LIBRO QUARTO.
DEL TEMPO IMPIEGATO DA
LEONARDO NEL CENACOLO.
Zeusi, udendo
un giorno Agatarchide che gloriavasi di dipingere presto, Ed io mi glorio,
rispose, di dipingere adagio, e mi sto lungamente attorno alle mie opere,
desideroso di farle lungamente vivere. Non altramente la pensava Leonardo; anzi
portava tale opinione all’eccesso, timido e lentissimo com’era nell’intraprendere
i lavori, e non sapendone tor la mano da poi. Gli artefici di altissimo
ingegno, stimolati da continuo desiderio di un ottimo che forse all’uomo non è
dato di ottenere, non sogliono esser contenti del buono, e tormentando le opere
e il proprio cervello, consumano gran tempo in considerazioni ed esperimenti,
nè si curano di far molto, solo avendo in vista il far quel meglio che hanno in
idea. Tutta la storia pittorica ci assicura che tale fu Leonardo, nè pare che,
se si eccettui la novella del priore, mai fosse affrettato nelle opere da chi
aveva autorità sopra di lui.
Apertissimo
contrassegno d’imperizia, secondo la bella sentenza di Varrone, è l’esigere che
si faccia presto ciò che a farsi è difficilissimo. Lodovico il Moro non amava
già ciecamente le cose delle arti: al contrario, per testimonio del Paciolo,
del Vasari e d’altri, ei n’era intendentissimo: quindi non è probabile ch’egli
esigesse prontamente eseguita un’opera di tanta importanza e difficoltà, come
questa del Cenacolo; e tanto meno è da credere ch’ei fosse per affrettare un
artefice qual era Leonardo, cui egli aveva d’altra parte affidate tante e
diverse considerabili opere d’ogni genere, e sopra tutto il gran colosso
equestre del duca Francesco, suo padre. Se a ciò si aggiunge il lento metodo
dell’autore, la grandezza notabile dell’opera, la ricchezza e finitezza di ogni
menoma parte, e la insaziabilità di Leonardo in rinnovar ricerche ed investigar
sempre nuove perfezioni, è facile il congetturare che il Cenacolo fosse fatica
di molti anni.
Il
Vasari asserisce apertamente che il cavallo colossale fu dal Vinci proposto al
duca, mentre già stava lavorando al Cenacolo; e al modo con cui parla di tal
opera, prova egli stesso di quanto sbagliasse (se pure non isbagliò
l’impressore) assegnando la venuta del Vinci in Milano nel 1494. Sedici anni
d’altronde ci assicura il Sabbà da Castiglione essere stati impiegati da
Leonardo in condurre quel celebre ed infelice modello il quale all’arrivo di
Lodovico XII fu, come vedemmo, bersaglio alle balestre de’ Guasconi, ed andò in
polvere. In qual tempo tal modello fosse condotto al suo fine, non è noto con
precisione, ma è certo che fu fatto due volte. In una lettera di Platino
Piatto, scritta da Garlasco nel 1489,[1]
leggesi che questo oratore e poeta fu richiesto da Leonardo di un epigramma da
porre sotto la statua equestre di Francesco. Dalla stessa lettera si deduce che
a molti altri letterati era stata fatta la medesima domanda. Dunque se Leonardo
già chiedeva epigrammi ed iscrizioni pel suo monumento, è chiaro che il
monumento era condotto a segno da potersi mostrare, e che come modello era
assolutamente finito. Sembra anche che sia stato pubblicamente esposto in
quello stesso anno 1489 in occasione delle nozze di Giovanni Galeazzo,[2]
che furon ricche e grandi, e per le quali fu dal Vinci eseguita la macchina cui
chiamò Paradiso, fatta ad imitazione di quelle che facevansi a Firenze, delle
quali si legge nelle Vite del Cecca e d’altri. Ma poco dopo, fosse effetto di
qualche sinistro accidente non raro alle grandi opere di rilievo, fosse rovina
cagionata dalla trasportazione che se ne dovette fare per la indicata festa,
fosse in fine mala soddisfazione dell’autore, questo primo modello disparve, e
Leonardo stesso nel codice De lumine et
umbra scrisse di suo pugno: A dì
23 d’aprile 1490 cominciai questo libro e ricominciai il cavallo.[3]
Il
Paciolo poi circa otto anni dopo ne parla di nuovo come di cosa perfetta, e
dice che la sua enea massa era di
300,000 libbre, con che fe’ credere che fosse già gettato in bronzo.[4]
Intorno dunque al finir del secolo dee porsi finito il secondo modello, e i
sedici anni devono comprendere ambedue le fatture. Da ciò parrebbe che questo
colosso fosse stato cominciato tra il 1483 e il 1484, e se il Cenacolo era già
prima intrapreso, come vediamo dal Vasari, si può giudicare che Leonardo ne
avesse commissione allorchè il Moro fe’ allungare il refettorio, che fu nel
1481, come si notò altrove, e forse fe’ tale accrescimento di bellezza e di
comodo al luogo, avendo intenzione di farne campo ad un opera importante del
suo pittore. Da ciò si verrebbe ad indurre che Leonardo desse al Cenacolo circa
sedici anni; nè in opera di tredici figure maggiori del vero sarebbe ciò
meraviglia per lui che altrettanti ne diede al colosso, cui però facea
contemporaneamente, e che quattro ne diede al solo ritratto di monna Lisa in
mezza figura grande al naturale. Se si aggiungerà poi che in quell’intervallo
di circa tre lustri, oltre al colosso di Francesco, egli ebbe la direzione di
varie splendidissime feste ordinate da Lodovico in più occasioni, e che
richiedevano le cure e l’opera di più mesi; e se si osserverà che dello stesso
tempo egli condusse grandi opere idrauliche, compose molti trattati, diresse
l’istruzione nella nuova accademia, inventò macchine d’ogni genere, e fece
infiniti altri studj d’ogni maniera, lungi dal meravigliarci perchè in sedici
anni abbia condotta quest’opera, quasi ci farem meraviglia come in mezzo a sì
diverse e tutte gravissime occupazioni gli rimanesse agio e tempo di dipingere.
Contrasterebbe
però alla mia opinione circa il tempo dato da Leonardo al Cenacolo, una nota
che nell’antica stampa lesse e citò nel suo libro il padre Pino, la quale dice
dipinto il Cenacolo nel 1496 e 1497. Ma quell’iscrizione manoscritta d’ignota
mano e forse moderna non può fare autorità alcuna.[5]
Nè maggior peso hanno le ragioni del Bianconi. Egli dice che Leonardo cominciò
il suo Cenacolo dopo che Giandonato Montorfano finì la Crocifissione che gli si
vede dicontro, il che fu nel 1496 come dimostra la data sottopostavi; e
s’indusse a tale credenza solo perchè la parete che toccò al Montorfano, gli
parve la più nobile; e però giudicò che Leonardo, qualora fosse stato messo al
suo lavoro prima di lui, non avrebbe lasciato di preferirla. Giudizio mal
fondato; primieramente perchè il Montorfano potea lavorare alla sua opera da
molti anni, e l’iscrizione indica, come si suole, l’anno in cui l’opera fu
finita; in secondo luogo perchè la parete del Montorfano è per l’appunto la
peggiore, poichè non solo ha le finestre lontane e di luce men diretta che non
la parete opposta, ma ha di più il lume a sinistra, il che ogni pittore sa
quanto sia incomodo, facendosi ombra da sè stesso nell’operare.
E
a provare che Leonardo fu primo a dipingere nel refettorio, basterebbe
l’argomento da lui scelto, suggerito evidentemente dalla natura del luogo;
argomento in cui sarebbe stato prevenuto, se altri prima di lui avesse avuto
l’incarico di dipingervi. E perchè l’ultima cena, come dice più d’una volta il
Paciolo, fors’anche secondo la mente di Leonardo, è simolacro dell’ardente
desiderio che Cristo ebbe dell’umana salute sacrificandosi, venne naturalmente
in appresso il pensiero di rappresentare il suo sacrifizio sul Calvario, di che
il Montorfano ebbe l’incarico.
In
oltre della incontentabilità del nostro pittore in cercare miglioranienti e
perfezioni, senza ciò che risulta dall’osservare i suoi dipinti e i suoi
disegni, e senza quello che ne fu detto da tanti scrittori che vissero poco
dopo di lui, come il Vasari, il Lomazzo ed altri, abbiamo anche un testimonio
del suo tempo in Ugolino Verino, il quale disposto, com’era, a dargli corona su
gli altri artefici, se di tal pecca si fosse potuto difendere, non l’avrebbe
distintamente accusato di lentezza in operare, quando egli avesse in breve
spazio di tempo condotto un quadro di tanta mole e momento qual è il Cenacolo. Nè
lo scusa abbastanza col paragonarlo a Protogene, come fe’ più d’una volta il
Lomazzo da poi,[6] perchè
di Protogene si dice bensì che non sapesse torre le mani dall’opere sue, ma
eccetto il Gialiso cui diede gran tempo, tutte le altre sue tavole pare le
conducesse assai speditamente, poichè, lasciando i bronzi cui pure attese, si è
conservata fino a noi la memoria d’un numero grande di sue pitture, il che non
si può dire di Leonardo, sebbene di tanti secoli a noi più vicino.
Dietro
tali osservazioni assicurati da sincrona autorità che sedici anni diede il
Vinci al modello del colosso, e ch’era in molte altre opere importanti occupato
a tal segno che ove minore fosse stata l’attività del suo ingegno, l’avrebber
tolto interamente al modellare e al dipingere, non ci può parer lungo il corso
di sedici anni onde condurre un’opera qual è il Cenacolo. Gli annali pittorici
ci portano non rari esempj di simili lentezze anche in artefici che non avevano
il metodo nè le gravi occupazioni di Leonardo. Lo stesso Tiziano, sì rapido e
perfetto nel colorire, stette per ben sett’anni intorno ad argomento per l’appunto
simile a quello che trattò il Vinci, e fece il mirabile quadro che ancora si
conserva nell’Escuriale, su di che si possono vedere il Ridolfi, il Palomino ed
altri. Con un periodo poi quale l’indicato di sedici anni si fa luogo
comodamente al governo biennale di qualche ignorante e bisberico priore
anteriore al padre Bandello, con che si toglierebbe la controversia intorno
alla nota novella circa la testa di Giuda. Si fa altresì luogo a tutti gli
studj ed alle molte cure contemporanee dell’autore. Si concorda a quel suo
precetto, con che vuole che di quando in quando si lascino le opere, perchè,
com’egli si esprime, lo star saldo
nell’opera ti fa forte ingannare.[7]
Si conferma finalmente la fama della sua eccessiva lentezza, e il metodo da lui
in altre opere praticato e ne’ suoi scritti inculcato, quello, cioè, di cercare
in esse tutte quelle perfezioni al cui conseguimento possano contribuire
l’ingegno, il giudizio, la mano ed il tempo.
COME SIA DIPINTO IL
CENACOLO.
Leonardo
che, ad onta di quanto in contrario scrisse il Requeno, fu uno dei più zelanti
seguaci del metodo nuovo al suo tempo di dipingere a olio, lo preferì ad ogni
altro nella sua più grande opera, come il solo adatto a condurla a quel grado
di squisita perfezione ch’ei giunse a conseguire. Egli ebbe anzi il primato fra
coloro che primi si diedero a quella miglior maniera di colorire, e ne è prova
il secondo distico dell’epitaffio latino riportato dal Vasari nella prima
edizione delle sue Vite:
Perspicuas picturæ umbras, oleoque colores
Illius ante alios docta manus
posuit.
E
quantunque in questi versi non si faccia menzione del Cenacolo, egli è chiaro
che Leonardo doveva impiegare in questa sua maggior opera quel metodo che
meglio possedeva, e in cui anche dagli altri era tenuto più eccellente. A olio
pertanto dicono, come è in fatti, il Cenacolo i più gravi autori citati nel
primo libro, e lo conferma, qual ch’ella sia, l’iscrizione dell’antica stampa
riportata dal Pino. A olio parimente lo fa giudicare il Bandello che vedeva il
pittore venir talora in fretta dalla corte vecchia che è il presente Castello,
per dare due o tre pennellate a qualche figura, indi andarsene altrove: le
quali correzioni o aggiunte che a Leonardo venivano in mente d’improvviso, mentre
attendeva ad altro, non avrebbe egli potuto effettuare senza guasto della
pittura, in qualunque altro metodo di dipingere che ad olio non fosse.
Ma,
sebbene presso nessun autore si leggesse essere il Cenacolo dipinto ad olio,
sarebbe facile il riconoscerlo così dipinto in quelle poche croste che antiche
si scorgono nell’opera. Appare bensì ch’egli usò, come solea, olj purgatissimi
e dimagrati assai con carte ed altre industrie;[8]
col quale dimagramento, allorquando si procede tropp’oltre, l’olio ottiene, a
dir vero, una limpidezza maggiore e non ingiallisce, ma perde assai della sua
consistenza e non dà ai colori quel corpo sì resistente all’atmosfera che suole
avere quando s’impiega meno assottigliato. Ci assicura di tale diligenza non
solo la storia, dalla quale sappiamo per sino che queste sue troppe cautele
dispiacquero a papa Leone, ma la chiarezza che tuttavia conserva la sola parte
del dipinto che non fu interamente ricoperta, cioè porzione del cielo che
ancora sembra risplendere. E questa chiarezza certo pare dovuta all’assottigliamento
degli olj, poichè leggiamo nel Vasari che i dipinti di Lorenzo di Credi, che
anch’egli al par di Leonardo fu accuratissimo raffinatore d’olj e vernici, non
avevano sofferto al suo tempo il menomo cambiamento di colore; come in vece
vediamo tutto giorno dare in giallo o in livido que’ dipinti ne’ quali,
specialmente per gli olj, non furono usate le debite diligenze.
Il
dipingere pertanto i muri ad olio esige una particolare preparazione. Quella
con cui Leonardo dispose la sua parete, è un composto di pece, di mastice, di
gesso e di qualche altra mistura, disteso a ferro caldo sull’arricciato; metodo
probabilmente inventato da lui e usato in appresso da Sebastiano dal Piombo,
cui se ne attribuisce l’invenzione dal Postillatore delle edizioni bolognesi
del Vasari. Ho scoperto essersi da lui usata questa mistura, col prendere in un
angolo estremo del dipinto un pezzetto d’intonaco ed ammnollirlo ad un carbone
acceso ed arderne la polvere: col quale esperimento si può aggiungere sicurezza
circa il modo del dipinto, non ricevendosi bene se non l’olio da sì fatte
preparazioni. Oltre a questo strato di mistura, con cui credette Leonardo
allontanare ogni futuro pericolo che il nitro o altra malizia del muro
penetrasse ed offendesse l’opera esternamente, si scorge un’altra base del
dipinto, o sia una mestica chiara, forse composta come il Vasari ci accerta
essersi usata, di biacche, giallolini, terre di campane e simili, che miste
insieme con olj e forse con vernici, fecero un bello ma non durevole letto alla
più singolare industria che l’arte vantasse. Io tengo certo che i primi primi
danni di quest’opera provenissero dallo screpolamento di questa imprimitura, la
quale disseccandosi troppo fortemente allorchè cominciò a mancarle il
nutrimento oleoso del dipinto che la mantenca molle e distesa, principiò a
staccarsi come avviene di molte gomme, e contraendosi alquanto fece ben presto
un corpo non più aderente alla sottoposta preparazione; e dove più forte fu la
screpolatura e la contrazione, le croste si staccarono e caddero, e l’umido
interno cominciò a scaturire più abbondantemente e ne produsse il primo
ammuffimento. Se ciò però non fosse avvenuto, il cattivo muro e mille altri
malanni interni ed esterni avrebbero resa inutile ogni avvertenza e l’opera
sarebbe ad ogni modo perita, come proseguendo dichiarerò più estesamente.
Abbiamo
veduto nel primo libro asserirsi da taluni che questa pittura fosse a fresco, e
questo pregiudizio fatto pubblico da libri che comunque cattivi, furono assai
più letti che molti buoni, si è sparso a segno che nacque sovente intorno a ciò
quistione. Ma i De Brosses, i Cochin, i La Condamine, i La Lande e simili,
quando non ripeteano qualche buon giudizio altrui, soleano per lo più in
pittura bestemmiare, come provano ampiamente i loro libri, e come avviene ed
avverrà mai sempre a chi ragiona di cose non sapute. Altri buonamente dissero a
fresco il Cenacolo perchè lo videro o il seppero dipinto sul muro, non credendo
che sui muri altrimenti che a fresco si possa dipingere. Altri in fine
copiarono ciò ch’era stato scritto senz’altro esame, e così hanno fatto alcuni
autori francesi moderni copiando i lor più antichi, e, ciò che è peggio, così è
stato fatto recentemente da qualche scrittore italiano, anzi lombardo. Ma
questa asserzione non uscì di bocca ad alcuna persona pratica di pittura e tale
da fare autorità; nè mai persona dell’arte ne mosse quistione; e chi non è dell’arte,
non ne può ragionare che male, come dimostrò il padre Pino il quale, quantunque
decidesse bene, trattò la cosa assai male pei modi e pei ragionamenti.
Nè
mancò ancora chi credette tutta l’opera dipinta a tempera, perchè fra i tanti
ritocchi che ne affrettarono la rovina, si trovano qua e là de’ ritocchi a
tempera non so di qual mano. Nessuno però ch’io sappia osò esporre tale
asserzione in pubblico scritto, e lo stesso Requeno ne’ suoi Saggi non parlò distintamente del
Cenacolo, allorchè trattando del modo di dipingere di Leonardo, asserì
preferirsi da lui la tempera all’olio.
Ma
chiunque conosce alquanto la storia e il modo di studiare di Leonardo, non ha
bisogno d’altro per sapere di qual genere de’ molti praticati dall’arte fu
l’opera sua principale. Sa in oltre ch’egli non diedesi a dipingere a fresco,
perchè un tal metodo non ammette correzioni ed esige una sollecitudine dalla
quale ei non osò sperare quella perfezione a cui la sua mente aspirava. Quel pittore che non dubita, poco acquista,
solea dire e scrisse Leonardo, e con tal assioma non è meraviglia s’egli diessi
esclusivamente a colorire a olio, modo che più d’ogni altro permette di
dubitare, di correggere e di acquistare nell’arte. Egli sempre diffidava di sè,
e ad onta del suo molto sapere, l’opinione che dell’arte egli aveva, era tale
che non fu mai certo dell’ubbidienza della mano all’intelletto: e però ogni
metodo rapido doveva di necessità disgustarlo. Molti altri grandi maestri di quel
tempo erano della sua opinione e temeano il dipingere a fresco per le dette
ragioni. Il fiero Michelagnolo, finchè gli giovò il vigore d’un’ardita
gioventù, la pensò diversamente, e la rapidità del metodo anzi che atterrirlo,
aggiunse vita e nerbo alle mirabili produzioni del suo pennello. Pare a quel
tempo che un certo divino furore il facesse dimentico dell’umanità, e si
direbbe che anch’egli, come Dio, colla mente sola, senz’altro artifizio
ordinasse e desse in un attimo il volo, il moto, il rilievo alle sue figure
della Sistina. In oltre quegli argomenti ideali tratti dal Genesi non
richiedevano quella individualità che negli argomenti storici dimanda la
perfetta pittura, ed erano molti i modi in cui le sue figure poteano star bene,
non determinando per loro natura un preciso confine di forme e d’espressione.
Oltre ciò, egli ebbe anche stimoli fortissimi ad affrettar l’opera dalla veemenza
irrequieta di papa Giulio e dalle potenti inimicizie di Bramante e del
Sangallo. Chè in vece, allorquando in età più matura attese al mirabile
Giudizio, opera che parea richiedere maggiori considerazioni, trovandosi fuori
delle dette angustie di comandata sollecitudine e di vigile rivalità, se
temette di parer minore di sè accondiscendendo a fra Bastiano che voleva il
dipingesse a olio, e che per ciò aveagli di già disposta la parete, tenne anche
a fresco un tal metodo che ben a quello dell’olio si assomiglia, e condusse
quell’opera penandovi molti e molti anni. E quantunque andasse reiterando
studj, preparativi, meditazioni, cangiamenti, riposi, come nelle lente opere
fatte ad olio dai più diligenti si pratica, rimanea non pertanto sempre mal
soddisfatto delle cose sue, chiamando beato il Bugiardini che trovava perfette
le proprie opere, e sè infelice che non avea mezzi di rispondere colle opere
alle idee. Snnilmente Raffaello, dopo aver dipinte le camere vaticane,
desideroso di porre maggior perfezione nella sala di Costantino, cominciolla ad
olio, e quelle pareti vantano ancora, abbastanza ben conservate e dipinte ad
olio, le due figure della Mansuetudine e della Giustizia, e fors’anche la testa
di san Silvestro, accanto ai quali dipinti appajono aspri i freschi di Giulio
Romano, sebbene dallo stesso Raffaello composti e in gran parte disegnati.[9]
Fra Bastiano allo stesso modo dipinse ad olio il Cristo battuto in San Pietro a
Montorio, che fino al 1568 pareva, secondo il Vasari, dipinto da un giorno. Il
Vasari stesso dice nella propria vita di aver fatto felice esperimento nel
riunire insieme i due metodi di pittura a olio ed a fresco. Così pure Perino,
perfettissimo pratico nel colorire a fresco, volle fare a olio la sua grande
istoria del naufragio di Enea in casa Doria. E lo stesso fecero il Pontormo,
Adone Doni ed altri molti tutti esperti del fresco; e circa un secolo dopo, ad
onta del noto deperimento di molti lavori di tal genere ed in ispecie del più
famoso di tutti, il nostro Cenacolo, i Caracci e i migliori della loro scuola,
tutti egregi frescanti, non temettero di esporre all’intemperie dell’atmosfera
ne’ portici di San Michele in Bosco le migliori cose che forse uscirono dai
loro pennelli.
Nè
perchè giudicai potersi attribuire a Leonardo l’invenzione d’un nuovo modo di
preparare gli arrirciati, gli si debbe attribuire l’invenzione di dipingere a
olio sulle pareti. Egli forse non avrebbe osato affidare la sua opera ad una
pratica nuova, se non ne avesse già avuto buona esperienza. Prima di lui
Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e i due Pollajuoli aveano già dipinte
molte pareti con buon successo. Chè se generalmente simili dipinti soleano
sofferire annerimento, probabilmente non ne aveano dato ancor segno all’epoca
che Leonardo intraprese il Cenacolo; e se egli n’ebbe indizio o sospetto, credè
provvedere a tal danno non facendo uso degli olj bolliti che si soleano dare
replicatamente sugl’intonachi, e mettendo in opera in vece la sua nuova mistura
o impiegandovi soltanto olj crudi e purgati. In somma all’epoca di Leonardo si
conosceva tutto il comodo e il bello di questo metodo, e niuno ne temeva il
pericolo, sul quale però anche in questi tempi si esagera da molti; perchè
finalmente anche i dipinti a fresco periscono presto ove le pareti sono infette
di nitro e di umido, e lo Scannelli, dopo tanto lagnarsi della rovina
dell’opera di Leonardo incolpandone il metodo con cui fu dipinta, dice lo
stesso della cupola a fresco del Correggio, con evidente contraddizione.
Dalle
ragioni e dagli esempj varj che qui mi piacque accennare, vedrà, spero, il
lettore non potersi, se non a torto, incolpare Leonardo circa la scelta del suo
metodo. Se il suo Cenacolo fosse stato dipinto sopra una parete asciutta e sana,
e non avesse avuto tant’altre disgrazie, si vedrebbe tuttavia conservatissimo,
come, senza dir d’altri, si vedono in Vaticano le citate figure della Giustizia
e della Mansuetudine di mano di Raffaello.
VICENDE DEL CENACOLO.
Accennato
il modo con cui il Cenacolo fu dipinto, dirò ora la serie delle sue sventure.
Primieramente parmi non dover lasciare senza ricordo la spaventosa inondazione
che afflisse la Lombardia l’anno che precedette la venuta di Carlo VIII in
Italia. Vedemmo nel 1800 solo per grandi piogge allagarsi le porzioni basse
della città ed in ispecie i contorni delle Grazie e il refettorio stesso del
convento, dove l’acqua alta più di tre palmi stagnò lungamente, e non v’ebbe
esito se non per evaporazione, per imbevimento del suolo, e cedendo a poco a
poco col disseccarsi del luogo esternamente. Dunque è da credere che la pioggia
tempestosa e continua che fe’ straripare tutti i fiumi dell’Italia superiore, e
che è descritta dallo storico Bugati come un prodigio che annunziava prossima
l’inondazione militare de’ Francesi, non facesse danno minore mentre Leonardo
dipingeva il Cenacolo. E sebbene i frati che in allora abitavano il convento
avranno più prontamente posto riparo a tanto disastro, non è possibile che
giungessero ad impedirlo del tutto; poichè se la situazione del convento è di
già notabilmente bassa, il piano poi del refettorio è inferiore a quello dei
vicini cortili ed anche de’ terreni che il convento stesso circondano. Quindi
io credo che fino da quella lontana epoca la parete del Cenacolo abbia
contratta una maligna umidità, alla quale avrà contribuito la cattiva natura e
struttura della parete stessa. Imperocchè tutto il convento fu fabbricato assai
male, e sembra che i primi fondatori di esso non amassero quel lusso a cui pare
che Lodovico il Moro li volesse in appresso quasi costringere. Guardinsi in
fatti gli antichi cortili, e si vedranno misere e mal lavorate colonne, archi
grandi misti a piccioli, mattoni ineguali e tristi, e materiali in fine di
vecchie demolizioni. Dal vedere anzi tali materiali impiegati ne’ luoghi
esterni, sospetto che di peggio per povertà si sia fatto ne’ muri interni che
si dovevano intonacare di calce; e se di vecchi mattoni già nitrosi fu
costruita la infelice parete del Cenacolo, essa assai più che le altre avrà
assorbito l’umido della detta inondazione.
Accrebbe
anche la infedeltà del muro la sua posizione esterna a tramontana, l’aver
prossima la cucina e l’esservi annesso un luogo da riporre le vivande fumanti e
da lavare. Con sì miseri principi e coll’apparato dell’intonaco che già abbiamo
descritto, non è da farsi stupore se si presto cominciò ad annebbiarsi il
Cenacolo, privo, com’era, del giuoco salubre dell’aria e quotidianamente
profumato dal vapore delle minestre e dagli effluvj d’una cucina destinata a
pascere una numerosa comunità.
Pochi
lustri dopo finita questa pittura una peste terribile afflisse la nostra città,
e al tempo di sì fatti disastri nulla è la cura de’ pubblici monumenti,
pensandosi per ciascuno alla propria salute. E facile il credere che poco ai
domenicani importasse la pittura del lor refettorio, forse a quel tempo
abbandonato del tutto. Ciò che fu cagionato dalla peste, fu parimente da poi
cagionato dalla guerra e da mille altre disgrazie che desolarono la Lombardia
nella prima metà del secolo decimosesto. Lasciata quest’opera in abbandono
tanti anni senza riguardi o cautele, la notata pessima natura del muro,
congiunta a qualche vizio nella preparazione del dipinto o nel dipinto stesso,
ne affrettò la perdita prima che il riparo vi potesse esser utile.
Intorno
pertanto alla metà del secolo si dee porre, come nel primo libro abbiamo
osservato, il passo dell’Armenini che dice il Cenacolo mezzo guasto. Non molto
dopo si può tenere scritto il passo del Lomazzo che accenna essersi staccate
dai muri, pel troppo assottigliamento degli olj e per la cattiva imprimitura,
le due famose pitture di Leonardo, la Cena delle Grazie e la Battaglia della
Sala del Consiglio di Firenze. Nel 1566 il Vasari non vide nel Cenacolo se non
una macchia abbagliata. Finalmente
era ormai scorso più d’un secolo di guai per la infelice pittura di Leonardo e
di vane lamentazioni de’ buoni artefici per la sua decadenza anzi rovina,
quando la pietà del cardinale Federico Borromeo le apportò quell’unico soccorso
che l’arte potea somministrare, col farne fare, come già vedemmo, una copia
lucidata e graticolata da accurato pittore.[10]
In
quale stato fosse a quest’epoca il Cenacolo, il possiam leggere descritto dallo
stesso Borromeo.[11] Gli
autori posteriori seguitano a compiangerlo come cosa perduta. Bartolommeo da
Siena dice che appena e male al suo tempo poteva vedersi. Lo Scannelli lo dice
inutile del tutto. Lo stesso più o meno in varj tempi dicono gli altri
scrittori del secolo decimosettimo.
Intanto
il danno andava aumentando, e per portarlo al colmo, i domenicani, mal contenti
di entrare in refettorio per una porta bassa alquanto e stretta sulla quale
stava il Cenacolo, e volendo un più maestoso ingresso in luogo di tanta
importanza, tagliarono, senza pietà nè di Cristo nè del pittore, le gambe di
alcuni apostoli e di Cristo medesimo, in ciò più crudeli degli Ebrei che pure a
Cristo non osarono rompere le gambe, tocchi dalla sua tanta maestà e bellezza.
La porta fu fatta grande più del bisogno, e maggiore d’assai fu certamente la
rottura della parete onde costruirvi la volta. A quest’epoca d’infame memoria,
posta dal Pino intorno all’anno 1652, comincia la vera totale rovina
dell’opera. La costruzione della porta occasionò i primi ritocchi, e l’urto dei
martelli nel muro dovette fare staccare gran parte delle croste del dipinto già
cadenti fin dal tempo del cardinal Federico. Al guasto della porta si aggiunse
in appresso quello d’inchiodare alla parete le armi imperiali tanto grandi che,
per testimonio del Richardson, toccavano quasi la testa del Redentore.
A
questo tempo dovettero nascere i varj progetti onde risarcire l’avanzo di sì
grand’opera; e al 1726 fu finalmente presa dai frati la fatale determinazione
di concederla all’arbitrio di Michelagnolo Bellotti,[12]
pittore povero d’arte, quindi ricco al solito di presunzione. Questi vantava,
come sogliono i ciurmadori, un suo singolare segreto, col quale avrebbe
richiamato da morte a vita l’incadaverita pittura. Ne fece un piccolo
esperimento, e chi sa come ingannò la facile inesperta credulità de’ frati!
indi avuta l’opera in sua balia, la chiuse con un assito, e ridipintala da capo
a piedi, dopo molto tempo la scoperse e fece meravigliare i frati ignoranti
della potenza del suo segreto. Per giunta a tanta impudenza lasciò ai frati
stessi il segreto che sarà stato probabilmente una delle solite vernici con cui
si rinfrescano i quadri. Intanto la pittura vera di Leonardo era estinta del
tutto: la sola porzione che non è stata coperta interamente, fu il cielo che il
ritoccatore rispettò in parte, non sentendosi da tanto da poterne imitare co’
suoi empiastri la vivezza e lo splendore. La nuova pittura del Bellotti
conservò qualche tempo un tal quale effetto dovuto alla stupenda composizione,
e in quell’epoca di grossi giudizj presso i mal informati scrittori, si trovano
nuove lodi non solo della pittura, ma ben anche del risarcimento.
Ma
a poco a poco un nuovo annebbiamento universale la ricoperse, nè so bene se i
frati osassero impiegarvi il prezioso deposito del segreto del Bellotti.
Certamente qualche nuovo ritocco vi ebbe luogo, e questo fu a tempera, come in
qualche parte ancora si può scorgere. In appresso, dopo nuovo e maggiore
decadimento, si mosse un’altra volta discorso di risarcire la tormentata
pittura, e furono molti e grandi i dispareri fra gli artisti non meno che fra
quelli che dovean commettere sì fatta operazione. Il pittore De Giorgi,[13]
uomo mediocre nell’arte, ma onesto ed estimatore degli antichi, sebbene più
volte a ciò fosse richiesto con instanza, vi si rifiutò mai sempre,
protestandosi indegno di porre le proprie mani ove Leonardo avea poste le sue.
Dopo varj dibattimenti, per raccomandazione del conte di Firmian nel 1770, fu
dato ad un Mazza l’incarico dell’ultimo strazio di questo infelice monumento
dell’arte. Il Mazza eseguì la sua commissione con mano maestra. Le poche
antiche croste originali che ancora rimaneano, quantunque deturpate dal forse
doppio risarcimento, erano un inciampo alla libertà del suo pennello. Egli le
raschiò con ferri, e così fece un letto liscio su cui distendere la sua
leggiadra fattura. Anzi per averlo migliore, vi distendeva da prima una mestica
di terra d’ombra e d’ocria, e il nostro professore Levati, valente dipintore di
prospettive e di ornamenti, si ricorda benissimo di aver vedute varie teste in
tal modo sacrilegamente impiastrate. Lo stesso mi assicurano avere udito i
professori Zanoja ed Aspari. Intanto non v’era artefice di buon senso nella
città nostra che non disapprovasse altamente il Mazza e chi lo pagava e chi lo
proteggeva. Il Londonio, uomo di vivace e bizzarro ingegno, ne menava più degli
altri romore, e il fermento era divenuto generale. Intanto il Mazza che aveva
cominciato a ridipingere alla destra del Salvatore, aveva inoltrata l’opera a
segno che non mancavangli ormai che gli apostoli Matteo, Taddeo e Simone, onde
tutto coprire il lavoro del Bellotti e dividere seco lui la fama d’Erostrato.
Volle in questo mezzo la sorte che il priore di quel tempo, padre Giacinto
Cattaneo, il quale, per aderire cortigianescamente al Firmian, aveva permesso
al Mazza di rifare il Cenacolo, venisse dal re di Sardegna chiamato in Torino
per leggervi teologia, ed ebbe il suo posto un Paolo Galloni, uomo di buon
ingegno in varie cose ed erudito anche un poco in pittura, nella qual arte era
stato allievo del Lazzarini di Pesaro. Appena il Galloni vide l’opera del
Mazza, che senza por tempo in mezzo gli impedì di proceder più oltre, tanto più
che al romore che da ognuno di sano giudizio già se ne faceva per la città,
sebben tardi, pur si trattava ad ogni modo di sospenderla.
Per
questa sospensione che dispiacque forte al Mazza, rimasero salvi dal suo
pennello i nominati tre apostoli, e perciò corse voce che tre apostoli ancora
rimanessero intatti da ogni ritocco; voce però che non ebbe credito se non
presso coloro che ignoravano la prima rovina del Bellotti o pure che non
intendevano affatto le cose dell’arte: talchè mi fa meraviglia di trovare fra
questi anche il Bianconi che pure aveva qualche pratica delle cose pittoriche.
Dal Mazza in poi non vi furon ritocchi; e sebbene ne fosse talora mosso
consiglio, non se ne fece però nulla, e sarebbe stato un imbalsamare un
cadavere di tre secoli.
Nel
1796, allorchè l’esercito francese scese vincitore in Lombardia, il giovane
Generale Bonaparte che per propria virtù correa fin d’allora all’imperio,
tratto dalla fama di Leonardo visitò il Cenacolo ed ordinò che quel luogo fosse
rispettato nè vi si desse alloggio militare o vi si facesse altro danno. Ei ne
lasciò decreto che sottoscrisse sul ginocchio innanzi di rimontare a cavallo,
presenti varie persone, fra le quali il padre Porro cui debbo questo
ragguaglio. Ma poco dopo un altro Generale, facendosi beffe di quel decreto,
fece abbattere le porte e fe’ del refettorio una stalla. Il raffazzonamento del
Mazza aveva già cominciato a perdere la sua vivacità, allorchè la traspirazione
della cavalleria, sostituita al vapore delle vivande e certo più abbondante e
permanente, la ricoperse d’una nuova muffa, e l’umidità vi si attaccava in
tanta copia che poi colava a strisce lasciandovi una impressione biancastra.[14]
Da poi fatto il refettorio or magazzino or fienile, sempre ad uso militare, il
Cenacolo, quantunque dopo il Mazza non vi fosse alcun nemico da temere, ebbe
pur sempre nuovi danni e fino forti colpi di mattoni slanciati contro le
figure, de’ quali si veggono tuttavia le tracce.
Riuscì
finalmente all’Amministrazione della città di far chiudere, anzi murare quel
luogo, e per molto tempo chi voleva vedere l’opera di Leonardo, dovea
discendere con una scala a piuoli da un pulpito che servì già al tempo de’
frati pei lettori durante la mensa. Nel 1800 vi fu la di già accennata
inondazione che accrebbe notabilmente l’umido del luogo. Nell’anno 1801, sopra
dimanda fatta da me come segretario dell’Accademia delle belle arti,
l’Amministrazione fece fare una porta e promise cure ulteriori. Finalmente nel
1807 il Vicerè d’Italia ordinò che si rimettesse questo luogo in onore e si
ristaurasse, e vi si fecero le finestre, e parte del pavimento, e vi si eresse
un ponte onde poter esaminar l’opera da vicino, e riconoscere se si poteva
tentare qualche nuovo risarcimento. Vi si fece in oltre un’altra porta in
miglior situazione, sulla quale fu posta la seguente iscrizione dettata
dall’egregio Stefano Bonsignori ora vescovo di Faenza:
ANNO RECGI ITALICI III.
EVGENIVS NAPOLEO ITAL. PROREX
LEONARDI VINCII PICTVRAM
FOEDE DILABENTEM
PARIETINIS REFECTIS
EXCVLTIS AB INTERITV ADSERVIT
MAGNA MOLITVS AD OPVS
EXIMIVM POSTERITATI PROROGANDVM. [15]
Da
quel tempo in poi, quantunque appaja alquanto più annebbiato quel qualsisia
dipinto che si vede, pure non vi si scorge alterazione notabile, e
quell’annebbiamento ora è maggiore ora è minore secondo lo stato
dell’atmosfera, come ebbi par troppo occasione di osservare per circa due anni
che passai con grave danno di mia salute in quel tristo refettorio.
Intanto
per cura del Governo questo luogo è custodito come si deve e come suggeriva il
rispetto dovuto da una città colta alla memoria di tanta opera. Così sarà,
spero, custodito anche per l’avvenire; e benchè dell’antico dipinto del Vinci non
si scorgano ora che pochi minutissimi frammenti, la memoria di tanto autore
farà riguardare il poco che rimane con quella venerazione colla quale si
custodiscono, quantunque inutili, le ceneri o le reliquie degli uomini grandi;
giacchè questo rispetto, oltre che nelle persone amiche delle arti è un
sentimento, è anche un avviso a chi possiede o custodisce opere insigni, di non
trascurarle o guastarle; ed agli artefici è un utile stimolo a prodarne di tali
che meritino altrettanto dalla posterità.
OPINIONI DI LEONARDO
INTORNO ALLE PROPORZIONI
DEL CORPO UMANO.
Mancando
quasi del tutto nel Cenacolo originale la parte inferiore, e vedendosi nelle
copie intere più autorevoli le figure generalmente tozze e senza grazia, fui
costretto ad indagare con attenzione le opinioni di Leonardo intorno alle
proporzioni del corpo umano, onde nella mia copia supplire alle mancanze in una
maniera, per quanto io mi potessi, analoga ai suoi metodi e precetti. Spero,
non sarà discaro specialmente al coltivatori del disegno, che io mi estenda
alquanto esponendo ciò che dalle mie ricerche è risultato.
Già
grande al tempo di Leonardo doveva essere lo studio delle proporzioni;[16]
ma le opinioni degli artefici circa tale materia non erano concordi, come ne è
prova la disparità delle misure da essi osservate nelle loro opere. Alcuni
avevano tratti de’ canoni di proporzione dai libri di Vitruvio; altri dalla
natura direttamente; altri ne avean composti di più maniere, aggiugnendo le
proprie osservazioni e qualche nuova industria di pratica agli esempj ed alle
autorità altrui.
Coloro
pertanto che da Vitruvio avean desunte le loro misure, dovettero cadere in
gravi sbagli e discordanze, sia pe’ molti errori che deturpavano i testi di
quell’autore il quale non vide luce di stampa che assai tardi e scorrettissimo,
sia per l’ardua difficoltà della materia, sia per la poca chiarezza con cui
Vitruvio stesso la espose.
Similmente
quelli che, senza la scorta delle notizie già trovate da altri, si diedero a
stabilir misure sul naturale, offerirono spesso per canoni cose male scelte,
atte più a dare la storia del loro particolar modo di operare, che quella del
modo generale con cui opera la natura.
E
quelli, in fine, che all’autorità vitruviana e degli antichi unirono
l’osservazione sul naturale, si avvicinarono bensì alquanto più degli altri
alla ragion del vero e del bello, ma non diedero alla scienza tanto di lume che
bastasse a soddisfare quelli tra gli artefici contemporanei o posteriori che
oltrepassavano il confine della mediocrità.
Non
mancarono anche alcuni ingegnosi uomini i quali coll’ajuto delle matematiche
giunsero ad inventare nuovi metodi; e di tal genere fu forse l’opera di
Bramante che trattava delle quadrature de’ corpi, dalla quale, come abbiam dal
Lomazzo, nacque di poi l’altra di Luca Cangiasio che compose il corpo umano di
dadi e di obelischi. Nè altrimenti doveva essere in gran parte quella di
Vincenzo Foppa, dalla quale, come lo stesso autore assicura, trasse il Durero
la sua Simmetria. E una mistura di autorità, di osservazioni e di scienza
saranno stati gli scritti di Giotto, del Ghiberti, di Pietro della Francesca,[17]
del Ghirlandajo e d’altri che trattarono anticamente di proporzioni umane; ed è
certamente gran danno che tali opere ci sieno tolte dal tempo o dalla ignoranza
di chi le possiede.
Leonardo
avrà di certo conosciuti tutti i migliori metodi altrui; ma più profondamente
di ogni altro investigando i principj e la ragion vera delle misure, si accorse
che tale studio voleva essere considerato diversamente che nol fu per coloro
che in esso il precedettero. Egli era inoltrato nella scienza generale assai
più de’ suoi antecessori e de’ suoi coetanei: quindi maggiori erano i suoi dubbj
e le sue cautele: e se le profonde meditazioni da lui fatte sulla natura
universale l’assicuravano ch’essa è governata da una legge uniforme, l’esame
degl’individui gli dimostrava un’infinita indeterminabile varietà. D’altra
parte ei sapea che le leggi universali della natura passano al di là del limite
della potenza dell’umano intelletto, cui è concesso di giudicarne l’esistenza,
ma non già di penetrarne la qualità. Al contrario ei dava tutta la certezza che
per l’uomo si può ottenere, alla esperienza ed alle osservazioni sugl’individui
delle specie: ma riconoscendoli poi tutti diversi fra loro, non poteva
ammettere come sane ed utili tali leggi per le quali l’imitatore gli avrebbe
fatti uniformi. Quindi non voleva che le misure e i lineamenti di tale individuo
potessero per un altro servire, e tanto meno per la generalità: perchè, diceva egli, delle laudabili e meravigliose cose che
appariscono nelle opere di natura, è che mai in qualunque specie un particolare
con precisione si assomiglia all’altro: adunque tu imitatore di tal natura
guarda e attendi alla varietà de’ lineamenti.[18]
Da ciò appare ch’ei non facea gran conto delle misure generali delle specie,
come di cosa di lieve discorso; e che la vera proporzione da lui ammessa e
riconosciuta di difficile investigazione, è unicamente la proporzione di un
particolare riguardo a sè stesso, la quale, secondo la retta imitazione,
debb’essere diversa in tutti i particolari d’una specie, siccome avviene nella
natura. Così, dic’egli, tutte le parti di qualunque animale sieno
corrispondenti ed suo tutto: cioè che quel che è corto e grosso, deve avere
ogni membro in sè corto e grosso; e quello che è lungo e sottile, abbia le
membra lunghe e sottili; e il mediocre abbia in sè le membra della medesima
mediocrità.[19]
E
con questo e con altri precetti fa scorgere che, allorchè ei parla di
proporzioni, si debbe intendere ch’ei ragioni della commodulazione delle parti
di un individuo anzi che di una norma generale dell’imitazione per ciò che
spetta alle misure.
In
oltre egli ch’esigeva una proporzionalità
di parti fra loro, le quali fossero corrispondenti al tutto, divideva poi questa
proporzionalità in equalità e moto;[20]
colla quale sola divisione nascono tante differenze nelle misure e tante
difficoltà nel determinarle con precisione che sarebbe opera da non venirne a
capo; nè sembra ch’egli stesso, che forse solo potea riuscirvi, mai la facesse.
Per
dare in fine idea della finezza con cui vedeva e sentiva in questa parte
dell’arte, basti il dire che per la sola testa ch’ei divide scalarmente per
dodici gradi, punti, minuti, minimi e semiminimi, egli viene a stabilire una
divisione di duecento quarantottomila e ottocento trentadue parti.[21]
Con che, a dir vero, si rimane in dubbio s’egli intendesse piuttosto di far concepire
la infinita modificabilità delle parti della testa, per cui avviene che uomini
a milioni si riconoscono fra loro; oppure volesse far la satira delle misure
generali, siccome di cosa non determinabile se non a danno del vero e
dell’arte.
Con
tutto ciò, siccome avviene al pittore d’imitare i corpi umani a centinaja, e
siccome ne’ corpi belli le differenze delle parti per lo più sono piccole, e
diventano poi quasi impercettibili nelle più comuni imitazioni minori della
grandezza naturale, Leonardo riconosceva essere necessario al pittore
l’adoprare una misura generale, specialmente per l’uso privato di preparare con
prontezza le composizioni delle istorie. Volea però che l’elezione della figura
in che far abito, fosse fatta con grandi avvertenze sopra la regola di un corpo naturale, il quale comunemente fosse di proporzione
laudabile:[22] e a tal
fine debbono credersi fatti i disegni di Leonardo che spettano alle
proporzioni, ed il più de’ precetti da lui lasciatici intorno tale materia.
Voleva
ancora che questa misura fosse unicamente usata per le lunghezze e non per le
larghezze, nelle quali esige più sensibile varietà. Osserva similmente l’accorciarsi
e l’allungarsi delle membra secondo la diversità de’ movimenti e piegamenti,[23]
e intralcia finalmente con tante distinzioni le misure stesse ch’egli
stabilisce, che chiunque non è già notabilmente inoltrato nell’arte, non potrà
molto giovarsi de’ suoi precetti e delle sue osservazioni.
Premessi
tali avvertimenti sul modo con cui dagli scritti si può giudicare che Leonardo
la pensasse nelle cose della proporzione, mi faccio a descrivere i soli
importanti disegni di tal materia che sieno giunti a mia notizia e de’ quali
feci acquisto comperando la raccolta del De Pagave.
Il
primo che qui si riporta, rappresenta la testa d’un uomo maturo di bello e
grave carattere, e vi si leggono scritte di mano dell’autore le note seguenti:[24]
Dal ciglio alla
congiunzione del labbro col mento, e la punta della mascella, e ’l fine di
sopra dell’orecchio colla tempia fia un quadrato perfetto, e ciascheduna faccia
per sè è mezza testa.
Qui
faccia vale per lato del quadrato.
Il cavo dell’osso della
guancia, segue lo
scritto di Leonardo, si trova in mezzo
fra la punta del naso e ’l confine della mascella colla punta di sotto
dell’orecchio nella figurata stella; cioè dove concorrono le varie linee
segnate nella testa formando quasi una stella o asterisco. Questo passo fu
malamente svisato la prima e sola volta che venne pubblicato nel 1784.[25]
Dal cantone, continua la nota, dell’osso dell’occhio all’orecchio è tanto spazio, quanto è la
lunghezza dell’orecchio o vuoi il terzo della testa. Qui dice testa, mentre
dovrebbe dire volto o faccia. Le varie linee dalle quali è intersecato questo
disegno, provano ch’egli andava indagando altre divisioni: sono notabili quelle
che circoscrivono l’occhio e la sua incassatura.
La
tavola che vien dopo la descritta, rappresenta la stessa testa a rovescio con nuove
divisioni. Vi si legge la nota seguente, parimente di pugno del Vinci:
Fa che il capo, cioè dalla
sommità dell’uomo al disotto del mento, sia l’ottava parte di tutto l’uomo: il
quale capo dividerai in cinque parti; e una d’esse parti fa che sia dal
nascimento de’ capelli in sino al pari della somma altezza del capo: un altra
parte metti dal taglio della bocca al fine di sotto del mento, e l’altre di
mezzo resteranno in fra ’l taglio d’essa bocca e ’l fine del viso coi capelli.
Oltre
ciò in questa testa sono distinte molte parti con varie lettere, e lateralmente
vi sono indicate le distanze rispettive commodulate ora colla testa intera ora
colla sola faccia. Eccole esattamente spiegate per chi non le intendesse nel
disegno, dove imbarazza la forma e il rovesciamento delle lettere.
Il
confine superiore del mento segnato li e
l’inferiore segnato i formano la
sesta parte della faccia.
Dalla
divisione de’ labbri segnata g al
detto inferior confine del mento v’è la quarta parte della faccia, e similmente
la quinta di tutta la testa, come si rileva anche dalla nota antecedente.
Dalla
linea inferiore del naso segnata f al
confine inferiore del mento v’è la terza parte della faccia.
La
stessa terza parte della faccia comprende lo spazio che sta fra il confine
inferiore del naso f e la linea delle
ciglia segnata c.
È
similmente una terza parte della faccia lo spazio che sta tra la linea c delle ciglia e la linea b che determina il confine superiore del
volto dove nascono i capelli.
Leggesi
poi che dal punto k, cioè là dove
quella grassezza molle al di sotto del mento fa angolo colla gola o gorgozzule,
sino alla linea l che determina il
luogo della fontanella della gola o sia l’inferiore attacco de’ muscoli sterno-mastoidei,
vi sia la metà della misura del volto; in che Leonardo prese errore
evidentemente, essendovi assai meno. In vece si trova la indicata giusta metà
del volto dalla fontanella alla linea i,
cioè al confine di sotto del mento. Doveva dunque scrivere i, l in cambio di k, l.
Finahnente
dal punto h, cioè dal superiore
confine del mento all’inferiore del naso segnato f, corre la sesta parte della faccia.
Queste
sono le misure notate a numeri da Leonardo in questo modo:
h, i 1/6 del volto.
g, i 1/5 del volto.
g, i 1/4 del volto.
f, i 1/3 del volto.
c, f 1/3 del volto.
b, c 1/3 del volto.
k, l 1/2 volto.
h, f è 1/6 del volto.
Alle
quali misure potrebbero aggiungersi le seguenti, le quali però al pari delle
fin qui notate non sono precise ed esatte, non essendo finito il disegno, ed
essendovi segnate grossamente a mano le divisioni e le linee.
Dividendo
orizzontalmente in due parti eguali il volto, il che fece Leonardo colla linea
che dimezza il naso e l’orecchio, segnata q,
e, si trova che la larghezza del capo
in quella direzione è eguale all’altezza del volto. E in generale il volto è
alto poco meno, che non è largo di profilo il capo nella massima sua larghezza.
Similmente
dalla sommitcà del capo segnata a al
taglio g delle labbra v’è una faccia.
La
stessa distanza passa dalla fontanella della gola a mezzo il naso ed a mezzo
l’orecchio.
La
stessa dalla detta fontanella al confine inferiore delle mammelle.
La
stessa in fine orizzontalmente dalla punta del naso all’occipizio.
Trovo
poi che la misura da Leonardo sbagliata dal punto k, angolo del gorgozzule col mento, alla linea l della fontanella, comprende un terzo di tutta la testa.
Così
dalla linea del nascimento de’ capelli b
all’inferior confine delle mammelle n
vi stanno due teste con lieve divario. Una testa circa comprende la larghezza
del casso di profilo. Parimente dalla fontanella l all’ascella m v’è la
stessa distanza perpendicolare che passa orizzontalmente dalla detta fontanella
al principio del dorso sempre visto di profilo, ed è pari distanza a quella che
passa tra la linea delle ciglia e l’angolo del gorgozzule.
Lo
stesso ripetasi di altri varj rapporti che ognuno può fare e che meglio
apparirebbero se Leonardo stesso avesse più diligentemente purgati questi primi
schizzi o sperimenti, de’ quali egli debbe aver fatto buon numero d’ogni età e
sesso; ma sventuratamente sono ignoti o perduti.
L’eccezioni
che si possono fare a queste misure, provano quanto già accennai, cioè che non
si debbono prendere per misure generali della specie.
E
sarebbe ora da descrivere il più importante disegno che forse si conosca di
Leonardo, il quale contiene quella universal
misura dell’uomo da lui promessa, ma non data nel suo Trattato. Ma prima
ch’io m’inoltri in questo argomento, piacemi volger per poco ad altro
l’attenzione del lettore, onde fargli sentire che Leonardo, sebbene in questa
parte delle proporzioni vincesse ogni altro del suo tempo e al suo tempo
anteriore, non soddisfece in esse a se stesso, anzi tale studio parvegli uno
scoglio dell’arte più d’ogni altro malagevole da superarsi.
Quello
stesso Platino Piatto, suo amico, che gli fece l’epigramma pel Colosso di
Francesco, composegli anche il suo epitaffio, lui vivente, anzi forse una
dozzina d’anni prima della sua morte, come si può indurre dalla data del libro
del Platino, in cui quell’epitaffio si legge. Questo genere di composizioni,
allorchè si applica a persone vive ed ove non abbia luogo la satira, non si usa
senza richiesta o almen consenso di colui che n’è argomento. Allorquando poi i
sentimenti ne son modesti e si pongono da’ poeti in bocca del supposto morto,
pare da credere che sieno stati assolutamente dettati dalla persona cui si
fanno dire, e che il poeta non ci abbia messo di proprio che la veste dell’arte
sua.
Leonardo,
conscio del suo sapere, sebbene in qualche parte il conoscesse superiore
all’altrui, sentiva quanto era difettivo in faccia a ciò che ne faceva il
soggetto, cioè la immensa misteriosa natura. Modesto senz’affettazione, come
tutti i veri grandi, quantunque fosse lusingato dall’udirsi chiamare l’Apelle,
il Fidia, il Policleto del suo tempo, come leggiamo ne’ libri del Bellincione,
del Paciolo e d’altri, sembra che dentro di sè sentisse di non giungere alla
eccellenza di que’ meravigliosi antichi, de’ quali si protestava ammiratore e
discepolo. Questi paragoni degli artefici dell’antichità co’ moderni erano in
bocca di tutti, e si vede che se ne facea sovente tema di eruditi ragionamenti
fra coloro che avevano affetto alle arti, come si scorge dal passo di Matteo
Bandello citato nel primo libro e da altri di varj autori. Era poi cura e
studio speciale di Leonardo di avvicinarsi per quanto poteva agli antichi nella
vera e bella imitazione della natura colla scorta della filosofia; ma prima
delle sue maggiori opere, egli non aveva veduto che le pochissime anticaglie di
Firenze, la qual città, allorchè ne partì Leonardo, non conosceva ancora il famoso
Giardino del Magnifico Lorenzo, che fu la prima scuola di Michelagnolo. Però, o
fosse la mancanza de’ grandi esemplari, o non ne penetrasse, secondo ch’egli
credeva, abbastanza gli artifizj, o che troppo tardi giungesse a comprenderli,
egli lagnavasi modestamente di non aver posseduto l’antico magistero delle
proporzioni. Si protestava poi d’aver fatto il poco che aveva potuto, e
chiedeva perdono alla posterità, se non aveva fatto di più. Ecco i sentimenti
che il Platino espose nell’epitaffio che qui trascrivo:
Leonardus Vincia (sic) Florentinus
Statuarius Pictorque nobilissimus
de se parce loquitur:
Non sum Lysippus: nec Apelles: nec Policletus:
Nec Zeusis: nec sum nobilis aere Myron.
Sum Florentinus Leonardus Vincia proles:
Mirator veterum discipulusque
memor.
Defuit una mihi symmetria prisca; peregi
Quod potui: veniam da mihi
posteritas.
Ognun
vede che sensi sì fatti non si possono attribuire all’invenzione del poeta.
Anche il titolo posto dal Platino all’epigramma prova ch’egli non vi pose di
suo che il metro e la lingua. Comunque siensi i versi, le sentenze gravi e semplicissime
si confanno perfettamente al modo di pensare e di scrivere di Leonardo. In fine
qualora questo epitaffio, in vece d’essere stato fatto vivente Leonardo e
probabilmente quando ei rivide il Piatto a Milano nel 1507, si supponesse
composto dopo la sua morte da qualche moderato amico della sua memoria, i sensi
che contiene il farebbero tuttavia ritenere come una traduzione fedele di
parole a lui proprie e consuete.
Or
dunque questo non contentarsi di sì grand’uomo nell’ardua materia delle misure,
mentre nel resto non parea temere l’altrui censura, ci debbe dare una grande idea
della difficoltà di determinare le leggi della bella simmetria, e di
conservarle nelle opere con quell’armonia che si sente, ma che non si spiega e
che varia in ogni figura secondo l’età, gli accidenti e i caratteri particolari
di ciascheduna.
Riportato
quest’unico giudizio che di Leonardo ci sia rimasto intorno alle cose sue,[26]
e che mi parve necessario di premettere a quanto segue, mi faccio ad esporre la
tavola della misura generale dell’uomo.
I
due disegni che abbiamo esaminati, sono, direi quasi, precetti scritti fondati
sulla sola osservazione naturale. Questo terzo ha di più il fondamento
sull’autorità di Vitruvio, ed ha il vantaggio d’essere accuratissimo nelle
forme e mirabile nel carattere.
Ecco
esattamente ciò ch’egli stesso vi ha scritto di suo pugno, cangiata solo
l’ortografia, come ho praticato altrove, onde togliere ogni imbarazzo a chi
legge.
Vitruvio architetto mette
nella sua opera di Architettura che le misure dell’uomo sono dalla natura
distribuite in questo modo, cioè: che quattro diti fa un palmo, e quattro palmi
fa un piè; sei palmi fa un cubito; quattro cubiti fa un uomo; e quattro cubiti
fa un passo; e ventiquattro palmi fa un uomo: e queste misure son ne sia
edifizj.
Se tu apri tanto le gambe
che tu cali da capo 1/14 di tua altezza; e apri e alza tanto le braccia che
colle lunghe dita tu tocchi la linea della sommità del capo, sappi che il
centro delle estremità delle aperte membra fia il bellico, e lo spazio che si
trova fa le gambe fia triangolo equilatero.
Dal nascimento de’ capelli
al fine di sotto del mento, è il decimo dell’altezza
dell’uomo.
Dal di sotto del mento
alla sommità del capo, è l’ottavo dell’altezza dell’uomo.
Dal di sopra del petto
alla sommità del capo, fia il sesto dell’uomo.
Dal di sopra del petto al
nascimento de’ capelli, fia la settima parte di tutto l’uomo.
Dalle tette al di sopra
del capo, fia la quarta parte dell’uomo.
La maggiore larghezza
delle spalle contiene in sè la quarta parte dell’uomo.
Dal gomito alla punta
della mano, fia la quarta parte dell’uomo.
Da esso gomito al termine
della spalla fia l’ottava parte d’esso uomo.
Tutta la mano fia la
decima parte dell’uomo.
Il membro virile nasce nel
mezzo dell’uomo.
Dal di sotto del ginocchio
al nascimento del membro fia la quarta parte dell’uomo.
Le parti che si trovano in
fra il mento e il naso e il nascimento de’ capelli e quel de’ cigli, ciascuno
spazio per se è simile all’orecchio, ed è il terzo del volto.
Ma
le misure qui da Leonardo accennate non sono le sole che si riscontrano in
questa figura. Ecco quelle che si potrebbero aggiungere, ricapitolandone una
divisione generale, siccome più facile a conservarsi nella memoria.
Tutto
l’uomo dividesi in otto parti eguali.
La
prima contiene dal sommo del capo all’imo del mento.
La
seconda è composta dallo spazio che sta tra l’imo del mento e una linea
orizzontale che passi per le areole delle mammelle.
Da
questa linea al luogo ove allargansi le porzioni carnose de’ retti
dell’addomine per dar luogo all’umbilico, sta la terza.
Da
tale allargamento al nascimento del pene sta la quarta.
La
quinta sta tra il nascimento del pene e la metà dell’anca o piuttosto il luogo
dove comincia superiormente ad apparire il vasto interno.
Tra
il detto luogo e il di sotto del ginocchio è la sesta.
La
settima sta tra il di sotto del ginocchio e l’angolo che fa il gastrocnemio
interno col soleare.
L’ottava
compie l’uomo dal detto angolo all’estremità inferiore del tallone.
La
stessa divisione per otto si trova in traverso, stando l’uomo a braccia stese
in direzione orizzontale come nella figura.
Allora
una parte sta tra la fontanella della gola e il più lontano confine della
spalla.
Da
quivi al finire della porzion carnosa del bicipite è la seconda.
La
terza, alquanto meno determinabile, sta tra il confine indicato e il finire della
porzion carnosa dell’elevatore speciale del pollice.
La
quarta sta dal detto luogo all’estreinità del dito medio.
Le
altre quattro parti si ripetono dal lato corrispondente.
Si
può anche aggiungere che un’ottava parte dell’altezza dell’uomo sta tra gli angoli
che formano, a braccia elevate, i deltoidi colle clavicole, misura che Leonardo
non iscrisse, ma che pure indicò con due punti visibili nel suo disegno.
Così
pure una decima parte del tutto, che è quanto a dire una faccia, forma di
prospetto la somma larghezza d’una coscia; e due decime, la larghezza del
tronco sotto il petto.
Ed
altre simili divisioni ed utili approssimazioni da chi cerca tali studj, si
rinverranno in questa singolare figura che in altre certamente non è dato
riscontrare.
E
quando finalmente si rifletterà che quantunque Leonardo con sì buon esito
indagasse in Vitruvio le misure che Vitruvio stesso sembra aver tratte dai
Greci, lagnavasi nondimeno di non aver posseduto la vera antica simmetria, si
comprenderà bene che per questa scienza egli non intendeva, come già accennai,
una determinata misura generale dell’uomo, ma quella commodulazione di parti
che a ciaschedun individuo conviene secondo le respettive circostanze di sesso,
di età, di carattere e simili.
Si
comprenderà allo stesso tempo che questa generale misura, qui stabilita da
Leonardo, può benissimo esser quella in che consiglia di far abito, perchè fatta, come l’esperienza può ad ognuno
mostrare, sopra la regola d’un corpo
naturale di proporzione laudabile, e di più confermata per la massima parte
dall’autorità degli antichi; ma non dovrà mai dimenticare le infinite
avvertenze che qua e là pel suo Trattato egli ha sparse, onde far comprendere
che il non variare proporzioni è cosa contraria alla natura, e però gravissimo
difetto dell’imitazione.
Intanto
per gli usi limitati cui simili canoni possono servire, e ad onta delle
infinite eccezioni cui la propria lor natura li rende soggetti, questo di
Leonardo è, se non erro, il più consentaneo al vero, il più semplice, il più
fecondo di misure armoniche, il più armonico nel tutto, il più facile a
serbarsi nella memoria, il più utile in somma all’arte di quanti prima e dopo
di Leonardo ne furon posti in luce dagli scrittori.
Voglionsi
però qui eccettuare gli antichissimi Greci. Eglino ci lasciarono sì mirabili
marmi che possiamo facilmente assicurarci che ne’ lor precetti non si saranno
opposti al modo con cui operavano, nè da quello dilungati. Ben è gravissimo
danno che quanto essi scrissero di simmetria, tutto sia stato preda del tempo,
tranne le poche linee di Vitruvio; e molto certamente di tale scienza fu
scritto dai Greci, come ne abbiamo ampie testimonianze in Plinio, in Vitruvio
stesso, in Filostrato juniore ed in altri. Parrasio sembra il primo che della
simmetria facesse una scienza a parte ed alla pittura l’applicasse,
stendendone, come è probabile, commentarj o trattati. Asclepiodoro
perfezionolla a segno che ne ottenne ammirazione dallo stesso Apelle. Mirone e
Lisippo la custodirono nelle loro opere colla massima diligenza e precisione, e
anch’essi, secondo l’uso de’ grandi artefici d’allora, o per norma delle opere
loro o per render conto del modo con cui avevano operato, avranno commesso alle
scritture preziosi ragionamenti o precetti di questa loro prediletta facoltà.
Eufranore pare contendere a Parrasio il primato nel farne uso, ed a quanto
apparisce dagli scrittori, ne scrisse più ampiamente degli altri. Fra gli
scritti pittorici di Antigono e di Senocrate, grandi encomiatori di Parrasio,
non può a meno che di simmetria non si ragionasse: lo stesso debbe dirsi de’
libri di Melanzio citati da Diogene Laerzio. E finalmente, per lasciare i tand
altri greci autori di simmetria specialmente citati da Vitruvio,[27]
Policleto non si accontentò di dare un commentario di questa facoltà, ma, per
testimonio di Galeno, ad illustrazione dello scritto fece una mirabile statua
che confermava i precetti in esso scritto contenuti; e il Canone di Policleto, nome che a quella statua si diede, divenne sì
famoso per la sua bellezza, che passò in proverbio per esprimere un corpo
perfetto, come possiamo vedere presso Luciano nella Morte di Pellegrino.
Ma
di tanti scritti che dovevano per lo meno pareggiare in eccellenza fè opere che
ci rimangono, e che probabilmente, perchè è più facile il dar precetti che
operare, le avranno superate, di tanti scritti, dico, non ci rimane frammento,
nè è da sperare ormai che se ne trovi vestigio, se pure qualche cosa non
esistesse pei posteri fra i papiri ercolanesi.
Fatta
questa rispettosa eccezione in favore de’ greci maestri, consigliata dalle
impareggiabili loro opere, e venendo a men remoti tempi, se, in prova di quanto
ho asserito in favore di Leonardo, scorreremo i molti metodi degli altri che
contenti di sè stessi e per lo più da legislatori e senza riserve stabilirono
le misure del corpo umano, li riconosceremo prontamente essere d’assai lontani
dalla bellezza e facilità del metodo vinciano. Vitruvio stesso, che però non
ragiona che incidentemente delle umane misure e che da Leonardo meglio può
dirsi spiegato e cotumentato che non copiato, non istabilisce quale debba
essere l’allargamento delle gambe, nè l’alzamento delle braccia, onde
circoscrivere l’uomo supino in un cerchio facendo centro dell’umbilico. E
sebbene sia probabile che da qualche greco scrittore, come si è detto,
compendiasse quanto scrive di simmetria, pure, non essendo egli dell’arte,
sparse di tanta oscurità quell’importante passo, che basta lo scorrere i tanti
suoi commentatori e traduttori per vedere quanto da quelli variamente e stranamente
fu inteso, e quanto siano fra loro diverse le figure ove le une dalle altre non
furono copiate. Similmente non trovansi in Vitruvio le molte altre misure
secondo i suoi stessi principi da Leonardo egregiamente accordate: con che, non
meno che col resto di tale studio tratto da quel classico, parmi non si
concederà di troppo a Leonardo, dandogli un luogo fra coloro che primi si
diedero a commentarlo.[28]
Da
Vitruvio in poi, non curando alcuni pochi passi d’altri scrittori vecchi che
alla simmetria si possono applicare, ma che a questa scienza non arrecano alcuna
luce, ci è d’uopo venire fino a Leon Batista Alberti il quale precedette, è
vero, Leonardo, ma noi giovò però gran fatto co’ suoi studj circa queste
materie. Imperocchè, sebbene ci si vanti d’aver desunta la sua simmetria da
gran numero di corpi belli, per lasciare altre eccezioni, le sue divisioni a
piedi, gradi e minuti non hanno in fra esse stesse nè col tutto alcuna
relazione ragionevole, talchè è assolutamente impossibile il tenerle a mente con
precisione.
Ma
io qui mi accorgo che volendo esporre le tante e varie opinioni intorno alla
simmetria, da me con molta cura e pazienza raccolte, per quanto mi studj di far
ciò succintamente, debbo di necessità estendermi più che non vorrebbe il
sistema negli altri capitoli da me tenuto, e quindi recar noja al più de’
lettori. Pure, allorchè rifletto che a coloro che di queste materie sono
curiosi, risparmierò con poche pagine il fastidio di ricorrere ad un gran
numero di libri, alcuni de’ quali sono difficilmente trovabili per la loro
rarità, non temo d’incontrar taccia di prolissità presso gli altri che possono
saltare questa parte dello scritto ed andare, quando lor piaccia, alla
conclusione.
Proseguendo
adunque, per quanto si può, per ordine di tempo, vengo a frate Luca Paciolo, e
trovo che nelle cose da lui aggiunte a quanto copiò da Vitruvio, fece una tal
confusione che nulla si può trarre di ragionevole da quanto ei prescrive. Basti
il dire che sì d’un triangolo[29]
come d’un parallelogrammo, con che pretende determinare le principali misure
della testa in profilo, un angolo solo rimane conservato nel dintorno: gli
altri tutti si disperdono dentro o fuori della medesima.
Nè
molto di meglio abbiamo dal Dialogo di Pomponio Gaurico sulla scultura,
stampato al principio del secolo decimosesto. Egli biasimava, per esempio, la
proporzione di dieci facce, che è certo la più armonica di tutte, e credea che
se ne potessero tollerare di sole otto e fin anche di sette, proporzione che
conviene ai fanciulli di poco oltre cinque anni. Forse ei fu, a quanto
apparisce, sedotto dalla divisione per tre, il qual numero moltiplicato in sè
stesso rende il nove: però divideva la faccia in tre parti e tutto il corpo in
nove facce; ma l’armonia e le relazioni aritmetiche non sempre si accordano coll’armonia
degli spazj che separano le parti degli oggetti di forma determinata, che col
disegno s’imitano; che se ciò fosse, molte cose che sono difficilissime a
spiegarsi non che a farsi, diverrebbero piane e facili all’intelletto ed alla
mano. Però colla divisione del Gaurico la figura umana, ad onta del bel giuoco
che vi fa il numero tre, ha il collo corto, il torso lungo e gli arti inferiori
deboli. Nè più esatto mostrossi allorchè disse che i putti sono alti quattro
facce, cioè circa tre teste, il che non si verifica che ne feti immaturi.
Simili errori procaccian poca fede al resto delle sue misure nelle quali più si
diffonde, sebbene sieno meno importanti, oltre che alcune non s’intendono bene
e sono riportate con notabili diversità nelle diverse edizioni del suo Dialogo.
E se Giovanni DeLaet, che in fine del suo Vitruvio diede porzione di quel
libro, si studiò di rettificarle, nulla ottenne di meglio; e accomodando a suo
modo la misura del piede e del collo, non tenne poi nessun conto dello spazio
che sta tra il vertice del capo e la sommità della fronte, e dice che questa
parte non debbe riceversi nell’altezza dell’uomo, quia est pars escrementosa. Non so se per la stessa ragione fu
ommessa similmente da Giovanni Scheffero nel suo libro De Arte pingendi, il qual autore però in generale, se non fosse
caduto nella indicata ommissione che rende di più troppo svelta la sua figura,
e non badandosi ad alcuni imbrogli nel modo con cui divise gli arti inferiori,
mostrò miglior giudizio degli altri e si attenne in gran parte a Vitruvio.
Più
chiaro certamente, se non elegante nè comodo, fu il sistema di Alberto Durero,
che anzi parve a molti utilissimo ed eccellente. Quelli però che tale il
giudicarono, non conoscevano di certo gli studj di Leonardo, nè erano muniti di
gusto buono e delicato in fatto di disegno. Il suo metodo di misurare è in
parte migliore degli altri, perchè ogni divisione, benchè minima, ha sempre una
relazione aritmetica col tutto, da che nasce qualche giovamento alla memoria;
ma dovendosi comporre una nojosa e complicata scala per ogni singola figura di
cui si voglia o per la prospettiva si debba variare l’altezza, e facendovisi
divisioni minutissime, nulla giova ch’esse ad una ad una siano chiare, quando
poi diventano per la moltiplicità, varietà e minuzia difficili, intricatissime.
Se riguarderemo in appresso al garbo, al gusto ed allo stile delle figure che
da sì fatte divisioni risultano, possiam dire senza esitanza che la sua
simmetria (se pure non fu tolta al Foppa, come il Lomazzo asserisce), anzi che
da Vitruvio, il che da alcuni fu scritto, venne o imitata dalla natura senza
scelta, o creata dalla fantasia senza discrezione.[30]
Si scorrano in fatti con l’occhio le sue tavole, e si vedranno ora ridicoli e
nani Sileni, ora fantasmi lunghissimi mostruosi, somiglianti a certi idoli
etruschi che trovansi nei musei d’anticaglie. Doppiamente deformi riescono poi
tali figure nel sesso femminile, sicchè a ragione Michelagnolo, che per altro
stimava il Durero (come fuor di dubbio il merita quel ristauratore delle arti
tedesche), solea dire esser poca e debole cosa questo suo libro.[31]
E certamente se così fatto era il libro ora perduto del nostro Foppa, non è da
piangersene la perdita, se non come di raro e curioso monumento dell’arte, e
per le figure di proporzione media che tratte da modelli italiani saranno state
certamente di uno stile migliore che non le pubblicate da Alberto.
Altri
molti che nel cinquecento scrissero di proporzione, furono per lo più cattivi
copiatori or di Vitruvio, or dell’Alberti, or del Durero, con poche aggiunte o
variazioni e per lo più con grandi oscurità. Così fecero Mario Equicola, Nicolò
Franco,[32]
Paolo Pino, Flud, parecchi commentatori di Vitruvio (fra i quali anche il
Bertano, sebbene sì piccola parte commentò di quell’autore) c finalmente altri
non pochi ch’è inutile il nominare.
Ma
quegli ancora che uscirono con metodi proprj, poca utilità arrecarono all’arte,
come dal seguito di questo esame ci verrà fatto di osservare.
Il
famoso nostro Cardano, nel libro undecimo del suo libro De Subtilitate, divise il corpo umano in centottanta parti, dandone
ventiquattro alla testa, che è quanto a dire due quindicesime del tutto; misura
media tra la rozza e l’elegante, ma anch’essa complicata di troppo e troppo minutamente
divisa, e ben lungi in tutto dall’armonia della vitruviana perfezionata da
Leonardo.
Girolamo
Ruscelli, nella seconda parte della sua Lettura
sopra un sonetto del marchese Della Terza,[33]
volle similmente discorrere di simmetria. I principi eh’egli espone in quel
libro si dicono presi da varj che di tal cose avean trattato al suo tempo, ma
non si scorge chiaro quale possa essere stata la loro origine principale.
Qualunque però essa fosse, nelle misure del Ruscelli abbondano errori e
discordanze. Per esempio: dalla radice della gola al vertice del capo egli
stabilisce una quarta parte di tutta l’altezza della figura, mentre non vi suol
essere che la sesta. Così asserisce che la lunghezza del piede è la decima
parte di tale altezza, mentre i Greci, secondo Vitruvio, la volean soltanto la
sesta, ed è di deforme piccolezza se eccede di molto la settima. E per quanto
ivi ci parli specialmente delle donne, non è da lasciarsi inavvertita l’erronea
opinione di coloro che estimano tanto più belli i piedi femminili quanto più
sono piccioli. La bellezza de’ piedi sta nella leggiadria e concinnità della
forma, non nell’esser corti o estremamente piccioli; che se fosse diversamente,
sarebbero bellissimi i piedi delle donne cinesi e giapponesi, e mostruosi
quelli della Venere de’ Medici.
Ben
maggiori riguardi per la sublime eccellenza dell’autore si debbono ad una stampa
che gira di Michelagnolo, tratta da un suo fiero disegno improvvisato a penna.
Vedesi in essa una figura virile in profilo, non lontana dalle misure stabilite
dal Vinci, il cui canone acquista autorità non lieve dal trovarsi in generale
d’accordo con quello di sì grande maestro. Michelagnolo però cambiò, può dirsi,
proporzione ad ogni figura, sdegnando l’impaccio delle misure, e a buon diritto
per la profonda sua cognizione della macchina umana. Ciò non ostante, quel suo
forse eccessivo disprezzo di tali cautele, unito all’impeto ed all’entusiasmo
col quale si slanciava sui marmi, fu cagione che spesse volte gli mancasse la
materia sotto lo scarpello, e che talora tollerasse delle scorrezioni
importanti, come si può vedere nelle per altro meravigliose figure de’ sepolcri
di Firenze. Debbesi però in sua difesa notare che le licenze che in queste
figure si riconoscono, possono anche essere state cagionate dalla somma fretta
con cui le ha eseguite, stimolato dal timore della vendetta medicea; poichè
avendo egli ritardata la resa di Firenze a Clemente VII, dovette la sua
salvezza al suo valore nella scultura, e postosi d’ordine del papa attorno a
que sepolcri, il Condivi che scriveva lui vivente, dice che condusse quelle
opere in pochi mesi, spinto più dalla paura che dall’amore. Trovansi però molte
mende dal lato della simmetria in altre opere sue; ma di certo chi intende
l’eccellenza delle altre parti, lo scusa e le dimentica, e ad onta di esse
sappiamo che Raffaello, al cui giudizio niuno sdegnerà di accomodarsi, chiamava
Michelagnolo la Idea del disegno.
Nè
fra gli artefici che di questo tempo ci lasciarono disegni di simmetria, è da
preferirsi il Parmigianino, di cui vedesi una figurina relativa a tal facoltà
nella Raccolta de suoi schizzi incisi da Benigno Bossi luganese. Chiunque però
ha in pratica le cose di quell’elegante pittore, si ricorderà facilmente che le
sue misure eccedono nella sveltezza, e ch’egli, al pari di alcuni artefici
fiorentini, in traccia sempre della grazia, si dimenticò non di rado ch’è
d’uopo cercarla del continuo nella natura, e che fuor di essa la creduta grazia
diventa affettazione e mostruosità.
Ma
tornando agli scrittori, di simil pecca di sveltezza eccessiva può accagionarsi
la misura esposta da Agnolo Firenzuola per la figura virile ch’ei voleva di
nove teste, mentre poi per le donne accontentavasi di sole sette o al più sette
e mezza, tollerando sì notabile discrepanza tra le virili e le femminili
proporzioni. Da questo autore per altro, che ne’ suoi Dialoghi Delle Bellezze delle donne scrisse molte
delicate e gentili cose intorno alle forme del viso e delle membra, potrà un
pittore imparare, se non misure buone ed esatte, un tal fino modo di osservare,
che è di grande utilità a chi coltiva il disegno. Potrà in oltre trarne certe
amorose ed aggraziate maniere di esporre con parole le osservazioni le più
argute: cosa del pari utilissima e della quale in queste materie, se si
eccettua il Firenzuola, mancano, a mio parere, esemplari alla lingua non meno
che all’arte. Per sì fatte esposizioni ingenue, chiare e brevi dell’intento
delle opere proprie, può l’artefice metter gli altri a parte delle finezze
dell’arte sua, in quella guisa appunto che un abile commentatore fa gustare le
bellezze più squisite e recondite di una produzione poetica.
E
anche Baccio Bandinelli vuole un luogo fra gli scrittori di umane misure; ma
non ha dritto di certo ad un luogo distinto. Egli ci lasciò la proporzione
della testa in profilo, che si legge nel libretto intitolato Il Disegno del Doni, a tergo della
pagina 42, e basti il dire che la fa tanto larga quanto alta; misura che in
pochissimi individui si verifica, e non s’incontra senza sfregio evidente della
bellezza. Ma il povero Bandinelli, sia pure chiamato dal Doni disegnatore miracoloso, non aveva che
mediocre disegno e grazia nessuna. Egli soleva in oltre dire che la testa era
assai più facile che ogni altro qualsisia membro per la fermezza delle sue
misure; con che fa intendere ch’ei la considerava assai grossamente, e ne son
prova le molte teste mediocri e prive di ogni arguzia di espressione da lui
fatte alle sue figure, ed il suo Ercole con faccia di Lion-bue come benissimo disse il Celllni. In somma egli parlava
come operava, ed operò sempre da uomo che non aveva senso alcuno per le misure
delicate e per le finezze dell’arte. E parimente il Doni, suo gran lodatore e
non dissimile da lui nel giudizio, per darci una egregia prova del proprio buon
gusto poetico e pittorico ad un tempo, diceva di aver più diletto in leggere il
Parnaso dell’Aretino che in vedere il Parnaso di Raffaello.
E
giacchè si fece qui motto dell’Aretino, non si debbe lasciare in dimenticanza
la proporzione che posta in sua bocca si legge nel Dialogo della Pittura di Lodovico Dolce. La ricorderemo però
soltanto per ripetere quanto abbiam detto di quella del Gaurico che il Dolce
copiò, chiamando teste le facce onde accrescere l’imbroglio e l’oscurità.
Questa
pertanto del Dolce mi richiama a mente per l’uniformità l’altra lasciataci dal
Vasari nella Introduzione alle tre arti
del disegno; dal quale autore sembra che si dovesse aspettare maggiore
accuratezza intorno a sì importante soggetto. E pure gli stessi errori, le
stesse ommissioni e fin lo stesso chiamar teste
le facce si trova nel Vasari pittore,
come nel Dolce che dell’arte non aveva che parole ad imprestito. E per la
troppa confidenza nell’autorità del Vasari anche Filippo Baldinucci in una
lettera a Lorenzo Salviati (stampata a Livorno nel 1802) ripetè con precisione
i medesimi spropositi. La quale negligenza, se pure vuol perdonarsi al
Baldinucci, non potrà mai essere scusata nel Vasari nè dalla farragine delle
opere dalle quali egli era sopraccaricato, nè dalla fretta con cui scrisse, nè
da qualsivoglla altro argomento: perchè avendo egli per assunto di stendere le
memorie degli artefici, non aveva obbligo nessuno di entrare sottilmente in
queste materie; e qualora voleva pure per un di più ragionarne e darne
precetti, professando l’arte, nè volendo tacersi, il che sarebbe stato meglio,
era in dovere di studiare in modo da scriverne bene.
Non
mancò però chi si accorse che la parte superiore della testa era di sufficiente
dignità da poter entrare nella misura dell’uomo. Nella Selva di varia Lezione che il Sansovino pubblicò, tradotta dallo
spagnuolo, e che non potei trovare in originale, si legge di un Filippo
Borgogna, chiamato singolare scultore,
il quale dava al corpo umano nove facce e un terzo, proporzione, secondo il Filandro,
attribuita a Varrone, e vi si dice che tal misura era allora generalmente
ricevuta e praticata dagli artefici, con che m’induco a credere che sia la
solita proporzione delle nove facce, e che quel terzo di faccia fosse il
compimento della testa da tanti de’ mentovati autori dimenticato. La sua
divisione pertanto (almeno nella sola edizione di questo libro che ho sott’occhio,
del 1560) è sì confusa e sì ripiena d’errori, che non è possibile trarne
costrutto ragionevole. Ma, sia comunque, la somma della sua totalità
spiacevolmente inarmonica non ci dà a sperare intorno alle divisioni interne
nulla di meglio di quanto si ebbe dai canoni notati di sopra.
Nè
molto diversamente diede sue proporzioni Daniel Barbaro, pretendendo tenere un
luogo di mezzo tra le misure troppo generali di Vitruvio e le troppo minute
d’Alberto. La sua divisione in pollici, tre de’ quali fanno una faccia,
ascende, come l’anzidetta di Filippo di Borgogna, a nove facce e un terzo, e ne
ha quindi lo stesso inconveniente. Oltre poi che l’una e l’altra riescono nella
totalità, anzi che no, tozzette e pesanti, questa del Barbaro riesce corta
nelle parti inferiori, dandovisi dal nascer del membro in giù quattro facce e mezza,
mentre cinque meno un sesto se ne danno alla parte superiore. Anche il Barbaro
è dal nostro Lomazzo accusato d’aver manomesso il Foppa, ma ciò fu forse detto
da lui, perchè nell’opera del Barbaro vide ripetersi parte di quanto Alberto
aveva tratto da quell’antico autore. Se mai poi il furto di che accusa il
Lomazzo i due citati autori, riguardasse a certe teste levate da piante e da
profili in diversi atti, questa invenzione, se pure appartiene al Foppa, fu
trovata anche da Piero della Francesca, come in un suo libro io posso mostrare.
Or
questo modo che sovente è utilissimo, di ritrarre in diverse vedute l’istessa
figura per mezzo delle piante e de’ profili, fa risovvenirmi di due altre opere
di autori oltramontani, nelle quali varie simili figure s’incontrano, l’una
dello scultore e pittor francese Giovanni Cousin, l’altra del famoso orefice
spagnuolo Giovanni De Arphe y Villafañe.
Entrambi questi scrittori, essendo distinti e dotti artefici, trattarono con
qualche miglior fortuna delle umane misure, e oltre ciò furono i primi che
nelle patrie loro pubblicassero opere importanti di tale argomento. Non mancano
però errori in buon dato e discordanze anche alle loro proporzioni. Giovanni
Cousin, per esempio, tra il mento e la fontanella della gola, forse seguendo
l’autorità del suo Filandro, non pose che un quarto dell’altezza del capo, il
che fa il collo brevissimo, e tutta toglie la nobiltà e lo slancio alla testa.
Parimente i suoi volti in profilo non possono aver grazia, portando per regola
fissa il labbro inferiore più in dentro del superiore d’un quarto della
larghezza in profilo del naso, e il mento tanto in dentro quanto è tutta tale
larghezza; il qual modo è contrario al praticato dagli antichi, e appena si
vede in qualcuna delle men corrette figure della scuola fiorentina. Nella
stessa maniera, senza ragione, pone uno spazio simile all’altezza d’una testa
tra la linea superiore delle spalle e la inferiore delle mammelle. Con tal
divisione contraddice il suo sistema, per altro buono, di dare otto teste alla
figura umana; perchè cominciando dalla linea superiore delle spalle lo spazio
della seconda testa, vi rimane poi gran parte del collo per di più nella metà
superiore del corpo; rimanendovi la qual parte, oltre la troppa altezza che il
petto ne verrebbe ad avere, la figura perderebbe il suo equilibrio, e la parte
superiore a danno della bellezza sorpasserebbe in lunghezza l’inferiore, come
nella misura del Barbaro ed in altre si nota. E di consimili difetti può
accusarsi l’orefice spagnuolo che facea le figure sì virili come femminili di
dieci facce e un terzo, e quel terzo entrava per di più nella metà superiore. E
queste svelte figure hanno in oltre le gambe fuor di modo gracili e corte,
vizio che il De Arphe non seppe fuggire nemmeno nella proporzione de’ putti di
cinque teste, ai quali non diede che un quinto della loro altezza per le gambe,
sebbene vi comprendesse porzione non piccola del ginocchio.[34]
Nel
libro poi del Lomazzo, che venne in luce contemporaneamente all’opera del De
Arphe, abbiamo una lunga serie di proporzioni; ma dalle infinite inesattezze
della stampa e dalle difficoltà della materia, non che dall’oscurità
dell’esposizione, è risultato un sì intricato labirinto che non è possibile
uscirne, essendo il suo libro senza figure. Esiste bensì di questa parte delle
proporzioni un’antica traduzione francese fatta da un Ilario Pader e stampata a
Tolosa nel 1649[35] ornata
di tavole; ma non ne so affatto il pregio, non essendomi finora riuscito di
trovarla in alcuna pubblica o privata libreria. Per quanto però col mezzo di
tali figure si possa raddrizzare il testo ove zoppica, il che non può avvenire
senza arbitrj o licenze, sempre saranno grandi gl’imbrogli del suo sistema,
avendo in gran parte i disordini di quello del Durero, sia per la moltiplicità
delle figure che propone, sia per la materiale inarmonica divisione. E se delle
molte figure proposte una ve n’ha che dalle altre si distingua per pregio di
misure e per chiarezza, ella è quella di otto teste e di dieci facce, che per
l’appunto si accorda col canone di Leonardo. Oltre di che le troppo esagerate
differenze che, sia dietro il modo del Durero, sia dietro quello di Vincenzo
Foppa, fur poste dal Lomazzo fra le sue figure svelte e le sue tozze, sono
assolutamente capricciose, nè possono mai aver fondamento sopra corpi naturali
ben costruiti. Perchè se pure è talvolta lecito all’imitatore l’introdurre qualcuno
di sì fatti corpi or larghi e grossi, or minuti e sveltissimi in istorie numerose
e di gran varietà, sarà sempre inutile e pazzo consiglio lo stabilire regole
sopra cose sì fattamente irregolari. Perchè ove l’artefice imitante abbia buon
gusto, non avrà d’uopo di regole per fare una piacevole imitazione di tali
stranezze della natura; ove non ne abbia, farà sempre una sgraziata imitazione
ad onta di regole a migliaja: le quali cose non avvengono circa le misure de’
corpi di proporzione media e lodevole. E ciò basti circa il Lomazzo il quale,
se avesse goduto del benefizio della vista allorchè pubblicò le sue opere, le
avrebbe corrette certamente e migliorate di materia e di forma.
Nè
regole migliori ci lasciò l’Armenini ne’ suoi che si piacque chiamar Veri Precetti, sebbene non di rado si
scostino dalla verità. Cominciando dalla testa, egli divisela in tre parti cui
chiamò nasi oppure pollici, forse ad imitazione del Barbaro. Ma fatto sicuro
dell’autorità del Vasari e d’altri varj de’ quali si diè cenno di sopra,
anch’egli per testa intese dal sommo della fronte all’imo del mento, poco
curandosi della rimanente sede del cervello. Diè poi una gran bocca a tal sua
testa, facendogliela larga di tanto spazio quanto ne corre dalla fine del naso
alla fine del mento. Separò anche gli occhi stranamente allontanandoli l’un
dall’altro per modo da porvi in mezzo ben due terzi di uno di que’ suoi
pollici. Pel resto della figura umana stabilisce due proporzioni, l’una di nove
teste, l’altra di dieci. Nella prima, secondo la sua divisione, l’uomo
distendendo le braccia orizzontalmente, verrebbe in larghezza ad oltrepassare
d’un decimo la propria altezza, la qual cosa non può accadere se non in uomo
che abbia le braccia oltre misura lunghissime e affatto mostruose, non che
deformi. Nella divisione poi di dieci teste stabilisce un quinto del tutto
dalla fontanella della gola alla sommità del capo, mentre in natura ne’ corpi
ben fatti non si trova che il sesto, come notò Leonardo. E tale strana
lunghezza di collo fa apparire tanto più deforme il torso e il resto: e ciò che
è più strano ancora, è il vedere che, mentre l’autore de’ Veri Precetti stabilisce in altezza un decimo di differenza tra
l’una e l’altra proporzione, nella divisione poi della figura per la sua
larghezza a braccia stese, conserva per entrambe le medesime dimensioni. Il
qual sistema di commodulare quanto si opponga al vero ed al bello, ognuno,
senza a lungo riflettere, il può chiaramente capire. Ciò non ostante il
cavalier Bisagno, nel suo libruccio che porta il bel titolo di Trattato di Pittura, copia l’Armenini
parola per parola, aggiungendovi solo un esordio contro gl’ignoranti senza
temere di offendere nè sè stesso, nè il suo autore.
Anche
il Figino nostro, prediletto allievo del Lomazzo, ci lasciò una sua proporzione
nel libro del teologo Comanini, del quale feci parole ove trattai degli autori
che fecero menzione del Cenacolo. Essa è di dieci facce, divisa come segue: la
prima è dal sommo della fronte all’imo del mento, dal qual punto alla
fontanella della gola son due terzi di faccia. La seconda è dalla fontanella
all’imo del petto. Da quivi all’umbilico è la terza. La quarta dall’umbilico al
pettignone. Dal pettignone al ginocchio sono la quinta e la sesta. Il ginocchio
contiene una mezza faccia. Dal di sotto del ginocchio al di sotto del polpaccio
è la settima. Dal polpaccio al collo del piede l’ottava. Dal collo del piede
alla inferiore estremità dell’uomo è un’altra mezza faccia che forma la nona
collo spazio dato al ginocchio; come la decima è formata dallo spazio fra il
mento e la fontanella, e lo spazio tra il sommo della fronte e il sommo del
capo. Tal divisione, sebbene non in tutto biasimevole, ha una mancanza notabile
tra il petto e il bellico, la quale parte riesce, come ognuno può provare,
cortissima. Il collo parimente riesce lunghissimo, il che, come altrove
notammo, accresce il cattivo effetto della brevità del torso. Nè può mai esser
piacevole la troppa altezza stabilita al piede: misura però affatto contraria a
quanto il Figino praticò ne’ suoi dipinti, ne’ quali anzi fece sovente i piedi
troppo piccoli e bassi, non che le gambe brevi alquanto e mollemente incurvate.
Da che non meno che da altre osservazioni intorno alla differenza tra la
divisione riportata dal Comanini e la praticata dal Figino, m’induco a dubitare
che il teologo, in questa materia al tutto pittorica, abbia alterato le
opinioni del pittore.
Diversi
ma non minori difetti s’incontrano nel metodo di Bernardino Campi il cui canone
può vedersi nel libro di Alessandro Lamo, pubblicato dal pittore Giambatista
Trotto detto il Malosso. Egli accrebbe d’un terzo di faccia la misura del
Barbaro e del Borgogna, ma al contrario del Barbaro di ventinove parti onde il
suo tutto è composto, ne diede quindici dall’attacco del membro alla pianta del
piede, riserbandone quattordici alla parte superiore. La sua misura procede in
questo modo. Un terzo della faccia è lo spazio dalla sommità del capo alla
sommità della fronte. La faccia occupa, come è naturale, dalla detta sommità
della fronte fino alla estremità inferiore del mento. Da indi alla fontanella
della gola è mi altro terzo di faccia. Dalla fontanella fino alquanto sotto ai
capezzoli ne pone un’altra. Un altra dal detto luogo all’umbilico, alquanto
però sopra di esso. Un’altra da indi al nascimento del pene, dal quale a circa
mezza coscia un’altra: poi un’altra dal detto mezzo della coscia al ginocchio,
non però precisamente, ma un sesto circa di faccia al di sopra. Due terzi di
faccia occupa il ginocchio e il poco indicato spazio sopra di esso. Dal di
sotto del ginocchio al fine de’ muscoli gemelli un’altra faccia: un altra da
quivi all’attacco della gamba col piede, l’altezza del quale risponde ad un
terzo di faccia. Il che tutto ascende a nove facce e due terzi come si è detto.
Ma anche in questa misura, oltre che vi si scorgono gli stessi inconvenienti
che in altre osservammo per la divisione, si riconoscono a prima vista difetti
notabili. Sopra tutto le gambe vi appajono meschine, le cosce pesanti, il collo
breve, il tronco debole, e il tutto nè ben equilibrato, nè armonico.
Assai
meglio pare intendesse la bisogna di queste misure Enea Salmeggia da Bergamo,
valente e nobile pittore che al principio del secolo decimosettimo, in mezzo
alla generale corruzione dello stile, fece tra molte alcune opere degne delle
età migliori, tanto fu talora purgato e gentile nel disegno, elevato nel
concetto, leggiadro a un tempo e severo nella espressione degli affetti. Ma le
sue opinioni si possono meglio desumere dalle sue figure dipinte che dai suoi
scritti. Nel 1607 egli stese un libro intorno alle proporzioni umane, come si
può vedere da un frammento pubblicatone dal Tassi nelle Vite de’ pittori
bergamaschi; e da quel frammento che è il proemio dell’opera, si comprende che
egli aveva trovati de’ modi facili, migliori degli usitati; che approvava come
ottima la proporzione di dieci facce, e che esponeva con metodo uniforme le
misure di tutte le età. Ma le dimostrazioni che importavano più che, il
proemio, non vi sono, e il manoscritto che appartiene all’Accademia Carrara di
Bergamo, e che, per quanto il Tassi lo dica logoro, mi sarei pure sforzato di
diciferare, non essendo ancora ordinata quell’Accademia, non si è potuto
trovare. Ciò non ostante, sebbene per quel proemio non appaja il Salmeggia sì
buono scrittore, come buon pittore il dimostrano le sue tele, io penso che si
possa credere largamente a quanto promette, perchè egli fece più e meglio che
non disse, ed è assai più difficile il fare che non è il dire. E mi cade qui in
acconcio di osservare che in molti libri si danno precetti d’arte non
irragionevoli, ma l’autore imprudente vuol talora aggiungere le figure di
quanto propone, e allora in vece di procacciar conferma a que’ precetti fa sì
che rimangano screditati e contraddetti da quelle figure.[36]
Dopo
il Salmeggia non trovo in grande spazio di tempo veruno scrittore di credito
che ci abbia lasciato nuovi metodi intorno alla materia che trattiamo. Nulla si
trova di umana simmetria nel libro di Filippo Esegrenio, ad onta di quanto il
titolo promette: men che nulla, cioè gravi errori nel Discorso di Gasparo Colombina: lo stesso dicasi delle figure che
accompagnano il libro di Giambatista Volpatti, intitolato Il Vagante Corriero o la Verità
pittoresca ritamente svelata ecc.
Ma
giacchè di tanti mediocri o tristi legislatori dell’umana simmetria si è
parlato, non debbe ommettersi Pietro Antonio Barca, ingegnero milanese, il
quale in un sol foglio pubblicò un Trattato di pittura, di scultura e di
prospettiva, emulo di Cornelio che in tre carte compilò la storia universale.
Copiando alcune figure tolte ad Alberto Durero e aggiugnendovi alcune cose
prese dal Lomazzo, statuì una figura virile di otto teste, la qual proporzione
dice competere a Giove. Una simile ne dà poi di donna per Minerva; un’altra
virile ne stabilisce di sette teste per Ercole; un’altra di sette e mezza per
Marte; una nuova di otto con suoi aumenti per fare i colossi; indi una di nove
per Venere, e finalmente una di dieci per Ninfe o Muse e meglio era dire per le
fantasime da fare spiritare i bambini. Questo foglio è un giojello tipografico
o per dir meglio calcografico, essendovi impressa in rame anche la non breve
spiegazione: giojello ignoto al Mazzucchelli ed al Comolli, nè rammentato dai
pochi altri che parlarono del Barca. Esso fa il compagno d’un altro simile che
comprende tutta l’architettura civile e militare, ed entrambi si debbono
considerare come la prima edizione dell’opera del Barca, stampata nel 1620, col
titolo di Avvertimenti e regole circa
l’architettura civile, scultura, pittura, prospettiva et architettura militare
ecc. Debbonsi, dico, tenere per prima edizione di quell’opera, perchè i grandi
rami di que’ due fogli furono tagliati in tanti piccoli pezzi, indi sparsi
nell’opera, interpolatovi opportunamente il testo stesso che ne’ rami si legge
scolpito. I rami poi non furon forse mai pubblicati, soppressi probabilmente
dall’autore, onde dare, in un libro, una più importante forma all’opera sua che
dedicò al Re di Spagna, cui era troppo poca cosa il dedicare due rami. Ma
l’esempio di tal comodi trattati in un sol foglio era già per la pittura stato
dato da Giambatista Paggi nel 1607, ed anche in esso è probabile che vi fossero
delle leggi di umana simmetria. Questo foglio però del Paggi chiamato dal suo
biografo Raffaello Soprani l’acus nautica
dei pittori, è si raro cimelio che non giunsi ancora a vederlo, e nemmeno il
Ratti che ristampò le Vite del Soprani, potè mai rinvenirlo ad onta d’infinite
ricerche.
Nel
resto di quel secolo non mi si affaccia altra opera importante, se non quella
di Gherardo Andran, pubblicata l’anno 1683, in foglio. Anche questo valente
incisore ebbe prurito d’immischiarsi in questi sottili studj; ma non ardì
uscire in campo con canoni proprj, avendo in vece imaginato di raccogliere e presentare
agli studiosi le misure delle migliori statue antiche. La sua intenzione fu
buona, ed il progetto nuovo ed ottimo; ma le statue sono disegnate, negligentemente
e male, e le misure sono in molti luoghi sbagliate. Basti il dire che secondo
lui la statua del Gladiator moribondo, se fosse ritta in piedi, sarebbe più
svelta d’ogni altra migliore statua conosciuta, non escluso l’Apollo di
Belvedere; il che quanto sia falso non ci voglion seste per giudicarlo. E ad
ogni modo non si può prestare gran fede alle sue misure, perchè chi disegna
all’ingrosso e senza finezza o grazia, come in questo libro ognuno può vedere,
non può far credere d’aver tenuto altro modo nel misurare.
Non
discendo a discorrere di Félibien, di Dupuy du Grez e d’altri molti, sia esteri
sia nostrali, che circa il finire del secolo decimosettimo trattarono di questi
studj, perchè sì gli uni come gli altri non fecero che ripetere le cose dette
dagli scrittori più antichi, e non aggiunsero di proprio che nuove inesattezze
o massime false. E sopra tutto è da osservare che fra coloro che proposero o
lodarono la proporzione di otto teste e dieci facce, ch’è certo la più degna di
tutte, ve n’ha molti che la storpiarono malamente non intendendola, come,
sull’esempio di Paolo Pino, il De Piles ed altri non pochi. Perchè fu da questi
tali stabilito alla faccia tre delle quattro parti ond’è composta la testa,
mentre ne dovevano dare quattro delle cinque, senza di che non si ottiene la
giusta misura reciproca delle teste e delle facce: poichè o le dieci facce
farebbero soltanto sette teste e mezza, o le otto teste farebbero dieci facce e
due terzi. Perciò il Marchese di Buffon che si attenne al partito delle dieci
facce, dovette rinunziare alle otto teste per voler dare un terzo del viso allo
spazio che sta tra la sommità del capo e la sommità della fronte. Per tal modo
la sua divisione, sebben vanti una certa comodità per le misure, è ricca de’
difetti che notammo in varie che la somigliano, ed è lontana dal produrre
quella bellezza di forma che debb’essere lo scopo di questo genere di ricerche;
di che chiunque sa disegnare, avrà facile esperimento.
Ma
quanto questa forma bella e leggiadra sia difficile a combinarsi con misure
facili ed armoniche, si può giudicare dai vani sforzi di tanti uomini d’altronde
ingegnosi, che qui mi piacque a comodo degli artefici raccogliere. Tale
difficoltà diventerà poi più evidente, allorchè si rifletterà quanto è ardua
cosa l’accordare fra loro le tre proporzioni che gli antichi distinguevano, la
numerica, l’armonica e la geometrica, e l’applicare tale accordo a formar
regole e misure di un oggetto visibile sì vario nelle parti che lo compongono,
qual è il corpo umano.
Intanto,
senza ch’io entri a far parole de’ più moderni scrittori di simmetria, tutti
copiatori degli antichi, spero che ognuno terrà per dimostrato che dei tanti
metodi de’ tanti diversi autori intorno a tal facoltà, non ve n’ha un solo che
abbastanza si avvicini alla ragion del bello da oscurare gli studj di Leonardo.
Il
canone dunque del modesto nostro legislatore, che pure si accusava di non aver
posseduto la simmetria degli antichi, più d’ogni altro s’avvicina tanto al
bello antico quanto alla bella natura, e come già mi sono espresso di sopra,
avanza tutti gli antichi e i moderni in armonia, in precisione, in facilità e
in tutti que’ pregi in somma de’ quali sì fatte regole sono capaci.
E
per condurre finalmente il lettore ad utile conclusione mi sia concesso di
aggiungere alcune osservazioni, dietro le quali si potranno stabilire certe
massime fondamentali da seguire nella ricerca di tali studj, e sono le
seguenti:
Prima
di tutto io son di parere ch’è d’uopo guardarsi dall’abuso della geometria, e che
non debbonsi inventare elementi di figura umana fuori della figura umana.
Dunque il metodo di Luca Cangiasio e d’altri, di fare il corpo umano di cubi e
di obelischi, è un grillo pittorico di nessuna reale utilità. Rubens che dice
che l’elemento della testa è il globo (doveva almen dire delle teste tonde),[37]
e che l’elemento del tronco è il cubo, e che l’elemento delle braccia e delle
gambe è la piramide, dice parimente delle stravaganze scolastiche, colle quali
potrà forse qualche meccanico abbozzar meglio un fantoccio o burattino, non mai
un pittore o uno scultore fare una bella imitazione di bella umana figura.
Altro è bensì lo inscrivere in figure regolari geometriche certe tali
dimensioni, che è uso lodevole; imperocchè per esso si porge ajuto alla memoria
circa le principali lunghezze delle membra, non circa le forme per lor natura
variabili in infinito. Così i Greci, secondo Vitruvio, inscrissero il corpo
umano in un cerchio e in un quadrato a certe condizioni, dalle quali emergono
note alcune importanti misure. Così Leonardo determinò con un quadrato perfetto
certe distanze di parti nella testa in profilo, e con un triangolo equilatero
la divaricazione delle gambe, ommessa da Vitruvio, acciocchè il corpo umano
rimanga inscritto in un cerchio avendo a centro l’umbilico. La geometria
adunque spieghi a suo talento le forme umane, e co’ suoi mezzi ajuti la memoria
onde le possa con facilità ritenere, ma non le crei a sua posta; perchè mai una
sua piramide ci darà idea d’una gamba e di un braccio; mai un suo cubo ci darà
idea di un torso.
Ciò
che si è detto dell’abuso della geometria, dee dirsi in generale delle
matematiche. Il tentare di accordare fra loro le tre dette ragioni di
proporzione, l’aritmetica, l’armonica e la geometrica, ed applicare sì fatto
accordo alla bellezza del corpo umano, è tale problema da porsi colla
quadratura del circolo e colla duplicazione del cubo.
In
secondo luogo il penetrare compiutamente la ragion naturale delle proporzioni
umane esigerebbe una conoscenza della fisica che all’uomo non è dato di
ottenere. L’equilibrio universale delle infinite parti costituenti la macchina
umana, ciascuna delle quali ottenga eminentemente il fine cui è destinata senza
interrompere il corso che ogni altra parte ha al suo fine respettivo, in che
pare consistere la vera proporzione, è cosa da dirsi più che da intendersi. E
quando anche si giungesse a conoscere sì fattamente l’uomo, che si potesse,
direi quasi, comporlo, imitando esattamente il composto naturale, si sarebbe
ancor fatto poco, perchè si sarebbe fatto un uomo solo. Una sola delle infinite
parti che il composto umano costituiscono, che si debba alterare, l’equiponderanza
e respettiva relazione delle altre rimangono necessariamente alterate; in breve
ogni uomo separatamente sarebbe subietto di tutta una nuova scienza. Ma, per
ispiegarmi più chiaramente, gli uomini della natura, come vogliono essere
quelli dell’arte, sono tutti fra loro diversi di quantità e di qualità. Queste
quantità e qualità, siano pure interne, sempre danno argomento di sè nella
superficie: così noi non solo distinguiamo l’uom gracile e l’uom forte dalle
ossa e dai muscoli che si vedono, ma distinguiamo anche il flemmatico, il
bilioso, il sanguigno, sebbene non si veda nè bile nè flemma nè sangue. Queste
stesse quantità e qualità, oltre che hanno modificazioni e gradi infiniti dalle
età diverse, vengono non meno alterate dall’abito individuale. L’uomo
esercitato di gambe e di braccia nella milizia è diverso dall’uom di lettere
che vive a lungo curvo e seduto. Socrate, appresso Senofonte,[38]
accenna di volersi esercitare nel ballo per evitare che gli s’ingrossino le gambe
e gli si diminuiscano le spalle come avviene a que’ che corrono lo stadio; o
perchè, come ai pugilatori, non gli s’ingrossino le spalle e gli si spolpino le
gambe. Ecco dunque quante varietà sono prodotte dal ballo, dal corso, dal
pugilato. Così ogni umana abitudine, di qualunque genere ella sia, influisce
sulla forma umana, e dalla varietà indefinibile e dalla incalcolabile mistura
di tali abitudini nasce la infinita varietà delle forme. Dunque è evidente che
non si possono determinare vere proporzioni generali senza offendere la natura
che l’arte vorrebbe pur imitare.
E
quand’anche per l’uso e le ragioni che di sopra abbiamo indicate, si riconosca
giovevole all’arte l’avere qualche stabilità di misure, ne rimane notabilmente
diminuita l’utilità ed il pregio dal non darsi esse misure se non in corpi
stanti e ritti come pali,[39]
ragione per cui Michelagnolo principalmente disapprovava l’opera di Alberto.
Certamente di rado s’imitan dall’arte corpi umani in positura tale che le
misure tutte vi possano aver luogo con lode. Oltre di che, la prospettiva
altera al pittore tutte le misure, e però Leonardo stabilisce che s’impari
prima di tutto prospettiva per le misure
di ogni cosa.
Dal
fin qui detto si debbe per ultimo dedurre che non si possono stabilire che proporzioni
grosse, e che il riporre troppo di confidenza nelle misure inceppa l’arte anzi
che favorirla.
A
confermare questa opinione, cui non mancheranno avversarj fra quelli che parlan
molto, poco pensano e nulla operano, si dia una breve occhiata alla pratica de’
grandi uomini. Di Raffaello fu scritto, e si vede che tenne tante proporzioni
quante fece figure. Michelagnolo fece lo stesso, ed è suo motto che chi non ha
le seste negli occhi, non troverà mai artifizio con che supplire a tal difetto.
Vincenzo Danti che fe’ tesoro della dottrina di Michelagnolo, asserì nel suo
libro, che le proporzioni non cadono sotto
alcuna misura di quantità. Di Leonardo abbiamo veduto le infinite eccezioni
circa il misurar l’uomo, e le poche sue opere le confermano. Non parlo degli
altri minori fra i moderni; e volgendomi agli antichi, trovo che ogni statua
lodevole ha proporzioni diverse: trovo anzi che gli antichi variarono stranamente
le misure negli stessi caratteri a seconda delle attitudini.[40]
E parlando poi in generale delle opere di rilievo, quali canoni potranno
determinare la diminuzione o l’ingrandimento di alcune parti, onde ottenere un
migliore effetto secondo le circostanze di luce, di distanza di materia, di
punto visuale e simili? nessuno di certo. Quindi per quanto si cerchi di
accordare fra loro le misure de’ greci e de’ romani monumenti, non se ne viene
a capo, se non in misure all’ingrosso, cioè nel modo appunto che abbiam
riconosciuto di qualche utilità, ed in tal genere di misure il canone di
Leonardo si confà assai bene colla maggior parte delle statue lodate.
Non
si vedrebbe però mai fine a questo articolo, se tutte io volessi qui riunire le
opinioni, gli esempj e gli studj in questa materia, della quale molti
ragionarono che male o nulla operaron nell’arte. Mi parrà intanto d’aver buon
frutto dalla fatica da me fatta in cercare tanti nojosi libri, se ciò darà
qualche fede a quanto io sono per consigliare, cioè: Che ogni studente di pittura misuri da sè molti corpi di lodata
bellezza, facendone confronto colle più lodate imitazioni di pittura e di
scultura, e che da queste misure ricavi un canone suo proprio, diviso a quel
modo che più al suo ingegno ed alla sua memoria sia conforme. Se molti
seguiranno questo metodo, l’arte guadagnerà e nella scienza e ne’ prodotti.
Aggiungerà qualche forza al mio consiglio la tanta discrepanza di opinioni in
artefici di notabile autorità. Ne aggiungerà in fine il leggere negli scrittori
sì gran numero di stravaganze e d’errori. Federico Zuccaro, per esempio, disse
con mirabile sproposito che l’Apollo di Belvedere è alto dieci teste. Il
Lomazzo fa grande elogio della proporzione svelta di dieci teste, e non è
trovabile in natura senza deformità. Il Vasari asserisce che Michelagaolo fece
per sino delle figure di dodici teste, il che non si verifica nelle opere sue
conosciute, e sarebbe fuor di modo mostruoso in arte, come è affatto
impossibile in natura.[41]
Le stranezze crescono là dove, oltre le misure, si cercano ne’ corpi umani
influenze, somiglianze e futilità astrologiche. Il Tory de Bourges trovò
volgare la divisione vitruviana in sei piedi, e preferì dividere il corpo umano
in sette parti, cui appropriò le sette arti liberali, o pure in dieci
appropriandovi allora i nomi delle Muse e di Apollo. Altri similmente vi
appropriarono i pianeti, altri le virtù, altri i metalli e simili inezie.
Mancava chi assomigliasse l’uomo all’arca di Noè, e fu scritto anche questo in
più d’un libro e fin anche nella Teorica della figura umana del Rubens.
Ma
se nel raccogliere i varj metodi di proporzione, unito al tedio si trova pur
qualche poco d’istruzione, il raccogliere stranezze e spropositi è mera noja, e
gli accennati mi pajono sufficienti a sconfortare ognuno dall’aver ricorso a
libri oscuri ed erronei intorno a ciò che assai più chiaramente si legge nel
libro della natura. Mi sia dunque lecito di ripetere che un artefice di buon
ingegno trarrà più assai di profitto nella simmetria studiando e misurando una
dozzina di corpi belli, che non leggendo un centinajo di libri anche
dottissimi. Chè se l’artefice è d’ingegno corto ed ottuso, nè libri nè precetti
nè natura nè che altro si voglia il condurranno a tale da intendere ed imitare
le bellezze della umana proporzione.
DELLE RICERCHE DI LEONARDO
INTORNO AI COMPONIMENTI
DELLE ISTORIE.
La somma e principale
parte dell’arte, diceva
Leonardo, è la investigazione delli
componimenti di qualunque cosa; e a questa parte, ch’egli possedeva in
grado eminente, devesi specialmente attribuire l’effetto meraviglioso delle sue
opere e quell’alto grado di stima che ottennero nella opinione degli uomini.
Sonvi certamente fra gli antichi alcuni altri grandi maestri che da questo lato
si distinsero e lasciarono esempj degnissimi; ma se alcuno vi fu che superò
Leonardo in copia d’invenzioni, niuno di certo potè uguagliarlo nella
squisitezza e novità de’ suoi trovati e nell’artifizio difficilissimo di
ottenere il massimo effetto con mirabile sobrietà di mezzi.
Se
dunque l’invenzione de’ componimenti è parte somma dell’arte, sarà utilissima cosa lo studiare i grandi
originali antichi in tal parte eccellenti. Quasi tutti i presenti artisti, da
che le scuole cominciarono a migliorare, si accorgono della solenne differenza
nell’effetto che produce una composizione del miglior secolo, ed una de’ secoli
che venner dopo, ne’ quali in ogni dipintura l’opera della mano superò
d’ordinario l’opera della mente. Pochissimi però fra gli artisti sono quelli
che indagano l’origine di tal differenza per ottenere la bellezza delle antiche
composizioni e fuggire la snervatezza ed insulsaggine delle posteriori.
Certamente chiunque è fornito di un senso buono per l’arte, rimane tocco nell’animo
da un sentimento di venerazione o di ammirazione o di qual altra si voglia
affezion piacevole alla vista d’una Sacra Famiglia di Raffaello, di Andrea, di
Leonardo. Ognuno che abbia qualche uso delle cose del disegno, è costretto
senz’avvedersene ad arrestarsi per contemplarne la maestosa amabilità; e di momento
in momento cresce l’affetto con cui l’opera si ricerca, e la piacevole
intensità con cui tu la vai contemplando, diviene sì forte che hai bisogno di
qualche riposo o distrazione onde potere in quella continuare. Con ciò tu cangi
di luogo; vai in cerca di miglior luce; ti avvicini per verificare un giudizio
che hai fatto da lontano; ti allontani per godere l’effetto delle cose che per
minuto osservasti d’appresso. Nè però ciò ti sazia, e se passi a veder altro,
come nelle quadrerie avviene, quando torni ad opere di questi ottimi e di pochi
altri a lor prossimi in merito, sei costretto a ricontemplarle di nuovo, e
finalmente non le lasci se non con dispiacere, riportandone nella mente e nell’animo
una impressione profonda.
Ora
perchè lo stesso non avviene d’un quadro del Maratti, del Cignani, del
Berrettini, del Ferri? anzi perchè lo stesso non avviene delle opere dei tanto
a questi superiori Caracci?
Se
i pittori facessero sovente a sè stessi questa dimanda, e se sapessero
rispondersi adequatamente, l’arte della pittura camminerebbe, credo, assai
meglio.
Pertanto,
se ciò tiensi per vero, egli è chiaro che una gran parte di quell’effetto si
debbe al merito della composizione; e perciò sarà, ripeto, di grande utilità
l’indagare con assidua e pertinace curiosità dentro tali opere i modi, i sensi,
le intenzioni degli autori, e tentare di conoscere da quali fonti emanò tanta
superiorità ed eccellenza, e per quali vizj o difetti posteriormente di tanto
degradasse. E tali ricerche non farannosi, come in parte si fece da alcuni
scrittori nello scorso secolo, ad oggetto di trarne frivoli ridicoli precetti
di linee, di forme e d’altre simili inezie; precetti che, fatti sulle opere,
sono dalla stessa loro origine dichiarati falsi, perchè siamo certi che gli
autori delle opere sulle quali si fecero in appresso i precetti, si erano essi
stessi fatti de’ precetti sulla natura universale, senza de’ quali non
sarebbero uscite dai loro ingegni quelle egregie produzioni. Farannosi in vece
le dette investigazioni per meglio godere il bello delle opere da chi ama
queste professioni del disegno, e da chi le esercita si faranno ad oggetto di
migliorar l’arte col conoscere per esse quali diligenze furono usate da que’ valentuomini
antichi, quali fossero i precetti ch’essi trassero dalla natura, quali
finalmente i mezzi con cui la studiarono ed interrogarono con profitto.
Non
è pertanto mio proposito di qui indagare e svolgere le teoriche generali che
dall’esame delle più famose opere antiche si potrebbero giudicare aver servito
di scorta agli autori di quelle; nè tampoco d’investigare in molti componimenti
donde principalmente quell’antica perfezione derivi. Sebbene l’importanza della
materia e il desiderio di richiamar l’arte alle antiche maniere mi abbiano
condotto, senza quasi avvedermene, a consigliare sì fatti studj sulle belle
produzioni dell’epoche più nobili dell’arte, il mio intento principale in
questo luogo è quello di aggiungere qualche autorità a quanto ho scritto
intorno al Cenacolo col riferire alcune osservazioni circa altre opere di
Leonardo, nelle quali non solo si scorge a parer mio evidentemente il suo gran
sistema d’investigare ne’ più semplici argomenti cose del tutto nuove, sempre
seguendo la natura, ma si ammira lo straordinario suo ingegno per averle sapute
ritrovare leggiadre sempre e mirabili.
Pochi
sventuratamente sono i componimenti del nostro autore che si possano offerire
all’analisi che proponiamo, e perchè pochi egli stesso ne ha lasciati e perchè
alcuni andarono perduti. Io mi limiterò pertanto a parlare di que’ due soli
ch’eccitarono anche al suo tempo maggior meraviglia, la battaglia, cioè, d’Anghiari
e la sant’Anna colla Vergine in grembo; ai quali mi limito anche più volentieri
e per la più nota loro eccellenza, e perchè più facilmente che non degli altri
può il lettore averne idea dalle stampe che ne girano.
Ragionando
adunque della battaglia, parmi dover prima avvertire essere erronea la comune
credenza degli scrittori che il gruppo che ne abbiamo, sia soltanto una parte
dell’opera, mentre dal modo con cui il Vasari ne accenna l’argomento e dalla
spiegazione che ne daremo, si vedrà che è l’opera intera trattata
episodicamente come il soggetto voleva, e come si dovrebbe fare mai sempre,
ogni qual volta si rappresentino istorie che esigono un numero straordinario di
figure e una gran moltiplicità di azioni.
Sappiamo
dalla storia, e il vedemmo nella descrizione del Cenacolo, come Leonardo,
allorquando doveva trattare un dato argomento, prima s’informava con ogni
accuratezza di tutte quelle cose che dai lati eziandio più lontani potessero a
quello appartenere. Per tale investigazione egli stava gran tempo attorno ai
suoi soggetti, non risparmiando vigilie nè fatiche; e quando pareagli essere
pienamente in possesso del suo tema, allora imaginava nella natura di esso ciò
che più al linguaggio dell’arte convenisse, col doppio scopo di un utile
sviluppo di passioni o qualità morali, e della mostra di quel bello fisico che
meglio rispondesse alle condizioni de’ soggetti. Il fatto d’arme che avvenne
tra Niccolò Piccinino e i Fiorentini presso Anghiari, era ricco di pittoriche
circostanze. Leonardo ne tracciò di suo pugno una vivace descrizione al foglio
settantesimoterzo del famoso Codice atlantico; e anche da quella si scorge il
suo sistema di tutto raccogliere il vero, il verisimile e il poetico, onde
potere scegliere più opportunamente e combinare meglio le circostanze
pittoriche, combinando e scegliendo fra la dovizia di moltiplice materia. La
detta descrizione, che nelle note ho trascritta,[42]
somministra di che comporre una ventina di quadri, sebbene un solo ne dovesse
Leonardo comporre: ma nel solo ch’ei fece, riunì ed espresse tutto il più
importante dell’azione che volea rappresentare.
Egli
conosceva troppo bene i limiti dell’arte, e sapeva che non sarebbe giunto
giammai ad ottenere buon effetto dall’opera sua, qualora egli avesse voluto
rappresentare la battaglia, direi quasi, per intero, come si fa dal più de’
pittori in sì fatti argomenti, con gran varietà e numero di gruppi, tutti tali
da attirarsi l’attenzione dello spettatore. Imitando in vece con ragion
pittorica i poeti che nelle loro battaglie non trattengonsi a lungo a
descrivere i movimenti d’un’oste intera, ma descrivono volentieri i certami
singolari o di pochi scelti personaggi sui quali cade più viva l’attenzione e
l’affetto che non sulle torme sconosciute, pensò Leonardo caratterizzar quella
giornata con un solo gruppo al modo seguente.
Dallo
stesso scritto di lui si ricava che il forte della battaglia fu tra le squadre
a cavallo: che si combattè tutto il giorno con grande ostinazione e con varia
fortuna: che i pedoni anch’essi combatterono con grande animo e tornarono più
volte all’attacco: che in fine si diedero i vinti alla fuga, e che ai
Fiorentini, dopo lunga indecisione, rimase la vittoria.
Che
fece dunque Leonardo onde significare con pochi ma potenti mezzi l’ostinazione
terribile della zuffa, l’ambiguità dell’evento, l’evento stesso vicino a
mostrarsi, la ferocia de’ combattenti a piedi e a cavallo, e finalmente la fuga
de’ vinti?
Ei
compilò tutto questo in sole sette figure, quattro principali e tre accessorie.
Le quattro principali sono a cavallo, perchè la cavalleria decise in quel
giorno dell’esito della mischia. Se ne veggono due per ognuno de partiti, e
combattonsi una bandiera, il riportar la quale sull’inimico è il noto segnale
della vittoria. Ma anche di queste quattro principali figure due soli cavalieri
primeggiano, l’uno de’ quali già posto in fuga si porterebbe la sua insegna, se
sopraggiunto dall’avversario non fosse costretto di arrestare all’istante sè e
il cavallo, sforzandosi d’impedire che l’insegna gli venga tolta di mano. Ma il
suo sforzo è vano, e il nemico già tiene d’ambe le mani l’asta dell’insegna per
sì fatto modo che poco più potrà quel primo sostenerla. L’esito dello scontro è
imminente a danno del fuggitivo; ma ecco sopraggiungere un altro cavaliere a
recargli soccorso. Il furore medesimo accende il cavaliere e il cavallo: questo
anzi si slancia con impeto ferocissimo, e incrociando le proprie colle gambe
del cavallo nemico, il morde nel petto fieramente e quasi lo arresta; ingegnosissimo
avvedimento dell’artefice onde sospendere la furia della fuga ed arrestare, son
per dire, l’azione per farne spettacolo. Il cavaliere intanto alza furibondo
una daga e minaccia con quella le mani con cui il nemico si sforza di strappare
lo stendardo a quell’altro che sta quasi per cederlo. Il suo colpo metterà
nuovamente in forse la pugna, se non che è reso vano dal quarto cavaliere il
quale, arrivando con non minore rapidità e ferocia, rompe quella breve
sospensione, ed è evidente che al finir dell’azione, cioè un istante dopo il
momento rappresentato, il fuggitivo avrà perduta la sua insegna ad onta
dell’avuto soccorso, e la vittoria rimarrà coll’insegna all’assalitore.
Mentre
intanto si disputa la bandiera dai quattro animosi cavalieri con moti
fierissimi ed estremi, i fanti, cui sembra che l’ira abbia fatti dimentichi del
rischio d’esser pesti dalla cavalleria, spinti dall’estrema esacerbazione dell’animo,
con pari forza, sebbene con minor gloria, si disputan la vita. Quest’odio e
questo furore scorgesi espresso nel gruppo secondario che si vede fra le gambe
dei cavalli. Un pedone, cui riuscì d’afferrar per le chiome il suo avversario,
cade avviticchiato con esso e si sforza di dargli morte con un pugnale. Il
caduto, sebbene prossimo al morire, sembra ancora minacciare il soprastante
nemico; e questi, sebben prossimo a vincere, mostra all’aspetto aver ancora
l’anima ingombra dallo spavento del presente e de’ futuri pericoli. Rimaneva a
rappresentare la fuga: ecco un altro pedone che coprendosi collo scudo si
sottrae al furore de’ cavalli, e lascia la guerra, tenero più della vita che
della gloria. Egli così carpone tenta allontanarsi dal luogo periglioso della
pugna, cui si volge guatando spaventato ed incerto ancora del suo destino.
Ecco
come in un semplice episodio seppe Leonardo, con vera ragion pittorica,
epilogare i principali avvenimenti di quella grande giornata. Quanto abbiamo
qui descritto vedesi nella stampa che l’Edelink trasse da un disegno che il
Rubens fece di quest’opera, trasfigurandola alla sua maniera caricata e
licenziosa; può anche vedersi in un altro disegno che fu pubblicato nell’Etruria
Pittrice. Ma l’una e l’altra di queste stampe, la prima per l’esagerazione e la
caricatura, la seconda per la freddezza e la meschinità sono male adatte a
darci buon saggio dell’opera di Leonardo; solo si debbono guardare per
conoscere la composizione e l’invenzione delle attitudini, di che facciam
soggetto nelle presenti osservazioni. Le varie altre circostanze notate nello
scritto di Leonardo e che potean essere contemporanee all’azione principale,
saranno state rappresentate in gran distanza con figure diminuite notabilmente
dalla prospettiva.[43]
Io
non dubito altresì che nell’opera originale, quella strana varietà d’armi delle
quali gli attori di questo mirabile quadro eran vestiti, avrà espresso le squadre
principali ch’ebber parte nell’azione. Fors’anche ne’ quattro cavalieri saranno
stati rappresentati i quattro più illustri condottieri di quell’impresa, de’
quali non saran mancati i ritratti.[44]
Ma sian pure ideali non istorici i personaggi di quest’opera, egli è certo che
Leonardo, per mezzo dell’armi, delle insegne, degli stemmi e delle altre cose
accessorie, avrà distinto o le famiglie loro per lo più note ed illustri, o gli
stati pei quali combattevano. Nell’armatura in fatti del capo di colui dei
quattro cavalieri che sta per perdere l’insegna, anche dalla stampa tratta
dall’ammanierato disegno del Rubens, si vede una coda di serpe, che forse è
parte dello stemma di Filippo Maria Visconti che perdè quella giornata. Le
alterazioni capricciose con cui ci fu tramandata quest’opera, sono cagione che
poco si possa trarre dal resto degli accessori, intorno ai quali sarebbero in
oltre necessarie più minute e diligenti ricerche al presente mio scopo
inopportune.
Nè
ci si debbe opporre che di quanto io qui accennai intorno alla corrispondenza
che la rappresentazione di questa istoria sembra avere coi fatti avvenuti
secondo che Leonardo ne fu informato, non ci si debbe, dico, opporre che nulla
si trovi nel Vasari che diede per altro una vivissima descrizione di questa
dipintura. Chiunque ha in pratica il suo libro, avrà sovente avuto occasione di
vedere ch’egli d’altro non si curava se non che di riportare ciò che l’arte
dimostra anche al volgo, dilettando con uno stile che con molta naturalezza
adattava al soggetto del suo dire. Ma avrà similmente veduto ch’egli non si
prendea pensiero d’investigare nelle opere quei sensi reconditi che i primi più
gravi maestri non trascurarono mai di porre nelle loro invenzioni. Da ciò
nacque che tante opere insigni sono descritte dal Vasari con bei modi, a dir
vero, e con vivace ed evidente dicitura, ma nel resto leggerissimamente, e, ciò
ch’è peggio, talora con tanta disparità dal vero, che allorchè vedonsi talune
delle opere descritte da lui, non si crederebbe ch’ei d’esse ragioni. E se sì
fatta negligenza usò nelle cose più note e famose di Raffaello, come ognuno può
vedere, non è meraviglia s’egli fu trascurato nell’indagare la ragion vera di
un’opera al suo tempo perduta, o di cui appena esistevano alcuni frammenti
dispersi, contento d’altronde di descriverla con brio e vivacità.
Dal
fin qui detto parmi intanto si possa conchiudere essere veramente nuovo e
bellissimo l’artifizio con cui Leonardo raccolse in un solo poetico episodio, e
figurò i casi varj d’un complicato fatto d’arme in modo da tener viva
l’attenzione, sospeso piacevolmente l’animo, occupato con forza il pensiero, ed
esprimendo al suo solito molto più che non espone.
Ma
vediamo ormai con quale industria la mente divina del nostro pittore trovò
nobilissima invenzione in argomento per sè volgarissimo. Debb’egli fare una
Nostra Donna col putto e la madre sant’Anna. Egli pose la sua sant’Anna a
sedere in un paese amenissimo, e sulle ginocchia di lei fece Maria che tiene il
divino infante il quale scherza con un agnelletto. Ecco ciò che si vede da ogni
occhio volgare; ma chi non vede più oltre, vedrà collo stesso affetto un quadro
del Vinci ed uno di Pietro da Cortona o d’altro mediocre ed ammanierato
moderno. Ben altro è il concetto del nostro pittore, e possiamo agevolmente
persuadercene, se osserveremo attentamente lo schizzo qui unito, imitato dalla
prima idea ch’ei pose in carta, di questo soggetto.
Il
putto volgesi verso l’agnello: la Vergine sembra sforzarsi di distornelo:
sant’Anna in vece, stendendo la destra dietro le spalle della figlia e la
sinistra dietro l’agnello, pare compiacersi che il putto divino si accosti
all’agnello, e tenta impedire che la Vergine ne lo allontani. Ora chi
crederebbe che questo semplice gruppo che superficialmente considerato non
rappresenta che un giuoco puerile e uno scherzo famigliare, se più
profondamente si osservi, rinchiude l’artificioso concetto di una sublime e
delicata invenzione? Non è già qui l’agnello il consueto seguace del Batista,
nè v’è qui il Batista bambino, checchè si dica dal negligente Vasari, indotto
precisamente in errore dall’agnello: esso è qui soltanto siccome simbolo di
vittima, antichissimo simbolo, ricevuto in ogni tempo e soprattutto adottato
dalla Scrittura. Il divino infante si mostra desideroso di prenderlo, con che
viene espressa la di lui brama di farsi vittima per l’umana salute e di consumare
presto il sacrifizio per cui fu spedito in terra dal Padre celeste. La Vergine
tenta di allontanarlo da sì fatto progetto, non le reggendo il cuore di vedere
sacrificato il proprio figliuolo. La madre di lei, che con la mente profetica
vede salvarsi l’uman genere col sacrifizio del divino nipote, sembra compiacere
al di lui desiderio e consigliare alla Vergine di conformarsi all’eterna
disposizione del cielo. Rimaneva a rappresentare in qualche modo lo stato
verginale di Maria; e l’arguto Leonardo ottenne a mio parere l’intento,
ponendola in grembo alla madre al modo come stanno amorosamente le figlie
d’innocente costume, prima che la mistura cogli uomini tolga loro quel brio
ingenuo e l’abito a facili e pubbliche dimostrazioni di tenerezza.[45]
Tale
è il componimento secondo la mente di Leonardo, e ne sia prova il sonetto che
può leggersi nelle note,[46]
fatto su tale argomento da Girolamo Casio de’ Medici, nel qual sonetto in rozzi
e ridicoli versi l’alta invenzione ed il concetto sublime di Leonardo leggesi
espresso a chiarissime note. Nè si giudichi già doversi tale spiegazione ad un
poetico grillo del Casio anzi che alla mente di Leonardo, indagatrice di nuove,
sottili e leggiadre cose. La fantasia del Casio non poteva tant’alto salire,
come tutte le sue composizioni il dimostrano: bensì potè una sua scrittura,
sebbene meschina nello stile e negli altri modi tutti dell’arte, acquistar luce
ed importanza per averci conservato un pensiere di Leonardo, degno di migliore
autorità, ma che pure di qualche autorità avea d’uopo. Come poi al Casio
giungesse la notizia della recondita idea del Vinci in quest’opera, facilmente
si dimostra dall’aver esso conversato, se non con Leonardo stesso, certamente
col valente nostro Boltraffio, suo discepolo de’ migliori, il quale nella sua
bella tavola di Bologna che ora conservasi nella galleria reale, ritrasse il
Casio con tanta naturalezza, che appena il suo gran maestro l’avrebbe potuto
far meglio.
Dalla
nuova spiegazione di questo vago componimento si potrà anche intendere come
spesso nelle tavole della scuola nostra antica si vegga Cristo bambino scherzar
coll’agnello ed abbracciarlo, volgendosi con un sorriso dolcissimo alla Vergine
o allo spettatore, come si può osservare in opere di Bernardino e d’Aurelio
Luini, di Gaudenzio da Varallo e d’altri che imitarono la maniera o le idee di
Leonardo, e ne copiaron talora quadri o cartoni.[47]
Così quel grazioso putto che sorride tanto gentilmente, abbracciando un
agnello, opera nota di mano di Bernardino, da chi ha in pratica il fare del
Vinci, si crederà anch’esso derivato da un suo cartone o disegno, e comunque
tradotto sovente in un san Giovannino, fu probabilmente ideato per un Salvatore
che, stringendosi con tenerezza al seno l’agnellino, dimostra quell’ardente
desiderio di farsi vittima per la salute del mondo, desiderio che il Paciolo il
quale conversava assiduamente col Vinci, trovò simboleggiato, come vedemmo,
anche nel Cenacolo.
Sebbene
poi non si accordi interamente coll’esposto il componimento dello stesso
soggetto che dipinse il Salaino, e l’altro cominciato da Leonardo per Francesco
re di Francia, non si dee credere che Leonardo abbia quivi abbandonata l’alta
invenzione che vedemmo conservataci dai rozzi versi del Casio. Anzi con quel
suo cercar sempre nuove cose, dopo aver fatto probabilmente sullo schizzo che
qui presentiamo, il primo cartone che fece maravigliare tutta Firenze, ne tentò
un altro sugli stessi principj (che servì poi per l’opera del Salaino e per la
sua di Parigi), nel quale mirò ad esprimere un momento posteriore all’ideato
nella prima composizione. Parve forse a Leonardo di aver fatto qualche cosa di
non analogo al divino carattere di Maria nel darle un atto col quale tenta
impedire che il suo figlio si accosti all’agnello, o sia si faccia vittima a redenzione
degli uomini. Questa ritrosia all’eterno decreto dello sposo celeste non gli
sembrò accordarsi coll’umiltà che la Scrittura attribuisce all’ancella di Dio.
Raffinando adunque il suo componimento dietro questo principio e facendol di
nuovo, rappresentò Maria già persuasa dalla madre in atto di permettere al
figlio che prenda ed abbracci a suo talento l’agnello. Sant’Anna mostra con un
sorriso celeste la compiacenza a un tempo, la beatitudine e la gloria d’esser
madre della divina famiglia, e di antivedere oprarsi dal figlio di Dio la
salute dell’uman genere. Il putto si volge sorridendo alla madre, in atto quasi
di godere del suo trionfo, e di consolarla al tempo istesso dell’affanno che le
cagionerà il proprio sacrifizio. La madre in fine guardandolo con una dolcezza
ed una soavità che a Leonardo solo fa dato d’imitare, sebben muova nelle labbra
un modesto angelico sorriso di tenero compiacimento, mostra negli occhi
alquanto socchiusi e in un lieve elevamento e gonfiamento delle palpebre
inferiori, che il di lei cuore non è tranquillo, e che la gloria d’esser madre
del Salvatore non la fa dimentica che la grand’opera della salvazione si farà
col sanguinoso sacrifizio dell’unico suo figlio.
Coloro
ai quali può per avventura sembrare che tale interpretazione superi il concetto
del Vinci, leggano queste cose in presenza del quadro dipinto dal Salaino,[48]
che si conserva nella sagrestia di san Celso, e si persuaderanno facilmente
che, fatte appena le dette osservazioni, non v’è bisogno alcuno dell’autorità
del Casio e molto meno della mia per trovarle conformi al modo di pensare e di
operare di Leonardo, secondo ciò che gli storici tutti ne scrissero, ed egli
stesso provò nelle poche sue opere.
Così
nel Cenacolo, nella battaglia d’Anghiari e nel quadro della sant’Anna abbiamo
tre diversi esempj, non solo di tre stili differenti, convenientissimi ciascuno
al relativo soggetto, ma di tre modi d’invenzione singolarissimi, e tali che
appena se ne trovano di simili nelle storie de’ più famosi tra i greci artefici.
E s’io non erro, parmi che in ognuno di questi tre quadri la ragion dell’arte
sia portata a quel colmo, oltre il quale la filosofia non ha più che
desiderare: e se si porrà mente alle infinite considerazioni che debbe aver
costato all’autore il tenere un tal nuovo modo nelle opere sue, si avrà una
chiara ragione della lentezza con cui le conduceva, e del piccolo numero che
potè darne all’ammirazione della posterità.
DELLA ECCELLENZA DI
LEONARDO.
Sorgono
di quando in quando uomini di sì mirabile tempra d’ingegno, che mentre ci
consolano dimostrandoci a qual sublime meta di perfezione può l’uomo aspirare,
ci umiliano da poi e quasi ci avviliscono col farci sentire quanta distanza ci
divide da loro. Il tentare di conoscere, almeno in parte, le cause per le quali
da taluni si sale ad eccellenza meravigliosa in qualsivoglia facoltà, è sempre
utile per chi corre la stessa strada con quelli, e ci serve di scuola onde
fuggire ciò che nuoce e seguire ciò che giova al perfezionamento di quanto si
pone per fine delle nostre ricerche e fatiche. L’esperienza, a dir vero,
dimostra sovente che ad onta della parità de’ mezzi un ingegno progredisce più
rapidamente d’un altro, e che talora un mezzo che a tale ingegno è di grande
utilità, non reca a tal altro lo stesso beneficio. Pure esaminati, per quanto
dal basso si può dell’alto giudicare, i mezzi impiegati da grandi uomini
specialmente antichi onde emergere eccellenti e mirabili, chi è giudizioso e
discreto, a forza di comparazioni e di ripetuto esame, può benissimo scernere
di quali de’ detti mezzi possa giovarsi e di quali disperare; e in ogni modo,
se lo sprona amor di bene e di gloria vera, guadagnerà sempre più dal
riguardare alle vie antiche degli ottimi che non dal batter l’orme o seguir la
voce de’ mediocri di ogni tempo, ed anche di que’ buoni la cui grandezza non è
per anco sanzionata dal voto imparziale de’ posteri.
Mosso
da queste ragioni io avrei pur voluto dar qualche solenne fine a questi miei
scritti coll’esaminare le cause della eccellenza a cui salì Leonardo; ma
intimorito dalla grandezza del tema, anzi che trattarlo, più volentieri mi
risolvo di consigliarlo siccome utile materia delle meditazioni degli artisti
non digiuni di sana filosofia. Non ostante a forza di scorrere col pensiero più
e più volte intorno a sì fatto nobilissimo argomento, comechè sterile del tutto
mi trovassi di nuove e degne osservazioni, pure alcune ne ho tracciate che,
quantunque ovvie e triviali, credo non essere del tutto inutili, e però mi fo
ardito di esporle. Il lettore indulgente, avuto riguardo al mio buon volere,
avrà a grado il nuovo tema, e fatto chiaro del vantaggio che se ne può trarre,
avendo buon ingegno, lo coltiverà meglio ch’io non posso, e ne caverà frutto migliore
ch’io non vaglio ad offerirgli.
Innanzi
però che più m’innoltri, mi è d’uopo avvertire che io non entro affatto a
ricercare in che o quanto fosse Leonardo eccellente; nè è mio pensiero l’indagare
la sublime natura del suo ingegno; ma solo io voglio dire di alcune cose che
credo abbian contribuito a perfezionarlo, sviluppandolo più felicemente e
rendendolo fecondo di più nobili produzioni. E come nelle indagini di questo
genere, primo mio scopo è sempre il trarre da quell’antica luce qualche
riverbero che rischiari la incerta strada che al dì d’oggi si va tentando, all’osservazione
di tali cause aggiungerò in comparazione un cenno di quelle che mancano o
esistono anche al presente. Per tal modo si potrà vedere se il decadimento,
l’imperfezione e il poco finora raddrizzamento dell’arte caduta sia colpa tutta
nostra o lo sia de’ tempi e delle circostanze nostre; o pure quanta parte di
colpa appartenga ai tempi, quanta alle circostanze, quanta a noi stessi.
Per
venir dunque al proposito nostro, piacemi prima volgere lo sguardo all’epoca
nella quale apparve questo privilegiato intelletto, e il veggo nascere nel bel
mezzo del secolo decimoquinto, per l’appunto allorchè gli animi e gl’ingegni
italiani conservavano ancora la veemenza delle grandi passioni della non antica
barbarie, e tutta la gentilezza e il fiore d’una civiltà già matura: utilissima
non rinnovabile combinazione di tempi, e sola vera epoca in cui quelle arti del
bello che han d’uopo di molto sussidio meccanico, si portano alla perfezione.
Lascio ai profondi politici l’investigare se sia di più vantaggio alla gloria
italiana la tanto disputata unità di governo, o se più s’accordi a paese sì
vario d’uomini, d’ingegni e di costumi quella moltiplicità e varietà di ordini
civili che si è veduta ne’ secoli migliori dopo la caduta dell’imperio.[49]
Certa cosa è che chiunque mirerà colla luce della storia il quadro delle corti
e delle città libere italiane del secolo decimoquinto, è d’uopo asserisca che
la quantità degl’ingegni distinti in Italia non è dovuta al cielo soltanto ed
al suolo, ma anche agli ordini politici ed alle civili istituzioni, poichè la
copia che allora se ne vide, fu maggiore che in ogni età posteriore. Ma sia
comunque si voglia, in quel beato tempo passò Leonardo la sua giovinezza, ed ebbe
oltre a ciò a singolare fortuna di vantare una patria qual era Firenze che già
dominava l’Italia colla lingua, che sola delle città grandi di questa provincia
conservava la sua libertà, e che sostenea la sua grandezza con opere d’arte
meravigliose pubbliche e private, alle quali consacrava una opulenza ch’era il
frutto delle arti pacifiche del commercio e dell’agricoltura. In Firenze ai
primi anni di Leonardo, salvo non molte opere, erasi di già fatto quanto anche
al presente vi si conserva di più bello: la torre di Giotto, la cupola del
Brunellesco, le porte del Ghiberti e le pitture di Masaccio eran tali moderni
esempj, che Roma stessa, non che altra città europea, non ne dava di simili. In
breve quella vera Atene dell’Italia vantava allora maggior numero di nobili
artefici che non ne avesse forse tutto insieme il rimanente d’Europa. E quella
vita, quel moto, quella concorrenza di molte città, per cui ognuna tentava di
emular di grandezza e bellezza d’opere la vicina; il continuo ricco e sodo
fabbricare de’ poderosi cittadini; l’amore di lasciare delle memorie di sè,
diretto ad ergere utili edifizj pubblici; le lettere largamente favorite; la
nuova rivoluzione dell’invenzione della stampa e dell’incisione, tutto in somma
a quel tempo era una chiamata ad un ingegno alto e perspicacissimo, qual era
quello di Leonardo, ad ottenere fama e gloria, e superare i tanti nomi già
illustri ed onorati a quel secolo. E queste circostanze eminentemente grandi in
Toscana furono di tanta potenza ad accender gli animi ed a spingere le menti a
nobili e gentili imprese, che quella terra felice diede in pochi anni uomini
grandissimi, non pure nelle arti del disegno, ma nelle lettere, nella politica,
nella guerra e fin anche nella nautica, imponendo al nuovo mondo il nome d’un suo
cittadino.
Certo
se circostanze simili fossero assolutamente necessarie onde pervenire a qualche
eccellenza, non ce ne rimarrebbe oggi speranza alcuna ragionevole. Sebbene però
siamo lontani dal poter noverare tali vanti che bilancino la perdita di quelle
tante antiche glorie, ciò non ostante il presente secolo per alcune felici
combinazioni ha molti vantaggi che i due scorsi non ebbero.
Ma
grazia non minore della indicata di tempo e di patria fu per Leonardo l’aver
avuto a maestro nell’infanzia un valentuomo qual era il Verocchio, versato in
tutte le arti, buon pratico e non volgare teorico. E a dir vero di sì fatti
maestri s’è perduto il seme da gran tempo, e quelli fra pittori viventi che si
distinguono dalla plebe degli artefici, tutti hanno dovuto disimparare nella
età seconda quanto nella prima impararono. Lagnavasi Raffaello di aver avuto il
Perugino a maestro: che dovremmo dir noi, quando guardiamo le scuole che
finirono collo scorso secolo? E se fu di gran giovamento a Leonardo l’aver
avuta la disciplina del buon Verocchio, non gli fu meno utile il liberarsene
presto, e presto attendere da sè allo studio della natura; con che ottenne
quella originalità che a Raffaello costò fatiche maggiori per la forte radice
che in lui avea posto la maniera del Perugino.
Grande
impulso a sforzi d’ingegno straordinarj fu parimente al tempo di Leonardo la
stima in cui gli artefici del disegno eran tenuti, solendosi ad essi affidare
ogni impresa che paresse esigere acutezza di mente e nobiltà d’artificio. Così
tutti i grandissimi artefici ebbero occasione di trattare tutte le arti, e
portarono in ognuna le forze di tutte; potente cagione di eccellenza che spesso
si travede come un ostacolo. Ai tempi nostri le arti divise zoppicano, e nelle
opere composte di più arti si vede spesso in lite un’arte coll’altra, come
avviene negli edifizj oppressi dalle statue, nelle pitture storpiate dagli
ordini architettonici, o a vicenda negli ordini architettonici barbaramente
tagliati da stravaganti pitture.
Impulso
maggiore dovette poi essere al secolo del Vinci la memoria recente degli onori
concessi agli artefici del disegno, e il rispetto serbato fin anche alle ossa
loro. Lorenzo il Magnifico chiese agli Spoletani le ceneri di Fra Filippo ed il
rifiuto che n’ebbe, fece onore a Lorenzo, agli Spoletani e alla memoria del
pittore.[50] Il
Brunellesco, il Ghiberti ed altri tennero il supremo magistrato in Firenze,
come il tennero Francesco di Giorgio, ed Ambrogio Lorenzetti in Siena ed altri
varj altrove, solo per essere stati rari ed eccellenti nelle arti del disegno.
Questo genere di onori andò presto fuori d’uso, e se si legge di qualche
luminosa giustizia resa al merito ne’ tempi posteriori, non son da confondere
con quelle antiche onorificenze decretate da città libere i compensi talora
straordinarj con cui, in ispecie ne’ due scorsi secoli, molti sovrani a
capriccio o per grazia premiarono nell’artefice piuttosto un favorito che il
valore dell’arte. Nel seicento si profusero titoli, collane e cavalierati a
molti pittori di cui ora si disprezzano le opere: nulla di simile ottennero nè
il Buonarroti nè il Sanzio nè il Vinci, che furon pure anche vivendo tenuti in
altissima stima. L’opinione intorno a tal cose cangia secondo i costumi ed i
tempi, e negli uomini individui secondo gli animi, i caratteri, gli abiti
giovanili e finalmente secondo l’alta o bassa nazione e condizione. Ad ogni
modo il vero compenso dell’artefice di sano ed alto pensare sta nella considerazione
e nel conto in cui è tenuto, non ne’ premj e negli onori. E bensì vero che
quando la considerazione non è universale d’una città, ma viene da uno o da
pochi, non è da valutarsi se è disgiunta da premj e da onorificenze; il che ne’
governi monarchici si vede. Anche in ciò pertanto il nostro secolo ha subito
un’utile rivoluzione, e da qualche tempo è cresciuta l’opinione dell’arte e
migliorata in qualche maniera la condizione dell’artefice distinto.
Nè
minor ventura ebbe Leonardo nel trovare in Lodovico il Moro un signore
magnanimo che conosceva l’altezza del suo ingegno e che premiava
larghissimamente le varie opere in che lo andava occupando. Francesco I, splendidissimo
principe, interrogò già Benvenuto Cellini s’era maggior sorte quella d’un
grande artefice in trovare un re magnanimo che gli desse grandi occasioni di
operare, o pure quella di un re in trovare un artefice che degnamente
rispondesse alle sue mire grandi e generose. Il Cellini rispose, come dovea,
maggiore essere quella dell’artefice: il re che senza riguardi potea sciorre la
quistione a suo modo, voleva altrimenti, e conchiuse essere per lo meno pari
fortuna. Se pertanto è pari fortuna per un principe il trovare un grande
artefice, e per questo il trovare un re di grande e liberale animo, egli è
certo che grave è la colpa d’entrambi, quando l’uno trascura l’occasione
d’impiegare a favore dei buoni artefici la sua potenza, l’altro in propria
gloria e del principe e della patria il suo ingegno.
Utile
grande ebbe anche Leonardo non solo dai comodi largamente fattigli dal
principe, ma dalla onesta libertà di che pare godesse nella corte, e dalla
confidenza di che il principe il facea degno. L’indipendenza della vita,
allorchè si accompagna in onesto ed alto animo all’amore della vera gloria, è
madre di quanto l’umano ingegno genera di bello. Le opere degl’ingegni migliori
liberamente composte sono quelle che più fanno d’onore a loro, e che danno una
più sublime idea dell’umana potenza morale. Il Petrarca compose liberamente in
varj tempi ed a capriccio il suo canzoniere, e da quello ha la sua gran fama,
mentre il poema dell’Affrica da lui
fatto con tanto sforzo, quantunque coronato, è rimasto senza lettori. Il Caro
volle esercitarsi liberamente negli endecasillabi, e ne fece non solo la
miglior opera sua, ma la miglior traduzione che la lingua italiana vanti
dell’Eneide. Il Tasso fe’ l’Aminta
allo stesso modo. De’ pittori Fra Filippo, chiuso nel palazzo di Cosmo e
lontano dalle sue pratiche amorose, non è capace di nulla: libero, eccita la
meraviglia de’ suoi contemporanei colla gentilezza e ricchezza delle sue opere.
E lo stesso avvenne d’altri varj, come ognuno nella storia delle arti belle può
osservare. Però que’ potenti che a compenso de’ comodi che compartiscono ad
onorati e buoni artefici, li privano della loro libertà sopraccaricandoli di
obblighi e doveri con limiti di tempo, di mezzi e d’altro, inceppan loro
gl’ingegni e li privano di quel primo quasi elemento dell’arte, senza il quale
essa o rimansi infeconda, o produce frutti men nobili e talora indegni del
suolo ove naquero.
Ma
la più potente cagione, a parer mio, del mirabile sviluppo dell’ingegno di
Leonardo fu il suo sistema di studio e quel suo interrogare direttamente e da
sè la natura universale. Questo fu il vero segreto della sua condotta
pittorica, segreto che è in mano di ognuno, ma che tuttavia da pochissimi è
praticato.[51] Per tal
mezzo da lui adoprato tutta la vita sua, egli fece nella imitazione del disegno
ciò che Dante nella imitazione poetica, e come Dante fu scorta al Petrarca,
così si può, cred’io, dire che Leonardo mostrasse il cammino a Raffaello.
Entrambi fissi del continuo nelle opere di natura, ne seguirono le tracce,
investigandone gli arcani i più reconditi: da ciò avvenne che nelle loro
imitazioni si riconosce impressa un’evidenza si individuale all’oggetto
rappresentato, che più oltre non rimane a desiderare. E con questo studio
universale ed assiduo, ingrandito lo stile, e fatti signori dell’arte intera,
pervennero ad aggiungere nuove regioni all’imperio della fantasia: perciò le
cose più nuove ed ardite portano in questi autori un marchio di verità che
quanto in somma per essi s’imita, sempre si direbbe preso direttamente dal
vero, quantunque sia spesso imitato dall’idea. Ciò provasi facilmente in Dante
colle scene di Farinata, di Pier dalle Vigne, del conte Ugolino, di Sordello e
di san Pietro; ed in Leonardo col mostro della rotella, colla Medusa, colle
teste di Cristo, di sant’Anna, della Vergine; e in generale con tutte
l’espressioni nuove delle sue figure in natura momentanee e fuggitive, e
dall’arte sua divina a comun meraviglia arrestate nelle sue tavole e ne’ suoi
disegni. Le fantasie continuamente esercitate sul vero universale, ed
arricchite dalle imagini infinite sotto le quali il vero si presenta e si
combina, hanno un vantaggio tutto loro come nel trovare invenzioni sempre vere,
nuove e profonde, così in una facile e feconda inspirazione e furore, da che
nascono sovente cose superiori alla forza ordinaria di chi le produce. Ciò non
avviene mai all’imitatore la cui fantasia fu arricchita soltanto dai frutti
dell’arte, i quali frutti non debbono dai veri ingegni essere assaggiati, se
non per vedere qual via da altri si tenne nello investigar la natura e nell’imitarla.
Così i poeti anteriori all’autore della Divina Commedia, che cantavano cose
amorose, scrissero con affettazione in uno stile ricercato cose affatto lontane
dalla natura, facendosi belli de’ raffinamenti coi quali più lindamente
rappresentavano ed ornavano concetti già sovente ripetuti. Dante in vece, ricco
la mente ed il cuore degli studj naturali, ridendosi de’ suoi predecessori e
coetanei, definiva il suo nuovo metodo, dicendo: Io mi son un che, quando Amore spira, noto; ed a quel modo Che detta
dentro, vo significando. E ciò che fece nelle rime d’amore, il fece anche
nel suo gran poema, al quale, com’egli si espresse, han posto mano e cielo e
terra, ch’è quanto a dire la natura universale di cui fu sì fortunato
investigatore. Nè Leonardo nell’arte respettiva faceva altrimenti, e come prima
che Dante traesse fuora le nuove rime, non parve avere compiuta la sua forma la
poesia italiana, similmente prima che Leonardo desse luce agli altri col suo
stile, mancava ancor molto alla gloria dell’italiana pittura.
Se
pertanto l’arte presente in vano desidererebbe i sussidj ch’ebbe Leonardo dal
tempo in che nacque e dalla terra che gli fu patria, e se è rara ventura d’un
artefice anche distinto il trovare grandi occasioni di operare, e larghezza di
premj e di comodi, lo studio diretto ed universale della natura che, a quanto
vedemmo, fu la vera e speciale causa dell’eccellenza da lui conseguita, è
aperto tuttavia ad ognuno come al suo tempo; e qui è mera colpa nostra se non
ne approfittiamo, e più se il trascuriamo del tutto. È bensì vero che ai tempi
nostri non è da sperarsi l’esempio naturale dell’esterno sviluppo di quelle generose
e violente passioni che la mollezza ed affettazione de’ nostri modi e costumi
ha tolto affatto dal mondo; ma oltre che rimane ancora molto da osservare
intorno a ciò nelle persone volgari, l’arte ha tanta estensione, e col mezzo
dell’analogia aumenta di tanto le proprie forze, che non possiamo dire che
molta sia la differenza del costume pubblico tra il nostro secolo e il
decimoquinto. Ben è sommo il divario tra le belle età greche e le moderne, e
però la perfezione che in allora si ottenne, non fu mai vinta da poi, e appena
fu agguagliata da poche opere di pochissimi artefici.
Viste
le cagioni, a mio credere, principali della eccellenza di Leonardo, increscerà
a molti che in piccol numero d’opere ei l’abbia voluto ai posteri dimostrare.
Ma se si riguarda, come altrove feci osservare, all’importanza e grandezza
delle sue opere maggiori, parmi si possa abbastanza scusare la di lui
parsimonia e quella quasi ritrosia ad operare, in lui nata dal vedere
tropp’alto nell’arte. Se osserverassi poi che il tempo che questo sommo ingegno
non dava alle opere, era sacro alla meditazione ed all’insegnamento; se si
rifletterà che d’ogni arte e scienza da lui professata egli scrisse trattati a
comune beneficio, saremo costretti ad unire all’ammirazione un’infinita riconoscenza.
E
se per tutti gli artefici del mondo gli è dovuto un tal sentimento, parmi che
in particolar modo gli si debba dalla Scuola milanese. Milano, sua patria di
adozione, dopo l’impareggiabile Firenze, vantava forse, quand’ei ci venne, i
più dotti e pratici artefici d’Italia. Il Civerchio e Bernardo Zenale nella
prospettiva e nelle meccaniche. Bramante il vecchio nell’architettura,
Michelino negli animali e nelle bizzarre composizioni, il Troso e lo Scoto ne’
rabeschi, il Butinone, il Foppa, il Vaprio, i due Bevilacqui, Giovanni da Valle
ed altri nelle altre parti dell’arte, tutti vantavano qualche particolare
eccellenza. Leonardo raccolse prontamente in sè solo que’ pregi sparsi che
anche isolati bastavano alla gloria di ciascheduno, e unendo a quelli la
dottrina e la pratica di altre facoltà, e il tutto illustrando colla nuova luce
della filosofia, si rese tale maestro che gli antichi e i contemporanei fe’ ben
tosto dimenticare. Per sì fatto istitutore prese nuova forma la Scuola
milanese, ed alla profondità della scienza ed alla ferace pratica fu congiunta
l’amenità dell’erudizione e delle altre liberali discipline. I precetti di
varie arti furono consegnati a varj trattati che il tempo ci ha tolti. La
poesia divenne compagna del disegno, ed emuli di Leonardo poeta furono Bramante
al suo tempo;[52] poco da
poi Gaudenzio da Varallo e Bernardino Luino; nella età seguente i figli del
Luino, il Lomazzo e Girolamo Figino; più tardi il Cerano, e fino all’età nostra
altri degli accademici nostri è dicitor di rime all’improvviso, altri, imitando
Giovenale, detta belli e gravi sermoni. Ed in ogni tempo da quella bell’epoca
in poi, allorchè l’arte che per varie vicende si andava perdendo, si richiamava
a qualche nuova gloria, sempre lo spirito di Leonardo pareva assistesse a
quelle utili riforme. Il principio del secolo decimosesto fu sostenuto da’ suoi
insegnamenti confermati da recenti gloriosi esempj; e molte belle opere di quel
tempo, fra le quali varie che non si sa da qual mano siano uscite, tengono
della sua maniera e sono evidentemente figlie de’ suoi precetti. Al declinare
di quel secolo stesso l’arte si rianimò in Ambrogio Figino coi precetti del
Lomazzo che per la parte migliore si possono dire ereditati da Leonardo. Al
cominciare del secolo seguente l’Accademia ambrosiana si sosteneva e s’istruiva
colle molte opere del Vinci; e il Cerano, sebbene con diversa fortuna, parve
rinnovare l’antica scuola colla pratica e coll’insegnamento di tutti i varj
rami dell’arte. Così Daniello Crespi, di cui la fama è minore del merito,
trasse da Leonardo la gravità delle sue figure senili, e Giulio Cesare
Procaccino i sorrisi e la letizia de’ suoi angeli e de’ suoi putti. Finalmente,
dopo una lunga età, il nostro Appiani, restitutore della perduta eleganza della
nostra Scuola, attinse nella sua prima gioventù alle stesse fonti, ora copiando
con diligenza i disegni di Leonardo che conservavansi nella Biblioteca
ambrosiana, ora imitando i discepoli di quel grand’uomo, fra i quali, più
ch’altri, Bernardino Luino. E per tal mezzo senza scorta di maestro di vaglia,
guidato dalla sola felice natura dell’ingegno giunse ad ottenere quella
elegante facilità e gentilezza di stile che lo caratterizza, e di che sono
ottimi saggi, per tacer d’altri, le sue pitture di san Celso, e ultimamente
quelle del Palazzo reale.
Mi
si darebbe qui campo di lodare varj altri de nostri artefici che onorano la
patria e sostengono la gloria dell’Accademia milanese, sebbene in professioni
nelle eguali minore è l’influenza del nostro antico precettore. Ma il vanto
ch’essi mi permettono della loro amicizia, mi toglie il piacere di nominarli,
non volendo io che all’amore che ad essi io porto, venga forse attribuita la
lode che al vero loro merito s’appartiene. Li nomineranno però in mia vece i
peristilj, gli archi, le porte, le sale, gli ornamenti e le stampe di lor mano
o disegno, nelle quali cose tutte si emula e si rinnuova il magistero de’ buoni
antichi, e che co’ loro autori giungeranno alla posterità assai più note e
pregiate che non queste umili mie carte.
Farmi
intanto felice augurio per la scuola nostra che alla nuova gloria verso la
quale va camminando, si accompagni il miglior tributo di che il Governo e le
arti stesse potessero onorare le reliquie di Leonardo, quello, cioè, di
raccogliere quanto si è trovato della sua maggior opera per trasmetterla ai
secoli avvenire coll’artifizio del mosaico. E da questo e da altri testimonj
privati e pubblici del conto in che sembrano risalire le arti del disegno, e
dalla cultura delle lettere che fra gli artisti si va propagando, e dai molti
valorosi giovani i quali, lasciate le barbare maniere che la buona e vera
corruppero, si rivolgono a miglior cammino e danno di sè non volgari speranze,
quando una stabile pace abbellirà le memorie de’ trionfi con molte opere grandi,
io non dubito di vedere in questo secolo rinascere fra noi gran parte di quelle
glorie di cui le arti furono adorne ne’ tempi migliori.
FINE DEL LIBRO QUARTO
Stampato per
cura di Leonardo Nardini,
Ispettore della
Stamperia Reale.
NOTE
[1] Ecco la lettera di
Platino, copiata dal libro intitolato Epistolæ Platini cum tribus orationibus, et uno dialogo, stampata da Gottardo
da Ponte nel 1506 in 4.° piccolo.
Platinus
Joanni Thomæ Plato patruo S. D.
Tetrastichon
meum iis litteris inclusum velim pro tua humanitate, mi Patrue, per unum ex
famulis tuis Leonardo Fiorentino nobili Statuario quamprimum meo nomine
reddendum cures. Quod a me jampridem ipse petierat; et ego receperam me
facturum in statuam equestrem loricatam, quam Divo Francisco Sfortiæ benemerenti gratus optimo patri filius Ludovicus Princeps
positurus est. Recepi inquam: licet imparem me tantæ rei cognoscerem: cui ne a poeta quidem egregio satisfieri
posset, sed non sum ausus offitium tam debitum ei denegare. Tum propter ingens
studium meum erga Principem illum, tum non levi quadam quœ mihi cum ipso Leonardo intercedit amicitia. Neque tamen
temere suspicor idem a compluribus aliis eumdem artificem petiisse qui multo
fortasse disertius rem ipsam expriment. Sed, ut dixi, ne tam pio muneri
divinique principis monumento prœsertim requisitus
defuisse viderer; coarguique possem ingratitudinis; hoc oneris admisi. Nam si quem divi Francisci
res gestas celebrare oportet, is certe ego sum; quem princeps ille noster
optimus et amavit et ornavit, ornaturus amplius si vixisset. Equidem si te
recte novi quem et divus Franciscus Sfortia dilexit, tu quoque promes aliquid
dignum tanto principe, et tale profecto quod in arce locari debeat, ut de
operibus Phidiæ traditur. Vale. Garlaschi pridie
Chalendas Septembris
M. CCCC. L. XXXIX.
Il tetrastico accennato in questa lettera
leggesi fra i versi del Piatto pubblicati nel 1502. Oltre le cose stampate su
questo argomento, nel nostro archivio generale conservansi varj epigrammi
inediti di un Arrigoni, mandati da Napoli a Lodovico, ed accompagnati da una
stravagante lettera. Da ciò si giudica che la fama dell’opera di Leonardo era
sparsa per tutta Italia.
[2] Ciò si desume da
alcuni versi di Pietro Lazzarone stampati dallo Zaroto nel 1494.
[3] Questo ricordo di
Leonardo fu alterato da molti malamente. Il Venturi fra gli altri nel suo Essai ecc. alla pag. 37 il tradusse come
siegue: Le 23 avril 1490 j’ai commencé ce
livre et la statue equestre. La lettera del Piatto scritta nel 1489 prova
ad evidenza l’errore. Lo stesso provano le composizioni scritte a quell’epoca
sul colosso, come pure il passo del Sabbà da Castiglione, che citai nel primo
libro.
[4] Così credette
l’Amoretti nella nota alla tavola XL della Raccolta de’ disegni di Leonardo,
pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli: non così però nelle Memorie Storiche del Vinci. Tutto peraltro era pronto per la
gran fusione, la quale a memoria d’uomini era la maggiore che si tentasse dopo
le opere romane. Non mancava che il metallo. Lancino Curzio diceva,
……….fluat
æs: vox erit: ecce deus.
Lo stesso ci viene confermato dal Marchi, la
cui rarissima opera con magnifica edizione rivede orala luce per la munificenza
del Duca di Lodi. Quest’autore alla pag. 20 del quarto libro della vecchia
edizione, e della nuova in foglio alla pag. 203 del tomo terzo, ci ragguaglia
de’ preparativi di Leonardo per gettare il colosso, colle seguenti parole: Dicono che Leonardo di Vinzo Toscano valente
Scultore volendo fare un cavallo di metallo al Duca di Milano non si fidò d’una
fornace sola ma ne volse tre, le quali potessero disfare il metallo che in esso
cavallo vi andava: la ragione che dava, diceva che il fuoco d’una fornace non
poteva fare venire in bagno tanta quantità di metallo, perchè non poteva arrivare
per sino al fondo: ancora che di sopra si vedesse il metallo disfatto, non per
questo era disfatto quello da basso: per la gran quantità, e per il grave peso
non si puol maneggiare con perticoni ancora che sia disfatto; e in verità
incontrò una volta a Maestro Gio. Cutura d’Avignone facendo artegliaria in
Pavia, pose tanto metallo in fornace, che di sopra era in bagna, e in basso era
come latte caggiato, e così non potè venire il getto ecc.
Siegue indi il Marchi a consigliare più fornaci
nel caso di grandi getti, ma avverte delle grandi difficoltà che anche un tal
modo può incontrare per la differenza de’ gradi di calore tra l’uno e l’altro
bagno. Il Marchi pertanto ragionava coll’esperienza del Cutura; mentre il Vinci
colla sola forza della teorica aveva preveduto potergli accadere ciò che al
Cutura è accaduto.
Intanto venne la guerra con Lodovico XII: il
modello fu fatto in pezzi, ed un’ora di furor militare distrusse un’opera
d’ingegno che costava all’autore oltre tre lustri di vigilie, e ch’era la più
bella non solo, ma anche la più grande che si fosse fatta in quel genere. Spera
ora l’Italia d’essere risarcita di tanta perdita, mediante il colosso equestre
di Napoleone che aspetta dal suo Canova.
[5] Questa iscrizione
sente alquanto dello stile del padre Resta, il quale sulle stampe e sui disegni
faceva sovente note e postille. Se è sua, non è meraviglia che si allontani di
tanto dal vero, poichè, come si è notato altrove, il Resta confondeva
grossamente l’epoche, e confuse in ispecie la storia del Vinci. Veggasi l’Indice del Parnaso, ecc.
[6] Il Lomazzo in un
sonetto a pag. 91 de’ Grotteschi dice:
Da Parrasio fu ornato il Buonarroto,
Da Protogene il Vinci illustre e chiaro, ecc.
E ivi per chiusa d’un altro sonetto
Protogen che il pennel da sue pitture
Non levava, agguagliò il Vinci Divo
Di cui opra non è finita pure.
Ugolino Verino poi dice, dopo aver lodato
alcuni dipintori fiorentini
Et forsan superat
Leonardus Vincius omnes;
Tollere de tabula dextram
sed nescit et instar
Protogenis multis vix unam perfidi annis.
[7] Trattato, cap.
CCLXXIV.
[8] Il Lomazzo dice con lambicchi.
[9] Un frammento del
cartone di Raffaello per la Battaglia di Costantino conservasi nella Pinacoteca
ambrosiana.
[10] Dalle cure che il
cardinale Borromeo si prese di raccogliere per mezzo del Bianchi quanto
rimaneva al suo tempo dell’infelice pittura del Vinci, si può argomentare il
poco conto che quell’illustre conoscitore faceva delle vecchie copie di tal
opera.
[11] Veggasi la nota 21 del
terzo libro.
[12] Questo Michelagnolo
Bellotti che ristaurò il Cenacolo, era figlio di Ambrogio e cugino del canonico
Bellotti, tutti pittori. Ambrogio ebbe a fratelli Francesco e Biagio, che
dipinsero insieme la parete esterna dell’ossario annesso alla chiesa di san
Giovanni in Busto sul finire del secolo XVII. Michelagnolo morì nel 1744, anno
in cui entro in Milano il cardinale Pozzobonelli, il cui ingresso fu decorato
di sue pitture. Dipinse anche a fresco la lunetta sopra la porta delle Grazie,
copiando uu cattivo quadro del seicento, che da alcuni si è attribuito a
Leonardo. Vantavasi in oltre di possedere alcuni rari segreti nell’arte, che
promise di comunicare al suo cugino canonico; ma morì prima di mantenere la sua
promessa.
Fuvvi anche un Serafino figlio di Francesco,
parimente pittore, che fece un quadro per la Canonica di Vaprio, ma fu
inferiore al padre ed agli zii. Un Matteo, figlio di Biagio, avrebbe superato
tutti i suoi nell’arte, se per invidia e rivalità non fosse stato ammazzato in
giovane età a Bologna, nella quale città era andato a studiare, mantenutovi dal
principe Rasini.
[13] Il De Giorgi aveva
molto ingegno naturale, e trovavasi avere moglie, figli e venticinque anni
allorchè da torniture di bassi lavori si diede al pittore. Divenne sufficiente
pratico a olio e a fresco, ma aveva poco disegno e cattivo stile. Fu discepolo
d’uno zoccolante di sant’Angelo, dilettante, dal quale andava a disegnare le
domeniche. La cosa della sua vita più gloriosa per lui fu il rifiutarsi
costantemente a ritoccare il Cenacolo.
È qui da avvertire, a difesa de’ Milanesi, che
dei tanti malanni con cui l’industria umana affrettò la perdita del Cenacolo,
non ve n’ha uno di cui a’ Milanesi si debba la colpa e la vergogna. Pare che
fino al 1503 non vi fosse lavatojo presso il muro ove Leonardo dipinse, e vi fu
fatto fare in quell’anno da Stefano de Poncher di Tours vescovo di Parigi ad
istanza del priore Silvestro Mozolino, piemontese. Questo lavatojo non bastava
al bisogno, e se ne fece uno maggiore nel 1663 dal priore Giulio Zaccheria,
nobile cremonese. Da questo stesso priore fu fatta allargare la porta nel 1652.
Il ritocco del Bellotti fu commesso dal padre Boldi di Castelnuovo di Scrivia.
E finalmente il Mazza fu introdotto a dar l’ultima mano all’opera del Bellotti,
dell’umido e degli anni dal ministro conte di Firmian tirolese, che ciò fece
senza dubbio con buona intenzione, sebbene con pessimo consiglio.
[14] Un effetto simile
accadeva anche prima, ma assai meno abbondantemente.
[15] Alludesi alla copia
destinata ad esser tradotta in mosaico; di che è incaricato il signor Giacomo
Raffaelli, il quale ha di già dato felice principio all’opera.
[16] Allorchè dico proporzioni o proporzione intendo ciò che i Greci intendevano per simmetria; la qual parola, che secondo
il vecchio Plinio non aveva corrispondente voce latina, fu dai varj autori
diversamente interpretata e resa con modi diversi. Filostrato juniore chiamolla
analogia: Svetonio la disse comodità ed equità di membra: Vitruvio commisuramento:
Plinio il giovane egualità e congruenza: Cicerone convenienza di parti, e atta composizione di membra: Aulo Gelllo
reciproca competenza di membra; c e
così altri antichi e moderni variamente. Ma tutti si accordano in esprimere più
o meno una relazione armonica delle parti
fra loro e col tutto, il che
s’intende abbastanza col vocabolo proporzione,
sebbene non risponda con precisione al greco simmetria.
[17] Di questo autore ho
trovato, come altrove dissi, il libro De
Perspectiva Pictorum, ma in questo non vedonsi che molte teste, non già
intero il corpo umano, di che egli forse scrisse in altra opera sconosciuta.
[18] Cap. CLXXIII.
[19] Cap. CLXXV, e lo stesso al cap. CCL.
[20] Cap. XLVIII e XLIX.
[21] Cap. XIL.
[22] Cap. XLV.
[23] Cap. CLXVI e CLXXIII.
[24] Riporto lo scritto di
Leonardo lasciando la sua ortografia per non cagionar imbarazzo a chi non l’ha
in pratica. Chi poi ne volesse un saggio legga per mezzo d’uno specchio ciò che
è scritto nelle due stampe che rappresentano la stessa testa, nelle quali ho
imitato esattamente lo scritto originale.
[25] Fra le altre
inesattezze notisi che dove dice nell’originale nella figurata istella, fu trascritto nella figurata istessa, il che non ha senso.
[26] La lettera al duca,
nella quale il Vinci si propone di far meglio de’ suoi concorrenti, contiene
promesse ed offerte di opere da farsi, non già alcun giudizio di opere fatte.
[27] Veggasi il proemio del
libro settimo. Sebbene ivi siano citati varj autori di simmetrie
architettoniche, è probabile che a quelle saranno stati premessi dei canoni di
simmetria umana, dalla quale le architettoniche simmetrie dei Greci
desumevansi, come Vitruvio stesso dimostra coll’autorità e coll’esempio.
[28] In una nota
manoscritta di Leonardo si legge d’un Vitruvio prestatogli o regalatogli da
messer Ottaviano Pallavicino.
[29] Nel curioso libretto
di Giambattista Volpatti, intitolato Il
Vagante Corriero, ecc., stampato a Vicenza per Giovanni Berno nel 1685, in
4.o, si attribuisce al Fialetti l’invenzione d’un triangolo
equilatero per proporzionare la testa in profilo. Collocasi tale triangolo in
modo che l’uno de’ suoi lati rimanga perpendicolare, e quello, diviso in tre
parti eguali, determina le misure del volto secondo la solita divisione eguale
della fronte, del naso, e del rimanente fino al di sotto del mento. L’angolo
poi del triangolo che si volge verso la nuca, determina il luogo dell’orecchia,
la quale, essendo alta quanto la terza parte del volto, forma nel detto luogo
un altro triangolo equilatero, il cui lato è un terzo dell’altezza del lato del
maggior triangolo misuratore del volto. Le altre dimensioni poi date dal
Volpatti nelle due stampe che accompagnano il Vagante Corriero, non hanno nè armonia nè bellezza nè comodo, ed
oltre ciò non sono spiegate, essendo questo libro un annunzio dell’opera; del Volpatti,
non l’opera stessa. Ma, tornando al triangolo, questo del Fialetti è più utile
di quello di Luca Paciolo.
[30] Alberto per suo
costume operava molto di mera fantasia, e mi ricorda di aver visto un suo
piccolo prezioso quadretto, dipinto a chiaroscuro, sotto il quale egli stesso
scrisse in latino, che per esso dava all’imperatore Massimiliano un saggio di
quello ch’ei sapea fare senza avere alcun modello davanti. Quella elegantissima
operetta, rappresentante Cristo che va al Calvario e ricchissima di figure,
superava, sebben fatta a mente, tutte le migliori sue opere note per le stampe.
Non sarebbe perciò da farsi meraviglia ch’egli, salvi i diritti del Foppa,
avesse fatto di fantasia tutto il suo libro delle proporzioni, parte del quale
non può di certo avere altra origine, qual che ne sia l’inventore.
[31] Veggasi il Condivi
alla pagina 43, n.o 3 della prima edizione, che ha tre carte tutte
collo stesso numero 43.
[32] L’Equicola ragiona di
proporzioni, non già nel suo Discorso di Pittura, ma nel suo libro Della Natura di Amore. Il Franco poi ne
parla nel suo Dialogo delle Bellezze.
[33] Questa Lettura del Ruscelli fu stampata in
Venezia per Giovan Griffio l’anno MDLII.
[34] Queste osservazioni io
le ho fatte sulla sesta edizione della Varia
Commensuracion del De Arphe. Le edizioni più antiche avranno forse le
figure migliori. La prima, pubblicata dall’Autore, apparve in Siviglia l’anno
1585.
[35] Traité des Proportions de Jean
Paul Lomazze par Hilaire Pader. Tolouse, 1649, in foglio. Dal
Trattato di Pittura di Bernardo Dupuy du Grez, stampato parimente in Tolosa nel
1699, in 4.o, si comprende a sufficienza che le figure d’Ilario
Pader non avevano niun vanto di grazia. È ben vero che il Dupuy non ragiona
(pag. 162) se non della figura che rappresenta la proporzione di dieci facce;
ma se mancava di grazia questa che è la migliore delle proporzioni, non è da
credere che graziose apparissero le proporzioni tozze o le sveltissime.
Intorno all’epoca del Lomazzo si potrebbero
porre gli studj di proporzione fatti da Girolamo Figino, il quale però sembra
non aver fatto altro se non copiare con poche varietà il canone di Leonardo. Il
poco che si ha di questo Figino (che non so qual relazione avesse col già
citato Ambrogio), si raccoglie da un libretto di Antonio Maria Venusti, il
quale ha per titolo: Discorso generale di
M. Antonio Maria Venusti intorno alla generatione, al nascimento degli uomini,
al breve corso della vita humana, et al tempo. In Milano per Gio. Battista Bidelli. MDCXIV. in 16. Cito questa
edizione come la sola da me veduta; la prima, secondo l’Argelati, è del 1562.
Di questa operetta del Venusti, il cap. XCVIII
è intitolalo Misure e proportioni de’
corpi nostri, e volentieri qui lo riporto per intiero e per la rarità del
libro, e per onore di Girolamo, artefice quasi ignoto se non esistesse di lui
una medaglia col suo ritratto e pochi versi del Lomazzo. Ecco il capitolo:
Qui non
mi pare di tacere alcuni bellissimi secreti circa la misura et alla proportione
del corpo humano: i quali a mesi passati cortesemente mi furono insegnati dal
signor Girolamo Figino, intendente anatomista, miniatore diligentissimo,
pittore eccellentissimo de’ tempi nostri, e nobilissimo non meno per bontà di
costumi e grandezza animo, che per chiarezza di sangue antico: taccio poi i di
lui intagli e getti presso che naturali con le rime ingegnosissime e con molte
altre gran doti a lui dal del concesse: l’unico Figino, dico, sì fattamente il
corpo humano mi discorse: dal nascimento de’ capelli in sino sotto il mento è
la decima parte della longhezza dell’uomo: di sotto il mento alla sommità del
capo è l’ottava: dalla sommità del petto alla cima del capo è la sesta: dalla
cima del petto al nascimento de’ capelli è la settima: dalle poppe alla cima
del capo è la quarta. La maggior lunghezza delle spalle è la quarta: dal
gombito alla punta della mano è la quarta: dal gombito al principio della
spalla è l’ottava: tutta la mano è la decima: il piede è la settima: dal piè al
ginocchio è la quarta: dal ginocchio al nascimento del membro virile è la
quarta: il membro virile nasce nel mezzo del corpo humano: tanta è la lunghezza
di ciascuno da’ piedi alla cima del capo quanta è la distanza dalla sommità de’
più lunghi diti dell’una mano alla cima di quelli dell’altra, tenendosi però le
braccia distese: dal mento al naso, dal naso alle ciglia, dalle ciglia al
nascimento de’ capelli, e dall’occhio all’orecchio sono spatii eguali e grandi
quanto è lungo l’orecchio, e ciascuno de’ predetti spatii è la terza parte del
volto. Il diametro della cintura, la distantia dalle poppe al fianco, dalla
piegatura della mano alla piegatura di dentro al braccio, dalle punte delle
mammelle all’ombilico, dall’una e l’altra estremità delle ultime ossa del
petto, che cingono la gola, dalla cima del petto al nascimento de’ capelli, dal
l’anco al nascimento del membro virile, è la settima parte della lunghezza
dell’uomo: e ciascuna delle predette misure è la metà dello spazio, che è dal
mezzo della barella del ginocchio al fin del calcagno, per tralasciare le altre
moltissime misure e proportioni interiori del corpo umano.
Chiunque pertanto confronterà questa
esposizione con quanto del Vinci abbiamo riportato, la troverà sì analoga alla
maniera sua, che la crederà forse copiata da qualche testo originale del Vinci
stesso, che non sia arrivato sino a noi. Per lo meno la crederà fatta sul
disegno qui riportato, perchè le varie misure da Girolamo notate si riscontrano
in esso assai bene, come ognuno può provare col compasso. E se sembra scostarsi
dal testo di Leonardo nel dire che il piede è la settima, non la sesta parte
dell’altezza dell’uomo, si giudicherà ch’egli osservò più il disegno che lo
scritto, e nello stesso tempo che Leonardo seguì Vitruvio più scrivendo che
disegnando.
[36] Libri di tal sorta
moltissimi potrei citare, specialmente moderni; ma per limitarmi ad un solo
esempio si guardi l’opera inglese di Alessandro Cozens, che preferisco alle
altre pel suo bel titolo, Principj della
Bellezza relativamente alla testa umana, e vi si vedranno occhi, orecchie,
ciglia e bocche non solo ridicole, ma assolutamente impossibili in natura, al
modo come nelle figure di quel libro stanno disegnate.
[37] Quando si volesse
ricorrere a simil genere di elementi, parmi sia da preferirsi l’opinione del
Cangiasio che voleva il cubo per elemento della testa: in fatti da un cubo di
creta o d’altra materia meglio che non da un globo può uno scultore abbozzare
una testa, come la pratica dimostra. Non mancano però autori che commendano la
rotondità del capo, come anche del viso; ma è d’uopo osservare che gli uni
parlano soltanto della sede del cervello; altri parlan soltanto della faccia;
nè mi ricorda aver trovato chi trascuri tal distinzione e lodi una testa
sferica. Però si dice per ischerno testa
tonda a colui che vuolsi ingiuriare siccome sciocco, inetto, ecc. Così
nella lunga descrizione della bellezza di Teodorico re de’ Goti, che leggiamo
in Sidonio Apollinare (Lib. I, epist. 2), fu scritto Capitis apex rotondus, non già il capo tutto rotondo. E ancora
quando leggiamo la parola caput, non
dicesi già sempre intendere tutta la testa, ma soltanto la sede del cervello. E
ciò si prova in un pasao di Macrobio che loda anzi come un distintivo proprio
della razza umana questa rotondità. Solis
humanis corporibus, dic’egli al capo 14 del libro primo del Sogno di
Scipione, inest in capite spherem
similitudo; e aggiunge per provare che intende ragionare solamente del vaso
del cervello, quæ forma sola mentis est capax. E all’istesso modo
Cassiodoro (De anima, cap. 16) dice,
sempre intendendo del cervello, Caput
nostrum sex ossibus compaginatum in similitudinem cælestis spheræ rotunda concavitate
formatum est,
ecc. E ancora queste lodate rotondità non sono rotondità da compasso, nè gli
autori parlano da artefici; e l’artefice che’ facesse un cranio con un circolo,
non imiterebbe certamente la natura la quale dall’infanzia alla vecchiaja diede
tal vario movimento alle ossa del capo umano che rinchiudono il cervello, che
mai con un circolo si potrà con giustezza rappresentarne la forma. D’altra
parte leggesi in Eustazio, o come altri volle Eumazio, descritta la bellezza
d’Ismene (Lib. 3 degli amori d’Ismene e d’Ismenia) in questo strano modo: Tutto il di lei viso era un perfetto
circolo, ed il naso vi stava a centro. Pittorica descrizione in vero, tanto
più se la punta del naso dovea far centro al volto, nel qual caso è difficile
ideare cosa più contraria alla bellezza. Ben altramente debbe intendersi quel
passo di Coluto, nel quale Giove ordina a Mercurio che rechi a Paride il pomo,
e che giudichi sulle tre Dee la congiunzione delle palpebre e le rotondità de’
visi; perchè queste rotondità non sono la circolarità della bella Ismene di
Eustazio, ma quella forma ch’esclude ogni prominenza delle ossa tanto contraria
alla beltà ne’ volti femminili. E in ogni maniera poco soccorso arrecano, mi
sembra, gli autori alla teorica del Rubens; e, sia comunque, povero
quell’artefice che chiederà ajuto al compasso per fare i dintorni d’una testa,
nè il Rubens istesso se n’è servito giammai.
[38] Nel Senofonte di
Wells, vol. 4, pag. 437:
….. æc
exercitia,
dice Socrate, desidero ut mihi non
quemadmodum in stadio currentibus, crura compactiora fiant, humeri tenuiores;
nec pugilum instar humeri crassescant, crura adtenuentur, ecc.
[39] Parole di Michelagnolo
il quale meditava e forse fece un’opera sui moti umani.
[40] Le Veneri
accovacciate, per esempio, sono strette nelle spalle e larghissime ne’ fianchi.
Le Veneri in piedi, come la Capitolina, quella di Arles e la Medicea sono di
mediocre larghezza ne’ fianchi e larghe notabilmente nelle spalle. Sono
debitore di questa osservazione all’onore della scultura italiana, al nostro
Canova.
[41] Forse qualcuno di
questi autori disse teste per facce, come d’altri abbiamo veduto: ma in cose di
tanta importanza è d’uopo esprimersi con precisione.
[42] Ecco la nota del
Codice Atlantico pubblicata dall’Amoretti:
Capitani
fiorentini: Niccolò da Fisa, Pietro Gianpaolo, Neri di Gino Capponi, Conte
Francesco Guelfo Orsino, Bernardetto de’ Medici, Micheletto, M. Rinaldo degli
Albizzi ed altri - Di poi si faccia come lui prima montò a cavallo armato; e
tutto l’esercito gli andò dietro - 4.o squadre di cavalli, 2000
pedoni andavano con lui - Il Patriarca (d’Aquileja Lodovico Scarampi Mezzarota) la mattina di buon’ora montò su un monte per
iscoprire il paese, cioè colli, campi, e valle irrigata da un fiume, e vide dal
borgo a san Sepolcro venire Nicolò Picenino con le genti con gran polvere, e
scopertolo tornò al campo delle sue genti, e parlò loro - Parlato ch’ebbe pregò
Dio a mani giunte, con una nugola dalla quale usciva san Pietro che parlò al
Patriarca - 500 cavalli furono mandati dal Patriarca per impedire o raffrenare
l’impeto nimico. Nella prima schiera Francesco figliuolo di Nicolò Picenino
venne il primo ad investire il ponte ch’era guardato dal Patriarca e fiorentini
- Dopo il ponte a mano sinistra mandò fanti per impedire i nostri i quali
ripugnavano, de’ quali era capo Micheletto, che quel dì per sorte aveva in
guardia lo esercito. A questo ponte si fa una gran pugna. Vi sono i nostri, e
l’inimico è scacciato. Quì Guido e Astorre suo fratello signore di Faenza con
molte genti si rifecciono, e ristorarono la guerra, e urtarono tanto forte le
genti fiorentine che ricuperarono il ponte, e vennero sino ai padiglioni,
contro i quali venne Simonetto con 600 cavalli ad urtare gli inimici, e li
cacciò un’altra volta dal luogo, e riacquistarono il ponte, e dietro a lui
venne altra gente con 2000 cavalli: e così lungo tempo si combattè variamente.
Di poi il Patriarca, per disordinare l’inimico, mandò Niccolò da Pisa innanzi e
Napoleone Orsino, giovane senza barba, e dietro a costoro gran moltitudine di
gente, e quì fu fatto un’altro gran fatto d’armi. In questo tempo Niccolò
Picenino spinse innanzi il restante delle sue genti, le quali feciono un’altra
volta inclinare i nostri, e se non fosse stato che il Patriarca si mise
innanzi, e con parole e fatti non avesse ritenuto que’ capitani sarebbono iti i
nostri in fuga. Fece il Patriarca piantare alcune artiglierie al colle, colle
quali sbaragliava le fanterie de’ nemici; e questo disordine fu tale che
Niccolò cominciò a rivocare il figliuolo, e le altre genti, e si misero in fuga
verso il borgo; e quì si fece una grande strage d’uomini, nè si salvarono se
non i primi che fuggirono o si nascosero. Durò il fatto d’arme fino al
tramontar del sole, e ’l Patriarca attese a ritirare le genti, e seppellire i
morti, e ne fece un trofeo.
[43] In un piccolo schizzo
originale ch’io tengo di questa opera, vedesi indicato il fatto d’arme al
ponte, di che non trovasi vestigio nella stampa dell’Etruria Pittrice, nè in
quella dell’Edilink.
[44] Da ciò che Leonardo ci
lasciò scritto, se questa ipotesi fosse ricevuta, quel primo, che volto in fuga
si sforza invano di tener la bandiera, potrebb’esser Francesco Piccinino. Il
principale suo avversario, che quasi glie l’ha tolta di mano, dovrebb’essere
Micheletto. L’altro che sopraggiunge e soccorre il Piccinino, può essere
Astorre, signore di Faenza, il quale ristorò per poco la guerra. E quegli in fine
che rende vano il soccorso di Astorre, può essere Simonetto o Nicolò da Pisa.
[45] Il porre la Vergine in
grembo a Sant’Anna non era un’ardita novità, che, come tale, sarebbe stata da
alcuni forse disapprovata. Masaccio ne aveva già dato l’esempio, e non sarà
stato solo degli antecessori di Leonardo, dopo il quale da varj fu seguita
questa invenzione, come dal Sansovino, per testimonio del Vasari, e da Baccio
Bandinelli, di cui con atto simile ho veduto un disegno presso il signor Marco
Cigalini. Leonardo è annoverato dal Vasari fra coloro che studiarono le opere
di Masaccio.
[46] Nel Libro de’ Fasti del Casio, in cui sono Le Vite de’ Santi et ciascuna in un sonetto,
leggesi il seguente a pag. 70:
Per S.
Anna che dipinse L. Vinci, che tenea la M. in brazzo, che non volea il figlio
scendessi sopra un Agnello.
Ecce
Agnus Dei, disse Giovanni
Che entrò e uscì nel ventre di Maria
Sol per drizzar con la sua santa via
E nostri piedi a gli celesti scanni.
De
immaculato Agnel vuol tuore e panni
Per far al mondo di se beccaria
La madre lo ritien che non voria
Veder del figlio e di se stessa i danni.
Santa
Anna come quella che sapeva
Giesù vestir de lhuman nostro velo
Per cancellar il fal di Adam e di Eva.
Dice a
sua figlia con pietoso zelo
Di retirarlo il pensier tuo ne lieva,
Che gli è ordinato il suo immolar dal Cielo.
La barbara frase del sesto verso di questo
sonetto leggesi anche nelle Stanze dello
Sparpaglia del Doni. Vedi stanza
44.
Corpo
dell’anguinaglia che vuoi fare?
Vuoi tu
far del mio corpo beccheria?
[47] Di Bernardino veggasi
una lunetta a fresco nel convento de’ Francescani di Lugano; di Aurelio un
quadro nella galleria Melzi colla data del 1570; di Gaudenzio una tavola in
Novara. Di Leonardo stesso poi può vedersi l’abbozzo della galleria
arcivescovile.
[48] Questa bell’opera fu
di recente acquistata da S. A. I. il Vicerè d’Italia, e l’ha aggiunta ad altre
preziose opere di cui va continuamente adornando la sua villa in Milano. Il
sig. Giuseppe Benaglia si prepara ad inciderla, e ne sta facendo il disegno.
[49] Veggansi intorno a tal
soggetto il Tiraboschi, il Napione, il Ferguson, ecc.
[50] Veggasi il Vasari in
fine della vita di fra Filippo. Notisi ivi a confronto del modesto epitaffio di
Leonardo l’ampolloso epigramma che pel frate fu composto dal Poliziano, il
quale con poco giudizio, parlando per sua bocca, gli fe’ dire lodi smisurate di
se stesso, il che, oltre l’essere inverisimile, non s’ode volentieri nè da’
vivi nè da’ morti.
[51] Un testimonio del modo
di studiare non solo, ma anche d’insegnare di Leonardo, che tutto escludeva ciò
che non fosse naturale, l’abbiamo, tra altri più noti, da Paolo Giovio in que’
frammenti pubblicati dal Tiraboschi. Parlandosi ivi dello studiare le lettere, Adhibenda est, dice, cura cupidis et alacribus ingeniis ne ut
implumes aviculæ non plane siccatis
alis festinantius provolent, sicuti in dispari, sed non omnino dissimili
facultate, carioribus discipulis præcipere erat solitus
Leonardus Vincius, qui picturam ætate nostra veterurn
ejus artis arcana solutissime detegendo, ad amplissimam dignitatem provexit:
illis namque intra vigesimum, ut diximus, ætatis annum penicillis
et coloribus peritus interdicebat, quum juberet ut plumbeo graphio tantum
vacarent priscorum operum egregia monumenta diligenter excerpendo, et
simplicissimis tractibus imitando Naturæ vim, et corprum
lineamenta, quæ sub tanta motuum
varietate oculis nostris efferantur: quin etiam volebat, ut humana cadavera
dissecarent, ut tororum atque ossium flexus et origines, et cordarum adjumenta
considerate perspicerent, quihus de rebus ipse subtilissimum volumen adjectis
singulorum artuum picturis confecerat, NE quid præter naturam in officina sua pingeretur. Scilicet ut non
prius avida juvenum ingenia penicillorum illecebris et colorum amænitate traherentur, quam ab exercitatione longe
fructuosissime commensuratas rerum effigies recte et procul ab exeniplaribus
exprimere didicissent.
Al qual passo si può aggiugnere lungo commento, e fa sempre più meraviglia che
il Giovio, dopo avere descritto sì bene ed approvato il modo d’insegnare di
Leonardo, dica poi tanto male de’ suoi discepoli alla fine della vita che
vedemmo nel primo libro.
[52] Bramante, al pari di
Michelagnolo e d’altri rinomati artefici, fu studioso assai delle opere di
Dante. Il suo allievo Gaspare Visconte lo chiama sviscerato partigiano di quel
poeta. Veggasi il foglio 43 della Raccolta
milanese.
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