ed alla
circostanza, che in vano si cerca fra le altre famose opere dell’arte una più
vera e più grande imitazione dell’Uomo Dio in una sì singolare situazione
morale.
Ma
questa stessa situazione è frutto dell’ingegno sublime del pittore filosofo.
Tutte le rappresentazioni di questo passo della storia evangelica che
precedettero questa di Leonardo, non ottennero mai un effetto intero ed
universale, perchè gli autori di quelle, non penetrando abbastanza
profondamente addentro nell’argomento, non conobbero la vera fonte degli affetti
che da esso potevansi derivare, e pare che non avessero in vista altra
imitazione che quella di una religiosa cerimonia, o al più della istituzione
d’un sacramento. L’esame che col mezzo delle stampe ognuno può fare sopra i più
celebri cenacoli, porrà in chiaro quanto qui accenno di passaggio; e ciò che
debba far più meraviglia, questa mia asserzione non solo si verifica delle
opere dello stesso argomento, che prima della nostra furono eseguite, ma anche
di quelle che le vennero appresso, i cui autori avrebbero potuto approfittare
della scorta d’un esempio così luminoso.
Il
vangelo aveva narrato a tutti i pittori anteriori a Leonardo, che Cristo,
radunati i suoi eletti, aveva detto che uno di loro Io tradirebbe. La
conseguenza di tali terribili parole egualmente dal vangelo descritte,
presentava uno sviluppo felice di tutte quelle passioni, la cui imitazione
forma il pregio principale dell’arte. E pure chi prese di mira la frazione del
pane; chi la benedizione del vino; chi la distribuzione dell’uno o dell’altro,
situazioni tutte egualmente consacrate dalla storia e dalla religione, ma non
atte certo a destare passioni nè varie nè forti, e quindi per loro natura di
effetto debole e monotono, tanto più in una scena ove, come in questa, è grande
il numero degli attori principali. Il vero punto altamente degno dell’arte era
ancora intatto, allorchè venne il pittore de costumi, il vero Aristide
italiano, il divino Leonardo che non si accontentò, come i suoi antecessori,
del tributo degli animi religiosi o degli occhi che si appagano di una
seducente superficiale imitazione; ma volle a sè gli animi di tutti gli uomini
capaci di sentire, di ogni tempo e di ogni religione; volle a sè tutt’i cuori
cui non è ignota l’amicizia e l’orrore del tradimento. Egli ponderò colla
scorta della filosofia di quanto e quale aumento tali sentimenti fossero capaci
per rispetto al suo principale personaggio, cioè all’Uomo Dio; ma compose in
tal modo l’opera sua, che, astraendo anche la divinità del protagonista, rimane
ancora tanto d’importanza generale al soggetto, che nulla vi sagrifica l’arte
alle private opinioni o alle cerimonie religiose, non eterne e non generali
come i sentimenti umani.
Cristo
aveva già annunziato ai suoi amici ch’egli era venuto al mondo per dare il suo
sangue a comun salvamento: aveva già detto che per poco sarebbe stato con essi:
raduna i dodici più eletti e fedeli, quelli che, paragonando sè stesso ad una
vite, chiamava suoi palmiti, quelli ai quali aveva commessa la riforma del
mondo, ai quali preparava dodici troni nel cielo; siede con essi a mensa
solenne, ed annunzia ch’un d’essi è il traditore che lo consegnerà ai suoi
nemici e alla morte. Chiunque non comprende quale debba essere il turbamento di
ogni cuore a simile annunzio, non solo sarà affatto insensibile alle arti
d’imitazione, ma debbe aver chiuso l’animo ad ogni virtuoso sentimento. A
questo momento pertanto, sfuggito a tutti gli artefici che precedettero
Leonardo, appoggiò egli la sua composizione, e si propose d’imitare l’effetto
delle parole di Cristo negli undici amici e nel traditore. La diversità delle
indoli, delle età e de’ caratteri di ciascheduno, affidata per quanto potè alla
storia, fece base all’infinita prodigiosa varietà che in quest’opera Leonardo
introdusse, vincendo con arte la più fina il monotono argomento di tredici
figure tutte virili. E mentre l’ira, l’amore, il desiderio della vendetta, il
dolore, le proteste di fedeltà, lo stupore, l’orrore, il sospetto, e tutti in
fine quegli affetti che dovevano avere movimento dalle parole del protagonista,
preparavano all’ingegno imitatore di Leonardo una varietà infinita di
espressioni e di attitudini; questi stessi affetti raccolti attorno ad un
movente universale e nati da una stessa origine, sebbene diversamente
modificati a seconda dell’animo di ciascheduno, preparavano all’opera una non
meno singolare e meravigliosa unità.
Pieno
Leonardo la mente di questa morale situazione de’ suoi tredici interlocutori,
li dispose come di sopra accennai brevemente. I pochi e deboli tratti coi quali
in appresso descrissi la figura del Salvatore, sono certamente insufficienti a
darne idea a chi non vide o l’originale o qualche copia ragionevole: ma in vano
spererei di darne con parole un idea migliore, tanto fine e moltiplici sono le
degradazioni degli affetti, la cui mistura prese Leonardo a rappresentare in
questa figura con singolare cimento dell’arte e dell’ingegno, ma con esito
veramente unico e mirabile. Lasciando dunque questa parte del pittorico
artificio, che si può assai meglio sentire che esprimere, parlerò alquanto
delle altre avvertenze dell’autore, che contribuiscono ad accrescere in questa
figura la maestà e l’espressione.
Un
ricco panneggiamento, composto di una tunica talare e di un vasto pallio,
l’adorna con pieghe semplici e grandiose, le cui linee si accordano con
aggradevole contrasto alternando le direzioni. La tunica è a maniche
larghissime, ed al petto si raccoglie sotto la fimbria o scollatura in pieghe
minori e più fine, delle quali si fa maggiore e più stretto gruppo nel mezzo,
dove una gran gemma adorna la fimbria. Al di sopra di questa apparisce parte dell’interula o indusio che pure si scorge uscire alquanto presso le mani. Il
pallio attraversa la figura con pieghe larghe e molli dalla spalla sinistra al
fianco destro, e scende ricco ai piedi, coprendo le ginocchia e in parte le
gambe. I colori sono i soliti che dannosi alle imagini del Salvatore, cioè
azzurro è il manto, rossa la tunica. I piedi sono, tranne le dita, coperti da
sandali, e sono posti parallelamente, l’uno di poco più avanti dell’altro,
attitudine semplicissima che aggiunge decoro, e che fu imitata, sebbene con
poco accordo col rimanente, da Tiziano nella sua Cena d’Emaus, e da Gaudenzio
Ferrari nel quadro che ancora vedesi nella nostra chiesa della Passione. Di
alcune cose che riguardano l’atto delle mani, avrò occasione di parlare
allorchè darò ragguaglio della mia copia.
Sarebbe
qui luogo d’indagare se Leonardo perfezionasse o no la testa del Salvatore; ma
non è grave rischio di sana critica l’abbandonarsi piuttosto all’autorità del
Vasari e del Lomazzo, che assicurano che Leonardo lasciolla imperfetta, anzi
che credere il contrario a chi ne sapea troppo meno di loro per arte e per
giudizio, e vide l’opera o del tutto guasta, o in tempi ai nostri vicini, quindi
ricoperta dai ritocchi, come sono il Richardson, il Monti, il Della Valle ed
altri.[1]
L’autorità poi di que’ primi viene confermata dal costume di Leonardo che non
finì alcuna delle opere sue, non sapendone staccare la mano per desiderio di
perfezione. Fanno di ciò testimonio le varie tavole cominciate di sua mano,
indi abbandonate, che si trovano in Parigi, in Firenze ed in Milano,[2]
che nondimeno sono tenute in grandissima estimazione, come già presso gli
antichi la Venere di Apelle, l’Iride d’Aristide e la Medea di Timomaco. Fino il
ritratto di monna Lisa che gli costò quattro anni di studio diligentissimo, e
in cui parea battessero le arterie, tanta era l’imitazione del vero, fu da lui
dato per imperfetto. Tanto meno strano deve parere che anche il gran Cenacolo
imperfetto rimanesse nella testa del Salvatore, nella quale la singolare
mistione dell’Uomo e del Dio doveva più che altri atterrire Leonardo, perchè
egli più che altri dovea colla profonda perspicacia del suo ingegno sentire la
difficoltà di tanta imitazione, e se n’era forse fatta un’idea superiore, non
che alla propria, alla potenza dell’arte. Così leggiamo in Valerio Massimo
essere avvenuto ad Eufranore il quale nella tavola in cui rappresentò i dodici
Dei maggiori, avendo consumato tutte le forze dell’arte e dell’ingegno in
perfezionare la testa di Nettuno, dovette poi lasciare imperfetta quella di
Giove.
Ma
l’imperfezione in senso di Leonardo era assai diversa da ciò che per tal
vocabolo comunemente s’intende, e parmi si possa paragonare a quella di
Virgilio il quale, anch’egli secondo il proprio giudizio, lasciò imperfetta
l’Eneide ch’è forse tra i grandi poemi il più squisitamente finito che ci sia
rimasto di tutta l’antichità.
GIOVANNI.
La
figura di questo apostolo forma gruppo colle vicine di Giuda e di Pietro. Anche
il singolare contrasto che risulta dalla vicinanza e dall’aggruppamento di
questi tre diversissimi personaggi, ha l’appoggio dell’autorità storica, e non
vedo che da niuno siasi tratto profitto di tale autorità nè prima nè dopo
Leonardo. Questo divino ingegno non si lasciava sfuggire niuna di quelle
circostanze che potevano giovare alla sua composizione, sapendo benissimo che
alcune cose, talora semplicissime e di niuna cospicuità nelle storie delle
quali si segue l’autorità, acquistano un tal peso nell’imitazione, che,
dimenticata la fonte donde si trassero, tutta al pittore rimane la gloria
dell’effetto che producono poste sott’occhio dall’arte della pittura. Così
Timante trasse probabilmente da Euripide l’invenzione di quel velo con cui
avvolse il capo d’Agamennone nel Sacrifizio che dipinse d’Ifigenia; ma niuno
de’ greci culti, non immemori certo d’una tragica rappresentazione tanto
famosa, osservava un tal felice ritrovato in Euripide, mentre tutti
l’ammiravano in Timante come una singolare e mirabile invenzione.[3]
E sia pur questo un privilegio della pittura, o sia, com’è in fatti, pregio de’
soli distintissimi ingegni il sapere scegliere quelle circostanze, negli
scrittori secondarie, ma di grande opportunità ed effetto allorchè sono imitate
col disegno, egli è certo che questo artifizio forma una delle parti più
ingegnose della pittorica invenzione, e che Leonardo provò di possederlo in un
grado eminente.
Sappiamo
dal vangelo dello stesso Giovanni, che questo giovane apostolo sedeva a mensa
vicino al Redentore, giacchè dice che appoggiava, riposando, il capo al suo
petto. Sappiamo che Pietro, udite le parole del Maestro che annunziavano un
traditore, interrogò Giovanni per sapere di chi intendesse Cristo di parlare.
Sappiamo che Giovanni ripetè a Cristo questa interrogazione, e che Cristo
rispose che il traditore era quegli cui avrebbe dato un pezzetto di pane
intinto, che in fatti diede, senza muoversi dal luogo suo, a Giuda Iscariote.
Doveva dunque Leonardo, seguendo la storia, porre Giovanni vicino a Cristo e
alla sua destra come distinto e prediletto sopra tutti gli altri commensali:
doveva poco discosto collocar Pietro, acciocchè questi potesse interrogare
Giovanni intorno alle parole del Redentore: doveva parimente collocar Giuda
poco discosto da Cristo, affinchè questi potesse offerirgli il pane intinto, di
che aveva parlato a Giovanni. Il frapporre adunque più d’un commensale fra
Cristo e Giuda, fra Pietro e Giovanni, avrebbe posto ostacolo o difficoltà al
corso di que’ piccoli avvenimenti renduti importanti dalla circostanza e dalla
sacra tradizione, dei quali l’artefice seppe si acconciamente approfittare.
Serbò d’altronde Leonardo il secondo luogo presso al Redentore pel fratello del
suo diletto Giovanni, Giacomo il Maggiore. Non gli rimaneva quindi per Giuda
che un posto presso Giacomo; ma allontanandolo da Pietro e da Giovanni, avrebbe
dimezzata l’attenzione e perduto tutto l’effetto che doveva produrre il vicino
confronto della fellonia di quel vile con lo zelo ardente e generoso di Pietro,
e coll’amore sviscerato di Giovanni che solo seguì il divino Maestro fino al
sepolcro. Ecco dunque come l’arguto Leonardo rendè naturalissimo e consentaneo
alla sacra autorità l’artificioso collocamento di questi tre personaggi, dopo
Cristo, principalissimi della sua composizione, i più importanti per la storia
rappresentata, e i soli forse che l’arte poteva coi mezzi proprj far
riconoscere senza confusione.
Dalle
cose fin qui dette è facile l’immaginarsi l’attitudine dell’apostolo Giovanni.
Stava egli quasi riposando nel seno di Cristo, allorchè questi annunziò
l’orribile tradimento. È naturale che un tale annunzio lo dovesse scuotere, e
tornatolo sopra di sè, porlo in atto d’interrogare o il maestro od altri
intorno alla persona del traditore.[4]
In questo istante Pietro iracondo sorge, e passando col capo dietro le spalle
di Giuda, si volge a Giovanni per lo stesso motivo. Giovanni dunque è in atto
di tender l’orecchie alle parole del principe degli apostoli, ed alzando
lievemente la spalla accennasi ignaro di chi intenda Cristo di parlare, mentre
nell’accigliamento e negli occhi modestamente chini mostra sentire l’orrore del
tradimento ed il dolore profondissimo della vicina sciagura dell’amato Maestro.
Egli tiene inoltre le due mani insieme incrocicchiate e le posa mollemente
sulla mensa, col quale atto indicò il pittore il riposo al quale s’era
abbandonato in seno di Cristo prima del momento rappresentato.
Ciò
mi suggerisce di far osservare che nelle attitudini di qualunque figura mossa
repentinamente da forte cagione, deve distinguere tanto l’artista che la imita,
quanto il buon critico che la osserva, due tempi diversi che fanno, direi
quasi, due diverse attitudini, l’una antecedente che lascerà scorgere nella
figura la situazione che si suppone precedere il momento rappresentato; l’altra
esprimente lo stesso momento e quel precipuo effetto che si vuol far intendere
e sentire. Lascio qui da parte che questo è un mezzo insigne onde far pensare a
quanto è per avvenire in seguito al momento che si rappresenta, oggetto
ch’ebbero sempre di mira i migliori antichi, come ne fanno fede i monumenti più
singolari dell’arte loro che il tempo ci ha conservati, e le memorie degli
scrittori intorno a quelli che più non esistono. Ma se l’arte dell’imitatore
non dà nella sua figura qualche cenno della situazione che precede l’atto che
prende a rappresentare, difficilmente riuscirà a dare idea di atto pronto e
momentaneamente eccitato: e senza questa prontezza e momentaneità negli atti e
movimenti, l’arte ha poca vita, perchè la vita sta nel moto, e il dare idea di
moto pronto e vivace con mezzi immobili è il sommo dell’arte.
E
giacchè il caso ci ha condotti a queste osservazioni, non sia discaro al
lettore che alcun poco in esse io lo trattenga, avuto riguardo alla loro
importanza per l’arte, ed alla luce che se ne può trarre onde spiegare
l’origine del pellegrino effetto di alcune più rare produzioni del disegno.
Perchè
al subentrare d’una nuova attitudine cessino in tutte le membra d’una figura le
conseguenze d’un’attitudine qualsivoglia, sia di moto, sia di quiete, è
necessario un certo tempo, o, per ispiegarmi meglio, una serie o successione di
momenti, de’ quali l’artista accorto che vuol dar anima alla sua imitazione,
dee sempre scegliere il primo.
Conseguenza
d’una tale scelta sarà che, oltre l’espressione dell’atto momentaneo e
primario, si trovi a quel primo momento indizio, o, direi quasi, avanzo della
precedente situazione che il nuovo stato non ha per anco intieramente
distrutta.
L’effetto
poi dell’unione di queste due situazioni, delle quali la primaria si
rappresenta, la secondaria e precedente si accenna, debb’essere naturalmente
tanto maggiore, quanto maggiore sarà l’opposizione e il contrasto di esse
situazioni fra loro.
A
rendere più chiare queste proposizioni, e ad effetto di avvicinarle allo scopo
loro, mi gioverò d’un esempio solenne, tratto dalla maggiore opera del sublime
Michelagnolo, dal Giudizio universale della cappella di Sisto. Osservinsi in
esso alla sinistra dello spettatore quelle figure che, oppresse ed immerse da
secoli nel sonno della morte, sono improvvisamente risvegliate dal clangore
della tromba celeste. Chi non iscorge in esse i resti della prima loro
situazione, cioè di quel letargo mortale che le tenne immote ed insensibili
tant’anni? L’uno apre a stento gli occhi gravi e schivi della nuova terribile
luce che li percuote: questi riceve la vita, ma non l’ha ancora disseminata per
tutte le membra; quest’altro solleva il petto respirando con meraviglia e
sembra stare incerto fra la speranza e la tema: quegli è scosso dalla potenza
straordinaria di quel mirabile suono, e già tenta tôrsi all’impaccio de’ lini mortuarj,
sebbene non abbia ancora del tutto rivestite delle sue polpe le ossa denudate
dai vermi e dal tempo: un altro, forse più recente cadavere, è in tutta sua
carne, ma non ha ancora tanto di vita e di forza che gli basti onde muoversi
senza l’altrui soccorso. A dir breve, la singolare mistura di queste due strane
situazioni tanto fra loro contrarie, questo meraviglioso impasto d’una nuova
vita che combatte la morte, fa un effetto tanto forte e potente in chi osserva
quest’opera di Michelagnolo, che gli altri gruppi d’altronde mirabili, ne’
quali questa o simile mistura non si combina, rimangono addietro d’assai in
merito ed in lode. Osservinsi in fatti le figure vicine alle descritte, nelle
quali la vita trionfò compiutamente e rianimò tutte le membra, talchè con forza
propria, la rivestita carne alleviando, s’innalzano al cielo, e ad onta della
meraviglia ch’eccitano per la singolarità dell’artificio, se ne avrà da chi ben
sente ed osserva, una sensazione meno potente e più breve, forse perchè,
semplificata la cagione che la eccita, minore e più semplice ne debbe riuscire
l’effetto.
Con
lo stesso principio era composto dallo stesso Buonarroti il celebre cartone
della guerra di Pisa, nel quale i soldati che pacificamente si bagnavano
nell’Arno, erano repentinamente chiamati all’armi: e per tornare onde siamo
partiti, con principio a questo uniforme fu dal nostro Leonardo inventato il
Cenacolo, in cui ad una unione di dolce e religiosa effusione d’amicizia e di
cordialità succede ad un tratto il tumulto dell’inquietudine, la paura del tradimento
e l’acuta amarezza del sospetto. La quale composizione poi gode di un vantaggio
segnalato ed unico sulle due indicate, quello, cioè, d’avere per attori tredici
personaggi tutti nominati e famosi, e tutti assolutamente necessarj all’azione.
L’osservazione
adunque sulla rappresentazione degli effetti d’un movimento che lasci ancora
scorgere nelle figure qualche resto della situazione precedente, osservazione
inculcata in più modi da Leonardo ne’ suoi scritti, spiegherà facilmente non
solo l’attitudine dell’apostolo Giovanni, ma quella ancora di varj altri tra i
commensali ne’ quali, a tutto studio, sicuro ed esperto del buon effetto della
sua teorica, cercò Leonardo di combinare artificiosamente cogl’indizj della
riposata precedente situazione le più vivaci dimostrazioni di quella che pose
per argomento della sua grand’opera.
Era
dunque importantissimo serbare nell’atto dato a Giovanni qualche vestigio
dell’effetto del sonno o riposo, al quale prima delle terribili parole di
Cristo lo consigliava l’ora del giorno o la stanchezza: e questo vestigio serbò
industriosamente Leonardo, come abbiamo avvertito di sopra, col dare alle mani
di Giovanni un atto di totale abbandono e di niuna prontezza a dimostrazione di
risentimento o ad opera di vendetta. E sebbene la circostanza paresse disporre
ogni animo alla vendetta o al risentimento, non debbe parere esagerato questo
indizio dell’inazione di Giovanni, avuto rispetto a quanto sono per aggiungere.
Egli è chiaro che quantunque l’effetto delle attitudini miste che abbiamo prese
ad osservare, sia per riuscire maggiore allorchè, come si disse, le due
situazioni imitate saranno contrarie fra loro; pure non si debbe tanto serbare
della situazione precedente, che distrugga l’effetto di quella che come
primaria e momentaneamente eccitata si prende a rappresentare. E in questo
certamente l’arte corre pericolo di distruggersi colle forze proprie, se
l’artista non è condotto dalla più squisita finezza di giudizio. Ma pel caso
nostro converrà osservare che il detto effetto cambia in ragione de’ caratteri
morali; e per tale osservazione si avrà nuova occasione di sempre più ammirare
il fino ingegno del nostro autore. Il cuore amoroso di Giovanni, all’udire il
minacciato tradimento dell’amico, doveva essere prima trafitto dal dolore che
commosso dall’ira: e il dolore è naturale compagno dell’inazione, come l’ira
del suo contrario. Il temperamento pacifico di questo apostolo predestinato
alla contemplazione ed al ritiro, come gli altri lo erano all’azione ed alla
predicazione, esclude da un’imitazione bene ideata ogni atto violento: quindi
nella sua attitudine dovevasi conservare maggiore indizio della precedente sua
situazione, che in quella di un altro non sarebbesi fatto; perchè la nuova
situazione subentrata e rappresentata come primaria, quantunque fosse tale da
fortemente scuoterlo ed attristarlo internamente, non poteva però mai spingerlo
a dimostrazioni esagerate, siccome estranee affatto alla sua dolce e temperata
natura. Rimaneva dunque all’arguto imitatore dei costumi il solo compenso di
esprimere la contristazione ed il dolore coi moti gravi e moderati delle labbra
e delle ciglia, ed a questa sola preferì d’attenersi, anzichè con più forte
espressione ledere la verità di cui era sempre esimio scrutatore e seguace.
Se
la storia avesse detto che Pietro o Tommaso, o qualche altro apostolo di
temperamento pronto, ardente, vendicativo si fosse abbandonato al riposo o al
sonno, e che poi, risvegliato alle note parole del Maestro, fosse stato
rappresentato con mani oziosamente incrocicchiate anzi che in atto di cercare
un ferro o di minacciare, tale rappresentazione peccherebbe gravemente di
verità e di convenienza. Ma nel giovinetto Giovanni il cui carattere dominante
che gli acquistò la predilezione di Cristo, è per testimonio del Grisostomo l’incredibile mansuetudine, la dolcezza e
l’umiltà, e che secondo san Tommaso figura la vita contemplativa, come
Pietro l’attiva, quel che in altri sarebbe stato mancanza, diventa un
distintivo si proprio che di meglio in vano si desidererebbe. Leggo poi con
piacere in Giampaolo Lomazzo,[5]
là dove ragiona del significato degli atti e gesti delle membra del corpo
umano, che le dita avviticchiate insieme
di tutte due le mani mostrano animo alieno dalle fatiche. Egli sembra aver
avuto di mira la positura di questo apostolo, e fortunatamente si combina che
questo gesto di quiete, attissimo a rappresentare lo stato di lui
precedentemente ai detti di Cristo, non è contrario, come già osservammo, al
dolore che que’ detti dovevano eccitargli nell’animo. In fatti tanto la
stanchezza e il bisogno fisico del riposo, quanto il dolore profondamente
sentito, sono di loro natura contrarj a qualsivoglia fatica fisica: quindi un
tal atto non sarà disanalogo ad esprimere l’una e l’altra di queste situazioni
che si riscontrano per l’appunto nel nostro apostolo.[6]
È prova di ciò l’uso che un gran numero di grandi artisti fece di quest’atto
per esprimere isolatamente il dolore, non che la contemplazione che in Giovanni
è simboleggiata. La figura di Giovanni stesso che guarda dolentemente Cristo
fitto in croce, ed or l’una or l’altra delle Marie, come nel Cristo morto del
Correggio, sono in molte tavole rappresentate colle dita delle mani
incrocicchiate, unicamente per dimostrare l’inattitudine fisica ad ogni fatica,
che ha ogni persona profondamente addolorata. Nella figura che descriviamo,
anche il piede che si vede tra i sostegni della mensa, si scorge appartenere ad
un corpo riposato, non premendo sul suolo, ma soltanto posando con abbandono.
Molli parimente e semplici sono le pieghe del panneggiamento composto d’una
tunica verde e d’un pallio rosso, colori soliti a vedersi nelle immagini di
questo apostolo. Non ragionerò in questa prima descrizione, nè per questa nè
per l’altre figure, delle cose più minute che spettano alle teste e alle
fisionomie, perchè nulla affatto di ciò trovandosi di conservato
nell’originale, mi riserbo a ragionarne dove renderò conto della copia da me
eseguita, e delle autorità delle quali mi sono servito onde renderla in tutte
le parti, per quanto ho potuto, meno indegna di un tanto insigne originale.
GIUDA.
Alla
destra di Giovanni siede il vilissimo venditore di Cristo. Egli si ritrae
meravigliato d’essere scoperto. Tende in avanti la sinistra in atto di stupore:
colla destra tiene stretta la borsa in modo che rammenta quel pugno chiuso col
quale dice Dante che risorgeranno gli avari dal sepolcro. Nel mentre ch’egli si
tragge in dietro facendosi villanamente appoggio del cubito destro spinto quasi
a mezzo la mensa, rovescia una saliera e sparge il sale, augurio funestissimo
presso quasi tutte le antiche nazioni e fra molte anche delle moderne.[7]
L’abito, il gesto, la fisionomia, tutto annunzia l’avarizia la più vile, la più
inumana perversità, la frode, il latrocinio, il tradimento.
Ho
udito taluno inconsideratamente accusare Leonardo di aver posto in mano a Giuda
la borsa, credendo ch’essa contenga il prezzo del suo misfatto. Ben più strano
è l’osservare questo istesso distintivo dato da Raffaello all’apostolo Matteo,
da lui dipinto in una sala del Vaticano, che fu poi cogli altri tutti fatto
abbattere da Paolo IV per non so quale stravagante capriccio.[8]
Leonardo che pose tanto sottili considerazioni in questo singolare lavoro,
appoggiandosi in tutto all’autorità della Scrittura, non poteva commettere un
errore sì grossolano. Egli pose dunque la borsa in mano a Giuda, perchè questi
soleva portarla come depositario del danaro della società apostolica, che,
secondo ci assicura Teofilatto,[9]
non aveva nè stabile dimora nè casa propria. Nel capo duodecimo del vangelo di
Giovanni, là dove l’ingenuo evangelista, scoprendo sì bene il carattere
dell’Iscariote, scrive che questi lagnavasi dell’unguento prezioso profuso sui
piedi di Cristo, e diceva che sarebbe stato meglio il venderlo per darne il
frutto ai poveri, avverte apertamente che quel vile diceva ciò, non perchè de’
poveri gl’importasse, ma perchè era ladro, et
loculos habent ea quæ mittebantur
portabat. E nel capo
decimoterzo scrive che quando Cristo disse a Giuda, Quel che hai da fare, fallo presto, si credette dagli apostoli che
ciò risguardasse qualche ordine di economia, perchè Giuda loculos habebat. Così Tertulliano, al capo undecimo del libro De Anima, lo dice a titolo di confidenza
e di onore deputato cogli Eletti usque ad
loculorum officium. Egualmente leggesi in san Girolamo:[10]
Interroga eam cur Judam elegerit, cur ei
loculos commiserit, ecc.
Da
ciò si vedrà se fu sbaglio o capriccio di Leonardo il dare la borsa a Giuda; o
s’egli, approfittando, come soleva in tutto, dell’autorità storica per potergli
dare questo distintivo, glielo fece tenere, anzi stringere in tale atto, che
anche mentre egli d’altro è occupato, fa scorgere in lui l’infame cupidigia del
danaro, per la quale passò dal latrocinio al tradimento. Dalle quali
osservazioni si scorgerà non meno quanto vadano errati que’ dipintori i quali,
dando la borsa a Giuda, gliela fanno tenere di furto, talchè pretendono far
intendere ch’essa contiene il prezzo della sua scelleraggine; nel qual fallo
cadde con altri molti Alberto Durero, come dalle sue stampe si può vedere.
Narrano
gl’istorici[11] che
Leonardo mettesse lungamente a tortura l’ingegno e si affaticasse assai per
ricercare forme di corpo e fattezze che convenissero al suo Giuda, e che
rendessero, per così dire, credibile quella vilissima atrocità d’animo e quella
inumana avarizia per cui il traditore potè vendere per poco argento il sangue
del suo benefattore ed amico. Piccolo e volgare appoggio gli somministrava la
volgare tradizione de’ suoi capelli rossi; o quell’altra della sua minore
statura di cui si trova memoria nelle rivelazioni di santa Brigida.[12]
Oltre la difficoltà dell’argomento, doveva egli combattere colla naturale
ritrosia di un’anima gentile in darsi a meditare le fattezze della viltà
crudele, dell’avarizia sanguinaria, dello spionaggio, del tradimento. La
pittura nobile scenderà volentieri a rappresentare nelle sue imitazioni i
tratti anche de’ vizj, qualora questi siano accompagnati da qualche
magnanimità. Così la vendetta, la crudeltà, la fredda ferocia della gelosia,
gli effetti tutti dell’ira nelle risse e nelle battaglie sono cose delle quali
fa volentieri uso e studio la pittura. Ma queste son tutte di lor natura atte a
destare quella specie di terrore del quale come si compiacciono le tragedie,
così non meno felicemente che in quelle, riesce nelle opere di disegno: ed al
contrario allorchè si rappresentano vizj vilissimi, cessa il terribile che diletta, e si eccita in
sua vece l’orribile che disgusta,
ributta e fa torcer l’occhio altrove. Da sì fatta imitazione debbe
diligentemente guardarsi tanto il pittore quanto il poeta, come il vuole la
ragione, non che i precetti e gli esempj; ancora più pericolosa e da fuggirsi
nella rappresentazione pittorica che nella poetica, perchè la poesia può
diligentemente descrivere personaggi anche pessimi e vilissimi, e al tempo
stesso mostrarne ed ispirarne disprezzo; il che non può fare la pittura la
quale più sembra essersi compiaciuta della sua rappresentazione, quanto più
diligente fu in eseguirla ed accurata nel porla in vista. Allorquando pertanto
il pittore e il poeta sono costretti dalla storia ad introdurre nelle loro
opere personaggi di tal tempera, debbono aver riguardo di non dar loro giammai
il posto principale, altrimenti le loro imitazioni, sebben perfette, dispiaceranno
perchè male scelte, e quantunque sieno atte a provare molta industria ed acume
d’ingegno, dando prova di poco giudizio, in vece di lode avransi biasimo e
riprensione. Così abbiamo visto cadere le tragedie ben condotte e ben
verseggiate, il cui protagonista fu privo di qualche grandezza e virtù; così
lasciamo inosservati i quadri di argomenti o di espressioni orribili o vili. E
il divino Alighieri che per la prima parte della sua maggior opera si prese
l’Inferno per tema, ch’è quanto dire la propria città di ogni vizio, sdegnò di
far parole di coloro che niuna fama di sè lasciaron nel mondo,[13]
e si fe’ degli altri dannati nobile materia di discorso con dar loro una certa
fiera magnanimità, un non so quale amor di gloria e un barlume di spirito
profetico.
Leonardo,
costretto a pur fare un Giuda, cioè il più ignobile modello dei più vili ed
inumani tra i vizj, gli diede un posto meno che secondario, e il collocò in
modo che, niuno degli attori del quadro volgendosi a lui, anche gli spettatori
più tardi che agli altri gli rivolgono gli occhi, per sentirne prontamente
disprezzo e per giudicarlo di aspetto ed atto conforme alla sua iniquità. Io
ebbi di ciò sovente esperimento e prova, seguendo attentamente con l’occhio gli
osservatori della mia copia. Noterà ancora, a gloria della riuscita di Leonardo
in sì pericoloso argomento, che, oltre ciò che la storia e le presenti
osservazioni c’inducono a credere intorno alla difficoltà ch’egli ebbe a
comporre questa figura, altra valevole prova, sebben negativa, intorno all’asprezza
di sì fatto tema l’abbiamo ne’ più celebri poeti che di Giuda ebbero occasione
di parlare; i quali o col silenzio o con diverse stravaganti industrie si
trassero d’impaccio, e sembrarono temere di profanare il pennello delle muse,
facendo con esso il ritratto di quel traditore. Il Vida, freddamente accozzando
gli aurei modi virgiliani, ci diede qualche cenno delle ree qualità di lui, ma
neppur uno ci lasciò di quei tratti con cui Virgilio, imitando Omero, è spesso
guida ai pittori, e sembra talora più dipingere che verseggiare. Dante che non
trascurava mai di caratterizzare le fisionomie de’ suoi attori, e che sembra
talvolta maneggiare lo scalpello anzichè la penna, si tolse d’intrico più
destramente, mettendo a dirittura la testa dell’Iscariote in una dell’enormi
bocche di Lucifero, talchè ei non ne potè vedere che lo springar delle gambe, e
tranne il nome e il cognome, non ci lasciò di lui verun’altra descrizione. In
modo a mio parere più strano, quantunque ingegnoso, saltò la difficoltà d’un tal
ritratto modernamente il signor Klopstoch, il quale diede a Giuda bella
statura, nobile portamento e bellissimo volto, solo con qualche tratto
sinistro, acciocchè, fingendolo così dotato di bellezza corporale, maggiore
apparisse la sua perfidia ed ingratitudine. Quanto siano antipittoriche queste
invenzioni, ognuno per sè può facilmente giudicarlo. Nella nostra composizione
non si poteva nascondere il ceffo di Giuda senza perdere molto dell’effetto
morale dell’azione e del contrasto; e (se pure è approvabile nella imitazione
poetica) in niuna imitazione di disegno sarà mai permesso di farlo bello di
aspetto e di corpo aggraziato, perchè la bellezza fisica congiunta alla grazia
è il solo mezzo del disegno onde rappresentare la bellezza e la grazia dell’animo.
Da tante difficoltà che Leonardo volea pur vincere, non è meraviglia s’egli era
ritardato nell’opera a segno d’essere spesso rimproverato di lentezza, e se
stava a lungo senza dipingere, come vedemmo ne’ passi citati di varj autori,
perchè, non ancora contento delle sue invenzioni, meditava il modo di
perfezionarle, e finalmente vi riuscì mirabilmente, come in ispecie ci
assicurano il Vasari ed il Giraldi.
Farebbesi
qui luogo a dire qualche cosa intorno alla tradizione ricevuta specialmente
dagli scrittori oltramontani, cioè, che Leonardo facesse nella figura di Giuda
il ritratto del priore de’ domenicani che nojosamente affrettavalo di finire il
Cenacolo. Sebbene già troppo e forse troppo gravemente per la materia ne fu
scritto dal Monti, dal Pino e dal Bianconi, si conceda ancora qualche pagina
alla bizzarria, non già all’importanza di questo frivolo argomento.
Varj
scrittori della vita di Leonardo, o che delle opere di lui parlarono, danno il
fatto come cosa certa, contenti di rallegrare di ridicolo aneddoto le loro
storie o descrizioni. Gli autori nominati ed altri con loro si assottigliano il
cervello per dimostrare questa tradizione priva affatto di fondamento. Io, cui
poco importa di sapere qual fosse il vero modello del Giuda di Leonardo (non potendomene
più al bisogno servire), trovo poco fondate le ragioni di chi afferma, e deboli
quelle di chi nega. Mi prenderò dunque la libertà di porre in mezzo qualche
nuova osservazione più pittorica che d’altra specie, la quale, senza intaccare
direttamente alcuna delle due opinioni, sortirebbe il miglior effetto che io ne
potessi sperare, se giungesse a far sì che questa quistione per l’avvenire si
lasciasse del tutto, non solo come inutile per l’arte e futile per la storia,
ma anche come una di quelle che per loro natura non si possono diffinire. Il
padre Domenico Pino, male provvisto di ricerche intorno al tempo in cui il
Cenacolo fu dipinto, nè avendo notizia alcuna dell’arte onde alla mancanza de’
fatti supplire con ragionevoli congetture su quella fondate, dice che il priore
d’allora era il famoso teologo Vincenzo Bandello, e colla scorta del Monti che
intorno a ciò fu richiesto dall’Allegranza, asserisce ch’egli era bell’uomo,
provandolo coll’autorità di Leandro Alberti testimonio di vista; quindi non gli
sembra modello conveniente pel brutto traditore Iscariote. Lasciando ora da
parte che tutti questi autori sono, come il Bandello, domenicani, e perciò non
del tutto esenti dal sospetto di parzialità; e menando buona a favor loro la
testimonianza dell’Alberti sulla bellezza del priore, sebben l’Alberti fosse
nato quarantaquattro anni dopo di lui, parmi dover avvertire che il padre Pino
mostra ignorare un’abilità che vanta la pittura, e che non è rara anche negli
artefici d’ingegno mediocre, quella, cioè, di contraffare ogni fisionomia
qualsivoglia anche bellissima, rendendola deforme anzi orribile, e serbando
tali tratti che pure tuttavia si riconosca donde è cavata. Leonardo possedeva
in grado eminente questo artificio di cui se non fu l’inventore, fu certamente
il perfezionatore, e sembra che molto se ne dilettasse. Egli era inoltre dotato
di una tale memoria, che anche senza il vivo davanti faceva ritratti
similissimi al vero. Quindi non sarebbe stata strana cosa nè difficile per
Leonardo il dare a Giuda, quantunque brutto, qualche tratto del bel frate
priore a quell’epoca più che sessagenario,[14]
qualora gli avesse preso il capriccio di così vendicarsi della noja ch’egli ne
ricevea. Segue a leggersi nella storia del padre Pino che il Bandello era
carissimo al duca Lodovico, e che però non è probabile che Leonardo, come
avveduto e discreto, scherzasse satiricamente coll’amico del padrone. Ma
nemmeno questa ragione è abbastanza valida dopo ciò che si è detto, perchè
l’artificiosa imitazione sarebbe stata tale da conservare la satira e salvare
il pittore, come può intendere chiunque sa alquanto dell’arte. Di più
l’argomento dell’amicizia del Moro pel priore e quell’altra prima ragione della
sua bella e dignitosa fisionomia potrebbero avere qualche forza, qualora si
potesse verificare con certezza che il priore che stimolava ed annojava
Leonardo, fosse realmente il padre Bandello. Ma siccome niuno de narratori del
fatto ci lasciò scritto nè il nome del priore nè l’anno in cui il fatto è
avvenuto, e siccome non vi è prova alcuna valevole che c’induca a crederlo
avvenuto negli anni ne’ quali il Bandello tenne il priorato, come potrà vedersi
allorchè parlerò del tempo che probabilmente Leonardo impiegò in quest’opera,
così la novella non cadrebbe per simili ragioni.[15]
Il
Bianconi poi vorrebbe farla svanire con un mezzo più singolare, col provare,
cioè, essere stato in brevissimo tempo dipinto il Cenacolo; quindi fuor di
luogo ed improbabile affatto l’accusa e la noja del frate. Ma ciò è sì male da
lui provato, come ognuno può leggere nella prima edizione della sua Guida, che non sarà per lui che la
tradizione appaja incredibile. La soppressione in oltre di quel passo nella
seconda edizione da lui pubblicata l’anno 1795, prova ch’egli medesimo avvisò
dappoi diversamente.
Il
solo padre Monti più assennatamente ragionando, sebbene prenda molti abbagli e
specialmente quello dell’epoca della venuta di Leonardo in Milano, per la quale
segue inconsideratamente il Vasari, nota che il Giraldi stesso dice che
Leonardo propose scherzevolmente di ritrarre in Giuda il priore, ma che di
fatto si volse altrove per cercarne modelli più a seconda del suo intento,
checchè si dica dal Resta nell’Indice del suo Parnaso, e dal Richardson nel
Trattato, come vedemmo nel primo libro. Anche il Vasari, quantunque non accenni
che d’altri modelli il Vinci si servisse, non dice però ch’ei ritraesse il
priore, ma che soltanto di ciò facetamente il minacciasse ragionando col duca.
Nello stesso senso di faceta minaccia e di detto
memorabile, non già di fatto, lo riporta il Botero che ne avrà raccolta la
tradizione in Milano. Così in fine, seguendo le più antiche autorità, il
riportarono gli scrittori più gravi e moderati.
Ma
se il tentare di distruggere la tradizione come di fiuto, troverà facilmente
appoggio; il contrario avverrà se si vorrà cercare, come fecero i citati
autori, di distruggere come falsa la storia della scherzevole minaccia colla
quale Leonardo avvisò probabilmente il priore che non s’impacciasse nelle cose
ch’egli non intendeva. Le ragioni da loro addotte onde mostrare insussistente
il racconto del Giraldi che è ragionevolissimo, provano la loro ignoranza nelle
materie di critica pittorica; quella specialmente addotta dal padre Pino, colla
quale pretende provare che Leonardo non poteva finire prima i panneggiamenti di
Giuda che la testa, è assolutamente ridicola. Per altra parte, quale difficoltà
a credere che Leonardo proponesse scherzando una simile cosa al suo principe in
un tempo in cui la libertà del conversare, la facilità ed affabilità, l’amore
delle celie e degli scherzi non distoglieva i principi italiani dal trattare
con gravità gli affari dello stato, nè diminuiva la pubblica loro
considerazione? Qual meraviglia che il Moro istesso, cui non dispiaceva il
celiare, desse mano a Leonardo onde ne venisse satirizzato il Bandello? Oltre
ciò non parlerò del modo ridicolo con cui l’Alberti descrive le bellezze di
questo frate, dicendo che erat mediocri
statura, facie magna, capite magno, ecc., ma per quel che risguarda anche
il morale, non gli guarentiscono una fisionomia molto amabile e gentile nè
l’acrimonia con cui tratta i suoi avversarj sostenitori dell’Immacolata
Concezione, nè le brighe secolari in cui era intricato, nè l’esser confessore
di un principe qual era il Moro, che secondo gli storici avea per massima da
lui spesso e pubblicamente ripetuta, che l’utile proprio rendeva onesta la
menzogna e peggio. Se poi dopo tutto questo il padre Bandello che già
somigliava all’Iscariote nella statura, come ne è testimonio il citato encomiatore
delle sue bellezze, avesse avuto anche nella fisionomia qualche tratto degno di
lui, e che Leonardo per ragione di noja o di vendetta se ne fosse servito, e
che il duca stesso si fosse di ciò divertito, non sarebbe poi così grande nè
nuova meraviglia da menarne rumore, tanto più per chiunque sa alquanto della
storia di que’ tempi. Casi a questo simili non sono rari nella storia pittorica
ed in personaggi di ben altra importanza che non è un priore di convento. A
chiunque ha scorso Plinio nelle cose che appartengono alle arti, risovverrà che
Cleside, adirato d’essere stato poco onorevolmente accolto dalla regina
Stratonica, se ne vendicò dipingendola in lotta amorosa con un pescatore che si
vociferava essere suo amante. Il pittore pose in pubblico la sua tavola nel
porto d’Efeso, ed ognuno riconobbe la regina e il pescatore, sì perfette erano
le somiglianze. E pure, qualunque ne fosse la ragione, quella regina stessa
proibì che la tavola, non che distruggersi, si togliesse dal luogo dove era
stata posta dall’autore. Ma per lasciare gli antichi e le storie troppo da noi
rimote, basti rammentare l’orecchiuto Minosso di Michelagnolo che con caso
conforme a quello del nostro priore è anch’esso il ritratto di un cortigiano
importuno; e il famoso motto che su di esso disse papa Paolo Farnese, può
bastare per assicurarci dell’indulgenza del Moro verso Leonardo, qualora avesse
artificiosamente scherzato a danno del frate, come di parole, anco di pennello.
Nondimeno qualora si abbia da credere che nel ceffo di Giuda fosse ritratto un
frate qualsivoglia, non credo che ciò si possa intendere del padre Vincenzo
Bandello; ma questo per ragione ben diversa dalle addotte, ed è perchè Matteo
di lui nipote e scrittore delle Novelle, che nella citata prefazione alla
novella cinquantottesima ed anche altrove parla con tanto rispetto di Leonardo,
in un’epoca in cui non era costume nè merito il perdonare le ingiurie, avrebbe
fatto altrimenti o si sarebbe taciuto, quando il pittore avesse realmente
insultato o satirizzato pittoricamente il di lui zio di cui fu veneratore,
compagno ed amico.
È
poi cosa osservabile che non solo ne’ cenacoli ove Giuda interviene, ma in
tutti gli argomenti dove entrano figure odiose o ridicole, è uso comune degli
artefici ingegnosi di ritrarre in quelle qualche loro contemporaneo, ora per
satirizzare il vizio, ora per vendicarsi dell’ignoranza o dell’importunità. E
quest’uso è talmente invalso che ove trovansi tali figure con volti strani,
fieri o ridicoli, se la tradizione non ci dice le persone in quelli ritratte, o
se il pittore non ci ha pensato, l’invenzione spesso supplisce a quella
mancanza, e sono pochi i cenacoli dove il Giuda non sia qualche frate
seccatore, pochi gl’inferni dove non si vegga il ceffo di qualche cattivo
pagatore o d’altro nemico di chi lo dipinse. Ma per dar fine a questo tema e
per diminuire la meraviglia e di simili fatti e di simili invenzioni di
pittorici capricci, basti il leggere che Andrea del Castagno non si vergognò di
ritrarre in Giuda sè medesimo, quasi preludendo alla confessione che in morte
fece dell’orribile assassinio con cui tolse a tradimento di vita il suo amico e
compagno Domenico Veneziano.
PIETRO.
Da
quanto si è detto delle figure antecedenti, si potrà con facilità immaginare
l’attitudine del principe degli apostoli. Acceso di onesta collera al suono
delle divine parole, egli s’alza alquanto dal luogo ove sedea, per interrogare
il confidente di Cristo, l’apostolo Giovanni. Colla sinistra indica il
Salvatore in atto di chiedere il significato de’ suoi detti, mentre la sua
destra va quasi naturalmente verso una specie di coltello o breve parazonio;
con che il pittore diede cenno del desiderio in lui ardentissimo di vendicare
il Maestro e della sua prontezza a dar mano alle anni, della quale ebbe poco
dopo rimprovero da Cristo medesimo nell’orto di Getsemani.
È
singolare ed unica l’opinione del Bianconi intorno a questo coltello. Egli lo
crede un’aggiunta del temerario riattamento; quindi pare lo attribuisca al
primo generale ritoccatore Michelagnolo Bellotti. Sembra impossibile come egli
che visse sempre fra gli artisti e fra le cose delle arti, non sapesse che il
Cenacolo stette certamente più d’un secolo e mezzo senza che alle altre sue
disgrazie si aggiungesse quella dei ritocchi, e che nel gran numero delle copie
da esso tratte anticamente non ve n’è una sola in cui non si vegga questo
distintivo di san Pietro. E non è meno strano ch’egli lo supponga aggiunto
unicamente perchè non si vede in una rara bensì ma pessima stampa che pare
opera d’un incisore che non ha visto l’originale, se pure non fu fatta da
qualche disegno o schizzo prima che l’originale fosse condotto a fine. Sembra
però che il Bianconi stesso si ricredesse di questa stranezza, poichè nella
seconda edizione della sua Guida
cangiò la descrizione, e considerò come genuino ed originale l’attributo del
nostro apostolo.[16]
Nel
resto non potrei seguire a descrivere questa figura senza ripetere quanto
accennai descrivendo quella di Giovanni, o senza usurpare le parole del
cardinale Federico Borromeo, a cui rimetto il lettore. Bastimi aggiungere che
il suo movimento pronto, il furore del suo volto, il gesto dell’una e
dell’altra mano, tutto in somma il complesso della sua attitudine eccitata da
viva e súbita commozione,
contrasta mirabilmente colla patetica e dolce giacitura dell’apostolo Giovanni,
e richiama felicemente la dissimiglianza che hanno tra loro le due vite,
l’attiva e la contemplativa, delle quali sono, come si disse, simboli questi
due primarj tra gli apostoli.
Il
colore poi delle sue vesti è il solito che volgarmente gli si attribuisce, e
che si vede fino nella cena di Cristo che Giotto dipinse in santa Croce a
Firenze; cioè di un bel giallo è il pallio, e d’un vivace azzurro alquanto
chiaro la tunica. Il qual metodo, comune ai buoni poeti, di secondare nella
imitazione l’opinione volgare e l’autorità o delle tradizioni o delle antiche
rappresentazioni, avremo luogo di notare in Leonardo per molte altre cose, come
già lo notammo per le vesti del Salvatore e dell’apostolo Giovanni.
ANDREA.
La
vicinanza di Pietro non sarebbe sufficiente argomento onde riconoscere in questo
apostolo il suo maggior fratello Andrea, se l’antica copia di sopra mentovata
che ci serve di scorta, non avvalorasse la congettura coll’appostavi
iscrizione. Il padre Gallarati si abbattè fortuitamente a dargli lo stesso
nome, a ciò indótto specialmente da un piatto di pesci, forse di moderno
risarcimento, e che secondo lui indicano l’uom pescatore. Ma se in questa cena
ogni pescatore si dovesse distinguere con un piatto di pesci, non vi rimarrebbe
luogo per l’agnello, piatto essenziale per la cerimonia. Dopo la luce che la
citata iscrizione ci apporta, è facile lo scorgere come l’attitudine di questo
apostolo egregiamente corrisponda a quanto dalla storia si può raccogliere del
suo carattere. Mansueto, pacato, costante, fedelissimo, egli fu il primo
apostolo chiamato da Cristo, e gli serbò, in ciò migliore dell’ardente
fratello, la sua fede intatta fino al martirio che si tenne beato di ottenere
simile a quello che fu sopportato dal suo Maestro. Egli siede gravemente, e
colpito dallo stupore all’udire l’annunziato tradimento, ne dà segno aprendo
ambedue le palme delle mani e inarcando le labbra e le ciglia. Non posso
inoltrarmi nella descrizione di questa testa senza far uso delle parole stesse
di Leonardo. Nel capo CCLIV del suo Trattato, dove descrive gli atti da darsi a
chi ascolta un oratore, Fa, dic’egli,
la bocca d’alcun vecchio per maraviglia
delle udite sentenze chiusa, e nelli estremi bassi tirarsi indietro molte
pieghe delle guance, e con le ciglia alte nella giuntura, le quali creino molte
pieghe per la fronte. Egli eseguì il primo il suo precetto in questa
figura, cui aggiunse quanto era richiesto dalla qualità dell’oratore e delle
sentenze, come potrà scorgere chi osserva finamente. Non sembra possibile a
quel cuore onesto che uno de’ suoi compagni sia capace di tanta scelleratezza,
e conscio di sè stesso e certo di non esser egli il traditore designato, sembra
che la meraviglia e la sorpresa non lasci in lui luogo alla curiosità di sapere
chi volesse il Maestro indicare. Risplendono nel suo volto la probità, la fede
e l’amicizia unite alla pacatezza dell’animo che opportunamente contrasta con
impeto del vicino Pietro. Infino il modo con cui il pittore disposegli il
pallio sulle spalle, coprendole entrambe, e facendolo discendere davanti attorno
alle braccia, è confacente ad esprimere l’uomo tranquillo e quieto ne’ suoi
movimenti, e non disposto a far uso della propria forza o destrezza ove lo
chiami l’ira o la vendetta. In ciò ben differente dall’ iracondo fratello che
porta il pallio avvolto sulla sola spalla sinistra in modo da non averne
ingombro al braccio destro ove abbisognasse usarne, come in fatti fece alla
prima occasione. Egualmente i tuoni delle tinte delle sue vesti sono di poca
forza e splendore in paragone della maggior parte dell’altre, essendo il pallio
d’un verde alquanto chiaretto e freddo, e la tunica che discende in pieghe
molli e finissime, d’un gialletto rossiccio che si accosta al color della noce.
Poco in lui si scorge della fisionomia di Pietro, e quel poco ne’ tratti generali
che più certamente provano la comune origine, dipendendo gli altri più minuti
da abiti o passioni particolari all’individuo. Con tanta dissimiglianza di
carattere in questi due fratelli sarebbe stato errore in un pittore sì esperto
nella Fisiognomonica, qual era Leonardo, il rappresentarli più fra loro
somiglianti di quello che qui si veggano.
GIACOMO IL MINORE.
Anche
senza l’iscrizione della copia già più volte ricordata, è facile il riconoscere
in questo apostolo il figliuolo d’Alfeo, il cugino del Redentore. Lo assicura
la sua somiglianza col Nazareno, che in lui veramente si accorda fisicamente e
moralmente, e della quale abbiamo un testimonio degno di nota nel commento di
Niccolò di Lira ad un passo di san Paolo. Là dove questo apostolo scrivendo ai
Corintj, dice che Cristo risorto apparve separatamente a Giacomo, il
commentatore soggiunge che Giacomo ottenne questa grazia, non solo per la sua
speciale divozione, ma per la sua somiglianza a Cristo. Più ampio testimonio
poi può vedersi nel camaldolese Malermi di cui piacemi qui citare le parole,
poichè le Vite de’ santi, che tradotte ed accresciute da questo autore, videro
la luce coi torchi del Jenson nel 1475, cioè pochi anni prima che Leonardo
intraprendesse il Cenacolo, debbono certamente essere state lette dal nostro
pittore, almeno per ciò che concerne gli apostoli, e da quanto apparisce, gli
hanno in molte cose servito di guida. Dice adunque l’autore citato che
l’apostolo Giacomo è etiam detto fratello
del Signore, conciossiachè per tutte le parti si dice essere stato simile a
esso Signore: intanto che se ingannavano molti nella loro effigie. Onde andando
li Judei a pigliare Cristo ebbero da Juda el signale del basio; perchè Juda per
essere molto famigliare e domestico di Cristo ottimamente da Jacobo discerneva
Cristo. Questo etiam testifica Ignazio nella epistola mandata a Joanne
Evangelista, dicendo: Se a me è concesso, voglio venire alla parte di Jerusalem
per vedere quello venerabile Jacobo cognominato Justo; el qual dicono essere
stato molto simile a Cristo e della faccia e della vita, e con el modo della
conversazione in tanto quanto che se fosse stato suo fratello nato insieme in
un medesimo parto e di quel medesimo utero: el qual dicono che se io vedrò, mi
parerà vedere esso Jesù Cristo secondo tutte le parti del corpo suo.
Quanto
Leonardo fedelmente serbasse questa tradizione può vedersi e negli avanzi del
Cenacolo originale, e in tutte le antiche e moderne copie nelle quali, mentre
le altre teste variano a capriccio, questa sempre ritiene, ove più, ove meno,
la fisionomia di Cristo. Anzi sembra che Leonardo si scrupolosamente a questa
tradizione si abbandonasse, e che tanto studio ponesse onde imprimere in questo
apostolo il nobile e sublime carattere del Redentore, che poi allorchè si pose
intorno alla testa del Redentore medesimo, sentì mancarsi le forze e l’ingegno
onde giungere all’idea ch’egli ne avea concepita, e cercando intorno ad essa
inutilmente consiglio, come leggemmo nel Lomazzo, lasciolla imperfetta,
credendo probabilmente per tal modo di dare alla posterità maggiore saggio
dell’altezza del suo pensamento, di quello ch’egli dalla sua mano sperasse di
poter ottenere.
Semplicissima
è l’attitudine di questa figura. Come Pietro si volge a Giovanni, così questo
Giacomo volgesi a Pietro onde avere qualche dichiarazione della misteriosa
sentenza di Cristo. Egli sembra sperare che Pietro otterrà da Giovanni il
segreto del Maestro, e un lieve alzamento di ciglia e una lieve apertura di
bocca indicano abbastanza l’inquieta ansietà di uomo che interroga con animo
dubbio, sospeso ed atterrito. Il di lui carattere moderato non permetteva
commozion d’ira o altra violenta espressione. Egli appoggia la mano destra alla
spalla di Andrea, e stende la mano sinistra dietro di lui in atto di accennare
e cercare Pietro che in quell’istante non bada a soddisfare che la propria
curiosità e la collera onesta che dentro il suo cuore zelante eccitossi alla
parola di tradimento.
Non
meno semplice è il suo panneggiamento, che anche nel vestire volle Leonardo che
il nostro apostolo somigliasse a Cristo, onde così meglio rendere ragione della
possibilità degli scambj che la storia susurra avvenissero fra Cristo e
Giacomo, come sopra si è letto. Diedegli dunque una tunica rossa che si
avvicina al colore della tunica di Cristo, a cui però volle serbare la tinta
più nobile e più tendente al porporino. Diede altresì alla tunica un taglio
conforme a quello dato alla tunica di Cristo, con maniche, cioè, larghissime,
mostrando presso la mano una porzione dell’indusio.
Per seguir poi la tradizione che ci avvisa che questo apostolo vestiva
diversamente dagli altri, nè potendosi accomodar l’arte, e pel decoro e per
altre ragioni, ad imitare quanto intorno a tal particolare ci narra Epifanio e
si accenna anche nella Vita del Malermi, il distinse dalle altre figure non
dandogli pallio alcuno o clamide, o altro che sulla tunica si ponesse. E in
fine da non lasciarsi inosservata l’avvedutezza di Leonardo il quale, costretto
dalla storia a fare in una stessa composizione due teste somiglianti, non
trascurò di mettere l’una di profilo e l’altra di fronte, serbando però al suo
soggetto principale la veduta più intiera, che molto opportunamente chiamavano
gli antichi di maestà.
BARTOLOMMEO.
Il
sesto ed ultimo luogo della mensa è da questa parte occupato dall’apostolo
Bartolommeo. Senza la nota iscrizione sarebbe, a dir vero, difficile il
distinguerlo, poco dal vangelo sapendosi di questo apostolo. Anzi è presso
molti questione s’ei sia o no lo stesso che Natanaele del quale parla molto
l’evangelista Giovanni che non nomina Bartolommeo, e sul quale tacciono per
l’appunto gli altri evangelisti che di lui fanno menzione. Vi ha poi chi lo
sogna di stirpe egizia, chi di siriaca e regale; su di che veggasi la Storia
apostolica del Sandini. Similmente altri lo fa nobile, altri ortolano, come può
vedersi nel libro che della Erudizione degli apostoli compilò Giovanni Lami. In
mezzo a tanta incertezza ed oscurità è singolare e degno di nota il ragguaglio
anzi ritratto che di questo apostolo leggesi nel Malermi, il cui libro
volentieri preferisco ad ogni altra autorità, perchè certamente venne alle mani
di Leonardo. Questo ritratto è descritto per bocca di un idolo indiano, dentro
il quale parlava il demonio.
Li capelli suoi, diceva
l’idolo, sono negri e crespi: la carne è candida: gli occhi sono grandi, e’l
naso uguale e diritto: la barba lunga: ha pochi peli canuti: di statura eguale:
è vestito d’ammanto bianco foderato di porpora; el quale ammanto per ciascuna
parte ha le gemme purpuree; e sono ventisei anni, dal quale tempo non sono
invecchiate nè deturpate le vestimenta sue e li calceamenti suoi.
Segue
poi a dire ch’egli era nutrito e servito dagli angeli, d’umore allegro,
indovino e potentissimo, il che non fa al nostro proposito.
Per
quanto spetta agli occhi, al naso ed al colore de’ capelli, sembra che Leonardo
non si allontanasse da questa tradizione, avuta avvertenza alla età diversa in
cui lo ha rappresentato. Per quanto poi risguarda il color della pelle, è da
credere che l’idolo lo chiamasse candido in paragone de’ suoi cultori indiani
fra i quali abitava allora Bartolommeo. Certamente Leonardo gli diede in vece
un tuono di tinta quasi tendente al bruno, e più robusto che non diede alle
altre figure, o volesse con ciò contrassegnare in lui l’origine egizia, o
preferisse indicare la sua condizione più probabile, quella, cioè, di
agricoltore.
Finalmente
per quanto spetta al vestimento che più minutamente si legge descritto nella
Storia di Abdia, dalla quale sono in gran parte tratte le vite degli apostoli
che il Malermi ha tradotte, consistendo esso di un colobio bianco, cioè colletto o tunica senza maniche, e di un
pallio egualmente bianco, ornato il tutto di porpora e di gemme, Leonardo non
giudicò di seguire in questo la leggenda o perchè un tal vestire gli paresse
poco apostolico, o perchè lo credesse usato da Bartolommeo dopo il fatto che
prese a rappresentare, o perchè in fine, il che mi sembra più da credere, tutto
quel bianco in un angolo del quadro male si accomodasse all’armonia della sua
composizione.
Diedegli
in vece una tunica celeste chiarissima tendente alquanto al pavonazzetto nelle
ombre, e un manto o vasto pallio d’un bel verde, aggruppato con un nodo sopra
la spalla diritta, come con le fibule si allacciavano le clamidi. La manica
della tunica è ricca superiormente, e dopo una legatura o piccola fascia
gialletta che la stringe ove finisce il deltoide, scende in pieghe minute, e
segue la grazia del braccio fino al polso. La tunica è, come tutte le altre,
talare, sebbene poco se ne vegga nella parte inferiore per l’ingombro del
pallio e per l’incrocicchiamento de’ piedi.
L’attitudine
di questo apostolo distinguesi notabilmente da tutte le altre, ed è
convenientissima alla sua collocazione distante da Cristo. Egli vede tra i
commensali a lui vicini il minor Giacomo occupato a dimandar Pietro, Andrea
oppresso e tacito per lo stupore, e Pietro rivolto ad interrogar Giovanni:
quindi dispera di ottenere da essi utile ragguaglio. Dunque, quasi dubitando di
quel che ha udito, si alza appoggiandosi delle due mani alla mensa, onde
accostarsi ad udir meglio ciò che Cristo è per soggiungere. Egli sedeva da
prima colle gambe incrociate: Leonardo studioso di accrescere per mezzo del
contrasto, come sopra notammo, l’istantaneità e prontezza dell’atto,
conservolle nella stessa posizione: e facendo piegare le ginocchia alla sua
figura, e sopra entrambi i piedi sostenendola mediante l’appoggio delle mani,
le diede sì giusta espressione che non saprei come meglio si possa figurare un
uomo perturbato dal dubbio di aver male udito, e desideroso di ascoltare cose
di alta importanza.
GIACOMO IL MAGGIORE.
Descritti
i sei apostoli collocati alla destra di Cristo, è or da tornare donde siamo
partiti, e cominciando di nuovo dalle figure più a Cristo vicine, dar notizia
del rimanente della scena e degli altri attori che la compongono.
Abbiamo
di già detto che il primo alla sinistra del Salvatore è l’apostolo Giacomo,
figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni. Egli inorridisce in ascoltare
l’esecrabile attentato che da Cristo è predetto, e traendosi indietro ed
allargando le braccia, sì nell’atto come nella fisionomia dimostra quella
subitanea commozione che nasce dallo sdegno onesto in uomo che oda non solo, ma
per prontezza d’imaginativa quasi vegga inopinatamente cosa che sia cagione di
meraviglia e di orrore. China alquanto è la testa, come naturalmente avviene a
chi improvvisamente si ritira: basse e congiunte sono le ciglia: gli sguardi
fissi a un tempo ed incerti: aperta la bocca ed elevato il petto, come accade
per improvvisa, indi tosto sospesa inspirazione alla vista impensata di spettacolo
mirabile insieme e terribile.
Per
questo non meno che per gli altri suoi attori, ricercò Leonardo diligentemente
la sacra autorità, onde con qualche fondamento attribuirgli il carattere che
gli diede d’immaginoso, ardente e prontamente eccitabile all’ira; non però a
quell’ira che ad ogni occasione consigliava a Pietro pronta opera di vendetta,
ma all’altra meno pericolosa, socia dell’onesto zelo, la quale, senza spingere
la mano sul ferro, turba ed accende l’animo alla vista dei delitti che opprimono
e tradiscono la virtù e ne commette la vendetta alla giustizia del cielo. Tanto
potè Leonardo congetturare dal poco che di questo Giacomo si narra ne’ vangeli,
e specialmente dalla sua imprecazione contro gl’inospiti Samaritani. Con tali
ricerche riuscì mirabilmente a diversificare questa figura dalle altre di
Pietro e di Tommaso, nelle quali sole rappresentò l’ira congiunta alle minacce
e chiaramente disposta a mandarle ad effetto.
Quantunque
la denominazione da noi data a questo apostolo trovi qualche ostacolo presso
alcuni, giova avvertire ch’essa non è soltanto appoggiata alla ripetuta
iscrizione, ma è sostenuta da altre forti ragioni che sole, senza quella,
basterebbero a farla prevalere. Il Pino e il Gallarati credono che questa
figura rappresenti san Tommaso, ed il La Lande parve accreditare tale opinione
che diffusa in seguito colla voce e cogli scritti si è talmente radicata che
anche il signor Morghen l’ha adottata nella sua stampa del Cenacolo,
inscrivendo nella fimbria della tunica di questo apostolo le famose parole
dette da Cristo a Tommaso: Quia vidisti
credidisti. Il padre Pino che nella distribuzione degli altri nomi assai
modestamente procede, dice qui francamente che il primo alla sinistra senza dubbio egli è san Tommaso, mentre vi si legge
tuttavia scritto il nome nell’orlo superiore della veste. Ora nè io nè
altri ha mai visto questo nome, e per quanto io mi sia affaticato osservando
diligentemente da vicino per mezzo del ponte, e facendo uso anche d’una lente
forte, non mi riuscì di riconoscere alcun rimasuglio di antica o moderna
lettera. Bensì potei scoprire alcuni resti di meandri mistilinei che facevano
ornato a quella specie di nastro che raduna le pieghe della tunica alla
scollatura, il quale ornamento interpolato anticamente di forme tendenti ora
alla quadrata ora alla circolare, e guasto in appresso dal tempo e dai
ritocchi, potè ai prevenuti far travedere i frammenti delle lettere che
latinamente compongono il nome di Tommaso. D’altronde se realmente in antico vi
fosse stato scritto un tal nome, se ne avrebbe memoria in qualcun altro de’
tanti scrittori che precedettero il novello scopritore. Se dunque il Pino per
nominare il suo apostolo si fece autorità di una iscrizione che non esiste, non
dee darsi valore alcuno alla sua asserzione.
Non
diversamente dal Pino scrive il Gallarati essere
questi senza alcun dubbio l’incredulo Tommaso; ma siccome non si degna di
dire prova alcuna di quanto afferma, non si può lagnare di non esser creduto.
Nemmen egli fa parola del nome inscritto travisto dal Pino, della quale
circostanza, qualora vi fosse stata veramente, non avrebbe mancato nè di
procurarsene notizia in tanti anni ch’ei consumò intorno a quest’opera, nè di
ragionarne nella sua descrizione in cui tenne conto di tutto ciò che vide e
potè capire. Dietro questa falsa denominazione il Gallarati descrive il suo
Tommaso assai stranamente, ed in quel volto che in ogni antica copia ed anche
nel guasto originale si scorge compreso d’orrore e di meraviglia, egli travide
un tal ghigno, con che, siccome incredulo, sembra farsi beffe delle parole del
Redentore. La quale espressione quanto sarebbe sconvenevole e del tutto
contraria ad ogni sana ragione, non che al sistema di Leonardo, non è
necessario esser pittore onde poterlo giudicare. In fine conchiude che questo
apostolo ha un doppio dito mignolo nella mano sinistra, cosa, dic’egli, degna di riflessione; su di che si legga
la sua postilla che trascrivo tra le note.[17]
È
qui tempo di dar ragione di questa misteriosa mano di sei dita, sulla quale tanti
sogni hanno fatto col Gallarati il Cochin e il La Lande, come vedemmo nelle
notizie degli autori che parlarono del Cenacolo.
L’apostolo
del quale ora ragioniamo, aprendo, come sopra si è notato, le braccia, stende
la sua mano manca sulla mensa e cuopre parte d’una mano dell’apostolo a lui
vicino, la quale si combina avere le dita quasi nella stessa direzione per le
linee, quantunque di questa si vegga il dosso, di quella la palma. Questa
seconda mano rimansi poco osservabile, e perchè, come si disse, in parte
coperta, e perchè sola isolata tra i panneggiamenti de’ personaggi che chiudono
la figura alla quale appartiene, nulla si vede del suo cubito, e quantunque
richiamata dall’atto della persona cui spetta, non ha alcuno apparente richiamo
di braccio o panneggiamento. La notata eguale direzione delle dita, il danno
del tempo e l’imperizia del primo ritoccatore, congiunta al pregiudizio di
qualche sciocca tradizione, fecero scomparire la mano meno visibile e non ne fu
serbato che un solo dito che si volle aggiungere alla mano del creduto Tommaso,
pretendendosi per tale mostruosità di dar conto del di lui soprannome di Didimo
o Gemello. Se poi l’eccesso di un dito in una mano abbia qualche ragionevole
relazione con siffatto aggiunto che a tutt’altro si suole dagli anatomici
impiegare, oppure se di tal cosa esista qualche antica leggenda o altro scritto
che l’autorizzi, non mi è riuscito di poterlo sapere. Trovo bensì che
quand’anche si sapesse storicamente che Tommaso avesse avuto una mano con tale
deformità, sarebbe dovere del pittore che dipingesse questo apostolo, di
nascondergliela artificiosamente o di rappresentarla come la suol fare
comunemente la natura senza altrimenti curarsi della storia. In fatti sebbene
nel Supplimento delle cronache di frate Jacopo Filippo da Bergamo[18]
si legga che l’evangelista Marco si fosse mozzo il pollice per non essere
sacerdote, non mi è accaduto di vedere mai alcuna imagine di lui, nemmeno di
cattivo artefice, con sì orribile difetto. Dopo l’ultimo ritocco del Mazza è scomparso
con gran dolore del padre Gallarati anche il sesto dito, unico avanzo della
mano del vero Tommaso; ed è perciò che ne’ disegni fatti modernamente, non
escluso quello che servì per la migliore stampa che vanti il Cenacolo, non si
tenne conto nè del dito nè della mano che quel dito dovea far sospettare,
mentre trovasi questa mostruosa mano ne’ disegni che furono eseguiti tra il
ritocco del Bellotti e quello del Mazza. Dicasi però ad onore del vero che
tutti que’ disegni ne’ quali ho visto questa stranezza, comprendendovi quello
che fece il Gallarati prima della sua gran miniatura, sono meno che mediocri, e
provano la pratica dell’arte parlai giudizio dell’artefice. Osservando poi
attentamente da vicino il dipinto, si scorge sotto alle lordure de’ ritocchi
qualche antica crosta di color di carne, in tale andamento che indica ancora
abbastanza chiaramente esser ivi stata una mano, senza la quale, come ognuno
può osservare, male si sarebbe potuto render conto del posto occupato dalla
figura seguente. Un’altra prova finalmente dell’esistenza di questa mano e
della sciocchezza di fare di due mani una mano di sei dita, si può vedere in
una copia o dir si voglia imitazione del Cenacolo che ancora esiste nell’antico
refettorio del convento di san Vincenzo di questa città. In essa la lunghezza
del muro è maggiore di quella che convenisse alla composizione, avuto riguardo
alla grandezza delle figure: quindi il pittore prese il partito di sviluppare e
di dare visibili per intiero le figure che nell’originale sono sovrapposte
l’una all’altra. Perciò l’apostolo che viene dopo Giacomo il Maggiore, e del
quale non si vede che la maschera e le due mani, si scorge qui tutto intero e
precisamente nell’atto che un artefice pratico potea desumere dalla mano
collocata dietro quella di Giacomo e scancellata barbaramente dal Bellotti per
più barbaramente deformarne un’altra.
Che
se in qualche copia, specialmente moderna, questa mano non si trova, ciò non
deve recare meraviglia e per gli arbitrj ordinarj de’ copisti, e per la posizione
di essa, che, sebbene naturale, genera imbarazzo e sospende un momento il
giudizio a qual figura appartenga. La qual sospensione di giudizio, prodotta
dalla incertezza di un’attitudine o da qualche membro stranamente collocato e
di non evidente pertinenza, debbe a tutto potere fuggirsi dal pittore; non vi
essendo cosa che più prontamente distrugga l’effetto morale della pittura,
quanto i dubbj che insorgono sulla conformazione fisica delle figure
rappresentate. Mi si perdoni se, parlando di tant’uomo qual era Leonardo, oso
dire che in questa minuzia non fu eguale a sè stesso, e non merita, come in
tutto il resto, d’essere imitato; merita bensì d’essere scusato per l’obbligo
che avea di render conto non solo del posto occupato dalla sua figura, ma della
sua espressione, e quel che non meno importava, della sua ponderazione, della
quale fu sempre Leonardo accuratissimo osservatore. Aggiungasi a sua discolpa
che in una scena di tumulto e di disordine di affetti, quale è quella ch’ei
prese a rappresentare, nella moltiplicità de gruppi e nella varietà delle mosse
è impossibile che le parti tutte di una figura si possano combinare in mostra
chiara ed evidente; ed il pittore è bensì costretto a renderne conto, ma non
debbe ad una vana dimostrazione di parti sacrificare l’effetto del tutto e
specialmente ciò che spetta all’espressione. Abbiamo intanto osservato di sopra
non vi essere ragione alcuna che giustifichi la denominazione del Pino e del
Gallarati. Vediamo se ve ne fosse qualcheduna per giustificare quella
dell’iscrizione.
Cristo
aveva di preferenza compagni nelle sue spedizioni i due figliuoli di Zebedeo.
Li fece degni di vederlo segretamente trasfigurato sul Tabor, e gli ebbe seco
all’Orto degli ulivi testimonj delle sue angosce e delle sue lagrime di sangue.
A queste prove di speciale confidenza perchè non avrebbe egli aggiunto quella
di averli vicini a mensa? e se soleva averli vicini ne’ conviti ordinarj, e
perchè privarli di un tal onore all’occasione sacra e solenne dell’ultima cena?
Sappiamo per altra parte dalla storia che Giovanni gli era vicino da un lato; e
per quale ragione non avrebbe conceduto al fratello dall’altro lato il posto
corrispondente? Il solo Pietro poteva aspirare a quest’onore, ma egli è facile
il dimostrare che non l’ebbe, perchè il vangelo ci narra ch’ei si volse ad
interrogare Giovanni intorno agli oscuri detti di Cristo, ciò che non avrebbe
potuto fare in quel luogo, ne dovuto, potendo di ciò interrogare Cristo
medesimo. Abbiamo inoltre uno speciale argomento delle distinzioni che Cristo
concedea a questi due prediletti discepoli nella grandezza e costanza
irremovibile della lor fede, per la quale virtù, secondo Girolamo,[19]
si acquistarono il titolo, con cui li dinota il vangelo, di figli del tuono. Siamo anche accertati
dell’abitudine di Cristo di averli sempre ai fianchi, dal desiderio che la
buona loro madre Salome, assidua compagna della madre di Cristo, non temè di
manifestare, di vederli, cioè, anche in cielo collocati su due troni, l’uno
alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Dopo queste osservazioni parmi che
sarebbe da tacciarsi di poco giudizioso il pittore che collocasse questo
apostolo altrove che ai fianchi di Cristo, e mi sembra anzi che il dargli un
tal posto possa servire a farlo riconoscere, non essendo esso riconoscibile per
altro parricolar distintivo. E sebbene non abbiamo alcun positivo testimonio di
antico autore intorno a questa denominazione, ne abbiamo uno d’altra specie nel
Lomazzo, pel quale è facile congetturare che al suo tempo si tenea che questa figura
rappresentasse il fratello di Giovanni. Egli ci avvisa che allorchè Bernardo
Zenale consigliò a Leonardo che lasciasse pur Cristo imperfetto, perchè non
sarebbe riuscito a farlo parer Cristo presso gli apostoli che avea dipinti, non
mette al confronto di Cristo che le figure de’ due Giacomi. Egli è evidente per
tal paragone che queste due figure doveano avere qualche riscontro di
somiglianza alla testa che si suol dare a Cristo; che se fosse stato
altrimenti, il perfezionamento della testa di Cristo non avrebbe avuto alcuno
impedimento dalla perfezione delle teste de’ due indicati apostoli. Ed in fatti
la testa di Giacomo il minore rassomiglia notabilmente al Salvatore, come
indicammo di sopra, e di tutte le altre undici teste non ve n’è una sola che abbia
carattere che a quel di Cristo si avvicini, tranne quella dell’apostolo che ora
descriviamo, il quale, per nobiltà di colore, per età, per capellatura e per
altre note, se ne venisse diversificata l’espressione e il vestimento, potrebbe
anch’egli, al pari del minor Giacomo, parer Cristo ove Cristo non fosse. Per
ultima prova della relazione che può passare tra la testa del Salvatore e
quella del maggiore de’ Giacomi, piacemi unire qui incisa una bella testa di
Cristo strascinato al Calvario tratta da un disegno originale di Leonardo,[20]
la qual testa, nella distribuzione delle parti in generale, nelle forme del
naso e delle labbra e in altre parti somiglia evidentemente all’apostolo di cui
qui ragioniamo. Da che si scorge più chiaramente esser vero quanto citammo del
Lomazzo, e che andarono errati coloro che copiando questa testa la caricarono
stravagantemente, dandole piuttosto espressione di dolor fisico che
d’inorridimento, e deformandola con tali esagerazioni nella bocca e negli occhi
da torle quasi la forma umana, non che la somiglianza col Redentore. Dal fin
qui detto e dalla sagacità colla quale, come
abbiamo
osservato, solea Leonardo seguire e indagare fin dove l’arte il permette, le
sacre tradizioni, mi pare non si possa più muover dubbio che in questa figura
sia stato da lui rappresentato il maggior figlio
del tuono con espressione convenientissima a quel carattere che senza
offendere la storia, anzi seguendone la traccia, poteva venirgli attribuito
dalla pittorica invenzione.
TOMMASO.
Mentre
l’apostolo antecedente aprendo le braccia ed oscurando le ciglia all’annunzio
del tradimento ritraggesi compreso d’orrore nell’attitudine che abbiamo
descritta, Tommaso passandogli col petto dietro le spalle, e recandosi così più
presso al Maestro, alza il dito della mano destra in atto di minacciare
qualsisia il traditore e di giurarne vendetta. Colla sinistra, della quale si è
lungamente ragionato nello scorso articolo, tiensi ancora alla mensa ed accenna
di prendere un coltello con atto conforme alla forte espressione dello zelo
animoso che accendeva questo deliberato seguace di Cristo, e del quale abbiamo
un testimonio nel vangelo di Giovanni.[21]
Ivi al capo undecimo il veggiamo spregiatore de’ pericoli e della morte, far
coraggio agli altri onde scortare il Maestro in Betania alla casa di Lazzaro,
offrendosi di perire con lui, perchè in que’ giorni i Giudei cercavanlo per
lapidarlo. Soli Pietro e Tommaso, nella storia evangelica, diedero prove di
coraggio intraprendente, e questi due soli fece Leonardo in azione e movimento
che esprime minaccia e brama di vendetta per opera propria. Il dare ad altri
che a questi una espressione consimile non avrebbe avuto appoggio alcuno di
sacra autorità. Gli stessi figli del
tuono Giacomo e Giovanni, allorchè volevansi vendicare dell’inospitalità
de’ Samaritani, non fecero già azione alcuna di risentimento, ma soltanto
volsersi a Cristo interrogandolo se doveano invocare sopra essi il fuoco del
cielo.
Se
ciò che abbiamo qui detto, giova a provare che questa figura rappresenta assai
congruamente l’apostolo Tommaso, si renderà sempre più sicura la denominazione
dell’apostolo antecedente che gli avea usurpato il suo nome. È poi probabile
che tale usurpazione sia avvenuta per isbaglio di tradizione cagionato dalla
prossima collocazione del vero Tommaso: perchè gli antichi dimostratori del
Cenacolo che lo avranno dichiarato da principio secondo la mente dell’autore, a
poco a poco costretti ad additare oggetti lontani, avranno per avventura
scambiati questi due apostoli che sono tanto fra loro vicini che l’una testa è
per metà coperta dall’altra; e così si sarà impresso nelle menti di que’ che
venner dopo, l’errore che qui si è combattuto.
FILIPPO.
Anche
di Filippo poco ci narra il vangelo e poco le leggende onde averne contrassegno
nella nostra pittura. Troppo debole argomento per riconoscerlo sarebbe l’età
sua giovenile che risponde abbastanza all’epoca assai tarda in che si crede
avvenuta la sua morte. Non ho pertanto altro appoggio per riconoscerlo che la
tanto ripetuta iscrizione.
Prima
ch’io descriva l’atto di questo apostolo, piacemi trascrivere un passo con cui
l’Epico tedesco lo caratterizza. I versi che cito sono tratti dalla traduzione
della Messiade di Giacomo Zigno e posti in bocca all’angelo Libaniele che così
distingue dagli altri l’apostolo confidato alla sua custodia.
……….L’affabile e
tranquillo
Mortal che seco loro ivi
tu scerni,
Egli è Filippo: io su lui
veglio. Sempre
Gli scorgi in mito
lampeggiare un riso
Di benefico amore a pro
dell’uomo;
Nè ’l suo celeste cor
altra conosce
Voglia più viva che d’amar
fedele
Come fratel chiunque ha
Dio creato
Ad immagine sua. L’alto
Fattore
Più che mel dolci il
eloquenza i fiumi
Nella sua bocca ha posti,
e dal suo labbro
Colano in copia le soavi
note
Qual dall’Ermon le
rugiadose stille
Al raggio mattutin, o
dall’ulivo
Le odorose a spirar
fuggevoli aure.
Su
quale autorità si appoggiasse questo poeta onde dare a Filippo un carattere sì
dolce ed amoroso, aggiungendogli la gloria dell’eloquenza, ornamento proprio
degli animi teneri ed inclinati all’amore, non mi è riuscito di trovarlo. A
buon conto anche Leonardo si convenne con lui, anzi il prevenne in dare al suo
Filippo un carattere precisamente conforme al descritto, e qualunque sia
l’autorità che ispirò il pittore e il poeta, non poteano andare meglio
d’accordo in esprimerlo nelle circostanze rispettive e coi mezzi rispettivi
delle due arti.[22] Tra i
caratteri delle altre figure di quest’opera non ve n’era ancora un solo
totalmente amoroso che suggerisse all’artista l’espressione finora intatta del
protestare fedeltà, dell’offerire il cuore e la vita, o simile altra che a sì
fatti animi sia conveniente. Che se pure fra i caratteri tanto fin qui da
Leonardo variati uno se ne riconosce di tal tempra, egli era quel di Giovanni,
al quale per altro da particolare circostanza era qui impedito uno sviluppo
analogo alla sua natura. In fatti rivolgendosi Giovanni a Pietro che
l’interroga con instanza, non poteva allo stesso tempo rivolgersi a Cristo in
attitudine che esprimesse proteste di fedeltà e d’amore. Dunque sebbene un atto
che a sì fatti sentimenti convenisse, avrebbe potuto adattarsi benissimo a
Giovanni, il pittore non gliel diede, perchè potè dargliene uno più confacente
al suo scopo e nello stesso tempo appoggiato alla storia, serbando tuttavia
nella sua fisionomia l’impronta d’un animo profondamente commosso, ma tenero,
mansueto e dolcissimo. Rimanendogli così libero l’uso di un’espressione
affettuosa senza alcuna mistura d’ira o di vendetta, a niuno meglio si confaceva
che al giovane Filippo. Ciò si palesa ben chiaramente nella sua attitudine.
Contristato egli improvvisamente nel sentirsi annunziare vicina la perdita
dell’adorato precettore, e udendo ch’essa doveva accadere per tradimento d’uno
degli eletti, sorge per protestare a Cristo la sua fedeltà e la costanza della
sua amicizia. Egli si pone entrambe le mani al petto, quasi volesse con tal
atto attestare la propria innocenza e la purità del suo cuore; o pure per
esprimere la sua prontezza a dar l’anima propria per lui. In questo secondo
senso anzi più strettamente intendevasi un tal gesto dagli antichi che
credevano l’anima o almeno una delle anime risedere nel cuore;[23]
ed anche adesso, quantunque si creda diversamente, poniamo naturalmente la mano
al petto per esprimere l’anima nostra nelle promesse e ne’ giuramenti.
Il
Gallarati sogna che questo apostolo, da lui creduto Giacomo il Maggiore, sia in
atto di lacerare con una delle mani le vesti per dimostrazione di dolore.
Sebbene quest’atto si costumasse dagli Ebrei in casi dolorosi, disperati od
orribili, oltrechè non è naturale che ad esso s’impieghi una sola delle mani,
non è qui certamente rappresentato; chè quando il fosse, male si accorderebbe
collo sguardo affettuoso che questo apostolo rivolge al Salvatore, e col resto
dell’atto che esclude ogni contrassegno di quell’entusiastico furore che
spingeva gli antichi a simili dimostrazioni. A cotesto errore del Gallarati
circa questo apostolo che motivo l’aggruppamento del pallio, artificiosamente
combinato a dimostrare la prontezza e momentaneità dell’attitudine alla quale
improvvisamente egli si compone, appena udita la terribile profezia di Cristo.
La sua testa è quasi di profilo, e doveva essere espressivissima per quanto
(più che da altro) per la scorta delle copie si scorge nella ruina
dell’originale, e per ciò che ne scrisse il Richardson al principio dello
scorso secolo. Il colore del pallio è di un rosso volgare: azzurra è la tunica
a maniche ricche di pieghe, ma strette. Il pallio è tenuto da un fermaglio a mezzo
il petto e scende ricco fino ai piedi.
MATTEO.
Molti
si sono accordati a chiamar Matteo questo apostolo, non so se per la
risoluzione dell’atto o per la migliore coltura dell’abito e de’ capelli, o, in
fine, per la meglio conservata tradizione dell’intenzion dell’autore. Il Pino,
il Gallarati e il Giornale di Roma gli danno un tal nome, confermatogli, come
vedemmo al principio, dalla nostra iscrizione. Egli è in atto di volgersi ai
due ultimi commensali che appajono immersi nella costernazione e nell’ansietà
del dubbio inquieto e del sospetto; e pare che stia confermando loro la fatale
predizione che da Cristo udì pronunciarsi. Mentre però a quelli si volge col
viso che si vede di profilo, a Cristo tiene rivolte entrambe le mani, e mostra
chiaramente di che ragiona. Con un tal movimento il sagace pittore, oltre la
vivacità della pronta espressione, ottenne di legare il gruppo mirabilmente, e
salvò con artificiosissimo avvedimento la direzione di questa figura
all’oggetto principale, quantunque da esso rivolga la testa.[24]
Vario
da ogni altro, non men che l’atto, è il partito del panneggiamento. Egli ha una
tunica celeste chiaretta, tendente al color di cenere; ed il pallio è azzurro
con fodera di una tinta tendente al giallo alquanto sparuto. La manica della
tunica è ricca in alto, e, legata verso la piegatura del braccio, d’indi in giù
si va restringendo sull’andare di quella che abbiamo descritta parlando
dell’apostolo Bartolommeo. Scorgesi nel complesso di questa figura un carattere
più colto che non è nelle altre, e si riconosce d’una condizione superiore alla
pescatoria o alle altre umili professioni apostoliche. Anche circa questo
apostolo abbiamo un gran vôto
nella storia, almeno in quelle cose che possono servire all’arte della pittura.
TADDEO.
I
soprannomi e gli epiteti perpetui usati dai poeti o riportati dagl’istorici
onde distinguere i personaggi che la storia o la poesia prende a descrivere,
non debbono essere trascurati dal pittore, siccome quelli che servono a rendere
tali personaggi più chiaramente conosciuti, e che non di rado esprimono cose
con vantaggio imitabili dall’arte del disegno. La ragione per cui simili
aggiunti per lo più sono opportuni alla pittorica rappresentazione, nasce
dall’officio comune dell’arte dello scrivere e del dipingere, di rappresentare,
cioè, e quasi porre sott’occhio le imagini descritte o imitate. E così, come i
Greci avean costume di esprimere con uno stesso vocabolo lo scrivere e il disegnare, sembra che allorquando il pittore coll’arte propria
giungerà a fare ciò che dalla sua ottiene il descrittore, e quando questi a
vicenda potrà esprimere colle parole quanto il pittore esprime col disegno,
ciascheduno, dentro i limiti rispettivi dell’arte propria, otterrà, non dubito,
effetto grande e gloria non volgare. Se però io mi dilungo alquanto dietro tali
avvertenze, non sarà, credo, tempo perduto e per l’opera ch’esaminiamo, e per
l’arte di cui è figlia quest’opera, e per più addentro conoscere il metodo con
cui l’autore la condusse.
Or
Giuda, or Lebbeo, or Taddeo venne chiamato l’apostolo del quale qui si ragiona,
e fu grecamente cognominato Zelote[25]
per l’ardore del suo zelo verso il divino Maestro, distinzione ch’egli ebbe
comune col suo fratello Simone che ultimo gli siede vicino. Il suo nome o forse
cognome di Lebbeo, secondo gli etimologisti dotti nella lingua ebraica, deriva
da fiamma, la qual derivazione si
accorderebbe in parte col greco soprannome da citi per la indicata virtù dello
zelo venne distinto. Di questi nomi di due lingue e di analoga significazione
non mancano altri esempj nella storia apostolica, e fanno spesso supporre un
terzo nome primitivo, come vediamo in questo apostolo non che in altri. Così,
se credesi ad Eusebio,[26]
anche Tommaso chiamossi Giuda, ed il nome di Tommaso che suona in lingua ebraica come Didimo nella greca, gli sarà stato aggiunto onde distinguerlo da
Giuda Taddeo e da Giuda Iscariote. Parimente Simone venne chiamato Cananeo che secondo alcuni suona come in
greco Zelote, acciocchè si distinguesse da Simone fratello di Andrea, il quale,
ond’essere a vicenda distinto, chiamavasi Pietro e talora anche Cefas e
Bariona. Così l’un Giacomo chiamavasi il
Giusto e l’altro il Figlio del tuono,
se non venivano fra loro distinti dai nomi paterni.
Allorquando
pertanto questi soprannomi non hanno veruna relazione a quelle personali
qualità che la pittura può esprimere, sieno fisiche, sieno morali il pittore
non debbe tenerne conto alcuno. Così se Iscariote
indica la tribù o il paese natio di Giuda il traditore, e se Tommaso indica ch’ei nacque gemello,
poco lume e soccorso avranne la pittura. Ma il contrario avverrà allorchè
questi aggiunti porteranno, come spessissimo si osserva in quelli usati da
Omero, indizio di tali qualità che diversifichino l’espressione, il costume o
la forma della persona che per essi è distinta. Quindi sarebbe errore pittorico
il rappresentare in attitudine esagerata e furibonda Giacomo il Giusto, o in attitudine fredda ed
indifferente gli Zeloti e i Figli del tuono: come egualmente lo
sarebbe il rappresentare Achille con gambe tarde e pesanti, o il dipingere con
braccia brune e con occhi piccioli Giunone.
Leonardo
lento meditatore ed indagatore acutissimo di tutto ciò che poteva renderlo più
inteso de’ caratteri delle persone che aveva prefisso di rappresentare, non ha
certamente trascurato, sia per mezzo de’ libri, sia col soccorso degli uomini
dotti di simili materie, d’informarsi del significato de’ molti nomi e
soprannomi apostolici. La cura ch’ei si prendeva di cercar notizia di ogni
benchè minima particolarità che avesse relazione agli argomenti delle sue
opere, ci viene confermata da tutti gli scrittori che parlarono di lui; e le
opere sue stesse, con fede più autentica e piena di quella che la storia abbia
diritto di ottenere, provano quanto attentamente ei considerasse le più minute
circostanze che poteano recargli qualche lume sui veri costumi e sulle forme
de’ suoi personaggi, o pure servir di guida alla sua invenzione ove mancasse
l’autorità storica. Con sì fatti studj potè questo sublime a un tempo ed
acutissimo ingegno dare tanta verità ed individualità di espressione e di
carattere così a ciò che direttamente ritraeva dal naturale, come alle
imitazioni di cui la natura non presenta alcun tipo proprio e diretto. Però
l’analizzare minutamente tutto ciò che a questa sua principale opera
appartiene, non dovrebbe, a mio parere, recar tedio a coloro che intendono ed
amano le cose pittoriche; tanto più che le mie ricerche hanno per principale
scopo ciò che riguarda l’imitazione degli affetti e delle passioni, la cui espressione
fu sempre da Leonardo considerata come la prima e vera gloria del disegno.
Tornando
or dunque al nostro apostolo che sulla fede della solita iscrizione ho chiamato
Giuda Taddeo, giova avvertire alcune cose che si riferiscono alla sua parentela
e che potrebbero fare ostacolo all’adottata denominazione.
Nelle
antiche leggende e non senza gravi autorità chiamansi fratelli di lui Simone il
Cananeo e Giacomo il Minore. Ora, accettando senza riserva questa fraternità,
si può osservare che tra il Minor Giacomo e lui non vi è riscontro alcuno di
somiglianza, tranne la foggia nazarena de’ capelli. Potrebbesi, in secondo
luogo, notare che vi è tra essi una troppo considerabile differenza di età, la
quale, sebbene sia possibile, non è però ordinaria tra fratelli uterini, nè
certamente sarebbe da imitarsi in pittura se non quando la storia espressamente
lo esigesse, il che non sembra avvenire nel caso nostro. Si può aggiungere in
fine che la collocazione di questo apostolo, tanto lontano dall’uno de’ fratelli,
non sarebbe scelta con quel giudizio di cui Leonardo ripetè prove solenni in
ciascuna delle figure di quest’opera.
Se
pertanto queste difficoltà sieno tali da muover dubbio intorno alla
denominazione di questa figura, o se per esse sia da rimproverare Leonardo di
averla qui e non altrove collocata, veggiamolo nelle seguenti osservazioni.
Primieramente,
per rispondere all’argomento che ci oppone la dissimiglianza, giova rammentare
ciò che abbiamo visto di sopra, cioè che Giacomo il Minore rassomigliava a Cristo
sì perfettamente che Giuda l’Iscariote diede agli sgherri il segnale del bacio
acciocchè non accadesse scambio tra Cristo e lui. E se tale somiglianza non
fosse stata singolare ed unica e non l’avesse notabilmente distinto dai
fratelli, non se ne sarebbero fatte si alte meraviglie. E se i fratelli
avessero somigliato a lui e quindi anch’essi a Cristo, non sarebbe stata
considerata sì miracolosa la somiglianza di Giacomo o vi sarebbe pur qualche
memoria anche della loro, siccome vi fu di quella di Giacomo la quale parve
stravagante e notabilissima in una parentela indiretta. Da ciò si può
congetturare che Giacomo, se pure fu fratello carnale di Taddeo e di Simone,
poco nel volto li somigliasse, come da essi si allontanava nell’istituto della
vita solitaria e nell’estremo rigor del costume.
Ma
siccome nel vangelo vengono chiamati indistintamente fratelli i cugini, come
sorelle le cugine o cognate; così, poco chiaramente apparendo la vera
fraternità, verrebbero a cadere, come la prima, anche le altre opposizioni.
Egli è ben vero che Taddeo nella sua epistola cattolica si chiama fratello di
Giacomo; ma non indica già di quale de’ Giacomi egli intenda; poichè tre se ne
contano, secondo molti antichi e moderni scrittori, l’uno figliuolo di Zebedeo,
l’altro di Alfeo, l’ultimo forse di Cleofa, cugino anch’esso di Cristo, e
probabilmente fratello di un Simone diverso dal Cananeo che gli succedette nel
vescovado di Gerusalemme, e che al pari di questo da taluni non si pone tra gli
apostoli. Il vangelo di Marco dice fratelli di Cristo, Giacomo, Giuseppe, Giuda
e Simone; ma come si potrà verificare se questi avessero, genitori comuni o
pure fossero fratelli fra loro come erano fratelli di Cristo? Lo stesso
evangelista fa menzione delle sorelle di Cristo senza nominarle; nè si può
giudicare s’esse erano mogli, cugine o sorelle carnali de’ quattro nominati
discepoli. Cresce il parentado con Elisabetta e Zaccaria genitori del Batista.
Non mancano sorelle e fratelli sì a Maria come a Giuseppe suo sposo, diverso
naturalmente dal nominato fratello di Cristo. Dopo ciò ognun vede quanto
sarebbe facile l’accordare quelle cuginanze che più accomodassero senza
costringere a fraternità carnale.
Anche
intorno a Simone vi sono non poche difficoltà ed imbarazzi. Teodoreto dice che
i fratelli di Cristo erano della tribù di Giuda, e che Simone l’apostolo fu
della tribù di Zabulon o di Neftali. Beda credè da prima che quel Simone che
dopo Giacomo fu vescovo di Gerusalemme, fosse lo stesso che l’apostolo di tal
nome; indi cangiò parere e si ritrattò. Lo stesso fecero Isidoro, Eusebio ed
altri. Il Klopstock,[27]
non saprei dire su quale autorità, lo fa parente di Giuda Iscariote, se non è
forse perchè questi vien chiamato nella Scrittura Giuda di Simone. Per altra parte Simone l’apostolo fu, secondo altri, uno
de’ pastori che alla nascita di Cristo furono avvertiti dagli angeli del luogo
ove il Messia era venuto alla luce: dunque si vegga di quanto dovea precedere
in età a Giacomo il Minore, il quale non avrebbe altrimenti tanto somigliato a Cristo
anche dopo la sua morte se non fosse stato o più giovane o almeno di pari età
con esso lui. Anche il Sandini, che più chiaramente degli altri espose quanto
potè raccogliere dai migliori autori intorno alle cose apostoliche, afferma che
due soltanto de’ fratelli di Cristo furono apostoli, cioè Giuda Taddeo e
Giacomo; la qual cosa, se fosse stata creduta da Leonardo, non sarebbe da
lodare la posizione delle due figure che rappresentano questi apostoli, non
atta ad esprimere la confidenziale amicizia di cui negli animi virtuosi è
occasione la fraternità. Per le quali cose tutte parrebbe più probabile che
questi fratelli non fossero figli d’uno stesso padre, come diventa assai
verisimile che fossero soltanto fratellli cugini, comechè chiamati sempre indistintamente
fratelli nel vangelo, costume seguito fors’anche da Taddeo nella citata sua
epistola. Ma comunque nel vero stiasi la cosa, egli è bene di osservare che
anche presentemente chiunque si volesse prendere la briga di porre in chiaro
queste apostoliche parentele, non ne uscirebbe con onore, tanto è folta
l’antica oscurità di queste materie. E se in tanta luce di critica qual è
quella che nel nostro secolo risplende, e dopo i concilj che hanno tolto alla
lettura de’ fedeli un gran numero di libri apocrifi, è ancora si tenebroso il
cammino che si batte onde scoprire la verità in questi argomenti, quanto più lo
doveva essere all’epoca di Leonardo, nella quale la scienza, forse maggiore in
alcuni, era poco suddivisa per potere in queste parti progredire, e mancava,
specialmente nelle materie storiche, tradizionali ed antiquarie, di quella
accurata critica della quale noi, deboli nel resto, assai opportunamente ci
vantiamo.
Dopo
il fin qui detto, a giudicare e sopra la provata diligenza di Leonardo e sopra
quanto nelle altre figure ha egli osservato, io sono di parere ch’ei credesse
che il suo Giacomo non fosse carnal fratello di Taddeo, ma bensì che questi
fosse fratello di Simone lo Zelote, che per tal ragione collocògli vicino. In
questo caso sarebbe giustificata la distanza del posto, la dissimiglianza delle
fattezze e la diversità notabile della età che osservammo passare tra Giacomo e
Taddeo.
Chè
se si vuol credere ch’egli stesse anche in ciò all’autorità delle leggende
tradotte dal Malermi, che danno tre figli ad Alfeo ed a Maria figliuola di
Cleofa, tutti apostoli, e sono Giacomo il Giusto e i due Zeloti, sebbene niuno
di questi due venga mai chiamato figlio d’Alfeo nella Scrittura, allora
crederei si potessero accomodare l’esposte difficoltà nel modo seguente.
Per
ciò che spetta alla fisionomia, in che Giacomo discorda dai fratelli, si
risponde con quanto già si è detto intorno al suo somigliare a Cristo. Per
quanto concerne la differenza della età, dovendosi dare a Simone una età virile
o almen giovanile nell’anno della nascita di Cristo, quindi quattro o cinque
lustri più di Giacomo, è chiaro ch’era in arbitrio del pittore di porre il
fratello Taddeo dentro l’età di que’ due in quel luogo che più convenivagli, e,
considerati gli Zeloti compagni sempre ne’ viaggi, nell’evangelica predicazione
e nel martirio, non li volle di molto diversi di età, come, seguendo la
tradizione e i soprannomi loro, li fece simili di carattere. Finalmente,
considerato il carattere rigido, solitario, austerissimo di Giacomo tanto
differente da quello dei due maggiori fratelli, e sopra l’osservazione a
Leonardo ben nota e nel suo Trattato ripetuta, che le persone di età e di
costumi conformi volentieri naturalmente si avvicinano, come le dispari in
queste cose fanno il contrario, parmi sufficientemente scusata anche la
distanza alla quale fu posto dai fratelli il minor figlio d’Alfeo.
Ma
è ormai tempo di descrivere il carattere e l’atto di questo Zelote.
Mentre
l’amore il più intenso ed affettuoso che costituisce, come abbiamo visto, il
carattere dominante di Filippo, chiamava nel comun turbamento questo apostolo
alle proteste ed ai giuramenti di fedeltà, l’amore unito allo zelo che fa il
carattere di Taddeo, dimandavano in lui una espressione che annunziasse
l’inquietudine, la costernazione, il sospetto onde l’animo suo doveva essere
esacerbato all’udire prossima per tradimento la ruina dell’amico. Ed in questa
espressione per l’appunto riuscì a Leonardo di rappresentarlo mirabilmente,
facendolo volgere alquanto al vicino fratello, e col cenno della destra e col
posare della sinistra e col girare degli occhi in direzione diversa da quella
della testa e coll’abbassare gli angoli delle labbra, diègli un atto sì nuovo e
sì conforme al suo scopo che a niun’altra cede questa figura in esprimere
quanto sente, e in far sentire e pensare quanto esprime, allo spettatore. Prima
che i ritocchi fatali raddoppiassero sopra di essa la ruina del tempo, pari al
Catone di Dante,
Lunga la barba e di pel
bianco mista
Portava ai suoi capelli
somigliante,
De’ quai cadeva al petto
doppia lista.
Ora
quasi nessun tratto vi si scorge che si possa credere originale, quantunque non
sia giunto fino ad essa il pennello del Mazza. Ciò non ostante tanto e tale era
il vigore dell’espressione in questa figura, che forse meno delle altre
perdette nelle copie più autorevoli, e più d’altre molte l’ho veduta fermare
l’attenzione di chi l’osserva, segno per me evidente che in essa più che nelle
altre serbossi lo spirito del sublime autore.
Dopo
le riflessioni fatte intorno alla cura con cui Leonardo e in questo apostolo e
nel vicino Simone imitò il carattere ond’ebbero il nuovo nome questi due
zelanti seguaci di Cristo, sarà bene il volgere lo sguardo dall’altro lato al
posto che risponde all’occupato qui da Taddeo per osservarvi Giacomo il Giusto,
sia o non sia per Leonardo fratello degli Zeloti. Egli, secondo il principio di
già notato, è assai meno turbato degli altri tutti, perchè la virtù della
giustizia ond’ei prese il soprannome, si accorda assai bene con un animo imperturbabile;
e l’abbiamo in oltre osservato in atto d’interrogare, diversamente
dall’iracondo Pietro, senza minaccia o alterazione considerabile, con eguale
armonia alla sua principale virtù. In fatti gli animi suscettivi di pronta
perturbazione sono sovente in pericolo di ledere la giustizia: dunque questa
istantanea irritabilità, quantunque sia spesso indizio di carattere buono, non
debbesi dal pittore imitare nelle persone in cui la giustizia sia la primaria e
caratteristica virtù, alla quale meglio d’assai si conviene il pacato desiderio
della conoscenza delle cose, espresso opportunamente dall’atto
dell’interrogare. Di questo pericolo che la giustizia sia lesa dalla troppo
vivace eccitabilità dell’ira anche onesta, ce ne somministra due chiari esempj
la storia evangelica, l’uno in Pietro che, sebben ottimo, si avvilì stranamente
fino a rinnegar Cristo, l’altro negli energici figli di Zebedeo che, contro i
principi del loro istitutore e dell’umanità, volevano invocare il fuoco celeste
sui Samaritani che rifiutaronsi di riceverli ad ospizio.
Queste
morali osservazioni non debbono parere troppo sottili a chi sa quanto
acutamente intorno a tal cose speculasse Leonardo. E chi tali le giudicasse,
crederà favolosa la perfezione alla quale con argomenti sottilissimi i greci
artefici aspirarono con successo, e di cui, sebbene le opere più famose non
esistano se non descritte ne’ libri, abbiamo sufficienti esempj nelle mirabili
sculture di Agasia, de’ fratelli Rodiotti, di Glicone, di Cleomene e d’altri.
SIMONE.
L’articolo
antecedente mi dispensa di ripetere in questo varie cose che all’apostolo
Simone appartengono. Comunque varj sieno i giudizj degli storici e dei critici
intorno all’apostolato di Simone fratello di Giuda Taddeo, parmi qui evidente
aver Leonardo voluto fare due fratelli di questi due ultimi commensali. E come
collocò vicini, sebben differenti di carattere, Pietro ed Andrea, e non divise
che col Salvatore i due figli di Zebedeo, era naturale che anche i due Zeloti
non venissero disgiunti, eglino che non solo furono indivisi nella predicazione
e nel martirio, ma che il sono fin anche nelle leggende e nel calendario.
Siede
maestosamente questo apostolo nel luogo corrispondente a quello che occupa
dall’altro lato Bartolommeo; sole figure di tutta l’opera che intere si
veggano, perchè poste di profilo ai due capi della mensa. Bartolommeo che
sembra dubitare di aver male udito, nè trova chi tra i vicini l’informi, s’alza
curioso e turbato, e si sporge in avanti sperando avere qualche spiegazione di
ciò ch’eccitògli turbamento e stupore. Simone in vece, accertato da Matteo di
quanto asserì il Salvatore, rimane nell’angustiosa dubitazione sulla persona
del traditore, e nella dolorosa credenza del vicino infortunio profetizzato dal
Maestro. Entrambi questi affetti e di dubbio e di affanno sono ottimamente
espressi in questa figura, consentaneamente a quel carattere infiammato di puro
zelo che, come osservammo, ottennegli il soprannome di Zelote, e nello stesso
senso quello di Cananeo. La fronte calva aggiunge maestà alla robusta vecchiaja
di questo apostolo che secondo le tradizioni era, come qui appare, di tutti il
più attempato. Ben gli si adatta il largo pallio che costretto a mezzo il
petto, gli passa sopra entrambe le braccia, e da man destra rientra a coprirgli
le cosce e le gambe; da sinistra rivolto all’insù cuopre doppio la spalla e
ricade all’indietro con vaste e ricche falde. Anche il sedile su cui siede
l’apostolo, rimane in gran parte coperto dal volume del panneggiamento.
Leonardo raccomanda più d’una volta di vestir largamente i vecchi, e con panni
di moderati colori alla età e gravità loro convenienti. Il colore di questo
pallio pende in giallo nelle parti illuminate ed in rossiccio nelle ombrose,
tinta di cui sono frequenti gli esempj ne’ dipinti di quel tempo e più ancora
nel secolo seguente in cui questi tuoni cangianti si portarono ad abusi
ammanierati e bizzarri, e screditarono l’arte antica che li trattò con
avvedimento e moderazione. La sua tunica è bianca ed ha le maniche ricche e
larghe, ma non quanto quelle del Salvatore e di Giacomo il Minore. Le mani
finalmente non possono meglio accordarsi coll’espressione delle altre parti
tutte di questa dignitosa figura.
Ecco
dunque chiusa in Simone questa scena singolare in cui non si può abbastanza ammirare
l’ingegno dell’autore in trovare ed autorizzare colla storia tanta varietà
nelle forme, negli affetti, ne’ moti e nelle passioni, e ciò tutto in argomento
per sè sterile e monotono che non permette varietà di stature, nè di sesso, nè
altri ajuti dell’arte.
Se
ricorriamo di nuovo con l’occhio i singoli attori di quest’opera, cominciamo ad
osservare in Bartolommeo inquietudine, perturbazione e curiosità di
schiarimento intorno a ciò che pargli per avventura avere frainteso, e su di
che vuol essere confermato da Cristo stesso e non da altri. Giacomo il Giusto
più pacatamente interroga quello tra’ vicini che crede più atto ad informarlo.
Meraviglia e stupore comprendono Andrea. Pietro interroga con ira e minaccia.
Giuda stupefatto d’essere scoperto si ricompone con affettazione ed impostura.
Giovanni dolente volgesi a Pietro che l’interroga, e lascia così maggior campo
e trionfo alla figura principale. Cristo mansueto e grave mostra e quasi
dissimula dolore profondo che nulla toglie alla sua bellezza, grandezza e
maestà. Inorridisce Giacomo il Maggiore; giura vendetta Tommaso; protesta amore
Filippo. Matteo conferma dolente i detti del Redentore; Lebbeo sospetta; Simone
dubita.[28]
I
segnali di queste morali situazioni, sì naturali nella circostanza e sì artificiosamente
variate, non possono essere più evidenti negli atti e ne’ volti: i moti non
possono essere nè più pronti, nè meglio a reciproco effetto posti in contrasto;
le forme tutte in fine sono belle e scelte per quanto simile argomento il
comporta. Ma il pregio che, a mio parere, non si può con lodi sufficienti
equiparare, sta nel carattere impresso da Leonardo in queste figure le quali
null’altro fuor che uomini galilei ed
apostoli possono acconciamente rappresentare. Ed in ciò veramente Leonardo
pareggiò gli antichi e fu superiore ai primi luminari dell’arte risorta; perchè
Raffaello stesso (non che altri, sebben grandi, dell’epoca posteriore)
trascurando sovente d’improntare nelle figure questo carattere proprio ed
individuo che ciascuna da ogni altra distingue, fece talvolta degli apostoli
che si confondono con filosofi greci, ed a vicenda de’ filosofi che possono
passare per apostoli. In prova della quale asserzione, lasciando le
trasformazioni fatte da pittori non volgari delle sue Psichi in Maddalene, e di
molte sue deità gentili in profeti e sibille, voglio che basti il solo esempio
della per altro mirabile scuola d’Atene, nella quale non solo Platone ed
Aristotile furono presi spesso da persone non indôtte per gli apostoli Pietro e Paolo, ma
varie figure di giovani e di vecchi parvero allo stesso Vasari angeli ed
evangelisti.
DEL LUOGO DELL’AZ IONE.
Di grandissima dignità, dice Leonardo, è il discorso de’ campi;[29]
ma sebbene spesso e sottilmente ne ragioni nel suo Trattato, egli li considera
soltanto generalmente, e più che per altro, per riguardo al rilievo ed al
giovamento che, serbate certe leggi, possono arrecare alle figure. Noi abbiamo
debito di esaminare questa parte del quadro, non solo come campo in generale, ma come luogo
dell’azione, pel quale il pittore debbe aver cura di seguire in quanto può
la tradizione, il costume e le circostanze, accomodando il tutto all’oggetto principale della sua
storia. E sotto questo punto di vista giova qui specialmente osservare il fondo
del Cenacolo, rimettendo il lettore per gli altri particolari a quanto ne dirò
ragionando della mia copia.
Se
tanto povera di notizie, confusa e tenebrosa è la storia intorno agli augusti
attori del nostro quadro, non dee recar meraviglia che non ci sien giunte
informazioni chiare circa il luogo in cui avvenne l’azione in esso quadro
rappresentata. Dagli evangelisti non si sa più oltre, se non che Cristo fece
l’ultima cena cogli apostoli in un gran triclinio che a tal uopo fu preparato
da Pietro e da Giovanni in casa di un incognito loro amico. Questo luogo era
sul monte Sion, ed è ne’ vangeli replicatamente chiamato Cænaculum
grande stratum; ma ciò
non basta a darci idea nè della sua decorazione nè della sua forma. I teologi
antiquarj attesero a lungo ad indagare a chi questo cenacolo appartenesse, e
poco del resto curandosi, niun soccorso prepararono alla pittura. Chi fosse
curioso di conoscere le loro opinioni, può leggerle nel Quaresmio e negli
autori ch’ei cita.
L’Adricomio
che compose una specie d’indice architettonico dell’antica Gerusalemme, sotto
l’articolo Cænaculum, memora i fatti importanti ivi
accaduti, ma nulla dice della sua figura. Santo Brasca che pubblicò in Milano
il suo Viaggio di Terra Santa, forse allorquando Leonardo si disponeva al suo
lavoro, cioè nel 1481, nulla lasciò scritto che gli potesse servire, nè lo
descrive altrimenti, se non dicendolo al suo tempo chiesia de li nostri frati minori. L’Amico nel suo Trattato degli
edifizj di Terra Santa non diminuisce le oscurità in cui ci lasciano gli altri
autori. Le piante che abbiamo dal Quaresmio e dall’Amico, come parimente le
figure dello Zuallardo, sono informi anzi ridicole, e quand’anche esprimessero
il vero, sarebbero inutili al pittore. Vi si notano i luoghi dove si arrostì
l’agnello, dove si mangiò, dove scese lo Spirito Santo, dove morì la Vergine e
cose simili. D’altra parte sembra per molti storici che questo luogo venisse da
prima rinchiuso in un tempio edificato da sant’Elena; di poi fosse convertito
in un convento; in appresso di nuovo in una chiesa; indi in un palazzo; e dopo
tanti cangiamenti, sebbene si volesse supporre religiosamente rispettata
l’antica struttura, non è probabile che un privato edifizio d’una città qual
era Gerusalemme, resistesse alle ingiurie delle guerre e de’ secoli, mentre non
vi è orma di verun antico privato edifizio in tutta Roma maestra della solida
architettura.
Dopo
ciò parmi da credere che, ad onta delle informazioni che Leonardo potè avere da
Santo Brasca e ad onta delle altre relazioni scritte o verbali che l’uso ancor
vigente de’ pellegrinaggi in Terra Santa poteva fornirgli intorno a quei
luoghi, nulla con tutto ciò per tali sussidj trovasse di abbastanza degno
d’essere seguito per merito d’autorità o di forma. Quindi opino ch’egli siasi
attenuto semplicemente al vangelo, col metodo che osservammo da lui praticato
nelle parti più importanti della sua composizione.
Dal
vangelo pertanto sappiamo che il luogo era grande e che fu capace di contenere
centoventi persone il dì della Pentecoste, e sembra che in maggior numero
ancora i primi cristiani vi si adunassero in altre occasioni. Sappiamo in oltre
ch’era ornato, e pare appartenesse a persona facoltosa; in che gli antiquarj si
accordano, come si accordano, ignoro su qual tradizione, in asserire che non vi
erano colonne, dalla qual cosa non dissentono le antiche icnografie, e ne
abbiam cenno nel Trattato del Lomazzo.[30]
Su queste sole autorità appoggiò Leonardo l’invenzione del luogo della sua
storia, e fece una gran sala ad angoli retti che si vede sulla linea della sua
lunghezza; mezzo con cui il pittore può dare idea di una gran vastità in poco
spazio. Questa sala è coperta da una soffitta a travicelli che incontrandosi
formano de’ lacunari quadrati senz’ altro ornamento. Sotto la soffitta girano
due fasce d’architrave. Le pareti laterali sono decorate di tappezzerie a
grandi quadrati incassati alquanto in esse pareti, e veggonsene quattro da ogni
lato. Fra l’uno e l’altro di questi quadrati sonvi certe aperture, non saprei
ben dire se di porticine, di piccole finestre o di ripostigli. Nell’originale
queste vennero scancellate affatto: solo dalla parte luminosa del quadro ne
traspare ancora sufficiente indizio. Indicherò altrove donde le ho tratte e a
qual uso probabilmente servissero secondo la mente dell’autore. Nel bel mezzo
del fondo avvi una porta ornata di stipite, e due finestre senz’ alcun
ornamento, per le quali, come per la porta, viene rallegrato il campo dalla
vista del cielo sereno e delle montagne che si perdono nel lontano orizzonte.
Le tappezzerie sono ornate di rabeschi di un rosso gentile in campo verde. Il
pavimento è distinto di fasce che seguono la distribuzione de’ travicelli
secondo la lunghezza della sala. Tali fasce pendono in giallastro chiaro
macchiato; il pavimento in rosso d’ocria; le pareti in fine e la soffitta in
cenerognolo chiaro, ove le ombre e i riflessi non l’alterano.
Per
ciò che concerne il costume, nella solita oscurità intorno alla forma de’
triclinj degli Ebrei, accontentossi Leonardo di dare al suo una tale
architettura che non avesse troppo del carattere greco o romano. A tal fine
escluse ogni ordine di colonne, accordandosi in ciò cogli antiquarj che sopra
ho indicati. Abbondò poi nelle tappezzerie, seguendo l’uso degli orientali ed
anche la sacra tradizione circa la ricchezza del padrone del luogo. E così come
abbiamo osservato avere il nostro autore ne suoi apostoli impresso un carattere
sì proprio che, quanto in queste figure riesce a meraviglia, poco
opportunamente si adatterebbe ad altra rappresentazione, parmi lo stesso
potersi dire della sua scelta del luogo dell’azione in che mantenne un
carattere sì analogo al resto, che male ad altra storia converrebbe la quale
non fosse ivi accaduta. E mentre i molti cenacoli di varj autori per altro
celeberrimi, pel fasto e pel modo dell’architettura si confondono con triclinj
greci o romani, il modesto Cenacolo di Leonardo non supera la fortuna o la
scienza architettonica degli Ebrei di quell’epoca.
Nè
cura minore pose Leonardo alle circostanze della sua azione. Sebbene ci
consigli sovente copia, ricchezza e varietà in tutte le parti delle
composizioni pittoriche, servì qui con ingegnosa sobrietà alla gravità
dell’argomento. Col cielo che dalla porta più largo si vede, fece campo alla
sua figura principale e la rese così più distinta e cospicua. Colla posizione
della sua mensa secondo la larghezza della sala, oltre l’idea che, come già
dissi, collo scorciare della lunghezza potè più facilmente dare di luogo vasto
e capace, allontanò d’assai la porta da’ suoi attori, e facendola comunicare
con luoghi che non appajono nè colti nè abitati, fe’ meglio sentire la libera
solitudine che la sua scena esigeva. Nell’orizzonte non si veggono distinti nè
alberi nè edifizj. Tutto spira quella quiete che regnava sul Sion e che,
secondo narrano gli scrittori sacri, fece a Cristo preferire quel luogo per la
celebrazione de’ suoi principali misterj.
DELLA MENSA E DELLE ALTRE
PARTI ACCESSORIE.
Gli
eruditi moderni hanno qui campo di far mostra di dottrina antiquaria, e di
accusare Leonardo di aver tradito il costume e la storia. Egli ha osato fare i
suoi apostoli seduti a mensa, e non a giacere, come dalle proprie parole della
Scrittura si può giudicare che stessero nell’occasione che fa argomento del
nostro quadro. Il Lazzarini[31]
taccia in generale i pittori che non seguono tale costumanza del giacere,
specialmente nell’ultima cena di Cristo, e crede quasi impossibile, se non
isconciamente, che l’apostolo Giovanni venga rappresentato in atto di dormire
appoggiandosi al petto del Salvatore, qualora entrambi non si facciano sdrajati
sul letto. Io non so perchè egli trovi tanto difficile e strana la combinazione
di tal atto, mentre, oltre l’osservazione in contrario che si può fare sul
naturale, abbiamo non pochi antichi quadri ne’ quali Giovanni senz’alcun mal
garbo riposa in seno di Cristo, come fra gli altri si vede nella tavola altrove
citata di Gaudenzio da Varallo alla Passione. Ma si dia pur ragione al
Lazzarini, tanto più che al suo tempo era sì grande la deviazione dalla buona
strada nella pittura, in ispecie per ciò che spetta al costume, che non è da
fargli aggravio s’egli non prende a considerare che il seguirlo troppo
scrupolosamente può talora nuocere a qualche parte più importante dell’arte. Nè
voglio che si valuti in conto alcuno l’autorità del Bellarmino, nè gli
argomenti per altro ingegnosi di Giovanni Maria Ciocchi, il quale trattando
espressamente di tale questione del giacere o sedere a mensa in proposito della
cena di Cristo, nel capitolo settimo della sua Pittura in Parnaso, pretende dimostrare che gli antichi per costume
vi sedessero sopra panche o sedili, e che non giacessero altrimenti sui letti
se non le persone più molli, delicate e lascive. In una copia ch’io tengo di
quel suo libro, leggonsi molte erudite prove contro tale opinione scritte di
pugno del dottissimo Anton Maria Biscioni: ma maggiori e più chiare le abbiamo
dai migliori classici e dai monumenti che dall’epoca delle postille del
Biscioni scritte nel 1725 sono cresciuti notabilmente, e sono anche meglio
spiegati nelle tante opere classiche d’antiquaria, onde è illustre lo scorso
secolo, come l’Ercolanese, quelle d’Ennio Quirino Visconti, quelle del
Winkelmann e d’altri. Le spiegazioni poi che il Ciocchi vorrebbe dare dei verbi
accumbere e discumbere, provano che non avea molta pratica degli antichi
scrittori, nè conosceva molto addentro la latinità: le altre sue ragioni
dimostrano in lui poca critica e povertà di cognizioni si pittoriche come
antiquarie. Però le difese di Leonardo non debbonsi prendere nè da lui, nè da
quelli che il prevennero o il seguirono nella sua opinione, mentre si possono
assai meglio desumere dalla vera ragion pittorica e dalla filosofia.
Allorchè
una costumanza importante in un’opera di disegno, oltre l’essere d’assai
lontana dalle ordinarie, è fuori affatto della notizia volgare, in vece di dar
piacere qualora il pittore la segua, apparirà stravagante e sarà sovente
cagione di riso e ne’ più moderati argomento di nojose interrogazioni che tutto
distruggono l’effetto dell’arte. Quindi in casi simili è dovere del pittore
l’accomodarsi all’opinione generale quantunque erronea; e così fece Leonardo,
cui premea di commuovere per dilettare ed istruire moralmente, non di erudire
in freddure, distruggendo quel che l’arte ha di meglio. Giudico pertanto
ch’egli ciò facesse a disegno, e non senza aver prima ponderato se così o
altrimenti l’arte esigesse. Il sapere che gli Ebrei cenando giacevano sui letti
al pari de’ Greci e de’ Romani, non è sì recondita erudizione, nè si lontana
notizia che non dovesse giungere fino a lui che pur tante cose sapea bene, e
modestamente solea chiedere altrui quelle che temea d’ignorare. Dunque è da
credere ch’egli avrà benissimo saputo che gli apostoli stavano al convito in
altra forma che quella da lui scelta, perchè generalmente nota e ricevuta; ma
sapeva altresì che il pittore debbe rifiutare il pennello a quel vero che, per usurpare la frase del nostro poeta, ha faccia di menzogna, o che s’egli
vorrà fare altrimenti, quantunque nel resto senza colpa, verrà biasimato.
Giova
aggiungere che sebbene presso di noi non vi fossero, come già presso gli Egizj
ed i Greci, delle leggi destinate a prescrivere alle arti imitatrici le forme
degl’Iddii e i modi di rappresentare i principali misterj della religione; pure
parte per la tradizione, parte per la venerata autorità delle antiche
imitazioni, comechè arbitrarie, si è stampato a poco a poco nelle diverse
imaginative degli uomini un idolo di tali cose si fattamente uniforme, che ogni
idiota, senz’avere a lungo posto mente ad alcuno speciale ritratto o a storico
qualsivoglia lavoro di disegno, riconosce a colpo d’occhio le fisionomie di
Cristo, di Pietro, di Giovanni, e le imitazioni delle principali storie
evangeliche o bibliche. Da ciò nasce di necessità che se l’imitatore non
seconda nelle sue opere questo idolo volgare scolpito in tutte le fantasie, non
potrà, anche bene operando, ottener buon effetto, perchè non sarà inteso dalla
generalità; e quand’anche si avvicinasse di più al vero reale e storico,
combattendo fuor di proposito quel vero icastico insieme ed ideale che l’autorità
antica imprime profondamente nelle menti umane, sarà biasimato o tenuto in non
cale. Così un oratore dottissimo che egregiamente concionasse, ma con parole
note a pochi e con modi fuori dell’uso comune, in vece di commuovere
l’assemblea, farebbe ridere o sbadigliare.
Nè
dee recar meraviglia che questi due veri che abbiamo distinto, l’ideale e il
reale, sieno spesso fra loro diversi, specialmente nelle cose che appartengono
alla nostra religione. È anzi naturale che le sacre rappresentazioni, sebbene antiche,
sieno sovente lontane dal vero modo nel quale avvennero i fatti rappresentati,
perchè il cristianesimo essendo fondato sulle ruine dell’idolatria dei Gentili,
non permise le imagini se non molto tardi e non senza gravi difficoltà di
guerre e di persecuzioni. Ed essendosi in oltre assai più tardi permessa la
scultura che la pittura (perchè furono costituite, per timore d’idolatria,
delle strane differenze fra queste due arti sorelle, quantunque in fatto sieno
un’arte sola), periti i più antichi e più fragili monumenti della pittura,
quanto d’entrambe le arti ci rimane, è assai lontano dall’epoca de’ fatti
imitati, ed appartiene per lo più a’ secoli della più crassa ignoranza e della
barbarie. Come dunque pretendere che a que’ tempi in cui l’arte era caduta, si
rappresentassero con verità di costume le storie della religione? ma, per altra
parte, come poter impedire l’impressione naturale che tali monumenti doveano
produrre in quelle rozze fantasie, mobili in tutto, ma per natura tenaci di ciò
che alla religione appartiene? E intanto questa impressione, per cui nacque
quell’idolo uniforme che più sopra, ho indicato, divenne necessariamente in
appresso la maestra e la guida degli artefici, fossero o no partecipi del
volgare pregiudizio. Da tale necessità venne notabilmente ritardato lo studio
diretto della natura, solo perchè tale studio avrebbe condotto l’arte a
rappresentazioni diverse da quelle che i più antichi monumenti e le tradizioni
aveano impresse nelle menti degli uomini. Così quella stessa religione, per cui
rinacquero e furono a lungo nutrite le arti d’imitazione, si opponeva
stranamente alla loro perfezione e ne ritardò di qualche secolo il
conseguimento presso gl’Italiani e presso i Greci, come pare lo impedisse del
tutto presso gli Egizj.
Il
preparare pertanto le fantasie volgari a notabili cangiamenti in fatto di
religiose rappresentazioni, è opera di molte età. Giotto prima d’ogni altro,
forse colla scorta del divino Dante che anch’egli per testimonio di Leonardo
Bruni fu ottimo disegnatore, sentì la necessità d’imitare direttamente la
natura e non gl’idoli fantastici che più o men male s’imitavano prima di lui
dai maestri greci ed italiani. Ciò non ostante ei di poco si scostò dagli
antecessori nelle sacre rappresentazioni; e se ardì talora scostarsene,
spintovi dall’obbligo di variare cui era astretto dalla copia immensa delle
opere e dalla rara fecondità del suo genio, ciò avvenne con poca sua lode e
talora con rimprovero d’irreligiosa bizzarria. La sua scuola preparò quella
degli Orcagna, poi altre di ricchi e lieti inventori per quel tempo. Ma
l’assuefare le fantasie volgari a tollerare nelle tavole destinate al culto ed
anche ad amare degli episodj bizzarri e piacevoli, è ben altro che istruirle
intorno al costume e renderle esigenti in questa delicata parte della pittorica
verità. La totale rivoluzione del modo di studiare e di vedere, per quanto
spetta alla figura umana, doveva operarsi dal gran Masaccio, se la morte non
l’avesse interrotto nel fiore dell’età e nel vigore delle sue prove; ed a
quell’epoca egli già aveva non solamente fatto meravigliare i contemporanei, ma
aveva lasciato di che far meravigliare i posteri, e quali posteri! Michelagnolo
e Raffaello. Ma neppur egli istruì in questa parte; e Donato e il Ghiberti e il
Lippi confermarono bensì con nuove opere mirabili l’eccellenza del nuovo
metodo, ma il miglioramento dell’imitazione delle figure e delle passioni umane
non portò nessun sostanziale cangiamento al modo già ricevuto di rappresentare
le sacre istorie; e solo fu permesso ed applaudito l’arricchirle a capriccio
senza cura nessuna del costume, e spesso con danno del carattere e del decoro.
Che se fu d’uopo del corso di più secoli per condurre le arti del disegno alla
retta imitazione de’ corpi umani e de’ loro accidenti, de’ quali era pur sempre
presente il modello, è da credere che molto maggiore periodo dovesse essere
necessario per condurle a rappresentare rettamente i fatti della storia
lontanissimi di tempo, spesso male descritti, e intorno ai quali la comune opinione
era pregiudicata da antichi, quantunque pessimi, pur venerati monumenti.
Intanto la ricchezza, le scienze e la filosofia cominciavano a sostenere e ad
istruir l’arte, in Toscana sotto il vecchio Cosmo, in Roma sotto i papi che la
riedificavano, in Lombardia sotto gli ultimi Visconti e i primi Sforza. Ma in
quell’aurora che spuntava dell’aureo secolo ch’era per nascere, e le scienze e
la filosofia non attendevano che alle cose morali, civili e teologiche, e la
erudizione che pure indagava già tutta l’antichità, trascurando per anche i
dispersi e non abbastanza stimati monumenti dell’arte, non potè contribuire a
correggere gli errori del volgo e degli artefici. Il pregiudizio intorno al
costume, in vece d’esser tolto, fu rinforzato da opere eccellenti per gli altri
lati dell’arte, e spesso si videro Omero, Aristotile e Virgilio col lucco
fiorentino o in abito da dottori, e ciò, anzi che parere strano, si adattava
all’opinione generale e la confermava. Tanto meno l’arte osava ancora di
allontanarsi dai modi vecchi di rappresentare i misterj e le visioni, e
rimasero a lungo sacre e quasi invariabili le attitudini delle Nostre Donne,
de’ san Rocchi, de’ san Bastiani e degli altri eroi della religione che più
comunemente si offrono all’adorazione de’ fedeli. Così, ad onta della varietà
nelle parti accessorie, si videro quasi sempre le stesse disposizioni di figure
ne’ Presepj, nelle sacre Famiglie, ne’ Cristi crocifissi o deposti, e nelle
altre storie principali in quella età eseguite. Questo rispetto dell’arte al
vero ideale del volgo fa sì che in tutte le antiche rappresentazioni trovasi
quasi sempre un embrione delle composizioni susseguenti, soltanto arricchite di
nuovi ornamenti ed artifizj; e per tal riguardo non sarà senza torto nostro ed
ingiusto aggravio di quegli antichi maestri, l’accusarli di poca originalità
d’invenzione, giacchè presso loro era un debito l’accomodarsi alla tenace
universale opinione; come similmente non possiamo a ragione tacciarli
d’introdurre sovente ritratti d’uomini viventi nelle sacre storie, perchè ciò
veniva comandato da coloro che pagavano le opere. Ma finalmente apparve Andrea
del Verocchio. Egli era filosofo e conosceva tutte le arti del disegno per
ragionevoli teoriche e per abbastanza lodevole pratica. Egli il primo rinnovò l’arte
inventata da quel Lisistrato statuario, fratello di Lisippo, quella, cioè, di
formare i corpi vivi con cera o gesso, e contribuì anche per essa non poco a
perfezionare l’imitazione, specialmente nelle cose di rilievo. Sì per lui come
per gl’illustri ingegni che il precedettero, lo studio della natura s’era di
già renduto generale in tutti i buoni maestri, ed erano derisi coloro che
operavano di sola pratica seguendo il metodo antico, che trova sempre de’
fautori più ostinati, quanto più è lontano dalla ragione. Ma, ad onta di tutto
questo, non si era per anco conosciuto il bisogno di rappresentare col disegno
le cose, come l’erudizione insegnava ch’erano avvenute, e ciò era in parte
riserbato alla nuova scuola, di cui Raffaello doveva essere il fondatore in
Roma, dove l’abbondanza de’ pubblici antichi monumenti avea predisposte le
fantasie a questa utile rivoluzione.
Intanto
fino all’epoca di Leonardo non vi era monumento alcuno noto, in cui si
rappresentassero antichi triclinj o lettisternj; e una figura sdrajata su di un
letto per porsi a mangiare sarebbe stata non solo cosa strana e nuova, ma
assolutamente ridicola. Al contrario, molte opere di disegno e specialmente di
pittura rappresentavano cene sacre, e più sovente l’ultima di Cristo, ed in ciascheduna
i convitati si vedevano assisi sopra panche o sgabelli, come vedesi nella Cena
di Giotto a Santa Croce di Firenze, e nelle molte che si trovano miniate ne’
codici antichi, e sopra tutto nell’antico bassorilievo del duomo di Lodi, che
non solo rappresenta gli apostoli sedenti, ma li mostra nella lunghezza della
mensa tutti su di una linea al modo a un di presso come li dispose Leonardo.[32]
In fine era opinione generale che a mensa si sedesse, e appena poteva esser
notizia di pochi che si giacesse. Dunque, dopo tutto l’esposto, parmi evidente
che sarebbe stata una vera stravaganza se Leonardo, per appagare una meschina
erudizione e il freddo giudizio di pochissimi, avesse nella sua grand’opera
posposto e sagrificato l’opinione universale, perdendo l’effetto dell’arte
nelle parti primarie e più sacre dell’imitazione.
Nondimeno,
ad onta di quanto ho forse troppo diffusamente addotto, sembrami sia bene che
quegli uomini grandi i quali possono con diritto influire sulle opinioni
volgari, si sforzino di cangiarle ove queste siano in contrasto colla verità.
Ma nelle arti d’imitazione ciò non si dee fare che allorquando,
coll’allontanarsi dal pensar comune, si giunge ad ottenere uno sviluppo più
vantaggioso delle forze dell’arte nelle sue parti migliori.[33]
Nel caso nostro poi avveniva appunto il contrario; perchè volendo Leonardo,
come altrove vedemmo, commuover gli animi coll’imitazione delle passioni
espresse per moti pronti e vivaci, se avesse dovuto far giacere le sue figure e
farle rimanere cubito presso, come Orazio
descrive tal positura, non avrebbe potuto dare ad esse nè prontezza nè
espressione nè vita, o almeno sarebbe stato notabilmente impedito di ottenere
il suo intento, e ciò per darsi a seguire una costumanza dismessa, ignota, e
per la generalità ridicola ed incredibile. Si sarebbero in oltre vedute molte
figure in iscorci stranissimi, come ne sono prova i pochi cenacoli così
trattati, non escluso quello di Niccolò Possino; i quali scorci, a ragione
disapprovati da Leonardo nel suo Trattato, sono spiacevoli sempre, ma sono
tanto più ingrati e da fuggirsi in argomenti gravi e maestosi, ed in figure
nelle quali si volevano imitare i sentimenti che Leonardo nella sua opera pose
per segno alla sua mente ed alla sua mano. Se pertanto dietro tali principj egli
abbia o no bene operato secondo la ragion pittorica e la filosofia, posponendo
l’erudizione storica per seguire la volgare opinione, io ne lascio all’altrui
discrezione il giudizio. Ciò che ho detto per la mensa e pel modo di starvi,
può dirsi per tutti gli altri accessorj, ne’ quali ogni stravagante novità fu
dal nostro autore sfuggita per non distrarre l’animo de’ suoi spettatori
dall’oggetto principale.
E
giacchè da lieve argomento ci siamo condotti a ragionare dell’obbligo che ha
l’artefice di seguire le opinioni generali e volgari, piacemi aggiungere a tale
proposizione alcune distinzioni ed osservazioni che gioveranno a dichiararla, e
ultimamente l’esempio della poesia che la può confermare.
Ciò
che chiamasi volgo che giudica delle
arti d’imitazione, è un volgo diverso da quello che comunemente per tal nome si
vuole indicare, e debb’essere diversa la sua influenza sulle arti, a norma de’
cangiamenti cui è soggetto secondo i tempi, i costumi e lo stato civile delle
nazioni.
Deesi
per un tal volgo giudice intendere la pluralità delle fantasie, per le quali
operano specialmente le arti d’imitazione; ma questa pluralità non ha dritto di
dar norma alle invenzioni degli artefici, se non dove esiste, oltre un felice
temperamento nazionale, un sentimento, una cultura ed una educazione generale
alle arti, come già in Grecia un tempo e in varie epoche fu in Italia.
Quanto
più colte e meglio educate saranno le fantasie, migliorandosi dentro esse
gl’idoli de’ tipi dell’imitazione, tanto più le arti progrediranno verso il
bello.
Questo
tipo è duplice, l’uno in natura, l’altro in idea. Il primo produce il secondo,
e da ciò nascono i grandi errori intorno al costume nelle imitazioni di cose
seguite in tempi diversi dai correnti. Da ciò nasce non meno la bontà delle
opere tratte direttamente dai tipi naturali, come sono i ritratti de’ quali se
ne veggono di eccellenti, anche allorquando l’arte è debole nell’imitazione del
tipo ideale.
Oltre
ciò le arti imitative sono senza dubbio opera della ragione; ma la ragione le
giudica, non già secondo l’esecuzione de suoi precetti, ma secondo l’effetto
che producono sulle fantasie.
Se
i precetti bastassero per fare un opera bella, il poema del Trissino sarebbe
migliore di quello dell’Ariosto. Da ciò si deduce che la scienza si deve dissimulare
nell’imitazione, sia pittorica sia poetica, e che il far sentir l’arte è uno
de’ più gravi difetti ne quali possa incorrere l’artista.
La
cagione, per la quale l’imitazione non fa volentieri sentire la scienza,
quantunque per sè bella ed utile, viene da quanto si è accennato, cioè perchè
la scienza si rivolge alla ragione e non alla fantasia cui l’arte vuol sempre
dirigersi. Perciò ogni artificio visibile o sensibile che di necessità
risveglia il raziocinio, interrompendo la commozione della fantasia, diminuisce
o perde del tutto l’effetto dell’imitazione. Così un pittore che faccia
inopportunamente pompa, per esempio, di anatomia, o un poeta che faccia il
logico o il metafisico, non trarrà onore alcuno dall’opera sua. E per la stessa
ragione se Leonardo per lusso di affettata erudizione antiquaria avesse fatto i
suoi apostoli a mensa sui letti, avrebbe minato l’opera e sarebbe stato
generalmente biasimato.
Che
se poi, il che è però rarissimo, talvolta avvenisse che una volgare opinione si
opponesse talmente al vero ed al bello, che l’imitarla recasse pregiudizio
all’arte, l’arte anzi che tenerne conto, dee fuggir l’occasione di farsene
argomento.
È
d’uopo in oltre osservare che quanto si è asserito circa il rispetto dovuto
alla volgare opinione, risguarda soltanto l’arte quando tratta temi noti alla
generalità o pure appartenenti a cose religiose. Negli altri casi il pittore
può a suo piacere seguire le opinioni private o istruire con opinioni nuove
nelle sue imitazioni, come fanno i poeti didascalici o d’altro genere diverso
dall’eroico. Ma questo sarà sempre un grado minore dell’arte del disegno, la
quale non è grande se non allorquando, come l’Epopea, si slancia con tutto il
fasto delle sue invenzioni dentro i grandi argomenti della storia e della
religione.
E
che in sì fatti argomenti sia debito dell’artista imitatore di seguire il vero
volgare, il prova, come accennai, l’esempio di tutti i grandi poeti. Prima di
tutto non vi è gran poema che non sia stato scritto in volgare; che se Omero
avesse scritto in cofto, Virgilio in greco, Dante in latino, come per disgrazia
aveva cominciato, non so quale conto si sarebbe fatto de’ loro mirabili poemi,
quantunque le stesse cose avesser detto che ora di loro si leggono. Dante anzi
ed Omero non ebbero riguardo nelle loro opere di frammischiare alla lingua
generale le voci e i modi de’ diversi volgari dialetti. Il Petrarca e il
Boccaccio sono grandi nelle opere volgari che son tali per lingua e per têma, mediocri nelle latine; e lo stesso
può dirsi di tanti altri di ogni nazione. In oltre tutti gli argomenti delle
grandi opere poetiche sono o di storie volgari o di passioni generali o di cose
di religione. E in esse è tale il rispetto alle opinioni del volgo, che Omero
non ebbe riguardo di offendere la teologia per seguirle: Virgilio offese la
storia:[34]
Dante dispose le sue invenzioni sulle volgari credenze e sulla tradizione di
varie visioni ed in ispecie su quella di frate Alberico. E da per tutto sono
grandi e sublimi ove parlano alle fantasie e dipingono le passioni e gli
affetti generalmente sentiti; e se v’ha luogo ove la lettura si raffreddi,
particolarmente in Dante e più assai nel Petrarca, ciò avviene quando,
sceverandosi dal volgo, fanno pompa di qualche scienza ed obbliano di vestirla
d’imagini volgari, perdendo di vista il principio dell’arte che alle mobili
fantasie, non alla fredda ragione, dirige la sua imitazione.
Queste
cose, dalle quali si possono trarre molte utili conseguenze, avrebber d’uopo di
più ordinata esposizione, di maggiore sviluppo, e in fine d’una diretta
applicazione alle arti del disegno; ma perchè ciò ci allontanerebbe di troppo
dal nostro argomento, basti il fin qui detto, e aggiunga ognuno per sè quanto
la brevità mi costringe di omettere.
DEI DIFETTI DEL CENACOLO.
Abbiamo,
per quanto ho saputo mostrare, ammirato il raro artifizio e le bellezze di
quest’opera; l’amore del vero e dell’arte ci consiglia di dare un breve cenno
anche sui difetti di che alcuni credettero accagionarla.
Ogni
grande opera ne contiene, anzi, parlando in genere, i difetti sogliono venire
riconosciuti più agevolmente che non le fine e squisite bellezze, le quali
sfuggono gli occhi volgari, e sembrano, come le Dee della favola, non mostrarsi
ignude se non a chi è degno di giudicarle. Si aggiunga che gl’ingegni veracemente
buoni, che son fatti degni di tal vista, sono in picciolo numero in paragone di
que’ mezzi ingegni, i quali, contro il costume deprimi, altro non fanno che
indagare i difetti e porli altrui sott’occhio, e parlarne e scriverne, non già
per istruire, ma per isciocca invidia, siccome esclusi dal godimento di parte
migliore. Quindi non vi è opera, per degna ch’ella sia, che non abbia avuto
detrattori, e che non abbia sostenuti talvolta paraggi vilissimi. Che se di
questa del Vinci ciò non è avvenuto che per piccola parte, essa dee tal ventura
all’antica ammirazione in cui lo straordinario suo merito la pose, dalla quale
furono a lungo disanimate l’invidia e la censura.
Io
non intendo pertanto qui ragionare di que’ difetti di esecuzione che possono
avere contribuito al suo pronto decadimento; nè sarebbe possibile di parlare di
ciò che risguarda l’effetto, il colorito ed altre parti che non si possono,
siccome perdute, giudicare. È d’uopo dunque limitarsi a riferire ciò che si
dice intorno a quelle cose che ancora si ponno esaminare, nè molto io
aggiungerò in difesa dell’autore, temendo io stesso accusa di parzialità. Ma
anche nelle cose che si serbarono al nostro esame, si dee procedere con qualche
cautela perchè le arti del disegno hanno modi e vesti a norma de’ costumi e de’
tempi, secondo i quali debbono essere giudicate. È anche bene considerare le
qualità, le circostanze e le passioni de giudici, e pesar queste secondo la
scienza e la verità, senza di che i giudizj sono cattivi o vani. Notisi in fine
che avviene alle arti del disegno ciò che alle lingue, cioè che molte cose
divennero difetti per noi, che tali non furono per gli antichi.
Ciò
posto, ognun vede che a difetti di tal ultimo genere riguarda l’accusa che già
riportammo, data a Leonardo perchè trascurò la costumanza de’ letti; accusa
prima accennata dal Fréart, indi dal Lazzarini e dal Rogers, di poi ripetuta da
altri e che tuttavia si ripete leggermente. Lo stesso può dirsi de’ censori di
Leonardo per le forme de’ bicchieri, de’ piattelli e d’altre inezie, intorno
alle quali egli, come già notai, volle piuttosto seguire le opinioni volgari
che distrarre i giudizi dalle parti più gravi ed importanti dell’opera. Secondo
tali zelatori di pedantesche erudizioni, bisognerebbe vestire il Laocoonte di
abiti sacerdotali, e dare alle imagini di Cesare le maniche lunghe, che
Svetonio assicura che solesse egli portare alla maniera de’ Frigi dai quali
affettava di discendere. Che direbbero eglino del povero Raffaello che diede
nel suo Parnaso un violino ad Apollo, e ciò che è peggio, un amanuense ad
Omero?
Ma
ben più grave è l’accusa fatta da alcuni a Leonardo per aver collocati tutti su
di una linea i suoi apostoli, in che, se l’arte è ajutata, sembra offesa la
verisimiglianza. Forse ebbe egli, oltre le ragioni dell’arte e dell’uso,
qualche altra ragione a noi ignota o qualche autorità scritta che non ci è
pervenuta; e ne dà indizio il citato bassorilievo di Lodi, il cenacolo del
Ghirlandajo e quelli che in parte imitarono dal nostro, Andrea del Sarto e
Raffaello.
Offende
anche la ragione il vedere questa stessa lunghissima linea posta in senso
contrario della lunghezza della sala; intorno a che si disse qualche cosa, ove
si trattò del luogo dell’azione.
V’ha
anche cui non piace di vedere undici figure dimezzate dalla mensa
orizzontalmente: altri le trova collocate l’una troppo presso dell’altra.
Osservammo
più sopra la mano dell’apostolo Tommaso, la quale imbrogliò a segno le
fantasie, che, congiunta a porzione d’una mano vicina, se ne compose, da chi
ridipinse l’opera, un’altra ridicola e mostruosa mano di sei dita…
Vi
fu ancora chi trovò troppo simmetrica la distribuzione delle figure che
sembrano a primo aspetto comporre de’ gruppi uniformi e ciascheduno di tre
personaggi.
Nè
mancò chi avrebbe voluto la storia rappresentata a lume di notte; del quale
avviso fu il Fréart, perchè così la fece il suo Possino. Ma il vangelo la dice
avvenuta a vespro, cioè nell’ora che precede la sera; e a quest’ora volentieri
si attenne Leonardo, siccome opportunissima alla forza insieme ed alla dolcezza
delle ombre, con evidente analogia al suo sistema in questa difficile e per lui
importantissima parte della pittura.
Venne
in mente anche a taluno che il momento rappresentato da Leonardo eccedesse
d’alquanto i confini dell’arte, secondo le strette teoriche ora diventate
comuni per l’ingegnoso libro del Lessing. Ma sebbene tutto il movimento degli
attori del quadro dipenda dalle parole pronunciate da Cristo, che la pittura
non ripete, queste parole sono sì generalmente note che pajono meritare
un’eccezione di favore dai più rigorosi.
Finalmente,
come dal De Brosses si dissero bruttissimi i visi degli apostoli, da altri si
trovarono le teste esagerate nelle strane lunghezze de’ nasi, nell’aggetto de’
menti, negli archi delle labbra e delle ciglia; ma tal cose furono dette o
sull’originale pessimamente ridipinto o sulle copie o sulle stampe.
Se
però le censure qui esposte e quelle che altri sia per aggiungere, possano
essere di forza da offendere la fama di quest’opera, lo lascio all’esame de’
sani critici: solo non so preterire di osservare che tutti questi difetti
furono nel Cenacolo notati, allorchè, fatto cadavere dal tempo e dalla incuria
degli uomini, era svanita in esso la prima eccellenza e poca parte mantenea
dell’antico inarrivabile artifizio, al cui splendore anche le piccole macchie
di che per avventura si può accusare, sarebbero sfuggite all’occhio del più
gelido osservatore.
E
per dar fine, assai acconciamente, a mio credere, chiedeva Longino[35]
all’amico Terenziano, se ad onta degli errori o difetti che i critici
riconosceano in Omero, in Archiloco, in Pindaro ed in Sofocle, avrebbe egli
voluto piuttosto essere uno di questi o pure essere Teocrito per le Buccoliche,
o Apollonio, o Eratòstene, o Jone Chio, ne’ quali autori la critica non trovava
menda. Se Terenziano aveva buon senso, è facile l’indovinare la sua risposta; e
ciò che dicesi degli scrittori, dee ripetersi degli artefici del disegno. Il
compasso del freddo critico trova nell’Apollo di Belvedere una gamba più lunga
dell’altra, nel Laocoonte un’orecchia fuor di luogo; gli occhi storti ne’
mirabili colossi del Quirinale: il vero artefice e l’osservatore che sa vedere
e sentire, all’aspetto di questi testimonj dell’eccellenza della umana
industria si commuove ed ammira, ed esclama nell’ardore dell’entusiasmo: Questi
divini ingegni si elevarono sopra gli uomini colla sublimità de’ loro concetti,
e fu utile consiglio che non si curassero di tôrre dalle loro opere le imperfezioni
sfuggitevi nell’impeto di quelle nuove creazioni: per tal modo la posterità,
mentre non cessa d’ammirarli, non dee disperarsi di poterli imitare, fatta
certa ch’eglino erano uomini al pari degli altri, e che solo agli altri
soprastavano coll’altezza della mente e colla meravigliosa nobiltà
dell’artificio.
FINE DEL LIBRO SECONDO.
[1] L’Amoretti sulla fede,
cred’io, del Bottari, dice che l’Armenini scrisse esser la testa del Salvatore finitissima; ma io non ho trovato tal
cosa nell’Armenini, e quand’anche vi fosse, la di lui autorità sarebbe sempre
inferiore a quella del Lomazzo e del Vasari. In oltre giova ripetere ciò che si
è detto in fine dell’articolo del Richardson, cioè che la testa del Salvatore
sarà stata forse finamente condotta al pari delle altre, ma la sua
imperfezione, secondo la mente del Vinci, avrà consistito nel mancarvi certi
tratti caratteristici, circa i quali la mano rimase al di sotto dell’idea.
[2] In Firenze il mirabile
abbozzo dell’adorazione dei Magi, in Parigi la tavola della sant’Anna colla
Vergine in grembo, in Milano nella galleria arcivescovile una Vergine col
bambino, ecc.
[3] Pretende il Lessing
che fosse comune uso delle persone che assistevano ai sacrifizj, il coprirsi il
volto: con che svanirebbe l’ammirata invenzione di Timante. Ma l’autorità di
Plinio debbe prevalere a quella del Lessing il quale confuse probabilmente il
costume di velarsi il capo con quello di coprirsi il volto.
[4] Male il Bianconi, e
dietro lui il Lanzi e qualche altro scrittore, disse che il san Giovanni è
svenuto.
[5] Trattato, libro VI,
cap. LIII, pag. 447.
[6] A conferma di questo
veggasi il cap. CCXLV del Trattato di Leonardo, in cui sono mirabili principj.
[7] Lungo sarebbe il
raccogliere le moltiplici sinistre interpretazioni che si davano e si danno
all’accidentale o volontario rovesciarsi del sale a mensa. Quella però che più
d’ogni altra fa al caso nostro, è la indicata da Ilario Mazzolari nella sua
descrizione del Cenacolo, che leggemmo a carte 5c.
[8] Veggasi il Vasari
nella Vita di Giovanni da Udine.
[9]
In Marcum, cap. 14.
[10] Lib. 3. Advers. Pelag., cap. 2.
[11] Giraldi, Vasari, Armenini ed altri.
[12] Revel. lib. 4, cap. 99. Filius
meus, dice Maria Vergine a santa Brigida, appropinquante Juda traditore suo, inclinavit se ad eum, quia Juda
brevis statura erat.
[13] È anche degna
osservazione e non lontana dal nostro proposito quella di Franco Sacchetti il
quale dice aver Dante messo in bocca degli spiriti le parole di biasimo o di
accusa, piacendosi di parlare in persona propria, allorchè può lodare; o pure
quando può riprender tali ch’era onorevol cosa il riprendere, come le città di
Firenze e di Pisa nell’Inferno, l’imperatore Alberto e l’Italia nel Purgatorio,
ecc.
[14] Vincenzo Bandello
nacque l’anno 1435 in Bologna.
[15] Il non nominarsi anzi
dagli storici il priore, potrebbe far credere che quello de’ priori che
Leonardo minacciò di ritrarre nel suo Giuda, fu uomo senza fama e ch’era
inutile il nominare; il che non sarebbe avvenuto trattandosi del padre Vincenzo
Bandello.
[16] È osservabile che
Girolamo Vida nella sua Cristiade, vedesse o non vedesse la pittura del Vinci,
diede al suo san Pietro un atto simile a quello datogli dal nostro pittore,
facendolo, cioè, parlare ed allo stesso tempo sguainare la spada:
Sic ait, et pariter vagina liberat ensem.
Veggasi il libro secondo del detto poema.
[17] Non v’ha dubbio, (dice
il Gallarati) che Didimus in Greco
significa lo stesso che Tomas in Ebraico, cioè gemello. Donde il nostro
Apostolo traesse un co tal nome, non è facile il decidere con sicurezza; con
tutto ciò sapendo ognuno essere stata usanza degli Ebrei di dare talvolta i
nomi ai loro figliuoli secondo le circostanze del loro nascimento, non andrebbe
lungi dal vero chi pensasse essere stato il suddetto discepolo così chiamato,
perchè di fatto nascesse gemello dall’utero della sua genitrice. Ma ben diversa
dovea esser l’opinione del volgo intorno a questo fatto a’ tempi di Leonardo da
Vinci, poichè credevasi forse allora in virtù d’una oscura e popolar
tradizione, che Tommaso avesse sortito dalla natura un doppio dito anulare
nella mano del sinistro braccio, e che per questa cagione fosse cognominato
doppio o gemello. Servissi però il nostro professore di un segno materiale e
sensibile qual era questo di rappresentarlo con un dito di più nella sinistra
mano, come ivi si scorge, non già perchè egli non conoscesse la falsità della
suddetta opinione, mentre egli era troppo erudito, ma solo il fece per
contraddistinguere il nostro apostolo, e quasi direi segnarlo a dito agli
occhi de’ risguardanti, come hanno fatto
molti altri illustri dipintori, fra’ quali Michelangiolo Bonarroti nel Giudizio
Universale, il eguale fecevi il S. Bartolommeo colla pelle sulle spalle, e ’l
S. Lorenzo colla graticciuola in mano: Raffaelle, il qual dipinse l’adorazione
del Sacramento, li Santi Pietro e Paolo l’uno colle chiavi e l’altro colla
spada in mano, e varj altri che qui non giova nominare. E quivi io non voglio
entrare in un nojoso esame su di ciò che da qualcheduno mi e stato opposto, se
sia pentimento del dipintore, o siasi smarrita, e poscia ritoccata falsamente
quella mano. Perocchè a me basta l’aver detto quel che mi pare, e di aver
confermato col fatto quel che fin d’allora ho io veduto coi miei proprj occhi,
lasciando però volontieri ad ognuno il decidere come più gli torni in grado.
Si giudichi da questa nota come stava a critica
il padre Gallarati.
[18] Libro 8.°
[19] In cap. X. Matth.
[20] Debbo questo disegno
alla gentilezza ed amicizia del chiarissimo cav. Appiani, come parimente
all’amicizia e gentilezza dell’egregio cav. Longhi ne debbo la bella incisione.
L’originale è eseguito in una carta alquanto azzurrina collo stile d’argento.
La testa è alquanto mancante nel cranio, contro il costume di Leonardo; ma si
vede che non volle in essa far altro studio se non dell’espressione, rinnovandone
probabilmente altri studj per le altro parti.
[21] Il Rubens in più sue opere distinse
l’apostolo Tommaso col dargli una lancia: il Durero ed altri gli danno un
coltello.
[22] È osservabile che la
descrizione che il Klopstock ci lasciò degli apostoli, si accorda in gran parte
colla maniera nella quale ce li rappresentò Leonardo, Solo tenne altro modo nel
suo Giuda, come vedemmo, ed in Lebbeo ch’egli fece giovine assai, mentre il
Vinci il rappresentò attempato e canuto. Circa l’apostolo Lebbeo, non so da
quale autorità o ragione fosse mosso il Klopstock per rappresentarlo in età
giovanile e sì diverso da Simone. Circa il Giuda poi, leggasi il suo
Ragionamento intorno alla Poesia Sacra,
nel quale ei pretende che nulla in tal genere di poesia si debba ammettere che
non sia vestito di certa dignità e decoro ch’ei chiama solenne. Del resto,
dic’egli, questa dignità vuol farsi
sentire eziandio ne’ più bassi personaggi del Poema Sacro. Ecco perchè egli
abbellì il suo Iscariote. Ma tali precetti non possono nè sempre nè in tutto
esser comuni alla pittura.
[23] Varj de’ filosofi
antichi davano all’uomo due anime, collocandone una nel cuore per sentire, e
l’altra nel cervello per intendere e pensare.
Circa lo star l’anima nel cuore veggasi il Vico
nel suo libretto De antiquissima Italorum
Sapientia, ecc. Intender col cuore
si legge in Isaia al capo 6, e altrove nella Scrittura. Anche Dante sembra
porre l’anima nel cuore o nel sangue (al cui moto il cuore è centro) con que’
versi posti in bocca di Jacopo del Cassero da Fano, anzi dell’anima sua:
…………………ma
gli profondi fori,
Ond’uscì
’l sangue
in sul qual io sedea,
Fatti mi
furo,
ecc.
Così in quegli altri pronunciati dalla testa di
Bertrando dal Bornio, staccata dal busto e sostenuta con mano a guisa di lanterna:
Perch’ i’
partii così giunte persone,
Partito porto il mi’ cerebro lasso
Dal su’ principio ch’è in questo troncone.
Ma più chiaramente, parlando egli stesso alla
sua bella Bolognese:
Io
maladico il dì che vidi in prima
La luce de’ vostri occhi traditori,
E il punto in cui veniste in su la cima
Del core a trarne
l’anima di fuori.
[24] Chi osserverà nel
cenacolo di Raffaello inciso da Marcantonio, quanto quell’apostolo che rivolge
le spalle alle spalle di Giovanni, divida il gruppo e l’attenzione di chi
guarda, per aver le mani nella stessa direzione della testa, riconoscerà più
chiaramente con qual fino giudizio abbia Leonardo atteggiato il suo Matteo.
[25] Hier. in Ep. ad Gal. cap. 4. Ob insignem zeli in se virtutem etiam
Zelotis nomen accepit.
[26] Hist. Eccl. lib. I, cap. 13.
[27] Messiade, Canto terzo.
[28] Per più facilmente
ritenere a memoria i nomi degli apostoli e l’interpretazione degli atti di
ciascheduno, mi sforzai di stringere il tutto in un sonetto. È singolare
combinazione che i versi che mi accadde di citare in questi libri, siano per la
massima parte mediocri o cattivi. Ciò però non mi avrebbe dato sufficiente
coraggio di esporre questi che riconosco mediocrissimi, se non mi vi avesse
indotto una elegante traduzione latina di cui, quali ch’essi siano, li fece degni
don Natale Rosnati.
Ai dodici ch’elesse, ammi a tradire,
Disse Cristo, un di voi. Jacob d’orrore
Freme; e a Giovan cui
fiede alto dolore,
Pier chiede irato il
reo, pronto a ferire.
Giuda a lui presso arretrasi, e l’ardire
Misto in lui scorgi a
la viltà del core:
Qui vendetta giurar
Didimo, e amore
Giurar Filippo ti par
quasi udire.
Là stupe e tace Andrea: d’udir mal crede
Natanaello: a Pier
Jacob d’Alfeo
Cerca il motto onde a
Levi altri ha qui fede,
Dubbia Simon: sospetta il buon Lebbeo:
Cristo sol grave e mite
al duol non cede.
Tanto pel Vinci arte e
color poteo.
[29] Cap. 141 ed altrove.
[30] Pag. 404.
[31] Veggasi la
dissertazione di questo autore sulla Invenzione Pittorica, nella Raccolta Calogeriana al tomo secondo, e
nel primo delle sue Opere pubblicate in Pesaro nel 1806 per cura
dell’eruditissimo signor Antaldo Antaldi, da cui aspetta la repubblica delle
lettere una nuova edizione di Catullo con traduzione, commenti e molte
rettificazioni di testo.
[32] Nel duomo di Lodi, a
sinistra di chi entra, vedesi infisso nella parete un antico basso rilievo
rappresentante l’ultima cena di Cristo. È d’un solo pezzo di marmo alto un
braccio e largo circa cinque. Gli apostoli vi stanno disposti tutti su di una
linea, sei per banda del Salvatore. Al di sopra del basso rilievo leggesi la
seguente iscrizione:
CORTUS APOSTOLORUM LAUDE POMPEJA DIRUTA
HUC AD HANC NOVAM TRANSLAT: MCLXIII NONIS
NOVEMBRIS.
Il lavoro del marmo è sufficientemente
diligente per l’epoca barbara cui l’opera appartiene. Gli occhi di ogni figura
sono di vetro bianco e azzurro. Vi sono molti ornamenti ne’ panni, e molti
utensili sulla mensa. È strano l’osservarvisi certe mezze fette di frutti, che
anche Leonardo pose sovra varj piattelli nel suo Cenacolo. Poco fra loro
distinguonsi gli apostoli d’atti e di volto. Sei d’essi portano al petto la
mano sinistra oziosamente, se pur l’artefice non intese di esprimere il numquid ego? del Vangelo. Altri tengono
de’ coltelli, e stanno in atto di tagliare non saprei dire se pane o altro
commestibile. Giovanni dorme in seno di Cristo, ma alla sua sinistra, che
alcuni antichi tennero per la parte più nobile e più atta, come residenza del
cuore, ad indicare predilezione. Cristo è in atto di dare a Giuda un pezzo di pane;
ma non lo guarda in volto, il che, sebbene l’ignoranza dei tempi in cui fu
eseguita l’opera, può far sospettare che sia stato fatto a caso, pure non
lascia di avere una certa espressione, della quale un artefice accorto potrebbe
con successo approfittare. Giuda mostra sorpresa e si distingue dagli altri non
solo per l’atto di Cristo e pel proprio, ma anche per la caricatura della
fisonomia assai differente dalle altre, che tutte fra loro si somigliano.
Distinguerebbesi anche dal non avere come gli altri tutti il capo adorno
dell’aureola, la quale nel Cristo è maggiore, e con tre raggi in forma di
croce, allusivi forse alla sua morte o alla Trinità. Le aureole sono tutte
dorate. Nel piatto posto davanti a Cristo v’è un agnelletto intero: per ognuno
de’ lati ve n’è un quarto. L’antichità e la singolarità di questo monumento
sono cagione che sì a lungo io il descriva, e sebbene l’arte non v’abbia di che
imparare, vi troverà qualche utile osservazione la critica e l’erudizione.
Nelle Memorie di alcuni uomini illustri della città di Lodi, pubblicate dal
Molossi, ve n’ha una stampa, ma è sì male eseguita che non si ha per essa che
una inesattissima idea dell’originale.
[33] Così fecero gli autori
del gruppo del Laocoonte. Se pertanto è talvolta lecito all’artefice il
lasciare la verità storica e la volgare opinione onde trarre miglior partito
dall’arte, tanto più sarà lecito l’accomodarsi alle idee del volgo, allorchè
queste si prestano meglio ai mezzi dell’arte, come nel caso di Leonardo.
[34] Il chiarissimo abate
Andres in una dissertazione impressa in Mantova provò che al tempo di Virgilio
gli amori di Didone con Enea erano generalmente creduti dal volgo romano.
[35] Sez. 33.
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