martedì 16 settembre 2014

1810 - BOSSI, Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, libro quarto



DEL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI.
 LIBRO QUARTO.


DEL TEMPO IMPIEGATO DA LEONARDO NEL CENACOLO.

Zeusi, udendo un giorno Agatarchide che gloriavasi di dipingere presto, Ed io mi glorio, rispose, di dipingere adagio, e mi sto lungamente attorno alle mie opere, desideroso di farle lungamente vivere. Non altramente la pensava Leonardo; anzi portava tale opinione all’eccesso, timido e lentissimo com’era nell’intraprendere i lavori, e non sapendone tor la mano da poi. Gli artefici di altissimo ingegno, stimolati da continuo desiderio di un ottimo che forse all’uomo non è dato di ottenere, non sogliono esser contenti del buono, e tormentando le opere e il proprio cervello, consumano gran tempo in considerazioni ed esperimenti, nè si curano di far molto, solo avendo in vista il far quel meglio che hanno in idea. Tutta la storia pittorica ci assicura che tale fu Leonardo, nè pare che, se si eccettui la novella del priore, mai fosse affrettato nelle opere da chi aveva autorità sopra di lui.
Apertissimo contrassegno d’imperizia, secondo la bella sentenza di Varrone, è l’esigere che si faccia presto ciò che a farsi è difficilissimo. Lodovico il Moro non amava già ciecamente le cose delle arti: al contrario, per testimonio del Paciolo, del Vasari e d’altri, ei n’era intendentissimo: quindi non è probabile ch’egli esigesse prontamente eseguita un’opera di tanta importanza e difficoltà, come questa del Cenacolo; e tanto meno è da credere ch’ei fosse per affrettare un artefice qual era Leonardo, cui egli aveva d’altra parte affidate tante e diverse considerabili opere d’ogni genere, e sopra tutto il gran colosso equestre del duca Francesco, suo padre. Se a ciò si aggiunge il lento metodo dell’autore, la grandezza notabile dell’opera, la ricchezza e finitezza di ogni menoma parte, e la insaziabilità di Leonardo in rinnovar ricerche ed investigar sempre nuove perfezioni, è facile il congetturare che il Cenacolo fosse fatica di molti anni.
Il Vasari asserisce apertamente che il cavallo colossale fu dal Vinci proposto al duca, mentre già stava lavorando al Cenacolo; e al modo con cui parla di tal opera, prova egli stesso di quanto sbagliasse (se pure non isbagliò l’impressore) assegnando la venuta del Vinci in Milano nel 1494. Sedici anni d’altronde ci assicura il Sabbà da Castiglione essere stati impiegati da Leonardo in condurre quel celebre ed infelice modello il quale all’arrivo di Lodovico XII fu, come vedemmo, bersaglio alle balestre de’ Guasconi, ed andò in polvere. In qual tempo tal modello fosse condotto al suo fine, non è noto con precisione, ma è certo che fu fatto due volte. In una lettera di Platino Piatto, scritta da Garlasco nel 1489,[1] leggesi che questo oratore e poeta fu richiesto da Leonardo di un epigramma da porre sotto la statua equestre di Francesco. Dalla stessa lettera si deduce che a molti altri letterati era stata fatta la medesima domanda. Dunque se Leonardo già chiedeva epigrammi ed iscrizioni pel suo monumento, è chiaro che il monumento era condotto a segno da potersi mostrare, e che come modello era assolutamente finito. Sembra anche che sia stato pubblicamente esposto in quello stesso anno 1489 in occasione delle nozze di Giovanni Galeazzo,[2] che furon ricche e grandi, e per le quali fu dal Vinci eseguita la macchina cui chiamò Paradiso, fatta ad imitazione di quelle che facevansi a Firenze, delle quali si legge nelle Vite del Cecca e d’altri. Ma poco dopo, fosse effetto di qualche sinistro accidente non raro alle grandi opere di rilievo, fosse rovina cagionata dalla trasportazione che se ne dovette fare per la indicata festa, fosse in fine mala soddisfazione dell’autore, questo primo modello disparve, e Leonardo stesso nel codice De lumine et umbra scrisse di suo pugno: A dì 23 d’aprile 1490 cominciai questo libro e ricominciai il cavallo.[3]
Il Paciolo poi circa otto anni dopo ne parla di nuovo come di cosa perfetta, e dice che la sua enea massa era di 300,000 libbre, con che fe’ credere che fosse già gettato in bronzo.[4] Intorno dunque al finir del secolo dee porsi finito il secondo modello, e i sedici anni devono comprendere ambedue le fatture. Da ciò parrebbe che questo colosso fosse stato cominciato tra il 1483 e il 1484, e se il Cenacolo era già prima intrapreso, come vediamo dal Vasari, si può giudicare che Leonardo ne avesse commissione allorchè il Moro fe’ allungare il refettorio, che fu nel 1481, come si notò altrove, e forse fe’ tale accrescimento di bellezza e di comodo al luogo, avendo intenzione di farne campo ad un opera importante del suo pittore. Da ciò si verrebbe ad indurre che Leonardo desse al Cenacolo circa sedici anni; nè in opera di tredici figure maggiori del vero sarebbe ciò meraviglia per lui che altrettanti ne diede al colosso, cui però facea contemporaneamente, e che quattro ne diede al solo ritratto di monna Lisa in mezza figura grande al naturale. Se si aggiungerà poi che in quell’intervallo di circa tre lustri, oltre al colosso di Francesco, egli ebbe la direzione di varie splendidissime feste ordinate da Lodovico in più occasioni, e che richiedevano le cure e l’opera di più mesi; e se si osserverà che dello stesso tempo egli condusse grandi opere idrauliche, compose molti trattati, diresse l’istruzione nella nuova accademia, inventò macchine d’ogni genere, e fece infiniti altri studj d’ogni maniera, lungi dal meravigliarci perchè in sedici anni abbia condotta quest’opera, quasi ci farem meraviglia come in mezzo a sì diverse e tutte gravissime occupazioni gli rimanesse agio e tempo di dipingere.
Contrasterebbe però alla mia opinione circa il tempo dato da Leonardo al Cenacolo, una nota che nell’antica stampa lesse e citò nel suo libro il padre Pino, la quale dice dipinto il Cenacolo nel 1496 e 1497. Ma quell’iscrizione manoscritta d’ignota mano e forse moderna non può fare autorità alcuna.[5] Nè maggior peso hanno le ragioni del Bianconi. Egli dice che Leonardo cominciò il suo Cenacolo dopo che Giandonato Montorfano finì la Crocifissione che gli si vede dicontro, il che fu nel 1496 come dimostra la data sottopostavi; e s’indusse a tale credenza solo perchè la parete che toccò al Montorfano, gli parve la più nobile; e però giudicò che Leonardo, qualora fosse stato messo al suo lavoro prima di lui, non avrebbe lasciato di preferirla. Giudizio mal fondato; primieramente perchè il Montorfano potea lavorare alla sua opera da molti anni, e l’iscrizione indica, come si suole, l’anno in cui l’opera fu finita; in secondo luogo perchè la parete del Montorfano è per l’appunto la peggiore, poichè non solo ha le finestre lontane e di luce men diretta che non la parete opposta, ma ha di più il lume a sinistra, il che ogni pittore sa quanto sia incomodo, facendosi ombra da sè stesso nell’operare.
E a provare che Leonardo fu primo a dipingere nel refettorio, basterebbe l’argomento da lui scelto, suggerito evidentemente dalla natura del luogo; argomento in cui sarebbe stato prevenuto, se altri prima di lui avesse avuto l’incarico di dipingervi. E perchè l’ultima cena, come dice più d’una volta il Paciolo, fors’anche secondo la mente di Leonardo, è simolacro dell’ardente desiderio che Cristo ebbe dell’umana salute sacrificandosi, venne naturalmente in appresso il pensiero di rappresentare il suo sacrifizio sul Calvario, di che il Montorfano ebbe l’incarico.
In oltre della incontentabilità del nostro pittore in cercare miglioranienti e perfezioni, senza ciò che risulta dall’osservare i suoi dipinti e i suoi disegni, e senza quello che ne fu detto da tanti scrittori che vissero poco dopo di lui, come il Vasari, il Lomazzo ed altri, abbiamo anche un testimonio del suo tempo in Ugolino Verino, il quale disposto, com’era, a dargli corona su gli altri artefici, se di tal pecca si fosse potuto difendere, non l’avrebbe distintamente accusato di lentezza in operare, quando egli avesse in breve spazio di tempo condotto un quadro di tanta mole e momento qual è il Cenacolo. Nè lo scusa abbastanza col paragonarlo a Protogene, come fe’ più d’una volta il Lomazzo da poi,[6] perchè di Protogene si dice bensì che non sapesse torre le mani dall’opere sue, ma eccetto il Gialiso cui diede gran tempo, tutte le altre sue tavole pare le conducesse assai speditamente, poichè, lasciando i bronzi cui pure attese, si è conservata fino a noi la memoria d’un numero grande di sue pitture, il che non si può dire di Leonardo, sebbene di tanti secoli a noi più vicino.
Dietro tali osservazioni assicurati da sincrona autorità che sedici anni diede il Vinci al modello del colosso, e ch’era in molte altre opere importanti occupato a tal segno che ove minore fosse stata l’attività del suo ingegno, l’avrebber tolto interamente al modellare e al dipingere, non ci può parer lungo il corso di sedici anni onde condurre un’opera qual è il Cenacolo. Gli annali pittorici ci portano non rari esempj di simili lentezze anche in artefici che non avevano il metodo nè le gravi occupazioni di Leonardo. Lo stesso Tiziano, sì rapido e perfetto nel colorire, stette per ben sett’anni intorno ad argomento per l’appunto simile a quello che trattò il Vinci, e fece il mirabile quadro che ancora si conserva nell’Escuriale, su di che si possono vedere il Ridolfi, il Palomino ed altri. Con un periodo poi quale l’indicato di sedici anni si fa luogo comodamente al governo biennale di qualche ignorante e bisberico priore anteriore al padre Bandello, con che si toglierebbe la controversia intorno alla nota novella circa la testa di Giuda. Si fa altresì luogo a tutti gli studj ed alle molte cure contemporanee dell’autore. Si concorda a quel suo precetto, con che vuole che di quando in quando si lascino le opere, perchè, com’egli si esprime, lo star saldo nell’opera ti fa forte ingannare.[7] Si conferma finalmente la fama della sua eccessiva lentezza, e il metodo da lui in altre opere praticato e ne’ suoi scritti inculcato, quello, cioè, di cercare in esse tutte quelle perfezioni al cui conseguimento possano contribuire l’ingegno, il giudizio, la mano ed il tempo.
  
COME SIA DIPINTO IL CENACOLO.

Leonardo che, ad onta di quanto in contrario scrisse il Requeno, fu uno dei più zelanti seguaci del metodo nuovo al suo tempo di dipingere a olio, lo preferì ad ogni altro nella sua più grande opera, come il solo adatto a condurla a quel grado di squisita perfezione ch’ei giunse a conseguire. Egli ebbe anzi il primato fra coloro che primi si diedero a quella miglior maniera di colorire, e ne è prova il secondo distico dell’epitaffio latino riportato dal Vasari nella prima edizione delle sue Vite:
Perspicuas picturæ umbras, oleoque colores
Illius ante alios docta manus posuit.
E quantunque in questi versi non si faccia menzione del Cenacolo, egli è chiaro che Leonardo doveva impiegare in questa sua maggior opera quel metodo che meglio possedeva, e in cui anche dagli altri era tenuto più eccellente. A olio pertanto dicono, come è in fatti, il Cenacolo i più gravi autori citati nel primo libro, e lo conferma, qual ch’ella sia, l’iscrizione dell’antica stampa riportata dal Pino. A olio parimente lo fa giudicare il Bandello che vedeva il pittore venir talora in fretta dalla corte vecchia che è il presente Castello, per dare due o tre pennellate a qualche figura, indi andarsene altrove: le quali correzioni o aggiunte che a Leonardo venivano in mente d’improvviso, mentre attendeva ad altro, non avrebbe egli potuto effettuare senza guasto della pittura, in qualunque altro metodo di dipingere che ad olio non fosse.
Ma, sebbene presso nessun autore si leggesse essere il Cenacolo dipinto ad olio, sarebbe facile il riconoscerlo così dipinto in quelle poche croste che antiche si scorgono nell’opera. Appare bensì ch’egli usò, come solea, olj purgatissimi e dimagrati assai con carte ed altre industrie;[8] col quale dimagramento, allorquando si procede tropp’oltre, l’olio ottiene, a dir vero, una limpidezza maggiore e non ingiallisce, ma perde assai della sua consistenza e non dà ai colori quel corpo sì resistente all’atmosfera che suole avere quando s’impiega meno assottigliato. Ci assicura di tale diligenza non solo la storia, dalla quale sappiamo per sino che queste sue troppe cautele dispiacquero a papa Leone, ma la chiarezza che tuttavia conserva la sola parte del dipinto che non fu interamente ricoperta, cioè porzione del cielo che ancora sembra risplendere. E questa chiarezza certo pare dovuta all’assottigliamento degli olj, poichè leggiamo nel Vasari che i dipinti di Lorenzo di Credi, che anch’egli al par di Leonardo fu accuratissimo raffinatore d’olj e vernici, non avevano sofferto al suo tempo il menomo cambiamento di colore; come in vece vediamo tutto giorno dare in giallo o in livido que’ dipinti ne’ quali, specialmente per gli olj, non furono usate le debite diligenze.
Il dipingere pertanto i muri ad olio esige una particolare preparazione. Quella con cui Leonardo dispose la sua parete, è un composto di pece, di mastice, di gesso e di qualche altra mistura, disteso a ferro caldo sull’arricciato; metodo probabilmente inventato da lui e usato in appresso da Sebastiano dal Piombo, cui se ne attribuisce l’invenzione dal Postillatore delle edizioni bolognesi del Vasari. Ho scoperto essersi da lui usata questa mistura, col prendere in un angolo estremo del dipinto un pezzetto d’intonaco ed ammnollirlo ad un carbone acceso ed arderne la polvere: col quale esperimento si può aggiungere sicurezza circa il modo del dipinto, non ricevendosi bene se non l’olio da sì fatte preparazioni. Oltre a questo strato di mistura, con cui credette Leonardo allontanare ogni futuro pericolo che il nitro o altra malizia del muro penetrasse ed offendesse l’opera esternamente, si scorge un’altra base del dipinto, o sia una mestica chiara, forse composta come il Vasari ci accerta essersi usata, di biacche, giallolini, terre di campane e simili, che miste insieme con olj e forse con vernici, fecero un bello ma non durevole letto alla più singolare industria che l’arte vantasse. Io tengo certo che i primi primi danni di quest’opera provenissero dallo screpolamento di questa imprimitura, la quale disseccandosi troppo fortemente allorchè cominciò a mancarle il nutrimento oleoso del dipinto che la mantenca molle e distesa, principiò a staccarsi come avviene di molte gomme, e contraendosi alquanto fece ben presto un corpo non più aderente alla sottoposta preparazione; e dove più forte fu la screpolatura e la contrazione, le croste si staccarono e caddero, e l’umido interno cominciò a scaturire più abbondantemente e ne produsse il primo ammuffimento. Se ciò però non fosse avvenuto, il cattivo muro e mille altri malanni interni ed esterni avrebbero resa inutile ogni avvertenza e l’opera sarebbe ad ogni modo perita, come proseguendo dichiarerò più estesamente.
Abbiamo veduto nel primo libro asserirsi da taluni che questa pittura fosse a fresco, e questo pregiudizio fatto pubblico da libri che comunque cattivi, furono assai più letti che molti buoni, si è sparso a segno che nacque sovente intorno a ciò quistione. Ma i De Brosses, i Cochin, i La Condamine, i La Lande e simili, quando non ripeteano qualche buon giudizio altrui, soleano per lo più in pittura bestemmiare, come provano ampiamente i loro libri, e come avviene ed avverrà mai sempre a chi ragiona di cose non sapute. Altri buonamente dissero a fresco il Cenacolo perchè lo videro o il seppero dipinto sul muro, non credendo che sui muri altrimenti che a fresco si possa dipingere. Altri in fine copiarono ciò ch’era stato scritto senz’altro esame, e così hanno fatto alcuni autori francesi moderni copiando i lor più antichi, e, ciò che è peggio, così è stato fatto recentemente da qualche scrittore italiano, anzi lombardo. Ma questa asserzione non uscì di bocca ad alcuna persona pratica di pittura e tale da fare autorità; nè mai persona dell’arte ne mosse quistione; e chi non è dell’arte, non ne può ragionare che male, come dimostrò il padre Pino il quale, quantunque decidesse bene, trattò la cosa assai male pei modi e pei ragionamenti.
Nè mancò ancora chi credette tutta l’opera dipinta a tempera, perchè fra i tanti ritocchi che ne affrettarono la rovina, si trovano qua e là de’ ritocchi a tempera non so di qual mano. Nessuno però ch’io sappia osò esporre tale asserzione in pubblico scritto, e lo stesso Requeno ne’ suoi Saggi non parlò distintamente del Cenacolo, allorchè trattando del modo di dipingere di Leonardo, asserì preferirsi da lui la tempera all’olio.
Ma chiunque conosce alquanto la storia e il modo di studiare di Leonardo, non ha bisogno d’altro per sapere di qual genere de’ molti praticati dall’arte fu l’opera sua principale. Sa in oltre ch’egli non diedesi a dipingere a fresco, perchè un tal metodo non ammette correzioni ed esige una sollecitudine dalla quale ei non osò sperare quella perfezione a cui la sua mente aspirava. Quel pittore che non dubita, poco acquista, solea dire e scrisse Leonardo, e con tal assioma non è meraviglia s’egli diessi esclusivamente a colorire a olio, modo che più d’ogni altro permette di dubitare, di correggere e di acquistare nell’arte. Egli sempre diffidava di sè, e ad onta del suo molto sapere, l’opinione che dell’arte egli aveva, era tale che non fu mai certo dell’ubbidienza della mano all’intelletto: e però ogni metodo rapido doveva di necessità disgustarlo. Molti altri grandi maestri di quel tempo erano della sua opinione e temeano il dipingere a fresco per le dette ragioni. Il fiero Michelagnolo, finchè gli giovò il vigore d’un’ardita gioventù, la pensò diversamente, e la rapidità del metodo anzi che atterrirlo, aggiunse vita e nerbo alle mirabili produzioni del suo pennello. Pare a quel tempo che un certo divino furore il facesse dimentico dell’umanità, e si direbbe che anch’egli, come Dio, colla mente sola, senz’altro artifizio ordinasse e desse in un attimo il volo, il moto, il rilievo alle sue figure della Sistina. In oltre quegli argomenti ideali tratti dal Genesi non richiedevano quella individualità che negli argomenti storici dimanda la perfetta pittura, ed erano molti i modi in cui le sue figure poteano star bene, non determinando per loro natura un preciso confine di forme e d’espressione. Oltre ciò, egli ebbe anche stimoli fortissimi ad affrettar l’opera dalla veemenza irrequieta di papa Giulio e dalle potenti inimicizie di Bramante e del Sangallo. Chè in vece, allorquando in età più matura attese al mirabile Giudizio, opera che parea richiedere maggiori considerazioni, trovandosi fuori delle dette angustie di comandata sollecitudine e di vigile rivalità, se temette di parer minore di sè accondiscendendo a fra Bastiano che voleva il dipingesse a olio, e che per ciò aveagli di già disposta la parete, tenne anche a fresco un tal metodo che ben a quello dell’olio si assomiglia, e condusse quell’opera penandovi molti e molti anni. E quantunque andasse reiterando studj, preparativi, meditazioni, cangiamenti, riposi, come nelle lente opere fatte ad olio dai più diligenti si pratica, rimanea non pertanto sempre mal soddisfatto delle cose sue, chiamando beato il Bugiardini che trovava perfette le proprie opere, e sè infelice che non avea mezzi di rispondere colle opere alle idee. Snnilmente Raffaello, dopo aver dipinte le camere vaticane, desideroso di porre maggior perfezione nella sala di Costantino, cominciolla ad olio, e quelle pareti vantano ancora, abbastanza ben conservate e dipinte ad olio, le due figure della Mansuetudine e della Giustizia, e fors’anche la testa di san Silvestro, accanto ai quali dipinti appajono aspri i freschi di Giulio Romano, sebbene dallo stesso Raffaello composti e in gran parte disegnati.[9] Fra Bastiano allo stesso modo dipinse ad olio il Cristo battuto in San Pietro a Montorio, che fino al 1568 pareva, secondo il Vasari, dipinto da un giorno. Il Vasari stesso dice nella propria vita di aver fatto felice esperimento nel riunire insieme i due metodi di pittura a olio ed a fresco. Così pure Perino, perfettissimo pratico nel colorire a fresco, volle fare a olio la sua grande istoria del naufragio di Enea in casa Doria. E lo stesso fecero il Pontormo, Adone Doni ed altri molti tutti esperti del fresco; e circa un secolo dopo, ad onta del noto deperimento di molti lavori di tal genere ed in ispecie del più famoso di tutti, il nostro Cenacolo, i Caracci e i migliori della loro scuola, tutti egregi frescanti, non temettero di esporre all’intemperie dell’atmosfera ne’ portici di San Michele in Bosco le migliori cose che forse uscirono dai loro pennelli.
Nè perchè giudicai potersi attribuire a Leonardo l’invenzione d’un nuovo modo di preparare gli arrirciati, gli si debbe attribuire l’invenzione di dipingere a olio sulle pareti. Egli forse non avrebbe osato affidare la sua opera ad una pratica nuova, se non ne avesse già avuto buona esperienza. Prima di lui Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e i due Pollajuoli aveano già dipinte molte pareti con buon successo. Chè se generalmente simili dipinti soleano sofferire annerimento, probabilmente non ne aveano dato ancor segno all’epoca che Leonardo intraprese il Cenacolo; e se egli n’ebbe indizio o sospetto, credè provvedere a tal danno non facendo uso degli olj bolliti che si soleano dare replicatamente sugl’intonachi, e mettendo in opera in vece la sua nuova mistura o impiegandovi soltanto olj crudi e purgati. In somma all’epoca di Leonardo si conosceva tutto il comodo e il bello di questo metodo, e niuno ne temeva il pericolo, sul quale però anche in questi tempi si esagera da molti; perchè finalmente anche i dipinti a fresco periscono presto ove le pareti sono infette di nitro e di umido, e lo Scannelli, dopo tanto lagnarsi della rovina dell’opera di Leonardo incolpandone il metodo con cui fu dipinta, dice lo stesso della cupola a fresco del Correggio, con evidente contraddizione.
Dalle ragioni e dagli esempj varj che qui mi piacque accennare, vedrà, spero, il lettore non potersi, se non a torto, incolpare Leonardo circa la scelta del suo metodo. Se il suo Cenacolo fosse stato dipinto sopra una parete asciutta e sana, e non avesse avuto tant’altre disgrazie, si vedrebbe tuttavia conservatissimo, come, senza dir d’altri, si vedono in Vaticano le citate figure della Giustizia e della Mansuetudine di mano di Raffaello.
  
VICENDE DEL CENACOLO.

Accennato il modo con cui il Cenacolo fu dipinto, dirò ora la serie delle sue sventure. Primieramente parmi non dover lasciare senza ricordo la spaventosa inondazione che afflisse la Lombardia l’anno che precedette la venuta di Carlo VIII in Italia. Vedemmo nel 1800 solo per grandi piogge allagarsi le porzioni basse della città ed in ispecie i contorni delle Grazie e il refettorio stesso del convento, dove l’acqua alta più di tre palmi stagnò lungamente, e non v’ebbe esito se non per evaporazione, per imbevimento del suolo, e cedendo a poco a poco col disseccarsi del luogo esternamente. Dunque è da credere che la pioggia tempestosa e continua che fe’ straripare tutti i fiumi dell’Italia superiore, e che è descritta dallo storico Bugati come un prodigio che annunziava prossima l’inondazione militare de’ Francesi, non facesse danno minore mentre Leonardo dipingeva il Cenacolo. E sebbene i frati che in allora abitavano il convento avranno più prontamente posto riparo a tanto disastro, non è possibile che giungessero ad impedirlo del tutto; poichè se la situazione del convento è di già notabilmente bassa, il piano poi del refettorio è inferiore a quello dei vicini cortili ed anche de’ terreni che il convento stesso circondano. Quindi io credo che fino da quella lontana epoca la parete del Cenacolo abbia contratta una maligna umidità, alla quale avrà contribuito la cattiva natura e struttura della parete stessa. Imperocchè tutto il convento fu fabbricato assai male, e sembra che i primi fondatori di esso non amassero quel lusso a cui pare che Lodovico il Moro li volesse in appresso quasi costringere. Guardinsi in fatti gli antichi cortili, e si vedranno misere e mal lavorate colonne, archi grandi misti a piccioli, mattoni ineguali e tristi, e materiali in fine di vecchie demolizioni. Dal vedere anzi tali materiali impiegati ne’ luoghi esterni, sospetto che di peggio per povertà si sia fatto ne’ muri interni che si dovevano intonacare di calce; e se di vecchi mattoni già nitrosi fu costruita la infelice parete del Cenacolo, essa assai più che le altre avrà assorbito l’umido della detta inondazione.
Accrebbe anche la infedeltà del muro la sua posizione esterna a tramontana, l’aver prossima la cucina e l’esservi annesso un luogo da riporre le vivande fumanti e da lavare. Con sì miseri principi e coll’apparato dell’intonaco che già abbiamo descritto, non è da farsi stupore se si presto cominciò ad annebbiarsi il Cenacolo, privo, com’era, del giuoco salubre dell’aria e quotidianamente profumato dal vapore delle minestre e dagli effluvj d’una cucina destinata a pascere una numerosa comunità.
Pochi lustri dopo finita questa pittura una peste terribile afflisse la nostra città, e al tempo di sì fatti disastri nulla è la cura de’ pubblici monumenti, pensandosi per ciascuno alla propria salute. E facile il credere che poco ai domenicani importasse la pittura del lor refettorio, forse a quel tempo abbandonato del tutto. Ciò che fu cagionato dalla peste, fu parimente da poi cagionato dalla guerra e da mille altre disgrazie che desolarono la Lombardia nella prima metà del secolo decimosesto. Lasciata quest’opera in abbandono tanti anni senza riguardi o cautele, la notata pessima natura del muro, congiunta a qualche vizio nella preparazione del dipinto o nel dipinto stesso, ne affrettò la perdita prima che il riparo vi potesse esser utile.
Intorno pertanto alla metà del secolo si dee porre, come nel primo libro abbiamo osservato, il passo dell’Armenini che dice il Cenacolo mezzo guasto. Non molto dopo si può tenere scritto il passo del Lomazzo che accenna essersi staccate dai muri, pel troppo assottigliamento degli olj e per la cattiva imprimitura, le due famose pitture di Leonardo, la Cena delle Grazie e la Battaglia della Sala del Consiglio di Firenze. Nel 1566 il Vasari non vide nel Cenacolo se non una macchia abbagliata. Finalmente era ormai scorso più d’un secolo di guai per la infelice pittura di Leonardo e di vane lamentazioni de’ buoni artefici per la sua decadenza anzi rovina, quando la pietà del cardinale Federico Borromeo le apportò quell’unico soccorso che l’arte potea somministrare, col farne fare, come già vedemmo, una copia lucidata e graticolata da accurato pittore.[10]
In quale stato fosse a quest’epoca il Cenacolo, il possiam leggere descritto dallo stesso Borromeo.[11] Gli autori posteriori seguitano a compiangerlo come cosa perduta. Bartolommeo da Siena dice che appena e male al suo tempo poteva vedersi. Lo Scannelli lo dice inutile del tutto. Lo stesso più o meno in varj tempi dicono gli altri scrittori del secolo decimosettimo.
Intanto il danno andava aumentando, e per portarlo al colmo, i domenicani, mal contenti di entrare in refettorio per una porta bassa alquanto e stretta sulla quale stava il Cenacolo, e volendo un più maestoso ingresso in luogo di tanta importanza, tagliarono, senza pietà nè di Cristo nè del pittore, le gambe di alcuni apostoli e di Cristo medesimo, in ciò più crudeli degli Ebrei che pure a Cristo non osarono rompere le gambe, tocchi dalla sua tanta maestà e bellezza. La porta fu fatta grande più del bisogno, e maggiore d’assai fu certamente la rottura della parete onde costruirvi la volta. A quest’epoca d’infame memoria, posta dal Pino intorno all’anno 1652, comincia la vera totale rovina dell’opera. La costruzione della porta occasionò i primi ritocchi, e l’urto dei martelli nel muro dovette fare staccare gran parte delle croste del dipinto già cadenti fin dal tempo del cardinal Federico. Al guasto della porta si aggiunse in appresso quello d’inchiodare alla parete le armi imperiali tanto grandi che, per testimonio del Richardson, toccavano quasi la testa del Redentore.
A questo tempo dovettero nascere i varj progetti onde risarcire l’avanzo di sì grand’opera; e al 1726 fu finalmente presa dai frati la fatale determinazione di concederla all’arbitrio di Michelagnolo Bellotti,[12] pittore povero d’arte, quindi ricco al solito di presunzione. Questi vantava, come sogliono i ciurmadori, un suo singolare segreto, col quale avrebbe richiamato da morte a vita l’incadaverita pittura. Ne fece un piccolo esperimento, e chi sa come ingannò la facile inesperta credulità de’ frati! indi avuta l’opera in sua balia, la chiuse con un assito, e ridipintala da capo a piedi, dopo molto tempo la scoperse e fece meravigliare i frati ignoranti della potenza del suo segreto. Per giunta a tanta impudenza lasciò ai frati stessi il segreto che sarà stato probabilmente una delle solite vernici con cui si rinfrescano i quadri. Intanto la pittura vera di Leonardo era estinta del tutto: la sola porzione che non è stata coperta interamente, fu il cielo che il ritoccatore rispettò in parte, non sentendosi da tanto da poterne imitare co’ suoi empiastri la vivezza e lo splendore. La nuova pittura del Bellotti conservò qualche tempo un tal quale effetto dovuto alla stupenda composizione, e in quell’epoca di grossi giudizj presso i mal informati scrittori, si trovano nuove lodi non solo della pittura, ma ben anche del risarcimento.
Ma a poco a poco un nuovo annebbiamento universale la ricoperse, nè so bene se i frati osassero impiegarvi il prezioso deposito del segreto del Bellotti. Certamente qualche nuovo ritocco vi ebbe luogo, e questo fu a tempera, come in qualche parte ancora si può scorgere. In appresso, dopo nuovo e maggiore decadimento, si mosse un’altra volta discorso di risarcire la tormentata pittura, e furono molti e grandi i dispareri fra gli artisti non meno che fra quelli che dovean commettere sì fatta operazione. Il pittore De Giorgi,[13] uomo mediocre nell’arte, ma onesto ed estimatore degli antichi, sebbene più volte a ciò fosse richiesto con instanza, vi si rifiutò mai sempre, protestandosi indegno di porre le proprie mani ove Leonardo avea poste le sue. Dopo varj dibattimenti, per raccomandazione del conte di Firmian nel 1770, fu dato ad un Mazza l’incarico dell’ultimo strazio di questo infelice monumento dell’arte. Il Mazza eseguì la sua commissione con mano maestra. Le poche antiche croste originali che ancora rimaneano, quantunque deturpate dal forse doppio risarcimento, erano un inciampo alla libertà del suo pennello. Egli le raschiò con ferri, e così fece un letto liscio su cui distendere la sua leggiadra fattura. Anzi per averlo migliore, vi distendeva da prima una mestica di terra d’ombra e d’ocria, e il nostro professore Levati, valente dipintore di prospettive e di ornamenti, si ricorda benissimo di aver vedute varie teste in tal modo sacrilegamente impiastrate. Lo stesso mi assicurano avere udito i professori Zanoja ed Aspari. Intanto non v’era artefice di buon senso nella città nostra che non disapprovasse altamente il Mazza e chi lo pagava e chi lo proteggeva. Il Londonio, uomo di vivace e bizzarro ingegno, ne menava più degli altri romore, e il fermento era divenuto generale. Intanto il Mazza che aveva cominciato a ridipingere alla destra del Salvatore, aveva inoltrata l’opera a segno che non mancavangli ormai che gli apostoli Matteo, Taddeo e Simone, onde tutto coprire il lavoro del Bellotti e dividere seco lui la fama d’Erostrato. Volle in questo mezzo la sorte che il priore di quel tempo, padre Giacinto Cattaneo, il quale, per aderire cortigianescamente al Firmian, aveva permesso al Mazza di rifare il Cenacolo, venisse dal re di Sardegna chiamato in Torino per leggervi teologia, ed ebbe il suo posto un Paolo Galloni, uomo di buon ingegno in varie cose ed erudito anche un poco in pittura, nella qual arte era stato allievo del Lazzarini di Pesaro. Appena il Galloni vide l’opera del Mazza, che senza por tempo in mezzo gli impedì di proceder più oltre, tanto più che al romore che da ognuno di sano giudizio già se ne faceva per la città, sebben tardi, pur si trattava ad ogni modo di sospenderla.
Per questa sospensione che dispiacque forte al Mazza, rimasero salvi dal suo pennello i nominati tre apostoli, e perciò corse voce che tre apostoli ancora rimanessero intatti da ogni ritocco; voce però che non ebbe credito se non presso coloro che ignoravano la prima rovina del Bellotti o pure che non intendevano affatto le cose dell’arte: talchè mi fa meraviglia di trovare fra questi anche il Bianconi che pure aveva qualche pratica delle cose pittoriche. Dal Mazza in poi non vi furon ritocchi; e sebbene ne fosse talora mosso consiglio, non se ne fece però nulla, e sarebbe stato un imbalsamare un cadavere di tre secoli.
Nel 1796, allorchè l’esercito francese scese vincitore in Lombardia, il giovane Generale Bonaparte che per propria virtù correa fin d’allora all’imperio, tratto dalla fama di Leonardo visitò il Cenacolo ed ordinò che quel luogo fosse rispettato nè vi si desse alloggio militare o vi si facesse altro danno. Ei ne lasciò decreto che sottoscrisse sul ginocchio innanzi di rimontare a cavallo, presenti varie persone, fra le quali il padre Porro cui debbo questo ragguaglio. Ma poco dopo un altro Generale, facendosi beffe di quel decreto, fece abbattere le porte e fe’ del refettorio una stalla. Il raffazzonamento del Mazza aveva già cominciato a perdere la sua vivacità, allorchè la traspirazione della cavalleria, sostituita al vapore delle vivande e certo più abbondante e permanente, la ricoperse d’una nuova muffa, e l’umidità vi si attaccava in tanta copia che poi colava a strisce lasciandovi una impressione biancastra.[14] Da poi fatto il refettorio or magazzino or fienile, sempre ad uso militare, il Cenacolo, quantunque dopo il Mazza non vi fosse alcun nemico da temere, ebbe pur sempre nuovi danni e fino forti colpi di mattoni slanciati contro le figure, de’ quali si veggono tuttavia le tracce.
Riuscì finalmente all’Amministrazione della città di far chiudere, anzi murare quel luogo, e per molto tempo chi voleva vedere l’opera di Leonardo, dovea discendere con una scala a piuoli da un pulpito che servì già al tempo de’ frati pei lettori durante la mensa. Nel 1800 vi fu la di già accennata inondazione che accrebbe notabilmente l’umido del luogo. Nell’anno 1801, sopra dimanda fatta da me come segretario dell’Accademia delle belle arti, l’Amministrazione fece fare una porta e promise cure ulteriori. Finalmente nel 1807 il Vicerè d’Italia ordinò che si rimettesse questo luogo in onore e si ristaurasse, e vi si fecero le finestre, e parte del pavimento, e vi si eresse un ponte onde poter esaminar l’opera da vicino, e riconoscere se si poteva tentare qualche nuovo risarcimento. Vi si fece in oltre un’altra porta in miglior situazione, sulla quale fu posta la seguente iscrizione dettata dall’egregio Stefano Bonsignori ora vescovo di Faenza:

ANNO RECGI ITALICI III. EVGENIVS NAPOLEO ITAL. PROREX
LEONARDI VINCII PICTVRAM FOEDE DILABENTEM
PARIETINIS REFECTIS EXCVLTIS AB INTERITV ADSERVIT
MAGNA MOLITVS AD OPVS EXIMIVM POSTERITATI PROROGANDVM. [15]

Da quel tempo in poi, quantunque appaja alquanto più annebbiato quel qualsisia dipinto che si vede, pure non vi si scorge alterazione notabile, e quell’annebbiamento ora è maggiore ora è minore secondo lo stato dell’atmosfera, come ebbi par troppo occasione di osservare per circa due anni che passai con grave danno di mia salute in quel tristo refettorio.
Intanto per cura del Governo questo luogo è custodito come si deve e come suggeriva il rispetto dovuto da una città colta alla memoria di tanta opera. Così sarà, spero, custodito anche per l’avvenire; e benchè dell’antico dipinto del Vinci non si scorgano ora che pochi minutissimi frammenti, la memoria di tanto autore farà riguardare il poco che rimane con quella venerazione colla quale si custodiscono, quantunque inutili, le ceneri o le reliquie degli uomini grandi; giacchè questo rispetto, oltre che nelle persone amiche delle arti è un sentimento, è anche un avviso a chi possiede o custodisce opere insigni, di non trascurarle o guastarle; ed agli artefici è un utile stimolo a prodarne di tali che meritino altrettanto dalla posterità.
  
OPINIONI DI LEONARDO INTORNO ALLE PROPORZIONI
DEL CORPO UMANO.

Mancando quasi del tutto nel Cenacolo originale la parte inferiore, e vedendosi nelle copie intere più autorevoli le figure generalmente tozze e senza grazia, fui costretto ad indagare con attenzione le opinioni di Leonardo intorno alle proporzioni del corpo umano, onde nella mia copia supplire alle mancanze in una maniera, per quanto io mi potessi, analoga ai suoi metodi e precetti. Spero, non sarà discaro specialmente al coltivatori del disegno, che io mi estenda alquanto esponendo ciò che dalle mie ricerche è risultato.
Già grande al tempo di Leonardo doveva essere lo studio delle proporzioni;[16] ma le opinioni degli artefici circa tale materia non erano concordi, come ne è prova la disparità delle misure da essi osservate nelle loro opere. Alcuni avevano tratti de’ canoni di proporzione dai libri di Vitruvio; altri dalla natura direttamente; altri ne avean composti di più maniere, aggiugnendo le proprie osservazioni e qualche nuova industria di pratica agli esempj ed alle autorità altrui.
Coloro pertanto che da Vitruvio avean desunte le loro misure, dovettero cadere in gravi sbagli e discordanze, sia pe’ molti errori che deturpavano i testi di quell’autore il quale non vide luce di stampa che assai tardi e scorrettissimo, sia per l’ardua difficoltà della materia, sia per la poca chiarezza con cui Vitruvio stesso la espose.
Similmente quelli che, senza la scorta delle notizie già trovate da altri, si diedero a stabilir misure sul naturale, offerirono spesso per canoni cose male scelte, atte più a dare la storia del loro particolar modo di operare, che quella del modo generale con cui opera la natura.
E quelli, in fine, che all’autorità vitruviana e degli antichi unirono l’osservazione sul naturale, si avvicinarono bensì alquanto più degli altri alla ragion del vero e del bello, ma non diedero alla scienza tanto di lume che bastasse a soddisfare quelli tra gli artefici contemporanei o posteriori che oltrepassavano il confine della mediocrità.
Non mancarono anche alcuni ingegnosi uomini i quali coll’ajuto delle matematiche giunsero ad inventare nuovi metodi; e di tal genere fu forse l’opera di Bramante che trattava delle quadrature de’ corpi, dalla quale, come abbiam dal Lomazzo, nacque di poi l’altra di Luca Cangiasio che compose il corpo umano di dadi e di obelischi. Nè altrimenti doveva essere in gran parte quella di Vincenzo Foppa, dalla quale, come lo stesso autore assicura, trasse il Durero la sua Simmetria. E una mistura di autorità, di osservazioni e di scienza saranno stati gli scritti di Giotto, del Ghiberti, di Pietro della Francesca,[17] del Ghirlandajo e d’altri che trattarono anticamente di proporzioni umane; ed è certamente gran danno che tali opere ci sieno tolte dal tempo o dalla ignoranza di chi le possiede.
Leonardo avrà di certo conosciuti tutti i migliori metodi altrui; ma più profondamente di ogni altro investigando i principj e la ragion vera delle misure, si accorse che tale studio voleva essere considerato diversamente che nol fu per coloro che in esso il precedettero. Egli era inoltrato nella scienza generale assai più de’ suoi antecessori e de’ suoi coetanei: quindi maggiori erano i suoi dubbj e le sue cautele: e se le profonde meditazioni da lui fatte sulla natura universale l’assicuravano ch’essa è governata da una legge uniforme, l’esame degl’individui gli dimostrava un’infinita indeterminabile varietà. D’altra parte ei sapea che le leggi universali della natura passano al di là del limite della potenza dell’umano intelletto, cui è concesso di giudicarne l’esistenza, ma non già di penetrarne la qualità. Al contrario ei dava tutta la certezza che per l’uomo si può ottenere, alla esperienza ed alle osservazioni sugl’individui delle specie: ma riconoscendoli poi tutti diversi fra loro, non poteva ammettere come sane ed utili tali leggi per le quali l’imitatore gli avrebbe fatti uniformi. Quindi non voleva che le misure e i lineamenti di tale individuo potessero per un altro servire, e tanto meno per la generalità: perchè, diceva egli, delle laudabili e meravigliose cose che appariscono nelle opere di natura, è che mai in qualunque specie un particolare con precisione si assomiglia all’altro: adunque tu imitatore di tal natura guarda e attendi alla varietà de’ lineamenti.[18] Da ciò appare ch’ei non facea gran conto delle misure generali delle specie, come di cosa di lieve discorso; e che la vera proporzione da lui ammessa e riconosciuta di difficile investigazione, è unicamente la proporzione di un particolare riguardo a sè stesso, la quale, secondo la retta imitazione, debb’essere diversa in tutti i particolari d’una specie, siccome avviene nella natura. Così, dic’egli, tutte le parti di qualunque animale sieno corrispondenti ed suo tutto: cioè che quel che è corto e grosso, deve avere ogni membro in sè corto e grosso; e quello che è lungo e sottile, abbia le membra lunghe e sottili; e il mediocre abbia in sè le membra della medesima mediocrità.[19]
E con questo e con altri precetti fa scorgere che, allorchè ei parla di proporzioni, si debbe intendere ch’ei ragioni della commodulazione delle parti di un individuo anzi che di una norma generale dell’imitazione per ciò che spetta alle misure.
In oltre egli ch’esigeva una proporzionalità di parti fra loro, le quali fossero corrispondenti al tutto, divideva poi questa proporzionalità in equalità e moto;[20] colla quale sola divisione nascono tante differenze nelle misure e tante difficoltà nel determinarle con precisione che sarebbe opera da non venirne a capo; nè sembra ch’egli stesso, che forse solo potea riuscirvi, mai la facesse.
Per dare in fine idea della finezza con cui vedeva e sentiva in questa parte dell’arte, basti il dire che per la sola testa ch’ei divide scalarmente per dodici gradi, punti, minuti, minimi e semiminimi, egli viene a stabilire una divisione di duecento quarantottomila e ottocento trentadue parti.[21] Con che, a dir vero, si rimane in dubbio s’egli intendesse piuttosto di far concepire la infinita modificabilità delle parti della testa, per cui avviene che uomini a milioni si riconoscono fra loro; oppure volesse far la satira delle misure generali, siccome di cosa non determinabile se non a danno del vero e dell’arte.
Con tutto ciò, siccome avviene al pittore d’imitare i corpi umani a centinaja, e siccome ne’ corpi belli le differenze delle parti per lo più sono piccole, e diventano poi quasi impercettibili nelle più comuni imitazioni minori della grandezza naturale, Leonardo riconosceva essere necessario al pittore l’adoprare una misura generale, specialmente per l’uso privato di preparare con prontezza le composizioni delle istorie. Volea però che l’elezione della figura in che far abito, fosse fatta con grandi avvertenze sopra la regola di un corpo naturale, il quale comunemente fosse di proporzione laudabile:[22] e a tal fine debbono credersi fatti i disegni di Leonardo che spettano alle proporzioni, ed il più de’ precetti da lui lasciatici intorno tale materia.
Voleva ancora che questa misura fosse unicamente usata per le lunghezze e non per le larghezze, nelle quali esige più sensibile varietà. Osserva similmente l’accorciarsi e l’allungarsi delle membra secondo la diversità de’ movimenti e piegamenti,[23] e intralcia finalmente con tante distinzioni le misure stesse ch’egli stabilisce, che chiunque non è già notabilmente inoltrato nell’arte, non potrà molto giovarsi de’ suoi precetti e delle sue osservazioni.
Premessi tali avvertimenti sul modo con cui dagli scritti si può giudicare che Leonardo la pensasse nelle cose della proporzione, mi faccio a descrivere i soli importanti disegni di tal materia che sieno giunti a mia notizia e de’ quali feci acquisto comperando la raccolta del De Pagave.
Il primo che qui si riporta, rappresenta la testa d’un uomo maturo di bello e grave carattere, e vi si leggono scritte di mano dell’autore le note seguenti:[24]
Dal ciglio alla congiunzione del labbro col mento, e la punta della mascella, e ’l fine di sopra dell’orecchio colla tempia fia un quadrato perfetto, e ciascheduna faccia per sè è mezza testa.
Qui faccia vale per lato del quadrato.
Il cavo dell’osso della guancia, segue lo scritto di Leonardo, si trova in mezzo fra la punta del naso e ’l confine della mascella colla punta di sotto dell’orecchio nella figurata stella; cioè dove concorrono le varie linee segnate nella testa formando quasi una stella o asterisco. Questo passo fu malamente svisato la prima e sola volta che venne pubblicato nel 1784.[25]
Dal cantone, continua la nota, dell’osso dell’occhio all’orecchio è tanto spazio, quanto è la lunghezza dell’orecchio o vuoi il terzo della testa. Qui dice testa, mentre dovrebbe dire volto o faccia. Le varie linee dalle quali è intersecato questo disegno, provano ch’egli andava indagando altre divisioni: sono notabili quelle che circoscrivono l’occhio e la sua incassatura.
La tavola che vien dopo la descritta, rappresenta la stessa testa a rovescio con nuove divisioni. Vi si legge la nota seguente, parimente di pugno del Vinci:
Fa che il capo, cioè dalla sommità dell’uomo al disotto del mento, sia l’ottava parte di tutto l’uomo: il quale capo dividerai in cinque parti; e una d’esse parti fa che sia dal nascimento de’ capelli in sino al pari della somma altezza del capo: un altra parte metti dal taglio della bocca al fine di sotto del mento, e l’altre di mezzo resteranno in fra ’l taglio d’essa bocca e ’l fine del viso coi capelli.
Oltre ciò in questa testa sono distinte molte parti con varie lettere, e lateralmente vi sono indicate le distanze rispettive commodulate ora colla testa intera ora colla sola faccia. Eccole esattamente spiegate per chi non le intendesse nel disegno, dove imbarazza la forma e il rovesciamento delle lettere.
Il confine superiore del mento segnato li e l’inferiore segnato i formano la sesta parte della faccia.
Dalla divisione de’ labbri segnata g al detto inferior confine del mento v’è la quarta parte della faccia, e similmente la quinta di tutta la testa, come si rileva anche dalla nota antecedente.
Dalla linea inferiore del naso segnata f al confine inferiore del mento v’è la terza parte della faccia.










La stessa terza parte della faccia comprende lo spazio che sta fra il confine inferiore del naso f e la linea delle ciglia segnata c.
È similmente una terza parte della faccia lo spazio che sta tra la linea c delle ciglia e la linea b che determina il confine superiore del volto dove nascono i capelli.
Leggesi poi che dal punto k, cioè là dove quella grassezza molle al di sotto del mento fa angolo colla gola o gorgozzule, sino alla linea l che determina il luogo della fontanella della gola o sia l’inferiore attacco de’ muscoli sterno-mastoidei, vi sia la metà della misura del volto; in che Leonardo prese errore evidentemente, essendovi assai meno. In vece si trova la indicata giusta metà del volto dalla fontanella alla linea i, cioè al confine di sotto del mento. Doveva dunque scrivere i, l in cambio di k, l.
Finahnente dal punto h, cioè dal superiore confine del mento all’inferiore del naso segnato f, corre la sesta parte della faccia.
Queste sono le misure notate a numeri da Leonardo in questo modo:
h, i       1/6 del volto.
g, i       1/5 del volto.
g, i       1/4 del volto.
f, i        1/3 del volto.
c, f        1/3 del volto.
b, c       1/3 del volto.
k, l       1/2 volto.
h, f è     1/6 del volto.
Alle quali misure potrebbero aggiungersi le seguenti, le quali però al pari delle fin qui notate non sono precise ed esatte, non essendo finito il disegno, ed essendovi segnate grossamente a mano le divisioni e le linee.
Dividendo orizzontalmente in due parti eguali il volto, il che fece Leonardo colla linea che dimezza il naso e l’orecchio, segnata q, e, si trova che la larghezza del capo in quella direzione è eguale all’altezza del volto. E in generale il volto è alto poco meno, che non è largo di profilo il capo nella massima sua larghezza.
Similmente dalla sommitcà del capo segnata a al taglio g delle labbra v’è una faccia.
La stessa distanza passa dalla fontanella della gola a mezzo il naso ed a mezzo l’orecchio.
La stessa dalla detta fontanella al confine inferiore delle mammelle.
La stessa in fine orizzontalmente dalla punta del naso all’occipizio.
Trovo poi che la misura da Leonardo sbagliata dal punto k, angolo del gorgozzule col mento, alla linea l della fontanella, comprende un terzo di tutta la testa.
Così dalla linea del nascimento de’ capelli b all’inferior confine delle mammelle n vi stanno due teste con lieve divario. Una testa circa comprende la larghezza del casso di profilo. Parimente dalla fontanella l all’ascella m v’è la stessa distanza perpendicolare che passa orizzontalmente dalla detta fontanella al principio del dorso sempre visto di profilo, ed è pari distanza a quella che passa tra la linea delle ciglia e l’angolo del gorgozzule.
Lo stesso ripetasi di altri varj rapporti che ognuno può fare e che meglio apparirebbero se Leonardo stesso avesse più diligentemente purgati questi primi schizzi o sperimenti, de’ quali egli debbe aver fatto buon numero d’ogni età e sesso; ma sventuratamente sono ignoti o perduti.
L’eccezioni che si possono fare a queste misure, provano quanto già accennai, cioè che non si debbono prendere per misure generali della specie.
E sarebbe ora da descrivere il più importante disegno che forse si conosca di Leonardo, il quale contiene quella universal misura dell’uomo da lui promessa, ma non data nel suo Trattato. Ma prima ch’io m’inoltri in questo argomento, piacemi volger per poco ad altro l’attenzione del lettore, onde fargli sentire che Leonardo, sebbene in questa parte delle proporzioni vincesse ogni altro del suo tempo e al suo tempo anteriore, non soddisfece in esse a se stesso, anzi tale studio parvegli uno scoglio dell’arte più d’ogni altro malagevole da superarsi.
Quello stesso Platino Piatto, suo amico, che gli fece l’epigramma pel Colosso di Francesco, composegli anche il suo epitaffio, lui vivente, anzi forse una dozzina d’anni prima della sua morte, come si può indurre dalla data del libro del Platino, in cui quell’epitaffio si legge. Questo genere di composizioni, allorchè si applica a persone vive ed ove non abbia luogo la satira, non si usa senza richiesta o almen consenso di colui che n’è argomento. Allorquando poi i sentimenti ne son modesti e si pongono da’ poeti in bocca del supposto morto, pare da credere che sieno stati assolutamente dettati dalla persona cui si fanno dire, e che il poeta non ci abbia messo di proprio che la veste dell’arte sua.
Leonardo, conscio del suo sapere, sebbene in qualche parte il conoscesse superiore all’altrui, sentiva quanto era difettivo in faccia a ciò che ne faceva il soggetto, cioè la immensa misteriosa natura. Modesto senz’affettazione, come tutti i veri grandi, quantunque fosse lusingato dall’udirsi chiamare l’Apelle, il Fidia, il Policleto del suo tempo, come leggiamo ne’ libri del Bellincione, del Paciolo e d’altri, sembra che dentro di sè sentisse di non giungere alla eccellenza di que’ meravigliosi antichi, de’ quali si protestava ammiratore e discepolo. Questi paragoni degli artefici dell’antichità co’ moderni erano in bocca di tutti, e si vede che se ne facea sovente tema di eruditi ragionamenti fra coloro che avevano affetto alle arti, come si scorge dal passo di Matteo Bandello citato nel primo libro e da altri di varj autori. Era poi cura e studio speciale di Leonardo di avvicinarsi per quanto poteva agli antichi nella vera e bella imitazione della natura colla scorta della filosofia; ma prima delle sue maggiori opere, egli non aveva veduto che le pochissime anticaglie di Firenze, la qual città, allorchè ne partì Leonardo, non conosceva ancora il famoso Giardino del Magnifico Lorenzo, che fu la prima scuola di Michelagnolo. Però, o fosse la mancanza de’ grandi esemplari, o non ne penetrasse, secondo ch’egli credeva, abbastanza gli artifizj, o che troppo tardi giungesse a comprenderli, egli lagnavasi modestamente di non aver posseduto l’antico magistero delle proporzioni. Si protestava poi d’aver fatto il poco che aveva potuto, e chiedeva perdono alla posterità, se non aveva fatto di più. Ecco i sentimenti che il Platino espose nell’epitaffio che qui trascrivo:

Leonardus Vincia (sic) Florentinus
Statuarius Pictorque nobilissimus
de se parce loquitur:

Non sum Lysippus: nec Apelles: nec Policletus:
Nec Zeusis: nec sum nobilis aere Myron.
Sum Florentinus Leonardus Vincia proles:
Mirator veterum discipulusque memor.
Defuit una mihi symmetria prisca; peregi
Quod potui: veniam da mihi posteritas.

Ognun vede che sensi sì fatti non si possono attribuire all’invenzione del poeta. Anche il titolo posto dal Platino all’epigramma prova ch’egli non vi pose di suo che il metro e la lingua. Comunque siensi i versi, le sentenze gravi e semplicissime si confanno perfettamente al modo di pensare e di scrivere di Leonardo. In fine qualora questo epitaffio, in vece d’essere stato fatto vivente Leonardo e probabilmente quando ei rivide il Piatto a Milano nel 1507, si supponesse composto dopo la sua morte da qualche moderato amico della sua memoria, i sensi che contiene il farebbero tuttavia ritenere come una traduzione fedele di parole a lui proprie e consuete.
Or dunque questo non contentarsi di sì grand’uomo nell’ardua materia delle misure, mentre nel resto non parea temere l’altrui censura, ci debbe dare una grande idea della difficoltà di determinare le leggi della bella simmetria, e di conservarle nelle opere con quell’armonia che si sente, ma che non si spiega e che varia in ogni figura secondo l’età, gli accidenti e i caratteri particolari di ciascheduna.
Riportato quest’unico giudizio che di Leonardo ci sia rimasto intorno alle cose sue,[26] e che mi parve necessario di premettere a quanto segue, mi faccio ad esporre la tavola della misura generale dell’uomo.
I due disegni che abbiamo esaminati, sono, direi quasi, precetti scritti fondati sulla sola osservazione naturale. Questo terzo ha di più il fondamento sull’autorità di Vitruvio, ed ha il vantaggio d’essere accuratissimo nelle forme e mirabile nel carattere.
Ecco esattamente ciò ch’egli stesso vi ha scritto di suo pugno, cangiata solo l’ortografia, come ho praticato altrove, onde togliere ogni imbarazzo a chi legge.
Vitruvio architetto mette nella sua opera di Architettura che le misure dell’uomo sono dalla natura distribuite in questo modo, cioè: che quattro diti fa un palmo, e quattro palmi fa un piè; sei palmi fa un cubito; quattro cubiti fa un uomo; e quattro cubiti fa un passo; e ventiquattro palmi fa un uomo: e queste misure son ne sia edifizj.
Se tu apri tanto le gambe che tu cali da capo 1/14 di tua altezza; e apri e alza tanto le braccia che colle lunghe dita tu tocchi la linea della sommità del capo, sappi che il centro delle estremità delle aperte membra fia il bellico, e lo spazio che si trova fa le gambe fia triangolo equilatero.
Dal nascimento de’ capelli al fine di sotto del mento, è il decimo dell’altezza
dell’uomo.
Dal di sotto del mento alla sommità del capo, è l’ottavo dell’altezza dell’uomo.
Dal di sopra del petto alla sommità del capo, fia il sesto dell’uomo.
Dal di sopra del petto al nascimento de’ capelli, fia la settima parte di tutto l’uomo.
Dalle tette al di sopra del capo, fia la quarta parte dell’uomo.
La maggiore larghezza delle spalle contiene in sè la quarta parte dell’uomo.
Dal gomito alla punta della mano, fia la quarta parte dell’uomo.
Da esso gomito al termine della spalla fia l’ottava parte d’esso uomo.
Tutta la mano fia la decima parte dell’uomo.
Il membro virile nasce nel mezzo dell’uomo.
Dal di sotto del ginocchio al nascimento del membro fia la quarta parte dell’uomo.
Le parti che si trovano in fra il mento e il naso e il nascimento de’ capelli e quel de’ cigli, ciascuno spazio per se è simile all’orecchio, ed è il terzo del volto.
Ma le misure qui da Leonardo accennate non sono le sole che si riscontrano in questa figura. Ecco quelle che si potrebbero aggiungere, ricapitolandone una divisione generale, siccome più facile a conservarsi nella memoria.
Tutto l’uomo dividesi in otto parti eguali.
La prima contiene dal sommo del capo all’imo del mento.
La seconda è composta dallo spazio che sta tra l’imo del mento e una linea orizzontale che passi per le areole delle mammelle.
Da questa linea al luogo ove allargansi le porzioni carnose de’ retti dell’addomine per dar luogo all’umbilico, sta la terza.
Da tale allargamento al nascimento del pene sta la quarta.
La quinta sta tra il nascimento del pene e la metà dell’anca o piuttosto il luogo dove comincia superiormente ad apparire il vasto interno.
Tra il detto luogo e il di sotto del ginocchio è la sesta.
La settima sta tra il di sotto del ginocchio e l’angolo che fa il gastrocnemio interno col soleare.
L’ottava compie l’uomo dal detto angolo all’estremità inferiore del tallone.
La stessa divisione per otto si trova in traverso, stando l’uomo a braccia stese in direzione orizzontale come nella figura.

Allora una parte sta tra la fontanella della gola e il più lontano confine della spalla.
Da quivi al finire della porzion carnosa del bicipite è la seconda.
La terza, alquanto meno determinabile, sta tra il confine indicato e il finire della porzion carnosa dell’elevatore speciale del pollice.
La quarta sta dal detto luogo all’estreinità del dito medio.
Le altre quattro parti si ripetono dal lato corrispondente.
Si può anche aggiungere che un’ottava parte dell’altezza dell’uomo sta tra gli angoli che formano, a braccia elevate, i deltoidi colle clavicole, misura che Leonardo non iscrisse, ma che pure indicò con due punti visibili nel suo disegno.
Così pure una decima parte del tutto, che è quanto a dire una faccia, forma di prospetto la somma larghezza d’una coscia; e due decime, la larghezza del tronco sotto il petto.
Ed altre simili divisioni ed utili approssimazioni da chi cerca tali studj, si rinverranno in questa singolare figura che in altre certamente non è dato riscontrare.
E quando finalmente si rifletterà che quantunque Leonardo con sì buon esito indagasse in Vitruvio le misure che Vitruvio stesso sembra aver tratte dai Greci, lagnavasi nondimeno di non aver posseduto la vera antica simmetria, si comprenderà bene che per questa scienza egli non intendeva, come già accennai, una determinata misura generale dell’uomo, ma quella commodulazione di parti che a ciaschedun individuo conviene secondo le respettive circostanze di sesso, di età, di carattere e simili.
Si comprenderà allo stesso tempo che questa generale misura, qui stabilita da Leonardo, può benissimo esser quella in che consiglia di far abito, perchè fatta, come l’esperienza può ad ognuno mostrare, sopra la regola d’un corpo naturale di proporzione laudabile, e di più confermata per la massima parte dall’autorità degli antichi; ma non dovrà mai dimenticare le infinite avvertenze che qua e là pel suo Trattato egli ha sparse, onde far comprendere che il non variare proporzioni è cosa contraria alla natura, e però gravissimo difetto dell’imitazione.
Intanto per gli usi limitati cui simili canoni possono servire, e ad onta delle infinite eccezioni cui la propria lor natura li rende soggetti, questo di Leonardo è, se non erro, il più consentaneo al vero, il più semplice, il più fecondo di misure armoniche, il più armonico nel tutto, il più facile a serbarsi nella memoria, il più utile in somma all’arte di quanti prima e dopo di Leonardo ne furon posti in luce dagli scrittori.
Voglionsi però qui eccettuare gli antichissimi Greci. Eglino ci lasciarono sì mirabili marmi che possiamo facilmente assicurarci che ne’ lor precetti non si saranno opposti al modo con cui operavano, nè da quello dilungati. Ben è gravissimo danno che quanto essi scrissero di simmetria, tutto sia stato preda del tempo, tranne le poche linee di Vitruvio; e molto certamente di tale scienza fu scritto dai Greci, come ne abbiamo ampie testimonianze in Plinio, in Vitruvio stesso, in Filostrato juniore ed in altri. Parrasio sembra il primo che della simmetria facesse una scienza a parte ed alla pittura l’applicasse, stendendone, come è probabile, commentarj o trattati. Asclepiodoro perfezionolla a segno che ne ottenne ammirazione dallo stesso Apelle. Mirone e Lisippo la custodirono nelle loro opere colla massima diligenza e precisione, e anch’essi, secondo l’uso de’ grandi artefici d’allora, o per norma delle opere loro o per render conto del modo con cui avevano operato, avranno commesso alle scritture preziosi ragionamenti o precetti di questa loro prediletta facoltà. Eufranore pare contendere a Parrasio il primato nel farne uso, ed a quanto apparisce dagli scrittori, ne scrisse più ampiamente degli altri. Fra gli scritti pittorici di Antigono e di Senocrate, grandi encomiatori di Parrasio, non può a meno che di simmetria non si ragionasse: lo stesso debbe dirsi de’ libri di Melanzio citati da Diogene Laerzio. E finalmente, per lasciare i tand altri greci autori di simmetria specialmente citati da Vitruvio,[27] Policleto non si accontentò di dare un commentario di questa facoltà, ma, per testimonio di Galeno, ad illustrazione dello scritto fece una mirabile statua che confermava i precetti in esso scritto contenuti; e il Canone di Policleto, nome che a quella statua si diede, divenne sì famoso per la sua bellezza, che passò in proverbio per esprimere un corpo perfetto, come possiamo vedere presso Luciano nella Morte di Pellegrino.
Ma di tanti scritti che dovevano per lo meno pareggiare in eccellenza fè opere che ci rimangono, e che probabilmente, perchè è più facile il dar precetti che operare, le avranno superate, di tanti scritti, dico, non ci rimane frammento, nè è da sperare ormai che se ne trovi vestigio, se pure qualche cosa non esistesse pei posteri fra i papiri ercolanesi.
Fatta questa rispettosa eccezione in favore de’ greci maestri, consigliata dalle impareggiabili loro opere, e venendo a men remoti tempi, se, in prova di quanto ho asserito in favore di Leonardo, scorreremo i molti metodi degli altri che contenti di sè stessi e per lo più da legislatori e senza riserve stabilirono le misure del corpo umano, li riconosceremo prontamente essere d’assai lontani dalla bellezza e facilità del metodo vinciano. Vitruvio stesso, che però non ragiona che incidentemente delle umane misure e che da Leonardo meglio può dirsi spiegato e cotumentato che non copiato, non istabilisce quale debba essere l’allargamento delle gambe, nè l’alzamento delle braccia, onde circoscrivere l’uomo supino in un cerchio facendo centro dell’umbilico. E sebbene sia probabile che da qualche greco scrittore, come si è detto, compendiasse quanto scrive di simmetria, pure, non essendo egli dell’arte, sparse di tanta oscurità quell’importante passo, che basta lo scorrere i tanti suoi commentatori e traduttori per vedere quanto da quelli variamente e stranamente fu inteso, e quanto siano fra loro diverse le figure ove le une dalle altre non furono copiate. Similmente non trovansi in Vitruvio le molte altre misure secondo i suoi stessi principi da Leonardo egregiamente accordate: con che, non meno che col resto di tale studio tratto da quel classico, parmi non si concederà di troppo a Leonardo, dandogli un luogo fra coloro che primi si diedero a commentarlo.[28]
Da Vitruvio in poi, non curando alcuni pochi passi d’altri scrittori vecchi che alla simmetria si possono applicare, ma che a questa scienza non arrecano alcuna luce, ci è d’uopo venire fino a Leon Batista Alberti il quale precedette, è vero, Leonardo, ma noi giovò però gran fatto co’ suoi studj circa queste materie. Imperocchè, sebbene ci si vanti d’aver desunta la sua simmetria da gran numero di corpi belli, per lasciare altre eccezioni, le sue divisioni a piedi, gradi e minuti non hanno in fra esse stesse nè col tutto alcuna relazione ragionevole, talchè è assolutamente impossibile il tenerle a mente con precisione.
Ma io qui mi accorgo che volendo esporre le tante e varie opinioni intorno alla simmetria, da me con molta cura e pazienza raccolte, per quanto mi studj di far ciò succintamente, debbo di necessità estendermi più che non vorrebbe il sistema negli altri capitoli da me tenuto, e quindi recar noja al più de’ lettori. Pure, allorchè rifletto che a coloro che di queste materie sono curiosi, risparmierò con poche pagine il fastidio di ricorrere ad un gran numero di libri, alcuni de’ quali sono difficilmente trovabili per la loro rarità, non temo d’incontrar taccia di prolissità presso gli altri che possono saltare questa parte dello scritto ed andare, quando lor piaccia, alla conclusione.
Proseguendo adunque, per quanto si può, per ordine di tempo, vengo a frate Luca Paciolo, e trovo che nelle cose da lui aggiunte a quanto copiò da Vitruvio, fece una tal confusione che nulla si può trarre di ragionevole da quanto ei prescrive. Basti il dire che sì d’un triangolo[29] come d’un parallelogrammo, con che pretende determinare le principali misure della testa in profilo, un angolo solo rimane conservato nel dintorno: gli altri tutti si disperdono dentro o fuori della medesima.
Nè molto di meglio abbiamo dal Dialogo di Pomponio Gaurico sulla scultura, stampato al principio del secolo decimosesto. Egli biasimava, per esempio, la proporzione di dieci facce, che è certo la più armonica di tutte, e credea che se ne potessero tollerare di sole otto e fin anche di sette, proporzione che conviene ai fanciulli di poco oltre cinque anni. Forse ei fu, a quanto apparisce, sedotto dalla divisione per tre, il qual numero moltiplicato in sè stesso rende il nove: però divideva la faccia in tre parti e tutto il corpo in nove facce; ma l’armonia e le relazioni aritmetiche non sempre si accordano coll’armonia degli spazj che separano le parti degli oggetti di forma determinata, che col disegno s’imitano; che se ciò fosse, molte cose che sono difficilissime a spiegarsi non che a farsi, diverrebbero piane e facili all’intelletto ed alla mano. Però colla divisione del Gaurico la figura umana, ad onta del bel giuoco che vi fa il numero tre, ha il collo corto, il torso lungo e gli arti inferiori deboli. Nè più esatto mostrossi allorchè disse che i putti sono alti quattro facce, cioè circa tre teste, il che non si verifica che ne feti immaturi. Simili errori procaccian poca fede al resto delle sue misure nelle quali più si diffonde, sebbene sieno meno importanti, oltre che alcune non s’intendono bene e sono riportate con notabili diversità nelle diverse edizioni del suo Dialogo. E se Giovanni DeLaet, che in fine del suo Vitruvio diede porzione di quel libro, si studiò di rettificarle, nulla ottenne di meglio; e accomodando a suo modo la misura del piede e del collo, non tenne poi nessun conto dello spazio che sta tra il vertice del capo e la sommità della fronte, e dice che questa parte non debbe riceversi nell’altezza dell’uomo, quia est pars escrementosa. Non so se per la stessa ragione fu ommessa similmente da Giovanni Scheffero nel suo libro De Arte pingendi, il qual autore però in generale, se non fosse caduto nella indicata ommissione che rende di più troppo svelta la sua figura, e non badandosi ad alcuni imbrogli nel modo con cui divise gli arti inferiori, mostrò miglior giudizio degli altri e si attenne in gran parte a Vitruvio.
Più chiaro certamente, se non elegante nè comodo, fu il sistema di Alberto Durero, che anzi parve a molti utilissimo ed eccellente. Quelli però che tale il giudicarono, non conoscevano di certo gli studj di Leonardo, nè erano muniti di gusto buono e delicato in fatto di disegno. Il suo metodo di misurare è in parte migliore degli altri, perchè ogni divisione, benchè minima, ha sempre una relazione aritmetica col tutto, da che nasce qualche giovamento alla memoria; ma dovendosi comporre una nojosa e complicata scala per ogni singola figura di cui si voglia o per la prospettiva si debba variare l’altezza, e facendovisi divisioni minutissime, nulla giova ch’esse ad una ad una siano chiare, quando poi diventano per la moltiplicità, varietà e minuzia difficili, intricatissime. Se riguarderemo in appresso al garbo, al gusto ed allo stile delle figure che da sì fatte divisioni risultano, possiam dire senza esitanza che la sua simmetria (se pure non fu tolta al Foppa, come il Lomazzo asserisce), anzi che da Vitruvio, il che da alcuni fu scritto, venne o imitata dalla natura senza scelta, o creata dalla fantasia senza discrezione.[30] Si scorrano in fatti con l’occhio le sue tavole, e si vedranno ora ridicoli e nani Sileni, ora fantasmi lunghissimi mostruosi, somiglianti a certi idoli etruschi che trovansi nei musei d’anticaglie. Doppiamente deformi riescono poi tali figure nel sesso femminile, sicchè a ragione Michelagnolo, che per altro stimava il Durero (come fuor di dubbio il merita quel ristauratore delle arti tedesche), solea dire esser poca e debole cosa questo suo libro.[31] E certamente se così fatto era il libro ora perduto del nostro Foppa, non è da piangersene la perdita, se non come di raro e curioso monumento dell’arte, e per le figure di proporzione media che tratte da modelli italiani saranno state certamente di uno stile migliore che non le pubblicate da Alberto.
Altri molti che nel cinquecento scrissero di proporzione, furono per lo più cattivi copiatori or di Vitruvio, or dell’Alberti, or del Durero, con poche aggiunte o variazioni e per lo più con grandi oscurità. Così fecero Mario Equicola, Nicolò Franco,[32] Paolo Pino, Flud, parecchi commentatori di Vitruvio (fra i quali anche il Bertano, sebbene sì piccola parte commentò di quell’autore) c finalmente altri non pochi ch’è inutile il nominare.
Ma quegli ancora che uscirono con metodi proprj, poca utilità arrecarono all’arte, come dal seguito di questo esame ci verrà fatto di osservare.
Il famoso nostro Cardano, nel libro undecimo del suo libro De Subtilitate, divise il corpo umano in centottanta parti, dandone ventiquattro alla testa, che è quanto a dire due quindicesime del tutto; misura media tra la rozza e l’elegante, ma anch’essa complicata di troppo e troppo minutamente divisa, e ben lungi in tutto dall’armonia della vitruviana perfezionata da Leonardo.
Girolamo Ruscelli, nella seconda parte della sua Lettura sopra un sonetto del marchese Della Terza,[33] volle similmente discorrere di simmetria. I principi eh’egli espone in quel libro si dicono presi da varj che di tal cose avean trattato al suo tempo, ma non si scorge chiaro quale possa essere stata la loro origine principale. Qualunque però essa fosse, nelle misure del Ruscelli abbondano errori e discordanze. Per esempio: dalla radice della gola al vertice del capo egli stabilisce una quarta parte di tutta l’altezza della figura, mentre non vi suol essere che la sesta. Così asserisce che la lunghezza del piede è la decima parte di tale altezza, mentre i Greci, secondo Vitruvio, la volean soltanto la sesta, ed è di deforme piccolezza se eccede di molto la settima. E per quanto ivi ci parli specialmente delle donne, non è da lasciarsi inavvertita l’erronea opinione di coloro che estimano tanto più belli i piedi femminili quanto più sono piccioli. La bellezza de’ piedi sta nella leggiadria e concinnità della forma, non nell’esser corti o estremamente piccioli; che se fosse diversamente, sarebbero bellissimi i piedi delle donne cinesi e giapponesi, e mostruosi quelli della Venere de’ Medici.
Ben maggiori riguardi per la sublime eccellenza dell’autore si debbono ad una stampa che gira di Michelagnolo, tratta da un suo fiero disegno improvvisato a penna. Vedesi in essa una figura virile in profilo, non lontana dalle misure stabilite dal Vinci, il cui canone acquista autorità non lieve dal trovarsi in generale d’accordo con quello di sì grande maestro. Michelagnolo però cambiò, può dirsi, proporzione ad ogni figura, sdegnando l’impaccio delle misure, e a buon diritto per la profonda sua cognizione della macchina umana. Ciò non ostante, quel suo forse eccessivo disprezzo di tali cautele, unito all’impeto ed all’entusiasmo col quale si slanciava sui marmi, fu cagione che spesse volte gli mancasse la materia sotto lo scarpello, e che talora tollerasse delle scorrezioni importanti, come si può vedere nelle per altro meravigliose figure de’ sepolcri di Firenze. Debbesi però in sua difesa notare che le licenze che in queste figure si riconoscono, possono anche essere state cagionate dalla somma fretta con cui le ha eseguite, stimolato dal timore della vendetta medicea; poichè avendo egli ritardata la resa di Firenze a Clemente VII, dovette la sua salvezza al suo valore nella scultura, e postosi d’ordine del papa attorno a que sepolcri, il Condivi che scriveva lui vivente, dice che condusse quelle opere in pochi mesi, spinto più dalla paura che dall’amore. Trovansi però molte mende dal lato della simmetria in altre opere sue; ma di certo chi intende l’eccellenza delle altre parti, lo scusa e le dimentica, e ad onta di esse sappiamo che Raffaello, al cui giudizio niuno sdegnerà di accomodarsi, chiamava Michelagnolo la Idea del disegno.
Nè fra gli artefici che di questo tempo ci lasciarono disegni di simmetria, è da preferirsi il Parmigianino, di cui vedesi una figurina relativa a tal facoltà nella Raccolta de suoi schizzi incisi da Benigno Bossi luganese. Chiunque però ha in pratica le cose di quell’elegante pittore, si ricorderà facilmente che le sue misure eccedono nella sveltezza, e ch’egli, al pari di alcuni artefici fiorentini, in traccia sempre della grazia, si dimenticò non di rado ch’è d’uopo cercarla del continuo nella natura, e che fuor di essa la creduta grazia diventa affettazione e mostruosità.
Ma tornando agli scrittori, di simil pecca di sveltezza eccessiva può accagionarsi la misura esposta da Agnolo Firenzuola per la figura virile ch’ei voleva di nove teste, mentre poi per le donne accontentavasi di sole sette o al più sette e mezza, tollerando sì notabile discrepanza tra le virili e le femminili proporzioni. Da questo autore per altro, che ne’ suoi Dialoghi Delle Bellezze delle donne scrisse molte delicate e gentili cose intorno alle forme del viso e delle membra, potrà un pittore imparare, se non misure buone ed esatte, un tal fino modo di osservare, che è di grande utilità a chi coltiva il disegno. Potrà in oltre trarne certe amorose ed aggraziate maniere di esporre con parole le osservazioni le più argute: cosa del pari utilissima e della quale in queste materie, se si eccettua il Firenzuola, mancano, a mio parere, esemplari alla lingua non meno che all’arte. Per sì fatte esposizioni ingenue, chiare e brevi dell’intento delle opere proprie, può l’artefice metter gli altri a parte delle finezze dell’arte sua, in quella guisa appunto che un abile commentatore fa gustare le bellezze più squisite e recondite di una produzione poetica.
E anche Baccio Bandinelli vuole un luogo fra gli scrittori di umane misure; ma non ha dritto di certo ad un luogo distinto. Egli ci lasciò la proporzione della testa in profilo, che si legge nel libretto intitolato Il Disegno del Doni, a tergo della pagina 42, e basti il dire che la fa tanto larga quanto alta; misura che in pochissimi individui si verifica, e non s’incontra senza sfregio evidente della bellezza. Ma il povero Bandinelli, sia pure chiamato dal Doni disegnatore miracoloso, non aveva che mediocre disegno e grazia nessuna. Egli soleva in oltre dire che la testa era assai più facile che ogni altro qualsisia membro per la fermezza delle sue misure; con che fa intendere ch’ei la considerava assai grossamente, e ne son prova le molte teste mediocri e prive di ogni arguzia di espressione da lui fatte alle sue figure, ed il suo Ercole con faccia di Lion-bue come benissimo disse il Celllni. In somma egli parlava come operava, ed operò sempre da uomo che non aveva senso alcuno per le misure delicate e per le finezze dell’arte. E parimente il Doni, suo gran lodatore e non dissimile da lui nel giudizio, per darci una egregia prova del proprio buon gusto poetico e pittorico ad un tempo, diceva di aver più diletto in leggere il Parnaso dell’Aretino che in vedere il Parnaso di Raffaello.
E giacchè si fece qui motto dell’Aretino, non si debbe lasciare in dimenticanza la proporzione che posta in sua bocca si legge nel Dialogo della Pittura di Lodovico Dolce. La ricorderemo però soltanto per ripetere quanto abbiam detto di quella del Gaurico che il Dolce copiò, chiamando teste le facce onde accrescere l’imbroglio e l’oscurità.
Questa pertanto del Dolce mi richiama a mente per l’uniformità l’altra lasciataci dal Vasari nella Introduzione alle tre arti del disegno; dal quale autore sembra che si dovesse aspettare maggiore accuratezza intorno a sì importante soggetto. E pure gli stessi errori, le stesse ommissioni e fin lo stesso chiamar teste le facce si trova nel Vasari pittore, come nel Dolce che dell’arte non aveva che parole ad imprestito. E per la troppa confidenza nell’autorità del Vasari anche Filippo Baldinucci in una lettera a Lorenzo Salviati (stampata a Livorno nel 1802) ripetè con precisione i medesimi spropositi. La quale negligenza, se pure vuol perdonarsi al Baldinucci, non potrà mai essere scusata nel Vasari nè dalla farragine delle opere dalle quali egli era sopraccaricato, nè dalla fretta con cui scrisse, nè da qualsivoglla altro argomento: perchè avendo egli per assunto di stendere le memorie degli artefici, non aveva obbligo nessuno di entrare sottilmente in queste materie; e qualora voleva pure per un di più ragionarne e darne precetti, professando l’arte, nè volendo tacersi, il che sarebbe stato meglio, era in dovere di studiare in modo da scriverne bene.
Non mancò però chi si accorse che la parte superiore della testa era di sufficiente dignità da poter entrare nella misura dell’uomo. Nella Selva di varia Lezione che il Sansovino pubblicò, tradotta dallo spagnuolo, e che non potei trovare in originale, si legge di un Filippo Borgogna, chiamato singolare scultore, il quale dava al corpo umano nove facce e un terzo, proporzione, secondo il Filandro, attribuita a Varrone, e vi si dice che tal misura era allora generalmente ricevuta e praticata dagli artefici, con che m’induco a credere che sia la solita proporzione delle nove facce, e che quel terzo di faccia fosse il compimento della testa da tanti de’ mentovati autori dimenticato. La sua divisione pertanto (almeno nella sola edizione di questo libro che ho sott’occhio, del 1560) è sì confusa e sì ripiena d’errori, che non è possibile trarne costrutto ragionevole. Ma, sia comunque, la somma della sua totalità spiacevolmente inarmonica non ci dà a sperare intorno alle divisioni interne nulla di meglio di quanto si ebbe dai canoni notati di sopra.
Nè molto diversamente diede sue proporzioni Daniel Barbaro, pretendendo tenere un luogo di mezzo tra le misure troppo generali di Vitruvio e le troppo minute d’Alberto. La sua divisione in pollici, tre de’ quali fanno una faccia, ascende, come l’anzidetta di Filippo di Borgogna, a nove facce e un terzo, e ne ha quindi lo stesso inconveniente. Oltre poi che l’una e l’altra riescono nella totalità, anzi che no, tozzette e pesanti, questa del Barbaro riesce corta nelle parti inferiori, dandovisi dal nascer del membro in giù quattro facce e mezza, mentre cinque meno un sesto se ne danno alla parte superiore. Anche il Barbaro è dal nostro Lomazzo accusato d’aver manomesso il Foppa, ma ciò fu forse detto da lui, perchè nell’opera del Barbaro vide ripetersi parte di quanto Alberto aveva tratto da quell’antico autore. Se mai poi il furto di che accusa il Lomazzo i due citati autori, riguardasse a certe teste levate da piante e da profili in diversi atti, questa invenzione, se pure appartiene al Foppa, fu trovata anche da Piero della Francesca, come in un suo libro io posso mostrare.
Or questo modo che sovente è utilissimo, di ritrarre in diverse vedute l’istessa figura per mezzo delle piante e de’ profili, fa risovvenirmi di due altre opere di autori oltramontani, nelle quali varie simili figure s’incontrano, l’una dello scultore e pittor francese Giovanni Cousin, l’altra del famoso orefice spagnuolo Giovanni De Arphe y Villafañe. Entrambi questi scrittori, essendo distinti e dotti artefici, trattarono con qualche miglior fortuna delle umane misure, e oltre ciò furono i primi che nelle patrie loro pubblicassero opere importanti di tale argomento. Non mancano però errori in buon dato e discordanze anche alle loro proporzioni. Giovanni Cousin, per esempio, tra il mento e la fontanella della gola, forse seguendo l’autorità del suo Filandro, non pose che un quarto dell’altezza del capo, il che fa il collo brevissimo, e tutta toglie la nobiltà e lo slancio alla testa. Parimente i suoi volti in profilo non possono aver grazia, portando per regola fissa il labbro inferiore più in dentro del superiore d’un quarto della larghezza in profilo del naso, e il mento tanto in dentro quanto è tutta tale larghezza; il qual modo è contrario al praticato dagli antichi, e appena si vede in qualcuna delle men corrette figure della scuola fiorentina. Nella stessa maniera, senza ragione, pone uno spazio simile all’altezza d’una testa tra la linea superiore delle spalle e la inferiore delle mammelle. Con tal divisione contraddice il suo sistema, per altro buono, di dare otto teste alla figura umana; perchè cominciando dalla linea superiore delle spalle lo spazio della seconda testa, vi rimane poi gran parte del collo per di più nella metà superiore del corpo; rimanendovi la qual parte, oltre la troppa altezza che il petto ne verrebbe ad avere, la figura perderebbe il suo equilibrio, e la parte superiore a danno della bellezza sorpasserebbe in lunghezza l’inferiore, come nella misura del Barbaro ed in altre si nota. E di consimili difetti può accusarsi l’orefice spagnuolo che facea le figure sì virili come femminili di dieci facce e un terzo, e quel terzo entrava per di più nella metà superiore. E queste svelte figure hanno in oltre le gambe fuor di modo gracili e corte, vizio che il De Arphe non seppe fuggire nemmeno nella proporzione de’ putti di cinque teste, ai quali non diede che un quinto della loro altezza per le gambe, sebbene vi comprendesse porzione non piccola del ginocchio.[34]
Nel libro poi del Lomazzo, che venne in luce contemporaneamente all’opera del De Arphe, abbiamo una lunga serie di proporzioni; ma dalle infinite inesattezze della stampa e dalle difficoltà della materia, non che dall’oscurità dell’esposizione, è risultato un sì intricato labirinto che non è possibile uscirne, essendo il suo libro senza figure. Esiste bensì di questa parte delle proporzioni un’antica traduzione francese fatta da un Ilario Pader e stampata a Tolosa nel 1649[35] ornata di tavole; ma non ne so affatto il pregio, non essendomi finora riuscito di trovarla in alcuna pubblica o privata libreria. Per quanto però col mezzo di tali figure si possa raddrizzare il testo ove zoppica, il che non può avvenire senza arbitrj o licenze, sempre saranno grandi gl’imbrogli del suo sistema, avendo in gran parte i disordini di quello del Durero, sia per la moltiplicità delle figure che propone, sia per la materiale inarmonica divisione. E se delle molte figure proposte una ve n’ha che dalle altre si distingua per pregio di misure e per chiarezza, ella è quella di otto teste e di dieci facce, che per l’appunto si accorda col canone di Leonardo. Oltre di che le troppo esagerate differenze che, sia dietro il modo del Durero, sia dietro quello di Vincenzo Foppa, fur poste dal Lomazzo fra le sue figure svelte e le sue tozze, sono assolutamente capricciose, nè possono mai aver fondamento sopra corpi naturali ben costruiti. Perchè se pure è talvolta lecito all’imitatore l’introdurre qualcuno di sì fatti corpi or larghi e grossi, or minuti e sveltissimi in istorie numerose e di gran varietà, sarà sempre inutile e pazzo consiglio lo stabilire regole sopra cose sì fattamente irregolari. Perchè ove l’artefice imitante abbia buon gusto, non avrà d’uopo di regole per fare una piacevole imitazione di tali stranezze della natura; ove non ne abbia, farà sempre una sgraziata imitazione ad onta di regole a migliaja: le quali cose non avvengono circa le misure de’ corpi di proporzione media e lodevole. E ciò basti circa il Lomazzo il quale, se avesse goduto del benefizio della vista allorchè pubblicò le sue opere, le avrebbe corrette certamente e migliorate di materia e di forma.
Nè regole migliori ci lasciò l’Armenini ne’ suoi che si piacque chiamar Veri Precetti, sebbene non di rado si scostino dalla verità. Cominciando dalla testa, egli divisela in tre parti cui chiamò nasi oppure pollici, forse ad imitazione del Barbaro. Ma fatto sicuro dell’autorità del Vasari e d’altri varj de’ quali si diè cenno di sopra, anch’egli per testa intese dal sommo della fronte all’imo del mento, poco curandosi della rimanente sede del cervello. Diè poi una gran bocca a tal sua testa, facendogliela larga di tanto spazio quanto ne corre dalla fine del naso alla fine del mento. Separò anche gli occhi stranamente allontanandoli l’un dall’altro per modo da porvi in mezzo ben due terzi di uno di que’ suoi pollici. Pel resto della figura umana stabilisce due proporzioni, l’una di nove teste, l’altra di dieci. Nella prima, secondo la sua divisione, l’uomo distendendo le braccia orizzontalmente, verrebbe in larghezza ad oltrepassare d’un decimo la propria altezza, la qual cosa non può accadere se non in uomo che abbia le braccia oltre misura lunghissime e affatto mostruose, non che deformi. Nella divisione poi di dieci teste stabilisce un quinto del tutto dalla fontanella della gola alla sommità del capo, mentre in natura ne’ corpi ben fatti non si trova che il sesto, come notò Leonardo. E tale strana lunghezza di collo fa apparire tanto più deforme il torso e il resto: e ciò che è più strano ancora, è il vedere che, mentre l’autore de’ Veri Precetti stabilisce in altezza un decimo di differenza tra l’una e l’altra proporzione, nella divisione poi della figura per la sua larghezza a braccia stese, conserva per entrambe le medesime dimensioni. Il qual sistema di commodulare quanto si opponga al vero ed al bello, ognuno, senza a lungo riflettere, il può chiaramente capire. Ciò non ostante il cavalier Bisagno, nel suo libruccio che porta il bel titolo di Trattato di Pittura, copia l’Armenini parola per parola, aggiungendovi solo un esordio contro gl’ignoranti senza temere di offendere nè sè stesso, nè il suo autore.
Anche il Figino nostro, prediletto allievo del Lomazzo, ci lasciò una sua proporzione nel libro del teologo Comanini, del quale feci parole ove trattai degli autori che fecero menzione del Cenacolo. Essa è di dieci facce, divisa come segue: la prima è dal sommo della fronte all’imo del mento, dal qual punto alla fontanella della gola son due terzi di faccia. La seconda è dalla fontanella all’imo del petto. Da quivi all’umbilico è la terza. La quarta dall’umbilico al pettignone. Dal pettignone al ginocchio sono la quinta e la sesta. Il ginocchio contiene una mezza faccia. Dal di sotto del ginocchio al di sotto del polpaccio è la settima. Dal polpaccio al collo del piede l’ottava. Dal collo del piede alla inferiore estremità dell’uomo è un’altra mezza faccia che forma la nona collo spazio dato al ginocchio; come la decima è formata dallo spazio fra il mento e la fontanella, e lo spazio tra il sommo della fronte e il sommo del capo. Tal divisione, sebbene non in tutto biasimevole, ha una mancanza notabile tra il petto e il bellico, la quale parte riesce, come ognuno può provare, cortissima. Il collo parimente riesce lunghissimo, il che, come altrove notammo, accresce il cattivo effetto della brevità del torso. Nè può mai esser piacevole la troppa altezza stabilita al piede: misura però affatto contraria a quanto il Figino praticò ne’ suoi dipinti, ne’ quali anzi fece sovente i piedi troppo piccoli e bassi, non che le gambe brevi alquanto e mollemente incurvate. Da che non meno che da altre osservazioni intorno alla differenza tra la divisione riportata dal Comanini e la praticata dal Figino, m’induco a dubitare che il teologo, in questa materia al tutto pittorica, abbia alterato le opinioni del pittore.
Diversi ma non minori difetti s’incontrano nel metodo di Bernardino Campi il cui canone può vedersi nel libro di Alessandro Lamo, pubblicato dal pittore Giambatista Trotto detto il Malosso. Egli accrebbe d’un terzo di faccia la misura del Barbaro e del Borgogna, ma al contrario del Barbaro di ventinove parti onde il suo tutto è composto, ne diede quindici dall’attacco del membro alla pianta del piede, riserbandone quattordici alla parte superiore. La sua misura procede in questo modo. Un terzo della faccia è lo spazio dalla sommità del capo alla sommità della fronte. La faccia occupa, come è naturale, dalla detta sommità della fronte fino alla estremità inferiore del mento. Da indi alla fontanella della gola è mi altro terzo di faccia. Dalla fontanella fino alquanto sotto ai capezzoli ne pone un’altra. Un altra dal detto luogo all’umbilico, alquanto però sopra di esso. Un’altra da indi al nascimento del pene, dal quale a circa mezza coscia un’altra: poi un’altra dal detto mezzo della coscia al ginocchio, non però precisamente, ma un sesto circa di faccia al di sopra. Due terzi di faccia occupa il ginocchio e il poco indicato spazio sopra di esso. Dal di sotto del ginocchio al fine de’ muscoli gemelli un’altra faccia: un altra da quivi all’attacco della gamba col piede, l’altezza del quale risponde ad un terzo di faccia. Il che tutto ascende a nove facce e due terzi come si è detto. Ma anche in questa misura, oltre che vi si scorgono gli stessi inconvenienti che in altre osservammo per la divisione, si riconoscono a prima vista difetti notabili. Sopra tutto le gambe vi appajono meschine, le cosce pesanti, il collo breve, il tronco debole, e il tutto nè ben equilibrato, nè armonico.
Assai meglio pare intendesse la bisogna di queste misure Enea Salmeggia da Bergamo, valente e nobile pittore che al principio del secolo decimosettimo, in mezzo alla generale corruzione dello stile, fece tra molte alcune opere degne delle età migliori, tanto fu talora purgato e gentile nel disegno, elevato nel concetto, leggiadro a un tempo e severo nella espressione degli affetti. Ma le sue opinioni si possono meglio desumere dalle sue figure dipinte che dai suoi scritti. Nel 1607 egli stese un libro intorno alle proporzioni umane, come si può vedere da un frammento pubblicatone dal Tassi nelle Vite de’ pittori bergamaschi; e da quel frammento che è il proemio dell’opera, si comprende che egli aveva trovati de’ modi facili, migliori degli usitati; che approvava come ottima la proporzione di dieci facce, e che esponeva con metodo uniforme le misure di tutte le età. Ma le dimostrazioni che importavano più che, il proemio, non vi sono, e il manoscritto che appartiene all’Accademia Carrara di Bergamo, e che, per quanto il Tassi lo dica logoro, mi sarei pure sforzato di diciferare, non essendo ancora ordinata quell’Accademia, non si è potuto trovare. Ciò non ostante, sebbene per quel proemio non appaja il Salmeggia sì buono scrittore, come buon pittore il dimostrano le sue tele, io penso che si possa credere largamente a quanto promette, perchè egli fece più e meglio che non disse, ed è assai più difficile il fare che non è il dire. E mi cade qui in acconcio di osservare che in molti libri si danno precetti d’arte non irragionevoli, ma l’autore imprudente vuol talora aggiungere le figure di quanto propone, e allora in vece di procacciar conferma a que’ precetti fa sì che rimangano screditati e contraddetti da quelle figure.[36]
Dopo il Salmeggia non trovo in grande spazio di tempo veruno scrittore di credito che ci abbia lasciato nuovi metodi intorno alla materia che trattiamo. Nulla si trova di umana simmetria nel libro di Filippo Esegrenio, ad onta di quanto il titolo promette: men che nulla, cioè gravi errori nel Discorso di Gasparo Colombina: lo stesso dicasi delle figure che accompagnano il libro di Giambatista Volpatti, intitolato Il Vagante Corriero o la Verità pittoresca ritamente svelata ecc.
Ma giacchè di tanti mediocri o tristi legislatori dell’umana simmetria si è parlato, non debbe ommettersi Pietro Antonio Barca, ingegnero milanese, il quale in un sol foglio pubblicò un Trattato di pittura, di scultura e di prospettiva, emulo di Cornelio che in tre carte compilò la storia universale. Copiando alcune figure tolte ad Alberto Durero e aggiugnendovi alcune cose prese dal Lomazzo, statuì una figura virile di otto teste, la qual proporzione dice competere a Giove. Una simile ne dà poi di donna per Minerva; un’altra virile ne stabilisce di sette teste per Ercole; un’altra di sette e mezza per Marte; una nuova di otto con suoi aumenti per fare i colossi; indi una di nove per Venere, e finalmente una di dieci per Ninfe o Muse e meglio era dire per le fantasime da fare spiritare i bambini. Questo foglio è un giojello tipografico o per dir meglio calcografico, essendovi impressa in rame anche la non breve spiegazione: giojello ignoto al Mazzucchelli ed al Comolli, nè rammentato dai pochi altri che parlarono del Barca. Esso fa il compagno d’un altro simile che comprende tutta l’architettura civile e militare, ed entrambi si debbono considerare come la prima edizione dell’opera del Barca, stampata nel 1620, col titolo di Avvertimenti e regole circa l’architettura civile, scultura, pittura, prospettiva et architettura militare ecc. Debbonsi, dico, tenere per prima edizione di quell’opera, perchè i grandi rami di que’ due fogli furono tagliati in tanti piccoli pezzi, indi sparsi nell’opera, interpolatovi opportunamente il testo stesso che ne’ rami si legge scolpito. I rami poi non furon forse mai pubblicati, soppressi probabilmente dall’autore, onde dare, in un libro, una più importante forma all’opera sua che dedicò al Re di Spagna, cui era troppo poca cosa il dedicare due rami. Ma l’esempio di tal comodi trattati in un sol foglio era già per la pittura stato dato da Giambatista Paggi nel 1607, ed anche in esso è probabile che vi fossero delle leggi di umana simmetria. Questo foglio però del Paggi chiamato dal suo biografo Raffaello Soprani l’acus nautica dei pittori, è si raro cimelio che non giunsi ancora a vederlo, e nemmeno il Ratti che ristampò le Vite del Soprani, potè mai rinvenirlo ad onta d’infinite ricerche.
Nel resto di quel secolo non mi si affaccia altra opera importante, se non quella di Gherardo Andran, pubblicata l’anno 1683, in foglio. Anche questo valente incisore ebbe prurito d’immischiarsi in questi sottili studj; ma non ardì uscire in campo con canoni proprj, avendo in vece imaginato di raccogliere e presentare agli studiosi le misure delle migliori statue antiche. La sua intenzione fu buona, ed il progetto nuovo ed ottimo; ma le statue sono disegnate, negligentemente e male, e le misure sono in molti luoghi sbagliate. Basti il dire che secondo lui la statua del Gladiator moribondo, se fosse ritta in piedi, sarebbe più svelta d’ogni altra migliore statua conosciuta, non escluso l’Apollo di Belvedere; il che quanto sia falso non ci voglion seste per giudicarlo. E ad ogni modo non si può prestare gran fede alle sue misure, perchè chi disegna all’ingrosso e senza finezza o grazia, come in questo libro ognuno può vedere, non può far credere d’aver tenuto altro modo nel misurare.
Non discendo a discorrere di Félibien, di Dupuy du Grez e d’altri molti, sia esteri sia nostrali, che circa il finire del secolo decimosettimo trattarono di questi studj, perchè sì gli uni come gli altri non fecero che ripetere le cose dette dagli scrittori più antichi, e non aggiunsero di proprio che nuove inesattezze o massime false. E sopra tutto è da osservare che fra coloro che proposero o lodarono la proporzione di otto teste e dieci facce, ch’è certo la più degna di tutte, ve n’ha molti che la storpiarono malamente non intendendola, come, sull’esempio di Paolo Pino, il De Piles ed altri non pochi. Perchè fu da questi tali stabilito alla faccia tre delle quattro parti ond’è composta la testa, mentre ne dovevano dare quattro delle cinque, senza di che non si ottiene la giusta misura reciproca delle teste e delle facce: poichè o le dieci facce farebbero soltanto sette teste e mezza, o le otto teste farebbero dieci facce e due terzi. Perciò il Marchese di Buffon che si attenne al partito delle dieci facce, dovette rinunziare alle otto teste per voler dare un terzo del viso allo spazio che sta tra la sommità del capo e la sommità della fronte. Per tal modo la sua divisione, sebben vanti una certa comodità per le misure, è ricca de’ difetti che notammo in varie che la somigliano, ed è lontana dal produrre quella bellezza di forma che debb’essere lo scopo di questo genere di ricerche; di che chiunque sa disegnare, avrà facile esperimento.
Ma quanto questa forma bella e leggiadra sia difficile a combinarsi con misure facili ed armoniche, si può giudicare dai vani sforzi di tanti uomini d’altronde ingegnosi, che qui mi piacque a comodo degli artefici raccogliere. Tale difficoltà diventerà poi più evidente, allorchè si rifletterà quanto è ardua cosa l’accordare fra loro le tre proporzioni che gli antichi distinguevano, la numerica, l’armonica e la geometrica, e l’applicare tale accordo a formar regole e misure di un oggetto visibile sì vario nelle parti che lo compongono, qual è il corpo umano.
Intanto, senza ch’io entri a far parole de’ più moderni scrittori di simmetria, tutti copiatori degli antichi, spero che ognuno terrà per dimostrato che dei tanti metodi de’ tanti diversi autori intorno a tal facoltà, non ve n’ha un solo che abbastanza si avvicini alla ragion del bello da oscurare gli studj di Leonardo.
Il canone dunque del modesto nostro legislatore, che pure si accusava di non aver posseduto la simmetria degli antichi, più d’ogni altro s’avvicina tanto al bello antico quanto alla bella natura, e come già mi sono espresso di sopra, avanza tutti gli antichi e i moderni in armonia, in precisione, in facilità e in tutti que’ pregi in somma de’ quali sì fatte regole sono capaci.
E per condurre finalmente il lettore ad utile conclusione mi sia concesso di aggiungere alcune osservazioni, dietro le quali si potranno stabilire certe massime fondamentali da seguire nella ricerca di tali studj, e sono le seguenti:
Prima di tutto io son di parere ch’è d’uopo guardarsi dall’abuso della geometria, e che non debbonsi inventare elementi di figura umana fuori della figura umana. Dunque il metodo di Luca Cangiasio e d’altri, di fare il corpo umano di cubi e di obelischi, è un grillo pittorico di nessuna reale utilità. Rubens che dice che l’elemento della testa è il globo (doveva almen dire delle teste tonde),[37] e che l’elemento del tronco è il cubo, e che l’elemento delle braccia e delle gambe è la piramide, dice parimente delle stravaganze scolastiche, colle quali potrà forse qualche meccanico abbozzar meglio un fantoccio o burattino, non mai un pittore o uno scultore fare una bella imitazione di bella umana figura. Altro è bensì lo inscrivere in figure regolari geometriche certe tali dimensioni, che è uso lodevole; imperocchè per esso si porge ajuto alla memoria circa le principali lunghezze delle membra, non circa le forme per lor natura variabili in infinito. Così i Greci, secondo Vitruvio, inscrissero il corpo umano in un cerchio e in un quadrato a certe condizioni, dalle quali emergono note alcune importanti misure. Così Leonardo determinò con un quadrato perfetto certe distanze di parti nella testa in profilo, e con un triangolo equilatero la divaricazione delle gambe, ommessa da Vitruvio, acciocchè il corpo umano rimanga inscritto in un cerchio avendo a centro l’umbilico. La geometria adunque spieghi a suo talento le forme umane, e co’ suoi mezzi ajuti la memoria onde le possa con facilità ritenere, ma non le crei a sua posta; perchè mai una sua piramide ci darà idea d’una gamba e di un braccio; mai un suo cubo ci darà idea di un torso.
Ciò che si è detto dell’abuso della geometria, dee dirsi in generale delle matematiche. Il tentare di accordare fra loro le tre dette ragioni di proporzione, l’aritmetica, l’armonica e la geometrica, ed applicare sì fatto accordo alla bellezza del corpo umano, è tale problema da porsi colla quadratura del circolo e colla duplicazione del cubo.
In secondo luogo il penetrare compiutamente la ragion naturale delle proporzioni umane esigerebbe una conoscenza della fisica che all’uomo non è dato di ottenere. L’equilibrio universale delle infinite parti costituenti la macchina umana, ciascuna delle quali ottenga eminentemente il fine cui è destinata senza interrompere il corso che ogni altra parte ha al suo fine respettivo, in che pare consistere la vera proporzione, è cosa da dirsi più che da intendersi. E quando anche si giungesse a conoscere sì fattamente l’uomo, che si potesse, direi quasi, comporlo, imitando esattamente il composto naturale, si sarebbe ancor fatto poco, perchè si sarebbe fatto un uomo solo. Una sola delle infinite parti che il composto umano costituiscono, che si debba alterare, l’equiponderanza e respettiva relazione delle altre rimangono necessariamente alterate; in breve ogni uomo separatamente sarebbe subietto di tutta una nuova scienza. Ma, per ispiegarmi più chiaramente, gli uomini della natura, come vogliono essere quelli dell’arte, sono tutti fra loro diversi di quantità e di qualità. Queste quantità e qualità, siano pure interne, sempre danno argomento di sè nella superficie: così noi non solo distinguiamo l’uom gracile e l’uom forte dalle ossa e dai muscoli che si vedono, ma distinguiamo anche il flemmatico, il bilioso, il sanguigno, sebbene non si veda nè bile nè flemma nè sangue. Queste stesse quantità e qualità, oltre che hanno modificazioni e gradi infiniti dalle età diverse, vengono non meno alterate dall’abito individuale. L’uomo esercitato di gambe e di braccia nella milizia è diverso dall’uom di lettere che vive a lungo curvo e seduto. Socrate, appresso Senofonte,[38] accenna di volersi esercitare nel ballo per evitare che gli s’ingrossino le gambe e gli si diminuiscano le spalle come avviene a que’ che corrono lo stadio; o perchè, come ai pugilatori, non gli s’ingrossino le spalle e gli si spolpino le gambe. Ecco dunque quante varietà sono prodotte dal ballo, dal corso, dal pugilato. Così ogni umana abitudine, di qualunque genere ella sia, influisce sulla forma umana, e dalla varietà indefinibile e dalla incalcolabile mistura di tali abitudini nasce la infinita varietà delle forme. Dunque è evidente che non si possono determinare vere proporzioni generali senza offendere la natura che l’arte vorrebbe pur imitare.
E quand’anche per l’uso e le ragioni che di sopra abbiamo indicate, si riconosca giovevole all’arte l’avere qualche stabilità di misure, ne rimane notabilmente diminuita l’utilità ed il pregio dal non darsi esse misure se non in corpi stanti e ritti come pali,[39] ragione per cui Michelagnolo principalmente disapprovava l’opera di Alberto. Certamente di rado s’imitan dall’arte corpi umani in positura tale che le misure tutte vi possano aver luogo con lode. Oltre di che, la prospettiva altera al pittore tutte le misure, e però Leonardo stabilisce che s’impari prima di tutto prospettiva per le misure di ogni cosa.
Dal fin qui detto si debbe per ultimo dedurre che non si possono stabilire che proporzioni grosse, e che il riporre troppo di confidenza nelle misure inceppa l’arte anzi che favorirla.
A confermare questa opinione, cui non mancheranno avversarj fra quelli che parlan molto, poco pensano e nulla operano, si dia una breve occhiata alla pratica de’ grandi uomini. Di Raffaello fu scritto, e si vede che tenne tante proporzioni quante fece figure. Michelagnolo fece lo stesso, ed è suo motto che chi non ha le seste negli occhi, non troverà mai artifizio con che supplire a tal difetto. Vincenzo Danti che fe’ tesoro della dottrina di Michelagnolo, asserì nel suo libro, che le proporzioni non cadono sotto alcuna misura di quantità. Di Leonardo abbiamo veduto le infinite eccezioni circa il misurar l’uomo, e le poche sue opere le confermano. Non parlo degli altri minori fra i moderni; e volgendomi agli antichi, trovo che ogni statua lodevole ha proporzioni diverse: trovo anzi che gli antichi variarono stranamente le misure negli stessi caratteri a seconda delle attitudini.[40] E parlando poi in generale delle opere di rilievo, quali canoni potranno determinare la diminuzione o l’ingrandimento di alcune parti, onde ottenere un migliore effetto secondo le circostanze di luce, di distanza di materia, di punto visuale e simili? nessuno di certo. Quindi per quanto si cerchi di accordare fra loro le misure de’ greci e de’ romani monumenti, non se ne viene a capo, se non in misure all’ingrosso, cioè nel modo appunto che abbiam riconosciuto di qualche utilità, ed in tal genere di misure il canone di Leonardo si confà assai bene colla maggior parte delle statue lodate.
Non si vedrebbe però mai fine a questo articolo, se tutte io volessi qui riunire le opinioni, gli esempj e gli studj in questa materia, della quale molti ragionarono che male o nulla operaron nell’arte. Mi parrà intanto d’aver buon frutto dalla fatica da me fatta in cercare tanti nojosi libri, se ciò darà qualche fede a quanto io sono per consigliare, cioè: Che ogni studente di pittura misuri da sè molti corpi di lodata bellezza, facendone confronto colle più lodate imitazioni di pittura e di scultura, e che da queste misure ricavi un canone suo proprio, diviso a quel modo che più al suo ingegno ed alla sua memoria sia conforme. Se molti seguiranno questo metodo, l’arte guadagnerà e nella scienza e ne’ prodotti. Aggiungerà qualche forza al mio consiglio la tanta discrepanza di opinioni in artefici di notabile autorità. Ne aggiungerà in fine il leggere negli scrittori sì gran numero di stravaganze e d’errori. Federico Zuccaro, per esempio, disse con mirabile sproposito che l’Apollo di Belvedere è alto dieci teste. Il Lomazzo fa grande elogio della proporzione svelta di dieci teste, e non è trovabile in natura senza deformità. Il Vasari asserisce che Michelagaolo fece per sino delle figure di dodici teste, il che non si verifica nelle opere sue conosciute, e sarebbe fuor di modo mostruoso in arte, come è affatto impossibile in natura.[41] Le stranezze crescono là dove, oltre le misure, si cercano ne’ corpi umani influenze, somiglianze e futilità astrologiche. Il Tory de Bourges trovò volgare la divisione vitruviana in sei piedi, e preferì dividere il corpo umano in sette parti, cui appropriò le sette arti liberali, o pure in dieci appropriandovi allora i nomi delle Muse e di Apollo. Altri similmente vi appropriarono i pianeti, altri le virtù, altri i metalli e simili inezie. Mancava chi assomigliasse l’uomo all’arca di Noè, e fu scritto anche questo in più d’un libro e fin anche nella Teorica della figura umana del Rubens.
Ma se nel raccogliere i varj metodi di proporzione, unito al tedio si trova pur qualche poco d’istruzione, il raccogliere stranezze e spropositi è mera noja, e gli accennati mi pajono sufficienti a sconfortare ognuno dall’aver ricorso a libri oscuri ed erronei intorno a ciò che assai più chiaramente si legge nel libro della natura. Mi sia dunque lecito di ripetere che un artefice di buon ingegno trarrà più assai di profitto nella simmetria studiando e misurando una dozzina di corpi belli, che non leggendo un centinajo di libri anche dottissimi. Chè se l’artefice è d’ingegno corto ed ottuso, nè libri nè precetti nè natura nè che altro si voglia il condurranno a tale da intendere ed imitare le bellezze della umana proporzione.

DELLE RICERCHE DI LEONARDO INTORNO AI COMPONIMENTI
DELLE ISTORIE.

La somma e principale parte dell’arte, diceva Leonardo, è la investigazione delli componimenti di qualunque cosa; e a questa parte, ch’egli possedeva in grado eminente, devesi specialmente attribuire l’effetto meraviglioso delle sue opere e quell’alto grado di stima che ottennero nella opinione degli uomini. Sonvi certamente fra gli antichi alcuni altri grandi maestri che da questo lato si distinsero e lasciarono esempj degnissimi; ma se alcuno vi fu che superò Leonardo in copia d’invenzioni, niuno di certo potè uguagliarlo nella squisitezza e novità de’ suoi trovati e nell’artifizio difficilissimo di ottenere il massimo effetto con mirabile sobrietà di mezzi.
Se dunque l’invenzione de’ componimenti è parte somma dell’arte, sarà utilissima cosa lo studiare i grandi originali antichi in tal parte eccellenti. Quasi tutti i presenti artisti, da che le scuole cominciarono a migliorare, si accorgono della solenne differenza nell’effetto che produce una composizione del miglior secolo, ed una de’ secoli che venner dopo, ne’ quali in ogni dipintura l’opera della mano superò d’ordinario l’opera della mente. Pochissimi però fra gli artisti sono quelli che indagano l’origine di tal differenza per ottenere la bellezza delle antiche composizioni e fuggire la snervatezza ed insulsaggine delle posteriori. Certamente chiunque è fornito di un senso buono per l’arte, rimane tocco nell’animo da un sentimento di venerazione o di ammirazione o di qual altra si voglia affezion piacevole alla vista d’una Sacra Famiglia di Raffaello, di Andrea, di Leonardo. Ognuno che abbia qualche uso delle cose del disegno, è costretto senz’avvedersene ad arrestarsi per contemplarne la maestosa amabilità; e di momento in momento cresce l’affetto con cui l’opera si ricerca, e la piacevole intensità con cui tu la vai contemplando, diviene sì forte che hai bisogno di qualche riposo o distrazione onde potere in quella continuare. Con ciò tu cangi di luogo; vai in cerca di miglior luce; ti avvicini per verificare un giudizio che hai fatto da lontano; ti allontani per godere l’effetto delle cose che per minuto osservasti d’appresso. Nè però ciò ti sazia, e se passi a veder altro, come nelle quadrerie avviene, quando torni ad opere di questi ottimi e di pochi altri a lor prossimi in merito, sei costretto a ricontemplarle di nuovo, e finalmente non le lasci se non con dispiacere, riportandone nella mente e nell’animo una impressione profonda.
Ora perchè lo stesso non avviene d’un quadro del Maratti, del Cignani, del Berrettini, del Ferri? anzi perchè lo stesso non avviene delle opere dei tanto a questi superiori Caracci?
Se i pittori facessero sovente a sè stessi questa dimanda, e se sapessero rispondersi adequatamente, l’arte della pittura camminerebbe, credo, assai meglio.
Pertanto, se ciò tiensi per vero, egli è chiaro che una gran parte di quell’effetto si debbe al merito della composizione; e perciò sarà, ripeto, di grande utilità l’indagare con assidua e pertinace curiosità dentro tali opere i modi, i sensi, le intenzioni degli autori, e tentare di conoscere da quali fonti emanò tanta superiorità ed eccellenza, e per quali vizj o difetti posteriormente di tanto degradasse. E tali ricerche non farannosi, come in parte si fece da alcuni scrittori nello scorso secolo, ad oggetto di trarne frivoli ridicoli precetti di linee, di forme e d’altre simili inezie; precetti che, fatti sulle opere, sono dalla stessa loro origine dichiarati falsi, perchè siamo certi che gli autori delle opere sulle quali si fecero in appresso i precetti, si erano essi stessi fatti de’ precetti sulla natura universale, senza de’ quali non sarebbero uscite dai loro ingegni quelle egregie produzioni. Farannosi in vece le dette investigazioni per meglio godere il bello delle opere da chi ama queste professioni del disegno, e da chi le esercita si faranno ad oggetto di migliorar l’arte col conoscere per esse quali diligenze furono usate da que’ valentuomini antichi, quali fossero i precetti ch’essi trassero dalla natura, quali finalmente i mezzi con cui la studiarono ed interrogarono con profitto.
Non è pertanto mio proposito di qui indagare e svolgere le teoriche generali che dall’esame delle più famose opere antiche si potrebbero giudicare aver servito di scorta agli autori di quelle; nè tampoco d’investigare in molti componimenti donde principalmente quell’antica perfezione derivi. Sebbene l’importanza della materia e il desiderio di richiamar l’arte alle antiche maniere mi abbiano condotto, senza quasi avvedermene, a consigliare sì fatti studj sulle belle produzioni dell’epoche più nobili dell’arte, il mio intento principale in questo luogo è quello di aggiungere qualche autorità a quanto ho scritto intorno al Cenacolo col riferire alcune osservazioni circa altre opere di Leonardo, nelle quali non solo si scorge a parer mio evidentemente il suo gran sistema d’investigare ne’ più semplici argomenti cose del tutto nuove, sempre seguendo la natura, ma si ammira lo straordinario suo ingegno per averle sapute ritrovare leggiadre sempre e mirabili.
Pochi sventuratamente sono i componimenti del nostro autore che si possano offerire all’analisi che proponiamo, e perchè pochi egli stesso ne ha lasciati e perchè alcuni andarono perduti. Io mi limiterò pertanto a parlare di que’ due soli ch’eccitarono anche al suo tempo maggior meraviglia, la battaglia, cioè, d’Anghiari e la sant’Anna colla Vergine in grembo; ai quali mi limito anche più volentieri e per la più nota loro eccellenza, e perchè più facilmente che non degli altri può il lettore averne idea dalle stampe che ne girano.
Ragionando adunque della battaglia, parmi dover prima avvertire essere erronea la comune credenza degli scrittori che il gruppo che ne abbiamo, sia soltanto una parte dell’opera, mentre dal modo con cui il Vasari ne accenna l’argomento e dalla spiegazione che ne daremo, si vedrà che è l’opera intera trattata episodicamente come il soggetto voleva, e come si dovrebbe fare mai sempre, ogni qual volta si rappresentino istorie che esigono un numero straordinario di figure e una gran moltiplicità di azioni.
Sappiamo dalla storia, e il vedemmo nella descrizione del Cenacolo, come Leonardo, allorquando doveva trattare un dato argomento, prima s’informava con ogni accuratezza di tutte quelle cose che dai lati eziandio più lontani potessero a quello appartenere. Per tale investigazione egli stava gran tempo attorno ai suoi soggetti, non risparmiando vigilie nè fatiche; e quando pareagli essere pienamente in possesso del suo tema, allora imaginava nella natura di esso ciò che più al linguaggio dell’arte convenisse, col doppio scopo di un utile sviluppo di passioni o qualità morali, e della mostra di quel bello fisico che meglio rispondesse alle condizioni de’ soggetti. Il fatto d’arme che avvenne tra Niccolò Piccinino e i Fiorentini presso Anghiari, era ricco di pittoriche circostanze. Leonardo ne tracciò di suo pugno una vivace descrizione al foglio settantesimoterzo del famoso Codice atlantico; e anche da quella si scorge il suo sistema di tutto raccogliere il vero, il verisimile e il poetico, onde potere scegliere più opportunamente e combinare meglio le circostanze pittoriche, combinando e scegliendo fra la dovizia di moltiplice materia. La detta descrizione, che nelle note ho trascritta,[42] somministra di che comporre una ventina di quadri, sebbene un solo ne dovesse Leonardo comporre: ma nel solo ch’ei fece, riunì ed espresse tutto il più importante dell’azione che volea rappresentare.
Egli conosceva troppo bene i limiti dell’arte, e sapeva che non sarebbe giunto giammai ad ottenere buon effetto dall’opera sua, qualora egli avesse voluto rappresentare la battaglia, direi quasi, per intero, come si fa dal più de’ pittori in sì fatti argomenti, con gran varietà e numero di gruppi, tutti tali da attirarsi l’attenzione dello spettatore. Imitando in vece con ragion pittorica i poeti che nelle loro battaglie non trattengonsi a lungo a descrivere i movimenti d’un’oste intera, ma descrivono volentieri i certami singolari o di pochi scelti personaggi sui quali cade più viva l’attenzione e l’affetto che non sulle torme sconosciute, pensò Leonardo caratterizzar quella giornata con un solo gruppo al modo seguente.
Dallo stesso scritto di lui si ricava che il forte della battaglia fu tra le squadre a cavallo: che si combattè tutto il giorno con grande ostinazione e con varia fortuna: che i pedoni anch’essi combatterono con grande animo e tornarono più volte all’attacco: che in fine si diedero i vinti alla fuga, e che ai Fiorentini, dopo lunga indecisione, rimase la vittoria.
Che fece dunque Leonardo onde significare con pochi ma potenti mezzi l’ostinazione terribile della zuffa, l’ambiguità dell’evento, l’evento stesso vicino a mostrarsi, la ferocia de’ combattenti a piedi e a cavallo, e finalmente la fuga de’ vinti?
Ei compilò tutto questo in sole sette figure, quattro principali e tre accessorie. Le quattro principali sono a cavallo, perchè la cavalleria decise in quel giorno dell’esito della mischia. Se ne veggono due per ognuno de partiti, e combattonsi una bandiera, il riportar la quale sull’inimico è il noto segnale della vittoria. Ma anche di queste quattro principali figure due soli cavalieri primeggiano, l’uno de’ quali già posto in fuga si porterebbe la sua insegna, se sopraggiunto dall’avversario non fosse costretto di arrestare all’istante sè e il cavallo, sforzandosi d’impedire che l’insegna gli venga tolta di mano. Ma il suo sforzo è vano, e il nemico già tiene d’ambe le mani l’asta dell’insegna per sì fatto modo che poco più potrà quel primo sostenerla. L’esito dello scontro è imminente a danno del fuggitivo; ma ecco sopraggiungere un altro cavaliere a recargli soccorso. Il furore medesimo accende il cavaliere e il cavallo: questo anzi si slancia con impeto ferocissimo, e incrociando le proprie colle gambe del cavallo nemico, il morde nel petto fieramente e quasi lo arresta; ingegnosissimo avvedimento dell’artefice onde sospendere la furia della fuga ed arrestare, son per dire, l’azione per farne spettacolo. Il cavaliere intanto alza furibondo una daga e minaccia con quella le mani con cui il nemico si sforza di strappare lo stendardo a quell’altro che sta quasi per cederlo. Il suo colpo metterà nuovamente in forse la pugna, se non che è reso vano dal quarto cavaliere il quale, arrivando con non minore rapidità e ferocia, rompe quella breve sospensione, ed è evidente che al finir dell’azione, cioè un istante dopo il momento rappresentato, il fuggitivo avrà perduta la sua insegna ad onta dell’avuto soccorso, e la vittoria rimarrà coll’insegna all’assalitore.
Mentre intanto si disputa la bandiera dai quattro animosi cavalieri con moti fierissimi ed estremi, i fanti, cui sembra che l’ira abbia fatti dimentichi del rischio d’esser pesti dalla cavalleria, spinti dall’estrema esacerbazione dell’animo, con pari forza, sebbene con minor gloria, si disputan la vita. Quest’odio e questo furore scorgesi espresso nel gruppo secondario che si vede fra le gambe dei cavalli. Un pedone, cui riuscì d’afferrar per le chiome il suo avversario, cade avviticchiato con esso e si sforza di dargli morte con un pugnale. Il caduto, sebbene prossimo al morire, sembra ancora minacciare il soprastante nemico; e questi, sebben prossimo a vincere, mostra all’aspetto aver ancora l’anima ingombra dallo spavento del presente e de’ futuri pericoli. Rimaneva a rappresentare la fuga: ecco un altro pedone che coprendosi collo scudo si sottrae al furore de’ cavalli, e lascia la guerra, tenero più della vita che della gloria. Egli così carpone tenta allontanarsi dal luogo periglioso della pugna, cui si volge guatando spaventato ed incerto ancora del suo destino.
Ecco come in un semplice episodio seppe Leonardo, con vera ragion pittorica, epilogare i principali avvenimenti di quella grande giornata. Quanto abbiamo qui descritto vedesi nella stampa che l’Edelink trasse da un disegno che il Rubens fece di quest’opera, trasfigurandola alla sua maniera caricata e licenziosa; può anche vedersi in un altro disegno che fu pubblicato nell’Etruria Pittrice. Ma l’una e l’altra di queste stampe, la prima per l’esagerazione e la caricatura, la seconda per la freddezza e la meschinità sono male adatte a darci buon saggio dell’opera di Leonardo; solo si debbono guardare per conoscere la composizione e l’invenzione delle attitudini, di che facciam soggetto nelle presenti osservazioni. Le varie altre circostanze notate nello scritto di Leonardo e che potean essere contemporanee all’azione principale, saranno state rappresentate in gran distanza con figure diminuite notabilmente dalla prospettiva.[43]
Io non dubito altresì che nell’opera originale, quella strana varietà d’armi delle quali gli attori di questo mirabile quadro eran vestiti, avrà espresso le squadre principali ch’ebber parte nell’azione. Fors’anche ne’ quattro cavalieri saranno stati rappresentati i quattro più illustri condottieri di quell’impresa, de’ quali non saran mancati i ritratti.[44] Ma sian pure ideali non istorici i personaggi di quest’opera, egli è certo che Leonardo, per mezzo dell’armi, delle insegne, degli stemmi e delle altre cose accessorie, avrà distinto o le famiglie loro per lo più note ed illustri, o gli stati pei quali combattevano. Nell’armatura in fatti del capo di colui dei quattro cavalieri che sta per perdere l’insegna, anche dalla stampa tratta dall’ammanierato disegno del Rubens, si vede una coda di serpe, che forse è parte dello stemma di Filippo Maria Visconti che perdè quella giornata. Le alterazioni capricciose con cui ci fu tramandata quest’opera, sono cagione che poco si possa trarre dal resto degli accessori, intorno ai quali sarebbero in oltre necessarie più minute e diligenti ricerche al presente mio scopo inopportune.
Nè ci si debbe opporre che di quanto io qui accennai intorno alla corrispondenza che la rappresentazione di questa istoria sembra avere coi fatti avvenuti secondo che Leonardo ne fu informato, non ci si debbe, dico, opporre che nulla si trovi nel Vasari che diede per altro una vivissima descrizione di questa dipintura. Chiunque ha in pratica il suo libro, avrà sovente avuto occasione di vedere ch’egli d’altro non si curava se non che di riportare ciò che l’arte dimostra anche al volgo, dilettando con uno stile che con molta naturalezza adattava al soggetto del suo dire. Ma avrà similmente veduto ch’egli non si prendea pensiero d’investigare nelle opere quei sensi reconditi che i primi più gravi maestri non trascurarono mai di porre nelle loro invenzioni. Da ciò nacque che tante opere insigni sono descritte dal Vasari con bei modi, a dir vero, e con vivace ed evidente dicitura, ma nel resto leggerissimamente, e, ciò ch’è peggio, talora con tanta disparità dal vero, che allorchè vedonsi talune delle opere descritte da lui, non si crederebbe ch’ei d’esse ragioni. E se sì fatta negligenza usò nelle cose più note e famose di Raffaello, come ognuno può vedere, non è meraviglia s’egli fu trascurato nell’indagare la ragion vera di un’opera al suo tempo perduta, o di cui appena esistevano alcuni frammenti dispersi, contento d’altronde di descriverla con brio e vivacità.
Dal fin qui detto parmi intanto si possa conchiudere essere veramente nuovo e bellissimo l’artifizio con cui Leonardo raccolse in un solo poetico episodio, e figurò i casi varj d’un complicato fatto d’arme in modo da tener viva l’attenzione, sospeso piacevolmente l’animo, occupato con forza il pensiero, ed esprimendo al suo solito molto più che non espone.
Ma vediamo ormai con quale industria la mente divina del nostro pittore trovò nobilissima invenzione in argomento per sè volgarissimo. Debb’egli fare una Nostra Donna col putto e la madre sant’Anna. Egli pose la sua sant’Anna a sedere in un paese amenissimo, e sulle ginocchia di lei fece Maria che tiene il divino infante il quale scherza con un agnelletto. Ecco ciò che si vede da ogni occhio volgare; ma chi non vede più oltre, vedrà collo stesso affetto un quadro del Vinci ed uno di Pietro da Cortona o d’altro mediocre ed ammanierato moderno. Ben altro è il concetto del nostro pittore, e possiamo agevolmente persuadercene, se osserveremo attentamente lo schizzo qui unito, imitato dalla prima idea ch’ei pose in carta, di questo soggetto.
Il putto volgesi verso l’agnello: la Vergine sembra sforzarsi di distornelo: sant’Anna in vece, stendendo la destra dietro le spalle della figlia e la sinistra dietro l’agnello, pare compiacersi che il putto divino si accosti all’agnello, e tenta impedire che la Vergine ne lo allontani. Ora chi crederebbe che questo semplice gruppo che superficialmente considerato non rappresenta che un giuoco puerile e uno scherzo famigliare, se più profondamente si osservi, rinchiude l’artificioso concetto di una sublime e delicata invenzione? Non è già qui l’agnello il consueto seguace del Batista, nè v’è qui il Batista bambino, checchè si dica dal negligente Vasari, indotto precisamente in errore dall’agnello: esso è qui soltanto siccome simbolo di vittima, antichissimo simbolo, ricevuto in ogni tempo e soprattutto adottato dalla Scrittura. Il divino infante si mostra desideroso di prenderlo, con che viene espressa la di lui brama di farsi vittima per l’umana salute e di consumare presto il sacrifizio per cui fu spedito in terra dal Padre celeste. La Vergine tenta di allontanarlo da sì fatto progetto, non le reggendo il cuore di vedere sacrificato il proprio figliuolo. La madre di lei, che con la mente profetica vede salvarsi l’uman genere col sacrifizio del divino nipote, sembra compiacere al di lui desiderio e consigliare alla Vergine di conformarsi all’eterna disposizione del cielo. Rimaneva a rappresentare in qualche modo lo stato verginale di Maria; e l’arguto Leonardo ottenne a mio parere l’intento, ponendola in grembo alla madre al modo come stanno amorosamente le figlie d’innocente costume, prima che la mistura cogli uomini tolga loro quel brio ingenuo e l’abito a facili e pubbliche dimostrazioni di tenerezza.[45]


Tale è il componimento secondo la mente di Leonardo, e ne sia prova il sonetto che può leggersi nelle note,[46] fatto su tale argomento da Girolamo Casio de’ Medici, nel qual sonetto in rozzi e ridicoli versi l’alta invenzione ed il concetto sublime di Leonardo leggesi espresso a chiarissime note. Nè si giudichi già doversi tale spiegazione ad un poetico grillo del Casio anzi che alla mente di Leonardo, indagatrice di nuove, sottili e leggiadre cose. La fantasia del Casio non poteva tant’alto salire, come tutte le sue composizioni il dimostrano: bensì potè una sua scrittura, sebbene meschina nello stile e negli altri modi tutti dell’arte, acquistar luce ed importanza per averci conservato un pensiere di Leonardo, degno di migliore autorità, ma che pure di qualche autorità avea d’uopo. Come poi al Casio giungesse la notizia della recondita idea del Vinci in quest’opera, facilmente si dimostra dall’aver esso conversato, se non con Leonardo stesso, certamente col valente nostro Boltraffio, suo discepolo de’ migliori, il quale nella sua bella tavola di Bologna che ora conservasi nella galleria reale, ritrasse il Casio con tanta naturalezza, che appena il suo gran maestro l’avrebbe potuto far meglio.
Dalla nuova spiegazione di questo vago componimento si potrà anche intendere come spesso nelle tavole della scuola nostra antica si vegga Cristo bambino scherzar coll’agnello ed abbracciarlo, volgendosi con un sorriso dolcissimo alla Vergine o allo spettatore, come si può osservare in opere di Bernardino e d’Aurelio Luini, di Gaudenzio da Varallo e d’altri che imitarono la maniera o le idee di Leonardo, e ne copiaron talora quadri o cartoni.[47] Così quel grazioso putto che sorride tanto gentilmente, abbracciando un agnello, opera nota di mano di Bernardino, da chi ha in pratica il fare del Vinci, si crederà anch’esso derivato da un suo cartone o disegno, e comunque tradotto sovente in un san Giovannino, fu probabilmente ideato per un Salvatore che, stringendosi con tenerezza al seno l’agnellino, dimostra quell’ardente desiderio di farsi vittima per la salute del mondo, desiderio che il Paciolo il quale conversava assiduamente col Vinci, trovò simboleggiato, come vedemmo, anche nel Cenacolo.
Sebbene poi non si accordi interamente coll’esposto il componimento dello stesso soggetto che dipinse il Salaino, e l’altro cominciato da Leonardo per Francesco re di Francia, non si dee credere che Leonardo abbia quivi abbandonata l’alta invenzione che vedemmo conservataci dai rozzi versi del Casio. Anzi con quel suo cercar sempre nuove cose, dopo aver fatto probabilmente sullo schizzo che qui presentiamo, il primo cartone che fece maravigliare tutta Firenze, ne tentò un altro sugli stessi principj (che servì poi per l’opera del Salaino e per la sua di Parigi), nel quale mirò ad esprimere un momento posteriore all’ideato nella prima composizione. Parve forse a Leonardo di aver fatto qualche cosa di non analogo al divino carattere di Maria nel darle un atto col quale tenta impedire che il suo figlio si accosti all’agnello, o sia si faccia vittima a redenzione degli uomini. Questa ritrosia all’eterno decreto dello sposo celeste non gli sembrò accordarsi coll’umiltà che la Scrittura attribuisce all’ancella di Dio. Raffinando adunque il suo componimento dietro questo principio e facendol di nuovo, rappresentò Maria già persuasa dalla madre in atto di permettere al figlio che prenda ed abbracci a suo talento l’agnello. Sant’Anna mostra con un sorriso celeste la compiacenza a un tempo, la beatitudine e la gloria d’esser madre della divina famiglia, e di antivedere oprarsi dal figlio di Dio la salute dell’uman genere. Il putto si volge sorridendo alla madre, in atto quasi di godere del suo trionfo, e di consolarla al tempo istesso dell’affanno che le cagionerà il proprio sacrifizio. La madre in fine guardandolo con una dolcezza ed una soavità che a Leonardo solo fa dato d’imitare, sebben muova nelle labbra un modesto angelico sorriso di tenero compiacimento, mostra negli occhi alquanto socchiusi e in un lieve elevamento e gonfiamento delle palpebre inferiori, che il di lei cuore non è tranquillo, e che la gloria d’esser madre del Salvatore non la fa dimentica che la grand’opera della salvazione si farà col sanguinoso sacrifizio dell’unico suo figlio.
Coloro ai quali può per avventura sembrare che tale interpretazione superi il concetto del Vinci, leggano queste cose in presenza del quadro dipinto dal Salaino,[48] che si conserva nella sagrestia di san Celso, e si persuaderanno facilmente che, fatte appena le dette osservazioni, non v’è bisogno alcuno dell’autorità del Casio e molto meno della mia per trovarle conformi al modo di pensare e di operare di Leonardo, secondo ciò che gli storici tutti ne scrissero, ed egli stesso provò nelle poche sue opere.
Così nel Cenacolo, nella battaglia d’Anghiari e nel quadro della sant’Anna abbiamo tre diversi esempj, non solo di tre stili differenti, convenientissimi ciascuno al relativo soggetto, ma di tre modi d’invenzione singolarissimi, e tali che appena se ne trovano di simili nelle storie de’ più famosi tra i greci artefici. E s’io non erro, parmi che in ognuno di questi tre quadri la ragion dell’arte sia portata a quel colmo, oltre il quale la filosofia non ha più che desiderare: e se si porrà mente alle infinite considerazioni che debbe aver costato all’autore il tenere un tal nuovo modo nelle opere sue, si avrà una chiara ragione della lentezza con cui le conduceva, e del piccolo numero che potè darne all’ammirazione della posterità.

DELLA ECCELLENZA DI LEONARDO.

Sorgono di quando in quando uomini di sì mirabile tempra d’ingegno, che mentre ci consolano dimostrandoci a qual sublime meta di perfezione può l’uomo aspirare, ci umiliano da poi e quasi ci avviliscono col farci sentire quanta distanza ci divide da loro. Il tentare di conoscere, almeno in parte, le cause per le quali da taluni si sale ad eccellenza meravigliosa in qualsivoglia facoltà, è sempre utile per chi corre la stessa strada con quelli, e ci serve di scuola onde fuggire ciò che nuoce e seguire ciò che giova al perfezionamento di quanto si pone per fine delle nostre ricerche e fatiche. L’esperienza, a dir vero, dimostra sovente che ad onta della parità de’ mezzi un ingegno progredisce più rapidamente d’un altro, e che talora un mezzo che a tale ingegno è di grande utilità, non reca a tal altro lo stesso beneficio. Pure esaminati, per quanto dal basso si può dell’alto giudicare, i mezzi impiegati da grandi uomini specialmente antichi onde emergere eccellenti e mirabili, chi è giudizioso e discreto, a forza di comparazioni e di ripetuto esame, può benissimo scernere di quali de’ detti mezzi possa giovarsi e di quali disperare; e in ogni modo, se lo sprona amor di bene e di gloria vera, guadagnerà sempre più dal riguardare alle vie antiche degli ottimi che non dal batter l’orme o seguir la voce de’ mediocri di ogni tempo, ed anche di que’ buoni la cui grandezza non è per anco sanzionata dal voto imparziale de’ posteri.
Mosso da queste ragioni io avrei pur voluto dar qualche solenne fine a questi miei scritti coll’esaminare le cause della eccellenza a cui salì Leonardo; ma intimorito dalla grandezza del tema, anzi che trattarlo, più volentieri mi risolvo di consigliarlo siccome utile materia delle meditazioni degli artisti non digiuni di sana filosofia. Non ostante a forza di scorrere col pensiero più e più volte intorno a sì fatto nobilissimo argomento, comechè sterile del tutto mi trovassi di nuove e degne osservazioni, pure alcune ne ho tracciate che, quantunque ovvie e triviali, credo non essere del tutto inutili, e però mi fo ardito di esporle. Il lettore indulgente, avuto riguardo al mio buon volere, avrà a grado il nuovo tema, e fatto chiaro del vantaggio che se ne può trarre, avendo buon ingegno, lo coltiverà meglio ch’io non posso, e ne caverà frutto migliore ch’io non vaglio ad offerirgli.
Innanzi però che più m’innoltri, mi è d’uopo avvertire che io non entro affatto a ricercare in che o quanto fosse Leonardo eccellente; nè è mio pensiero l’indagare la sublime natura del suo ingegno; ma solo io voglio dire di alcune cose che credo abbian contribuito a perfezionarlo, sviluppandolo più felicemente e rendendolo fecondo di più nobili produzioni. E come nelle indagini di questo genere, primo mio scopo è sempre il trarre da quell’antica luce qualche riverbero che rischiari la incerta strada che al dì d’oggi si va tentando, all’osservazione di tali cause aggiungerò in comparazione un cenno di quelle che mancano o esistono anche al presente. Per tal modo si potrà vedere se il decadimento, l’imperfezione e il poco finora raddrizzamento dell’arte caduta sia colpa tutta nostra o lo sia de’ tempi e delle circostanze nostre; o pure quanta parte di colpa appartenga ai tempi, quanta alle circostanze, quanta a noi stessi.
Per venir dunque al proposito nostro, piacemi prima volgere lo sguardo all’epoca nella quale apparve questo privilegiato intelletto, e il veggo nascere nel bel mezzo del secolo decimoquinto, per l’appunto allorchè gli animi e gl’ingegni italiani conservavano ancora la veemenza delle grandi passioni della non antica barbarie, e tutta la gentilezza e il fiore d’una civiltà già matura: utilissima non rinnovabile combinazione di tempi, e sola vera epoca in cui quelle arti del bello che han d’uopo di molto sussidio meccanico, si portano alla perfezione. Lascio ai profondi politici l’investigare se sia di più vantaggio alla gloria italiana la tanto disputata unità di governo, o se più s’accordi a paese sì vario d’uomini, d’ingegni e di costumi quella moltiplicità e varietà di ordini civili che si è veduta ne’ secoli migliori dopo la caduta dell’imperio.[49] Certa cosa è che chiunque mirerà colla luce della storia il quadro delle corti e delle città libere italiane del secolo decimoquinto, è d’uopo asserisca che la quantità degl’ingegni distinti in Italia non è dovuta al cielo soltanto ed al suolo, ma anche agli ordini politici ed alle civili istituzioni, poichè la copia che allora se ne vide, fu maggiore che in ogni età posteriore. Ma sia comunque si voglia, in quel beato tempo passò Leonardo la sua giovinezza, ed ebbe oltre a ciò a singolare fortuna di vantare una patria qual era Firenze che già dominava l’Italia colla lingua, che sola delle città grandi di questa provincia conservava la sua libertà, e che sostenea la sua grandezza con opere d’arte meravigliose pubbliche e private, alle quali consacrava una opulenza ch’era il frutto delle arti pacifiche del commercio e dell’agricoltura. In Firenze ai primi anni di Leonardo, salvo non molte opere, erasi di già fatto quanto anche al presente vi si conserva di più bello: la torre di Giotto, la cupola del Brunellesco, le porte del Ghiberti e le pitture di Masaccio eran tali moderni esempj, che Roma stessa, non che altra città europea, non ne dava di simili. In breve quella vera Atene dell’Italia vantava allora maggior numero di nobili artefici che non ne avesse forse tutto insieme il rimanente d’Europa. E quella vita, quel moto, quella concorrenza di molte città, per cui ognuna tentava di emular di grandezza e bellezza d’opere la vicina; il continuo ricco e sodo fabbricare de’ poderosi cittadini; l’amore di lasciare delle memorie di sè, diretto ad ergere utili edifizj pubblici; le lettere largamente favorite; la nuova rivoluzione dell’invenzione della stampa e dell’incisione, tutto in somma a quel tempo era una chiamata ad un ingegno alto e perspicacissimo, qual era quello di Leonardo, ad ottenere fama e gloria, e superare i tanti nomi già illustri ed onorati a quel secolo. E queste circostanze eminentemente grandi in Toscana furono di tanta potenza ad accender gli animi ed a spingere le menti a nobili e gentili imprese, che quella terra felice diede in pochi anni uomini grandissimi, non pure nelle arti del disegno, ma nelle lettere, nella politica, nella guerra e fin anche nella nautica, imponendo al nuovo mondo il nome d’un suo cittadino.
Certo se circostanze simili fossero assolutamente necessarie onde pervenire a qualche eccellenza, non ce ne rimarrebbe oggi speranza alcuna ragionevole. Sebbene però siamo lontani dal poter noverare tali vanti che bilancino la perdita di quelle tante antiche glorie, ciò non ostante il presente secolo per alcune felici combinazioni ha molti vantaggi che i due scorsi non ebbero.
Ma grazia non minore della indicata di tempo e di patria fu per Leonardo l’aver avuto a maestro nell’infanzia un valentuomo qual era il Verocchio, versato in tutte le arti, buon pratico e non volgare teorico. E a dir vero di sì fatti maestri s’è perduto il seme da gran tempo, e quelli fra pittori viventi che si distinguono dalla plebe degli artefici, tutti hanno dovuto disimparare nella età seconda quanto nella prima impararono. Lagnavasi Raffaello di aver avuto il Perugino a maestro: che dovremmo dir noi, quando guardiamo le scuole che finirono collo scorso secolo? E se fu di gran giovamento a Leonardo l’aver avuta la disciplina del buon Verocchio, non gli fu meno utile il liberarsene presto, e presto attendere da sè allo studio della natura; con che ottenne quella originalità che a Raffaello costò fatiche maggiori per la forte radice che in lui avea posto la maniera del Perugino.
Grande impulso a sforzi d’ingegno straordinarj fu parimente al tempo di Leonardo la stima in cui gli artefici del disegno eran tenuti, solendosi ad essi affidare ogni impresa che paresse esigere acutezza di mente e nobiltà d’artificio. Così tutti i grandissimi artefici ebbero occasione di trattare tutte le arti, e portarono in ognuna le forze di tutte; potente cagione di eccellenza che spesso si travede come un ostacolo. Ai tempi nostri le arti divise zoppicano, e nelle opere composte di più arti si vede spesso in lite un’arte coll’altra, come avviene negli edifizj oppressi dalle statue, nelle pitture storpiate dagli ordini architettonici, o a vicenda negli ordini architettonici barbaramente tagliati da stravaganti pitture.
Impulso maggiore dovette poi essere al secolo del Vinci la memoria recente degli onori concessi agli artefici del disegno, e il rispetto serbato fin anche alle ossa loro. Lorenzo il Magnifico chiese agli Spoletani le ceneri di Fra Filippo ed il rifiuto che n’ebbe, fece onore a Lorenzo, agli Spoletani e alla memoria del pittore.[50] Il Brunellesco, il Ghiberti ed altri tennero il supremo magistrato in Firenze, come il tennero Francesco di Giorgio, ed Ambrogio Lorenzetti in Siena ed altri varj altrove, solo per essere stati rari ed eccellenti nelle arti del disegno. Questo genere di onori andò presto fuori d’uso, e se si legge di qualche luminosa giustizia resa al merito ne’ tempi posteriori, non son da confondere con quelle antiche onorificenze decretate da città libere i compensi talora straordinarj con cui, in ispecie ne’ due scorsi secoli, molti sovrani a capriccio o per grazia premiarono nell’artefice piuttosto un favorito che il valore dell’arte. Nel seicento si profusero titoli, collane e cavalierati a molti pittori di cui ora si disprezzano le opere: nulla di simile ottennero nè il Buonarroti nè il Sanzio nè il Vinci, che furon pure anche vivendo tenuti in altissima stima. L’opinione intorno a tal cose cangia secondo i costumi ed i tempi, e negli uomini individui secondo gli animi, i caratteri, gli abiti giovanili e finalmente secondo l’alta o bassa nazione e condizione. Ad ogni modo il vero compenso dell’artefice di sano ed alto pensare sta nella considerazione e nel conto in cui è tenuto, non ne’ premj e negli onori. E bensì vero che quando la considerazione non è universale d’una città, ma viene da uno o da pochi, non è da valutarsi se è disgiunta da premj e da onorificenze; il che ne’ governi monarchici si vede. Anche in ciò pertanto il nostro secolo ha subito un’utile rivoluzione, e da qualche tempo è cresciuta l’opinione dell’arte e migliorata in qualche maniera la condizione dell’artefice distinto.
Nè minor ventura ebbe Leonardo nel trovare in Lodovico il Moro un signore magnanimo che conosceva l’altezza del suo ingegno e che premiava larghissimamente le varie opere in che lo andava occupando. Francesco I, splendidissimo principe, interrogò già Benvenuto Cellini s’era maggior sorte quella d’un grande artefice in trovare un re magnanimo che gli desse grandi occasioni di operare, o pure quella di un re in trovare un artefice che degnamente rispondesse alle sue mire grandi e generose. Il Cellini rispose, come dovea, maggiore essere quella dell’artefice: il re che senza riguardi potea sciorre la quistione a suo modo, voleva altrimenti, e conchiuse essere per lo meno pari fortuna. Se pertanto è pari fortuna per un principe il trovare un grande artefice, e per questo il trovare un re di grande e liberale animo, egli è certo che grave è la colpa d’entrambi, quando l’uno trascura l’occasione d’impiegare a favore dei buoni artefici la sua potenza, l’altro in propria gloria e del principe e della patria il suo ingegno.
Utile grande ebbe anche Leonardo non solo dai comodi largamente fattigli dal principe, ma dalla onesta libertà di che pare godesse nella corte, e dalla confidenza di che il principe il facea degno. L’indipendenza della vita, allorchè si accompagna in onesto ed alto animo all’amore della vera gloria, è madre di quanto l’umano ingegno genera di bello. Le opere degl’ingegni migliori liberamente composte sono quelle che più fanno d’onore a loro, e che danno una più sublime idea dell’umana potenza morale. Il Petrarca compose liberamente in varj tempi ed a capriccio il suo canzoniere, e da quello ha la sua gran fama, mentre il poema dell’Affrica da lui fatto con tanto sforzo, quantunque coronato, è rimasto senza lettori. Il Caro volle esercitarsi liberamente negli endecasillabi, e ne fece non solo la miglior opera sua, ma la miglior traduzione che la lingua italiana vanti dell’Eneide. Il Tasso fe’ l’Aminta allo stesso modo. De’ pittori Fra Filippo, chiuso nel palazzo di Cosmo e lontano dalle sue pratiche amorose, non è capace di nulla: libero, eccita la meraviglia de’ suoi contemporanei colla gentilezza e ricchezza delle sue opere. E lo stesso avvenne d’altri varj, come ognuno nella storia delle arti belle può osservare. Però que’ potenti che a compenso de’ comodi che compartiscono ad onorati e buoni artefici, li privano della loro libertà sopraccaricandoli di obblighi e doveri con limiti di tempo, di mezzi e d’altro, inceppan loro gl’ingegni e li privano di quel primo quasi elemento dell’arte, senza il quale essa o rimansi infeconda, o produce frutti men nobili e talora indegni del suolo ove naquero.
Ma la più potente cagione, a parer mio, del mirabile sviluppo dell’ingegno di Leonardo fu il suo sistema di studio e quel suo interrogare direttamente e da sè la natura universale. Questo fu il vero segreto della sua condotta pittorica, segreto che è in mano di ognuno, ma che tuttavia da pochissimi è praticato.[51] Per tal mezzo da lui adoprato tutta la vita sua, egli fece nella imitazione del disegno ciò che Dante nella imitazione poetica, e come Dante fu scorta al Petrarca, così si può, cred’io, dire che Leonardo mostrasse il cammino a Raffaello. Entrambi fissi del continuo nelle opere di natura, ne seguirono le tracce, investigandone gli arcani i più reconditi: da ciò avvenne che nelle loro imitazioni si riconosce impressa un’evidenza si individuale all’oggetto rappresentato, che più oltre non rimane a desiderare. E con questo studio universale ed assiduo, ingrandito lo stile, e fatti signori dell’arte intera, pervennero ad aggiungere nuove regioni all’imperio della fantasia: perciò le cose più nuove ed ardite portano in questi autori un marchio di verità che quanto in somma per essi s’imita, sempre si direbbe preso direttamente dal vero, quantunque sia spesso imitato dall’idea. Ciò provasi facilmente in Dante colle scene di Farinata, di Pier dalle Vigne, del conte Ugolino, di Sordello e di san Pietro; ed in Leonardo col mostro della rotella, colla Medusa, colle teste di Cristo, di sant’Anna, della Vergine; e in generale con tutte l’espressioni nuove delle sue figure in natura momentanee e fuggitive, e dall’arte sua divina a comun meraviglia arrestate nelle sue tavole e ne’ suoi disegni. Le fantasie continuamente esercitate sul vero universale, ed arricchite dalle imagini infinite sotto le quali il vero si presenta e si combina, hanno un vantaggio tutto loro come nel trovare invenzioni sempre vere, nuove e profonde, così in una facile e feconda inspirazione e furore, da che nascono sovente cose superiori alla forza ordinaria di chi le produce. Ciò non avviene mai all’imitatore la cui fantasia fu arricchita soltanto dai frutti dell’arte, i quali frutti non debbono dai veri ingegni essere assaggiati, se non per vedere qual via da altri si tenne nello investigar la natura e nell’imitarla. Così i poeti anteriori all’autore della Divina Commedia, che cantavano cose amorose, scrissero con affettazione in uno stile ricercato cose affatto lontane dalla natura, facendosi belli de’ raffinamenti coi quali più lindamente rappresentavano ed ornavano concetti già sovente ripetuti. Dante in vece, ricco la mente ed il cuore degli studj naturali, ridendosi de’ suoi predecessori e coetanei, definiva il suo nuovo metodo, dicendo: Io mi son un che, quando Amore spira, noto; ed a quel modo Che detta dentro, vo significando. E ciò che fece nelle rime d’amore, il fece anche nel suo gran poema, al quale, com’egli si espresse, han posto mano e cielo e terra, ch’è quanto a dire la natura universale di cui fu sì fortunato investigatore. Nè Leonardo nell’arte respettiva faceva altrimenti, e come prima che Dante traesse fuora le nuove rime, non parve avere compiuta la sua forma la poesia italiana, similmente prima che Leonardo desse luce agli altri col suo stile, mancava ancor molto alla gloria dell’italiana pittura.
Se pertanto l’arte presente in vano desidererebbe i sussidj ch’ebbe Leonardo dal tempo in che nacque e dalla terra che gli fu patria, e se è rara ventura d’un artefice anche distinto il trovare grandi occasioni di operare, e larghezza di premj e di comodi, lo studio diretto ed universale della natura che, a quanto vedemmo, fu la vera e speciale causa dell’eccellenza da lui conseguita, è aperto tuttavia ad ognuno come al suo tempo; e qui è mera colpa nostra se non ne approfittiamo, e più se il trascuriamo del tutto. È bensì vero che ai tempi nostri non è da sperarsi l’esempio naturale dell’esterno sviluppo di quelle generose e violente passioni che la mollezza ed affettazione de’ nostri modi e costumi ha tolto affatto dal mondo; ma oltre che rimane ancora molto da osservare intorno a ciò nelle persone volgari, l’arte ha tanta estensione, e col mezzo dell’analogia aumenta di tanto le proprie forze, che non possiamo dire che molta sia la differenza del costume pubblico tra il nostro secolo e il decimoquinto. Ben è sommo il divario tra le belle età greche e le moderne, e però la perfezione che in allora si ottenne, non fu mai vinta da poi, e appena fu agguagliata da poche opere di pochissimi artefici.
Viste le cagioni, a mio credere, principali della eccellenza di Leonardo, increscerà a molti che in piccol numero d’opere ei l’abbia voluto ai posteri dimostrare. Ma se si riguarda, come altrove feci osservare, all’importanza e grandezza delle sue opere maggiori, parmi si possa abbastanza scusare la di lui parsimonia e quella quasi ritrosia ad operare, in lui nata dal vedere tropp’alto nell’arte. Se osserverassi poi che il tempo che questo sommo ingegno non dava alle opere, era sacro alla meditazione ed all’insegnamento; se si rifletterà che d’ogni arte e scienza da lui professata egli scrisse trattati a comune beneficio, saremo costretti ad unire all’ammirazione un’infinita riconoscenza.
E se per tutti gli artefici del mondo gli è dovuto un tal sentimento, parmi che in particolar modo gli si debba dalla Scuola milanese. Milano, sua patria di adozione, dopo l’impareggiabile Firenze, vantava forse, quand’ei ci venne, i più dotti e pratici artefici d’Italia. Il Civerchio e Bernardo Zenale nella prospettiva e nelle meccaniche. Bramante il vecchio nell’architettura, Michelino negli animali e nelle bizzarre composizioni, il Troso e lo Scoto ne’ rabeschi, il Butinone, il Foppa, il Vaprio, i due Bevilacqui, Giovanni da Valle ed altri nelle altre parti dell’arte, tutti vantavano qualche particolare eccellenza. Leonardo raccolse prontamente in sè solo que’ pregi sparsi che anche isolati bastavano alla gloria di ciascheduno, e unendo a quelli la dottrina e la pratica di altre facoltà, e il tutto illustrando colla nuova luce della filosofia, si rese tale maestro che gli antichi e i contemporanei fe’ ben tosto dimenticare. Per sì fatto istitutore prese nuova forma la Scuola milanese, ed alla profondità della scienza ed alla ferace pratica fu congiunta l’amenità dell’erudizione e delle altre liberali discipline. I precetti di varie arti furono consegnati a varj trattati che il tempo ci ha tolti. La poesia divenne compagna del disegno, ed emuli di Leonardo poeta furono Bramante al suo tempo;[52] poco da poi Gaudenzio da Varallo e Bernardino Luino; nella età seguente i figli del Luino, il Lomazzo e Girolamo Figino; più tardi il Cerano, e fino all’età nostra altri degli accademici nostri è dicitor di rime all’improvviso, altri, imitando Giovenale, detta belli e gravi sermoni. Ed in ogni tempo da quella bell’epoca in poi, allorchè l’arte che per varie vicende si andava perdendo, si richiamava a qualche nuova gloria, sempre lo spirito di Leonardo pareva assistesse a quelle utili riforme. Il principio del secolo decimosesto fu sostenuto da’ suoi insegnamenti confermati da recenti gloriosi esempj; e molte belle opere di quel tempo, fra le quali varie che non si sa da qual mano siano uscite, tengono della sua maniera e sono evidentemente figlie de’ suoi precetti. Al declinare di quel secolo stesso l’arte si rianimò in Ambrogio Figino coi precetti del Lomazzo che per la parte migliore si possono dire ereditati da Leonardo. Al cominciare del secolo seguente l’Accademia ambrosiana si sosteneva e s’istruiva colle molte opere del Vinci; e il Cerano, sebbene con diversa fortuna, parve rinnovare l’antica scuola colla pratica e coll’insegnamento di tutti i varj rami dell’arte. Così Daniello Crespi, di cui la fama è minore del merito, trasse da Leonardo la gravità delle sue figure senili, e Giulio Cesare Procaccino i sorrisi e la letizia de’ suoi angeli e de’ suoi putti. Finalmente, dopo una lunga età, il nostro Appiani, restitutore della perduta eleganza della nostra Scuola, attinse nella sua prima gioventù alle stesse fonti, ora copiando con diligenza i disegni di Leonardo che conservavansi nella Biblioteca ambrosiana, ora imitando i discepoli di quel grand’uomo, fra i quali, più ch’altri, Bernardino Luino. E per tal mezzo senza scorta di maestro di vaglia, guidato dalla sola felice natura dell’ingegno giunse ad ottenere quella elegante facilità e gentilezza di stile che lo caratterizza, e di che sono ottimi saggi, per tacer d’altri, le sue pitture di san Celso, e ultimamente quelle del Palazzo reale.
Mi si darebbe qui campo di lodare varj altri de nostri artefici che onorano la patria e sostengono la gloria dell’Accademia milanese, sebbene in professioni nelle eguali minore è l’influenza del nostro antico precettore. Ma il vanto ch’essi mi permettono della loro amicizia, mi toglie il piacere di nominarli, non volendo io che all’amore che ad essi io porto, venga forse attribuita la lode che al vero loro merito s’appartiene. Li nomineranno però in mia vece i peristilj, gli archi, le porte, le sale, gli ornamenti e le stampe di lor mano o disegno, nelle quali cose tutte si emula e si rinnuova il magistero de’ buoni antichi, e che co’ loro autori giungeranno alla posterità assai più note e pregiate che non queste umili mie carte.
Farmi intanto felice augurio per la scuola nostra che alla nuova gloria verso la quale va camminando, si accompagni il miglior tributo di che il Governo e le arti stesse potessero onorare le reliquie di Leonardo, quello, cioè, di raccogliere quanto si è trovato della sua maggior opera per trasmetterla ai secoli avvenire coll’artifizio del mosaico. E da questo e da altri testimonj privati e pubblici del conto in che sembrano risalire le arti del disegno, e dalla cultura delle lettere che fra gli artisti si va propagando, e dai molti valorosi giovani i quali, lasciate le barbare maniere che la buona e vera corruppero, si rivolgono a miglior cammino e danno di sè non volgari speranze, quando una stabile pace abbellirà le memorie de’ trionfi con molte opere grandi, io non dubito di vedere in questo secolo rinascere fra noi gran parte di quelle glorie di cui le arti furono adorne ne’ tempi migliori.

FINE DEL LIBRO QUARTO


Stampato per cura di Leonardo Nardini,
Ispettore della Stamperia Reale.


NOTE



[1] Ecco la lettera di Platino, copiata dal libro intitolato Epistolæ Platini cum tribus orationibus, et uno dialogo, stampata da Gottardo da Ponte nel 1506 in 4.° piccolo.

Platinus Joanni Thomæ Plato patruo S. D.

Tetrastichon meum iis litteris inclusum velim pro tua humanitate, mi Patrue, per unum ex famulis tuis Leonardo Fiorentino nobili Statuario quamprimum meo nomine reddendum cures. Quod a me jampridem ipse petierat; et ego receperam me facturum in statuam equestrem loricatam, quam Divo Francisco Sfortiæ benemerenti gratus optimo patri filius Ludovicus Princeps positurus est. Recepi inquam: licet imparem me tantæ rei cognoscerem: cui ne a poeta quidem egregio satisfieri posset, sed non sum ausus offitium tam debitum ei denegare. Tum propter ingens studium meum erga Principem illum, tum non levi quadam quœ mihi cum ipso Leonardo intercedit amicitia. Neque tamen temere suspicor idem a compluribus aliis eumdem artificem petiisse qui multo fortasse disertius rem ipsam expriment. Sed, ut dixi, ne tam pio muneri divinique principis monumento prœsertim requisitus defuisse viderer; coarguique possem ingratitudinis; hoc oneris admisi. Nam si quem divi Francisci res gestas celebrare oportet, is certe ego sum; quem princeps ille noster optimus et amavit et ornavit, ornaturus amplius si vixisset. Equidem si te recte novi quem et divus Franciscus Sfortia dilexit, tu quoque promes aliquid dignum tanto principe, et tale profecto quod in arce locari debeat, ut de operibus Phidiæ traditur. Vale. Garlaschi pridie Chalendas Septembris M. CCCC. L. XXXIX.
Il tetrastico accennato in questa lettera leggesi fra i versi del Piatto pubblicati nel 1502. Oltre le cose stampate su questo argomento, nel nostro archivio generale conservansi varj epigrammi inediti di un Arrigoni, mandati da Napoli a Lodovico, ed accompagnati da una stravagante lettera. Da ciò si giudica che la fama dell’opera di Leonardo era sparsa per tutta Italia.
[2] Ciò si desume da alcuni versi di Pietro Lazzarone stampati dallo Zaroto nel 1494.
[3] Questo ricordo di Leonardo fu alterato da molti malamente. Il Venturi fra gli altri nel suo Essai ecc. alla pag. 37 il tradusse come siegue: Le 23 avril 1490 j’ai commencé ce livre et la statue equestre. La lettera del Piatto scritta nel 1489 prova ad evidenza l’errore. Lo stesso provano le composizioni scritte a quell’epoca sul colosso, come pure il passo del Sabbà da Castiglione, che citai nel primo libro.
[4] Così credette l’Amoretti nella nota alla tavola XL della Raccolta de’ disegni di Leonardo, pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli: non così però nelle Memorie Storiche del Vinci. Tutto peraltro era pronto per la gran fusione, la quale a memoria d’uomini era la maggiore che si tentasse dopo le opere romane. Non mancava che il metallo. Lancino Curzio diceva,
……….fluat æs: vox erit: ecce deus.
Lo stesso ci viene confermato dal Marchi, la cui rarissima opera con magnifica edizione rivede orala luce per la munificenza del Duca di Lodi. Quest’autore alla pag. 20 del quarto libro della vecchia edizione, e della nuova in foglio alla pag. 203 del tomo terzo, ci ragguaglia de’ preparativi di Leonardo per gettare il colosso, colle seguenti parole: Dicono che Leonardo di Vinzo Toscano valente Scultore volendo fare un cavallo di metallo al Duca di Milano non si fidò d’una fornace sola ma ne volse tre, le quali potessero disfare il metallo che in esso cavallo vi andava: la ragione che dava, diceva che il fuoco d’una fornace non poteva fare venire in bagno tanta quantità di metallo, perchè non poteva arrivare per sino al fondo: ancora che di sopra si vedesse il metallo disfatto, non per questo era disfatto quello da basso: per la gran quantità, e per il grave peso non si puol maneggiare con perticoni ancora che sia disfatto; e in verità incontrò una volta a Maestro Gio. Cutura d’Avignone facendo artegliaria in Pavia, pose tanto metallo in fornace, che di sopra era in bagna, e in basso era come latte caggiato, e così non potè venire il getto ecc.
Siegue indi il Marchi a consigliare più fornaci nel caso di grandi getti, ma avverte delle grandi difficoltà che anche un tal modo può incontrare per la differenza de’ gradi di calore tra l’uno e l’altro bagno. Il Marchi pertanto ragionava coll’esperienza del Cutura; mentre il Vinci colla sola forza della teorica aveva preveduto potergli accadere ciò che al Cutura è accaduto.
Intanto venne la guerra con Lodovico XII: il modello fu fatto in pezzi, ed un’ora di furor militare distrusse un’opera d’ingegno che costava all’autore oltre tre lustri di vigilie, e ch’era la più bella non solo, ma anche la più grande che si fosse fatta in quel genere. Spera ora l’Italia d’essere risarcita di tanta perdita, mediante il colosso equestre di Napoleone che aspetta dal suo Canova.
[5] Questa iscrizione sente alquanto dello stile del padre Resta, il quale sulle stampe e sui disegni faceva sovente note e postille. Se è sua, non è meraviglia che si allontani di tanto dal vero, poichè, come si è notato altrove, il Resta confondeva grossamente l’epoche, e confuse in ispecie la storia del Vinci. Veggasi l’Indice del Parnaso, ecc.
[6] Il Lomazzo in un sonetto a pag. 91 de’ Grotteschi dice:
Da Parrasio fu ornato il Buonarroto,
Da Protogene il Vinci illustre e chiaro, ecc.
E ivi per chiusa d’un altro sonetto
Protogen che il pennel da sue pitture
Non levava, agguagliò il Vinci Divo
Di cui opra non è finita pure.
Ugolino Verino poi dice, dopo aver lodato alcuni dipintori fiorentini
Et forsan superat Leonardus Vincius omnes;
Tollere de tabula dextram sed nescit et instar
Protogenis multis vix unam perfidi annis.
[7] Trattato, cap. CCLXXIV.
[8] Il Lomazzo dice con lambicchi.
[9] Un frammento del cartone di Raffaello per la Battaglia di Costantino conservasi nella Pinacoteca ambrosiana.
[10] Dalle cure che il cardinale Borromeo si prese di raccogliere per mezzo del Bianchi quanto rimaneva al suo tempo dell’infelice pittura del Vinci, si può argomentare il poco conto che quell’illustre conoscitore faceva delle vecchie copie di tal opera.
[11] Veggasi la nota 21 del terzo libro.
[12] Questo Michelagnolo Bellotti che ristaurò il Cenacolo, era figlio di Ambrogio e cugino del canonico Bellotti, tutti pittori. Ambrogio ebbe a fratelli Francesco e Biagio, che dipinsero insieme la parete esterna dell’ossario annesso alla chiesa di san Giovanni in Busto sul finire del secolo XVII. Michelagnolo morì nel 1744, anno in cui entro in Milano il cardinale Pozzobonelli, il cui ingresso fu decorato di sue pitture. Dipinse anche a fresco la lunetta sopra la porta delle Grazie, copiando uu cattivo quadro del seicento, che da alcuni si è attribuito a Leonardo. Vantavasi in oltre di possedere alcuni rari segreti nell’arte, che promise di comunicare al suo cugino canonico; ma morì prima di mantenere la sua promessa.
Fuvvi anche un Serafino figlio di Francesco, parimente pittore, che fece un quadro per la Canonica di Vaprio, ma fu inferiore al padre ed agli zii. Un Matteo, figlio di Biagio, avrebbe superato tutti i suoi nell’arte, se per invidia e rivalità non fosse stato ammazzato in giovane età a Bologna, nella quale città era andato a studiare, mantenutovi dal principe Rasini.
[13] Il De Giorgi aveva molto ingegno naturale, e trovavasi avere moglie, figli e venticinque anni allorchè da torniture di bassi lavori si diede al pittore. Divenne sufficiente pratico a olio e a fresco, ma aveva poco disegno e cattivo stile. Fu discepolo d’uno zoccolante di sant’Angelo, dilettante, dal quale andava a disegnare le domeniche. La cosa della sua vita più gloriosa per lui fu il rifiutarsi costantemente a ritoccare il Cenacolo.
È qui da avvertire, a difesa de’ Milanesi, che dei tanti malanni con cui l’industria umana affrettò la perdita del Cenacolo, non ve n’ha uno di cui a’ Milanesi si debba la colpa e la vergogna. Pare che fino al 1503 non vi fosse lavatojo presso il muro ove Leonardo dipinse, e vi fu fatto fare in quell’anno da Stefano de Poncher di Tours vescovo di Parigi ad istanza del priore Silvestro Mozolino, piemontese. Questo lavatojo non bastava al bisogno, e se ne fece uno maggiore nel 1663 dal priore Giulio Zaccheria, nobile cremonese. Da questo stesso priore fu fatta allargare la porta nel 1652. Il ritocco del Bellotti fu commesso dal padre Boldi di Castelnuovo di Scrivia. E finalmente il Mazza fu introdotto a dar l’ultima mano all’opera del Bellotti, dell’umido e degli anni dal ministro conte di Firmian tirolese, che ciò fece senza dubbio con buona intenzione, sebbene con pessimo consiglio.
[14] Un effetto simile accadeva anche prima, ma assai meno abbondantemente.
[15] Alludesi alla copia destinata ad esser tradotta in mosaico; di che è incaricato il signor Giacomo Raffaelli, il quale ha di già dato felice principio all’opera.
[16] Allorchè dico proporzioni o proporzione intendo ciò che i Greci intendevano per simmetria; la qual parola, che secondo il vecchio Plinio non aveva corrispondente voce latina, fu dai varj autori diversamente interpretata e resa con modi diversi. Filostrato juniore chiamolla analogia: Svetonio la disse comodità ed equità di membra: Vitruvio commisuramento: Plinio il giovane egualità e congruenza: Cicerone convenienza di parti, e atta composizione di membra: Aulo Gelllo reciproca competenza di membra; c e così altri antichi e moderni variamente. Ma tutti si accordano in esprimere più o meno una relazione armonica delle parti fra loro e col tutto, il che s’intende abbastanza col vocabolo proporzione, sebbene non risponda con precisione al greco simmetria.
[17] Di questo autore ho trovato, come altrove dissi, il libro De Perspectiva Pictorum, ma in questo non vedonsi che molte teste, non già intero il corpo umano, di che egli forse scrisse in altra opera sconosciuta.
[18] Cap. CLXXIII.
[19] Cap. CLXXV, e lo stesso al cap. CCL.
[20] Cap. XLVIII e XLIX.
[21] Cap. XIL.
[22] Cap. XLV.
[23] Cap. CLXVI e CLXXIII.
[24] Riporto lo scritto di Leonardo lasciando la sua ortografia per non cagionar imbarazzo a chi non l’ha in pratica. Chi poi ne volesse un saggio legga per mezzo d’uno specchio ciò che è scritto nelle due stampe che rappresentano la stessa testa, nelle quali ho imitato esattamente lo scritto originale.
[25] Fra le altre inesattezze notisi che dove dice nell’originale nella figurata istella, fu trascritto nella figurata istessa, il che non ha senso.
[26] La lettera al duca, nella quale il Vinci si propone di far meglio de’ suoi concorrenti, contiene promesse ed offerte di opere da farsi, non già alcun giudizio di opere fatte.
[27] Veggasi il proemio del libro settimo. Sebbene ivi siano citati varj autori di simmetrie architettoniche, è probabile che a quelle saranno stati premessi dei canoni di simmetria umana, dalla quale le architettoniche simmetrie dei Greci desumevansi, come Vitruvio stesso dimostra coll’autorità e coll’esempio.
[28] In una nota manoscritta di Leonardo si legge d’un Vitruvio prestatogli o regalatogli da messer Ottaviano Pallavicino.
[29] Nel curioso libretto di Giambattista Volpatti, intitolato Il Vagante Corriero, ecc., stampato a Vicenza per Giovanni Berno nel 1685, in 4.o, si attribuisce al Fialetti l’invenzione d’un triangolo equilatero per proporzionare la testa in profilo. Collocasi tale triangolo in modo che l’uno de’ suoi lati rimanga perpendicolare, e quello, diviso in tre parti eguali, determina le misure del volto secondo la solita divisione eguale della fronte, del naso, e del rimanente fino al di sotto del mento. L’angolo poi del triangolo che si volge verso la nuca, determina il luogo dell’orecchia, la quale, essendo alta quanto la terza parte del volto, forma nel detto luogo un altro triangolo equilatero, il cui lato è un terzo dell’altezza del lato del maggior triangolo misuratore del volto. Le altre dimensioni poi date dal Volpatti nelle due stampe che accompagnano il Vagante Corriero, non hanno nè armonia nè bellezza nè comodo, ed oltre ciò non sono spiegate, essendo questo libro un annunzio dell’opera; del Volpatti, non l’opera stessa. Ma, tornando al triangolo, questo del Fialetti è più utile di quello di Luca Paciolo.
[30] Alberto per suo costume operava molto di mera fantasia, e mi ricorda di aver visto un suo piccolo prezioso quadretto, dipinto a chiaroscuro, sotto il quale egli stesso scrisse in latino, che per esso dava all’imperatore Massimiliano un saggio di quello ch’ei sapea fare senza avere alcun modello davanti. Quella elegantissima operetta, rappresentante Cristo che va al Calvario e ricchissima di figure, superava, sebben fatta a mente, tutte le migliori sue opere note per le stampe. Non sarebbe perciò da farsi meraviglia ch’egli, salvi i diritti del Foppa, avesse fatto di fantasia tutto il suo libro delle proporzioni, parte del quale non può di certo avere altra origine, qual che ne sia l’inventore.
[31] Veggasi il Condivi alla pagina 43, n.o 3 della prima edizione, che ha tre carte tutte collo stesso numero 43.
[32] L’Equicola ragiona di proporzioni, non già nel suo Discorso di Pittura, ma nel suo libro Della Natura di Amore. Il Franco poi ne parla nel suo Dialogo delle Bellezze.
[33] Questa Lettura del Ruscelli fu stampata in Venezia per Giovan Griffio l’anno MDLII.
[34] Queste osservazioni io le ho fatte sulla sesta edizione della Varia Commensuracion del De Arphe. Le edizioni più antiche avranno forse le figure migliori. La prima, pubblicata dall’Autore, apparve in Siviglia l’anno 1585.
[35] Traité des Proportions de Jean Paul Lomazze par Hilaire Pader. Tolouse, 1649, in foglio. Dal Trattato di Pittura di Bernardo Dupuy du Grez, stampato parimente in Tolosa nel 1699, in 4.o, si comprende a sufficienza che le figure d’Ilario Pader non avevano niun vanto di grazia. È ben vero che il Dupuy non ragiona (pag. 162) se non della figura che rappresenta la proporzione di dieci facce; ma se mancava di grazia questa che è la migliore delle proporzioni, non è da credere che graziose apparissero le proporzioni tozze o le sveltissime.
Intorno all’epoca del Lomazzo si potrebbero porre gli studj di proporzione fatti da Girolamo Figino, il quale però sembra non aver fatto altro se non copiare con poche varietà il canone di Leonardo. Il poco che si ha di questo Figino (che non so qual relazione avesse col già citato Ambrogio), si raccoglie da un libretto di Antonio Maria Venusti, il quale ha per titolo: Discorso generale di M. Antonio Maria Venusti intorno alla generatione, al nascimento degli uomini, al breve corso della vita humana, et al tempo. In Milano per Gio. Battista Bidelli. MDCXIV. in 16. Cito questa edizione come la sola da me veduta; la prima, secondo l’Argelati, è del 1562.
Di questa operetta del Venusti, il cap. XCVIII è intitolalo Misure e proportioni de’ corpi nostri, e volentieri qui lo riporto per intiero e per la rarità del libro, e per onore di Girolamo, artefice quasi ignoto se non esistesse di lui una medaglia col suo ritratto e pochi versi del Lomazzo. Ecco il capitolo:
Qui non mi pare di tacere alcuni bellissimi secreti circa la misura et alla proportione del corpo humano: i quali a mesi passati cortesemente mi furono insegnati dal signor Girolamo Figino, intendente anatomista, miniatore diligentissimo, pittore eccellentissimo de’ tempi nostri, e nobilissimo non meno per bontà di costumi e grandezza animo, che per chiarezza di sangue antico: taccio poi i di lui intagli e getti presso che naturali con le rime ingegnosissime e con molte altre gran doti a lui dal del concesse: l’unico Figino, dico, sì fattamente il corpo humano mi discorse: dal nascimento de’ capelli in sino sotto il mento è la decima parte della longhezza dell’uomo: di sotto il mento alla sommità del capo è l’ottava: dalla sommità del petto alla cima del capo è la sesta: dalla cima del petto al nascimento de’ capelli è la settima: dalle poppe alla cima del capo è la quarta. La maggior lunghezza delle spalle è la quarta: dal gombito alla punta della mano è la quarta: dal gombito al principio della spalla è l’ottava: tutta la mano è la decima: il piede è la settima: dal piè al ginocchio è la quarta: dal ginocchio al nascimento del membro virile è la quarta: il membro virile nasce nel mezzo del corpo humano: tanta è la lunghezza di ciascuno da’ piedi alla cima del capo quanta è la distanza dalla sommità de’ più lunghi diti dell’una mano alla cima di quelli dell’altra, tenendosi però le braccia distese: dal mento al naso, dal naso alle ciglia, dalle ciglia al nascimento de’ capelli, e dall’occhio all’orecchio sono spatii eguali e grandi quanto è lungo l’orecchio, e ciascuno de’ predetti spatii è la terza parte del volto. Il diametro della cintura, la distantia dalle poppe al fianco, dalla piegatura della mano alla piegatura di dentro al braccio, dalle punte delle mammelle all’ombilico, dall’una e l’altra estremità delle ultime ossa del petto, che cingono la gola, dalla cima del petto al nascimento de’ capelli, dal l’anco al nascimento del membro virile, è la settima parte della lunghezza dell’uomo: e ciascuna delle predette misure è la metà dello spazio, che è dal mezzo della barella del ginocchio al fin del calcagno, per tralasciare le altre moltissime misure e proportioni interiori del corpo umano.
Chiunque pertanto confronterà questa esposizione con quanto del Vinci abbiamo riportato, la troverà sì analoga alla maniera sua, che la crederà forse copiata da qualche testo originale del Vinci stesso, che non sia arrivato sino a noi. Per lo meno la crederà fatta sul disegno qui riportato, perchè le varie misure da Girolamo notate si riscontrano in esso assai bene, come ognuno può provare col compasso. E se sembra scostarsi dal testo di Leonardo nel dire che il piede è la settima, non la sesta parte dell’altezza dell’uomo, si giudicherà ch’egli osservò più il disegno che lo scritto, e nello stesso tempo che Leonardo seguì Vitruvio più scrivendo che disegnando.
[36] Libri di tal sorta moltissimi potrei citare, specialmente moderni; ma per limitarmi ad un solo esempio si guardi l’opera inglese di Alessandro Cozens, che preferisco alle altre pel suo bel titolo, Principj della Bellezza relativamente alla testa umana, e vi si vedranno occhi, orecchie, ciglia e bocche non solo ridicole, ma assolutamente impossibili in natura, al modo come nelle figure di quel libro stanno disegnate.
[37] Quando si volesse ricorrere a simil genere di elementi, parmi sia da preferirsi l’opinione del Cangiasio che voleva il cubo per elemento della testa: in fatti da un cubo di creta o d’altra materia meglio che non da un globo può uno scultore abbozzare una testa, come la pratica dimostra. Non mancano però autori che commendano la rotondità del capo, come anche del viso; ma è d’uopo osservare che gli uni parlano soltanto della sede del cervello; altri parlan soltanto della faccia; nè mi ricorda aver trovato chi trascuri tal distinzione e lodi una testa sferica. Però si dice per ischerno testa tonda a colui che vuolsi ingiuriare siccome sciocco, inetto, ecc. Così nella lunga descrizione della bellezza di Teodorico re de’ Goti, che leggiamo in Sidonio Apollinare (Lib. I, epist. 2), fu scritto Capitis apex rotondus, non già il capo tutto rotondo. E ancora quando leggiamo la parola caput, non dicesi già sempre intendere tutta la testa, ma soltanto la sede del cervello. E ciò si prova in un pasao di Macrobio che loda anzi come un distintivo proprio della razza umana questa rotondità. Solis humanis corporibus, dic’egli al capo 14 del libro primo del Sogno di Scipione, inest in capite spherem similitudo; e aggiunge per provare che intende ragionare solamente del vaso del cervello, quæ forma sola mentis est capax. E all’istesso modo Cassiodoro (De anima, cap. 16) dice, sempre intendendo del cervello, Caput nostrum sex ossibus compaginatum in similitudinem cælestis spheræ rotunda concavitate formatum est, ecc. E ancora queste lodate rotondità non sono rotondità da compasso, nè gli autori parlano da artefici; e l’artefice che’ facesse un cranio con un circolo, non imiterebbe certamente la natura la quale dall’infanzia alla vecchiaja diede tal vario movimento alle ossa del capo umano che rinchiudono il cervello, che mai con un circolo si potrà con giustezza rappresentarne la forma. D’altra parte leggesi in Eustazio, o come altri volle Eumazio, descritta la bellezza d’Ismene (Lib. 3 degli amori d’Ismene e d’Ismenia) in questo strano modo: Tutto il di lei viso era un perfetto circolo, ed il naso vi stava a centro. Pittorica descrizione in vero, tanto più se la punta del naso dovea far centro al volto, nel qual caso è difficile ideare cosa più contraria alla bellezza. Ben altramente debbe intendersi quel passo di Coluto, nel quale Giove ordina a Mercurio che rechi a Paride il pomo, e che giudichi sulle tre Dee la congiunzione delle palpebre e le rotondità de’ visi; perchè queste rotondità non sono la circolarità della bella Ismene di Eustazio, ma quella forma ch’esclude ogni prominenza delle ossa tanto contraria alla beltà ne’ volti femminili. E in ogni maniera poco soccorso arrecano, mi sembra, gli autori alla teorica del Rubens; e, sia comunque, povero quell’artefice che chiederà ajuto al compasso per fare i dintorni d’una testa, nè il Rubens istesso se n’è servito giammai.
[38] Nel Senofonte di Wells, vol. 4, pag. 437:
….. æc exercitia, dice Socrate, desidero ut mihi non quemadmodum in stadio currentibus, crura compactiora fiant, humeri tenuiores; nec pugilum instar humeri crassescant, crura adtenuentur, ecc.
[39] Parole di Michelagnolo il quale meditava e forse fece un’opera sui moti umani.
[40] Le Veneri accovacciate, per esempio, sono strette nelle spalle e larghissime ne’ fianchi. Le Veneri in piedi, come la Capitolina, quella di Arles e la Medicea sono di mediocre larghezza ne’ fianchi e larghe notabilmente nelle spalle. Sono debitore di questa osservazione all’onore della scultura italiana, al nostro Canova.
[41] Forse qualcuno di questi autori disse teste per facce, come d’altri abbiamo veduto: ma in cose di tanta importanza è d’uopo esprimersi con precisione.
[42] Ecco la nota del Codice Atlantico pubblicata dall’Amoretti:
Capitani fiorentini: Niccolò da Fisa, Pietro Gianpaolo, Neri di Gino Capponi, Conte Francesco Guelfo Orsino, Bernardetto de’ Medici, Micheletto, M. Rinaldo degli Albizzi ed altri - Di poi si faccia come lui prima montò a cavallo armato; e tutto l’esercito gli andò dietro - 4.o squadre di cavalli, 2000 pedoni andavano con lui - Il Patriarca (d’Aquileja Lodovico Scarampi Mezzarota) la mattina di buon’ora montò su un monte per iscoprire il paese, cioè colli, campi, e valle irrigata da un fiume, e vide dal borgo a san Sepolcro venire Nicolò Picenino con le genti con gran polvere, e scopertolo tornò al campo delle sue genti, e parlò loro - Parlato ch’ebbe pregò Dio a mani giunte, con una nugola dalla quale usciva san Pietro che parlò al Patriarca - 500 cavalli furono mandati dal Patriarca per impedire o raffrenare l’impeto nimico. Nella prima schiera Francesco figliuolo di Nicolò Picenino venne il primo ad investire il ponte ch’era guardato dal Patriarca e fiorentini - Dopo il ponte a mano sinistra mandò fanti per impedire i nostri i quali ripugnavano, de’ quali era capo Micheletto, che quel dì per sorte aveva in guardia lo esercito. A questo ponte si fa una gran pugna. Vi sono i nostri, e l’inimico è scacciato. Quì Guido e Astorre suo fratello signore di Faenza con molte genti si rifecciono, e ristorarono la guerra, e urtarono tanto forte le genti fiorentine che ricuperarono il ponte, e vennero sino ai padiglioni, contro i quali venne Simonetto con 600 cavalli ad urtare gli inimici, e li cacciò un’altra volta dal luogo, e riacquistarono il ponte, e dietro a lui venne altra gente con 2000 cavalli: e così lungo tempo si combattè variamente. Di poi il Patriarca, per disordinare l’inimico, mandò Niccolò da Pisa innanzi e Napoleone Orsino, giovane senza barba, e dietro a costoro gran moltitudine di gente, e quì fu fatto un’altro gran fatto d’armi. In questo tempo Niccolò Picenino spinse innanzi il restante delle sue genti, le quali feciono un’altra volta inclinare i nostri, e se non fosse stato che il Patriarca si mise innanzi, e con parole e fatti non avesse ritenuto que’ capitani sarebbono iti i nostri in fuga. Fece il Patriarca piantare alcune artiglierie al colle, colle quali sbaragliava le fanterie de’ nemici; e questo disordine fu tale che Niccolò cominciò a rivocare il figliuolo, e le altre genti, e si misero in fuga verso il borgo; e quì si fece una grande strage d’uomini, nè si salvarono se non i primi che fuggirono o si nascosero. Durò il fatto d’arme fino al tramontar del sole, e ’l Patriarca attese a ritirare le genti, e seppellire i morti, e ne fece un trofeo.
[43] In un piccolo schizzo originale ch’io tengo di questa opera, vedesi indicato il fatto d’arme al ponte, di che non trovasi vestigio nella stampa dell’Etruria Pittrice, nè in quella dell’Edilink.
[44] Da ciò che Leonardo ci lasciò scritto, se questa ipotesi fosse ricevuta, quel primo, che volto in fuga si sforza invano di tener la bandiera, potrebb’esser Francesco Piccinino. Il principale suo avversario, che quasi glie l’ha tolta di mano, dovrebb’essere Micheletto. L’altro che sopraggiunge e soccorre il Piccinino, può essere Astorre, signore di Faenza, il quale ristorò per poco la guerra. E quegli in fine che rende vano il soccorso di Astorre, può essere Simonetto o Nicolò da Pisa.
[45] Il porre la Vergine in grembo a Sant’Anna non era un’ardita novità, che, come tale, sarebbe stata da alcuni forse disapprovata. Masaccio ne aveva già dato l’esempio, e non sarà stato solo degli antecessori di Leonardo, dopo il quale da varj fu seguita questa invenzione, come dal Sansovino, per testimonio del Vasari, e da Baccio Bandinelli, di cui con atto simile ho veduto un disegno presso il signor Marco Cigalini. Leonardo è annoverato dal Vasari fra coloro che studiarono le opere di Masaccio.
[46] Nel Libro de’ Fasti del Casio, in cui sono Le Vite de’ Santi et ciascuna in un sonetto, leggesi il seguente a pag. 70:
Per S. Anna che dipinse L. Vinci, che tenea la M. in brazzo, che non volea il figlio scendessi sopra un Agnello.
Ecce Agnus Dei, disse Giovanni
Che entrò e uscì nel ventre di Maria
Sol per drizzar con la sua santa via
E nostri piedi a gli celesti scanni.
De immaculato Agnel vuol tuore e panni
Per far al mondo di se beccaria
La madre lo ritien che non voria
Veder del figlio e di se stessa i danni.
Santa Anna come quella che sapeva
Giesù vestir de lhuman nostro velo
Per cancellar il fal di Adam e di Eva.
Dice a sua figlia con pietoso zelo
Di retirarlo il pensier tuo ne lieva,
Che gli è ordinato il suo immolar dal Cielo.
La barbara frase del sesto verso di questo sonetto leggesi anche nelle Stanze dello Sparpaglia del Doni. Vedi stanza 44.
Corpo dell’anguinaglia che vuoi fare?
Vuoi tu far del mio corpo beccheria?
[47] Di Bernardino veggasi una lunetta a fresco nel convento de’ Francescani di Lugano; di Aurelio un quadro nella galleria Melzi colla data del 1570; di Gaudenzio una tavola in Novara. Di Leonardo stesso poi può vedersi l’abbozzo della galleria arcivescovile.
[48] Questa bell’opera fu di recente acquistata da S. A. I. il Vicerè d’Italia, e l’ha aggiunta ad altre preziose opere di cui va continuamente adornando la sua villa in Milano. Il sig. Giuseppe Benaglia si prepara ad inciderla, e ne sta facendo il disegno.
[49] Veggansi intorno a tal soggetto il Tiraboschi, il Napione, il Ferguson, ecc.
[50] Veggasi il Vasari in fine della vita di fra Filippo. Notisi ivi a confronto del modesto epitaffio di Leonardo l’ampolloso epigramma che pel frate fu composto dal Poliziano, il quale con poco giudizio, parlando per sua bocca, gli fe’ dire lodi smisurate di se stesso, il che, oltre l’essere inverisimile, non s’ode volentieri nè da’ vivi nè da’ morti.
[51] Un testimonio del modo di studiare non solo, ma anche d’insegnare di Leonardo, che tutto escludeva ciò che non fosse naturale, l’abbiamo, tra altri più noti, da Paolo Giovio in que’ frammenti pubblicati dal Tiraboschi. Parlandosi ivi dello studiare le lettere, Adhibenda est, dice, cura cupidis et alacribus ingeniis ne ut implumes aviculæ non plane siccatis alis festinantius provolent, sicuti in dispari, sed non omnino dissimili facultate, carioribus discipulis præcipere erat solitus Leonardus Vincius, qui picturam ætate nostra veterurn ejus artis arcana solutissime detegendo, ad amplissimam dignitatem provexit: illis namque intra vigesimum, ut diximus, ætatis annum penicillis et coloribus peritus interdicebat, quum juberet ut plumbeo graphio tantum vacarent priscorum operum egregia monumenta diligenter excerpendo, et simplicissimis tractibus imitando Naturæ vim, et corprum lineamenta, quæ sub tanta motuum varietate oculis nostris efferantur: quin etiam volebat, ut humana cadavera dissecarent, ut tororum atque ossium flexus et origines, et cordarum adjumenta considerate perspicerent, quihus de rebus ipse subtilissimum volumen adjectis singulorum artuum picturis confecerat, NE quid præter naturam in officina sua pingeretur. Scilicet ut non prius avida juvenum ingenia penicillorum illecebris et colorum amænitate traherentur, quam ab exercitatione longe fructuosissime commensuratas rerum effigies recte et procul ab exeniplaribus exprimere didicissent. Al qual passo si può aggiugnere lungo commento, e fa sempre più meraviglia che il Giovio, dopo avere descritto sì bene ed approvato il modo d’insegnare di Leonardo, dica poi tanto male de’ suoi discepoli alla fine della vita che vedemmo nel primo libro.
[52] Bramante, al pari di Michelagnolo e d’altri rinomati artefici, fu studioso assai delle opere di Dante. Il suo allievo Gaspare Visconte lo chiama sviscerato partigiano di quel poeta. Veggasi il foglio 43 della Raccolta milanese.






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